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Sii impeccabile con la parola
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E-book259 pagine3 ore

Sii impeccabile con la parola

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Info su questo ebook

Davide Artieri è un trentenne laureato in cerca di occupazione. Vive con i genitori ed è single, esponente di una generazione che fatica a trovare posto nel mondo, vittima di una società in crisi che premia furbizia e ignoranza a discapito del talento. In preda all’apatia, trascorre il tempo su internet, perso fra i social network e gli annunci di lavoro. Ma i colloqui sono barzellette surreali e la realtà un’eterna delusione. 
A terra, frustrato, saprà comunque indovinare il modo per emergere?
LinguaItaliano
Data di uscita15 lug 2021
ISBN9791280353191
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    Anteprima del libro

    Sii impeccabile con la parola - Matteo Capelli

    62copertina.jpg

    Matteo Capelli

    SII IMPECCABILE

    CON LA PAROLA

    Copyright WriteUp Books© 2021

    ISBN 979-12-80353-19-1

    www.writeupbooks.com

    redazione@writeupbooks.com

    via Michele di Lando, 106 - Roma

    I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica,

    di riproduzione e di adattamento anche parziale,

    con qualsiasi mezzo, sono riservati per tutti i Paesi.

    Non sono assolutamente consentite le fotocopie

    senza il permesso scritto dell’Autore.

    I edizione: luglio 2021

    Indice

    I

    II

    III

    IV

    V

    VI

    VII

    VIII

    IX

    X

    XI

    XII

    XIII

    XIV

    XV

    XVI

    XVII

    XVIII

    XIX

    XX

    XXI

    XXII

    XXIII

    XXIV

    I

    La gente dovrebbe riscoprire il significato della parola fascino. Chi l’aveva detto? Buio. L’eco del pensiero gli trafisse il cranio, destandolo dal torpore in cui era immerso, chissà da quanto. Ore quattordici e quarantatré: numeri rossi sopra una sveglia sfocata. Cinque ore di sonno. Quattro? Forse meno. E ancora il mondo insisteva nel roteare impazzito nel nulla, spingendo le sue certezze a tre dimensioni dentro a piatte vertigini senza pietà. Dov’erano finiti tutti gli appoggi? Affogati in qualche bicchiere di troppo. Ti verso altro bianco o preferisci passare al rosso? Davide sorrise. E una fitta lo centrò in mezzo alla fronte.

    Benvenuto, fottuto dopo-sbornia. Steso. Le membra avvizzite, il respiro corto e affannato, intorno aria densa, quasi materiale. La sensazione, niente affatto gradevole, di avere proiettili all’interno dei bulbi oculari, due frecce conficcate nel capo, una per tempia, e qualcosa di simile a un’ascia piazzata di taglio fra il collo e la nuca. Ecco il momento peggiore dell’intera celebrazione. Una festa inevitabile, come inevitabile è la sbronza più clamorosa di tutta la vita per chi ambisce a poggiare una corona sull’intelletto. Mettiti pure in testa l’alloro. Hai voluto la bicicletta? E allora pedala. Pedala, dottore! Conclusi i brindisi e spente le luci, della ribalta rimane lo strascico dei bagordi. Martellate potenti fino al successivo risveglio, traumatico.

    Adesso. Quanta fatica in corpo. Gli occhi sigillati con la colla dei buoni propositi, le palpebre oppresse dal peso contundente di un vino economico, in bocca aveva l’esotica aridità di un deserto sotto il sole estivo di mezzogiorno. Arsura. Come fare per raggiungere l’acqua? Sete. Masticava l’acida secchezza della stoppa impregnata d’aceto stravecchio. Sabbia asciutta, caro dottore, sabbia asciutta. Roba che spiega la lingua felpata e un palato fatto col polistirolo. Intanto il bicchiere è tornato pieno. Di minerale? Sia mai: di alcool, di nuovo. Chi è il farabutto? Avanti, manda giù, bevilo d’un sorso!

    E se fosse morto disidratato? Accidenti. Sopravvivere a tale batosta equivaleva a fare progetti. Di già? Doveva aspettare, rallentare. C’era tempo. Anche perché stava per arrivare un attacco diretto allo stomaco: erano conati di vomito. Uno… due… tre. Respira. Che strazio! Questa era l’ultima volta che esagerava.

    «Davide…?»

    Il richiamo era un acuto fortissimo che minacciava di perforargli i timpani; dove non giungeva l’impeto del suono originale, operava il rimbombo. E addio caro confuso dormiveglia. La voce di mamma squillava oltre la porta della stanza da letto. Ai devastanti rumori si sommava poi qualche dozzina di acciacchi non ben localizzati. Dolori, dappertutto.

    Per favore… qualcuno doveva fermare la giostra. La faccia affondata nel cuscino, il braccio sinistro schiacciato sotto l’addome, quello destro penzoloni giù dal materasso. Gli sarebbe riuscito più facile cadere in letargo per mesi o sprofondare in un coma irreversibile piuttosto che replicare qualcosa, qualsiasi cosa, figuriamoci una proposizione sensata. Provò comunque, con eroica determinazione. Ne uscì un mugolio lamentoso, strascicato.

    «Mmm…»

    Era meglio restare storditi. Ancora la scia luminosa della sveglia, con la sua nuvola imprecisa di cifre difficili da decriptare. Sembravano un laser antiuomo, accecante. Ore quindici e trentadue. Il tempo vola, soprattutto quando si sta per tirare le cuoia. Il riposo è altra cosa. Mai più.

    Trovando in qualche muscolo nascosto un residuo di forza e sfruttando con sapienza principi e dinamiche dell’inerzia, Davide si voltò dentro l’abbraccio costringente dell’imbottita fino a posizionarsi sdraiato sulla schiena, malconcia come tutto il resto. Spostò quindi le coperte con la mano sinistra e fece scivolare la gamba destra fuori dal letto. Dopo qualche secondo sospeso nel vuoto, al freddo, il suo piede toccò il pavimento gelido. Fece per sollevarsi. Macché. Un capogiro, l’idea di mancamento che s’insinua fra lo stomaco e il petto, l’inevitabile sbilanciamento. E così il primo tentativo di alzarsi fallì.

    Dunque poggiò a terra anche il piede sinistro, ebbe un altro frangente d’imbarazzo in risposta dal fisico, e sospirò a bocca aperta. Due volte. Quando richiuse le fauci, percepì un rigonfiamento provvisorio e mobile, qualcosa come una bolla che risaliva la gola per esplodere fra le pareti interne delle sue guance. Tutta salute.

    Seduto in disarmo, Davide capì che muoversi nelle tenebre senza crollare di lato sarebbe stata un’impresa impossibile. Si allungò alquanto incerto in direzione del comodino, cercando a fari spenti qualcosa che doveva giacere su esso. Tastò a vuoto per un po’, finché raggiunse lo smartphone. Afferrato l’aggeggio, ne illuminò lo schermo per fare luce nella camera: quarantasette messaggi non letti su otto differenti chat di Whatsapp. E non aveva sentito neppure un singolo avviso audio d’avvenuta ricezione, nonostante non avesse abbassato di mezza tacca il volume della suoneria. Alla faccia del sonno profondo!

    Decise di non leggerli, non subito almeno; inutile sottolineare gli ovvi motivi alla base della sua scelta. Finalmente in piedi, non senza aver dovuto controbilanciare con gli arti e il tronco alcuni involontari ondeggiamenti, pigiò sull’interruttore a parete trasmettendo in questo modo il segnale elettrico fino alla lampadina a basso consumo che pendeva dal soffitto, avvolta da un lampadario tondeggiante di plastica bianca e arancione che si era ripromesso di sostituire come minimo un paio di volte da quando era diventato maggiorenne, ossia dodici anni prima. Come tentava di osservare un punto davanti a sé, qualunque punto, gli si incrociavano le pupille. E dalla reazione della sua vista partiva un impulso che suggeriva alle budella di espellere il magma infuocato custodito con zelo dalla sera precedente. Un magma che aveva ribollito per tutta la notte e anche al mattino.

    Tre passi sofferti per giungere alla parete di fronte alla porta e tirare la cinghia che avrebbe sollevato la serranda; ancora mezzo per spalancare la finestra e consentire al soffio ingrato dell’inverno di fare il proprio ingresso in scena. Mentre ciondolava da un confine all’altro dell’ambiente chiuso in cui trascorreva le notti, Davide contava la marea di piccoli sforzi sovrumani che era costretto a fare per tornare a galleggiare sulla superficie della dignità. Disorientato dalla stanchezza, avvertì uno schiaffo di ghiaccio infrangersi sul suo viso e un brivido, invadente e mutevole, percorrere in fretta la sua spina dorsale per arrivare alla punta degli alluci e tornare su, lungo lo schema ad albero disegnato dai nervi. Febbraio reclamava il suo spazio quotidiano.

    «Aspirina, caffè, sigaretta» biascicò dentro un altro rutto soffocato, invertendo poi l’ordine degli addendi consapevole che il risultato finale non sarebbe cambiato di una virgola: «Anzi, no, teniamoci l’aspirina per ultima.»

    Uscito dalla sua tana, strisciò le ciabatte per tutto il corridoio e si accorse di essere in casa da solo. Mamma e papà dovevano essere andati da qualche parte, magari a fare compere. In cucina c’era una pentola abbandonata sopra i fornelli, spenti. Davide la scoperchiò e curiosò al suo interno: spaghetti al sugo di pomodoro, due etti circa. Ebbe la tentazione di riempire un piatto e ficcarlo nel forno a microonde, ma fu più un riflesso dettato dall’istinto delle abitudini che un progetto sostenuto da un’autentica intenzione. Un pessimo consiglio bagnato nel sadomasochismo che ovviamente non seguì, dato che l’idea stessa d’ingurgitare qualcosa gli faceva venire da vomitare.

    Preferiva saltare primo, secondo, contorno e tutte le varie pietanze del pasto, ammesso che ce ne fossero altre oltre a quell’unica portata in cui si era imbattuto, passando direttamente alla fine del banchetto: un dopo pranzo a base di caffeina e nicotina. E una potente pozione zeppa di vitamina C.

    Era conscio del fatto che sarebbe stato opportuno mangiare qualcosa che fungesse da scudo per le sue viscere contro gli effetti collaterali della bomba chimica made in Germany che si apprestava a deglutire: un concentrato di polvere magica effervescente capace di logorare gli organi interni più resistenti fino a bucarli. Tuttavia era pronto a correre il possibile rischio di un’ulcera pur di sottrarsi a quella che invece era la garanzia di rimettere ogni schifezza introdotta in corpo, qualora avesse aggiunto nel serbatoio del cibo.

    La pastiglia si sciolse in pochi minuti. Davide trascorse l’attesa in compagnia dei peggiori contrasti mai patiti: c’era in lui qualcosa che spingeva per emergere e veniva in qualche modo trattenuto, accusava improvvise vampate di calore benché tremasse per il freddo, gli pareva di avere la pancia vuota sebbene fosse stracolma di spazzatura, gli dava fastidio stare fermo così come ogni più piccolo spostamento, non sopportava di tenere gli occhi aperti per via dei bagliori del giorno né le palpebre abbassate a causa dell’equilibrio che finiva per mancare quando escludeva i riferimenti che gli erano intorno.

    Anziché assumere subito il farmaco, trangugiò un espresso doppio, che il gentile borbottare di una moka gli aveva servito alla svelta dentro una tazzina di ceramica in cui erano già atterrati due cucchiaini abbondanti di zucchero di canna. Poi fumò, bruciando catrame e tabacco sopra il balcone della cucina, dove l’eventualità di crepare per assideramento si mostrò a lui qualcosa più di una remota ipotesi. Infine impugnò il bicchiere con l’acqua santificata dalla scienza.

    Una lunga, complicata sorsata concluse le operazioni atte ad agevolare il suo recupero. Davide si gettò quindi sul divano in soggiorno e rimase ad aspettare che iniziasse la fase della resurrezione. Un momento che, nelle condizioni in cui versava, gli sembrava davvero lontanissimo, un miraggio che cominciava a temere non si sarebbe mai concretizzato.

    Sbracato scomposto fra scomodi cuscini rettangolari, giaceva con lo sguardo assente verso il soffitto e una mano sulla fronte, le gambe divaricate come una volgare raffigurazione di fertilità su tela ottocentesca dissidente, da censura, e la speranza taciuta che il frenetico volteggiare disordinato dell’universo sarebbe terminato nel più breve tempo possibile.

    L’utopia fu disintegrata quasi nell’immediato dal rientro dei genitori, quattro sporte di spesa nelle mani, altre quattro in sosta in fondo alle scale. Quattro rampe, che tutti i presenti sapevano a chi sarebbero toccate. Era la solita solfa ogni volta, ma di norma non sarebbe stato un problema per Davide compiere l’estremo sacrificio e indossare gli umili panni del corriere casalingo per alleviare i suoi vecchi di un tal peso. Al contrario, oggi…

    «Oh, Davide, ben alzato» lo salutò suo padre appena varcata la soglia dell’ingresso, virando in un amen sul gravoso compito che gli spettava, senza però riuscire a completare la frase: «Dopo ci sarebbero…»

    «Sì.»

    «… quattro buste…»

    «Ok.»

    «… quando puoi…»

    «Chiaro.»

    Aveva già compreso dove volesse andare a parare papà alla prima parola pronunciata, senza che fosse necessario spiegargli l’intera faccenda, trita e ritrita. Piuttosto era lui a dovergli spiegare che allo stato attuale vedeva doppi anche i contorni annebbiati dei doppioni dei vari soggetti che aveva innanzi, che dentro sé avvertiva il diavolo con la forca e gli zoccoli caprini, gli spiritelli maligni in coro e tutto l’inferno corredato di fiamme incandescenti e orde di anime dannate, che gli sarebbe risultato arduo persino immaginare di poter esalare un paio di respiri consecutivi senza subire dannose conseguenze per la reiterazione di quel banale atto; figuriamoci fare un po’ di sana ginnastica su e giù per i pianerottoli di casa con la pretesa di uscirne indenne a fine corsa.

    Rinunciò in partenza, evitando di controbattere con un’invettiva giustificatrice che lo sollevasse dall’incarico. E siccome non ebbe la prontezza di elaborare opzioni diverse dall’assecondare gli stentati dettami paterni, si adeguò. Nel frattempo mamma aveva acceso la sua voce-radio per dare libero sfogo a considerazioni che nessuno le aveva chiesto di condividere.

    «Al supermercato abbiamo incontrato la mamma di Vanessa, la tua compagna di classe delle medie. Ricordi? Mi ha domandato di te, cosa fai, se ti sei sposato o hai la fidanzata. Tutto quello che le ho detto è che ti sei laureato giusto ieri. E che ti sei lasciato da poco con una ragazza che hai conosciuto all’università, ovviamente. Mica potevo mentire. In verità comunque non credo fosse davvero interessata agli affari tuoi, ma sai come succede in questi casi. Secondo te sbaglio? Alla fine anch’io le ho chiesto qualcosa di Vanessa, più che altro per educazione…» disse con il tono che si faceva via via più flebile e che sparì del tutto quando Davide arrivò in fondo alle scale, spossato e claudicante oltre ogni misura, per poi tornare a massimo volume appena fu capace di risalire, con impaccio, la china dei gradini, «… prima di uscire, quando ti ho chiamato. E infatti dopo non siamo più riusciti a sistemare la cosa, com’era prevedibile.»

    Concluse l’assolo quando Davide ormai era giunto al traguardo del secondo viaggio di ritorno. E non si era mai fermata, nel mezzo, sebbene a tratti non ci fosse stato alcun orecchio teso ad ascoltarne gli sproloqui. Patrizia, era questo il nome di sua madre, blaterava spesso. E ancora più spesso lo faceva per il gusto intimo di riempirsi la bocca di parole da masticare ed espellere, più che per alimentare un equilibrato scambio di battute all’interno di un dialogo.

    «Capisco.»

    «E adesso cos’hai in mente di fare?» riattaccò lei, dopo che lui le aveva rifilato la rapida conferma di un’intesa che per vacuità e disimpegno andava bene in qualsiasi situazione, convinta di fargli cosa più che gradita a prolungare la conversazione. «Hai già qualche contatto per un lavoro?»

    Maurizio, così si chiamava il padre di Davide, si grattò la pelata senza coinvolgere i capelli grigi che aveva ai lati del cranio e strabuzzò i suoi occhi neri in genere inespressivi, dileguandosi poi in qualche anfratto cupo dell’abitazione. Suo figlio, che pur avendo conseguito di recente l’ambito titolo di dottore non poteva permettersi di fare altrettanto, rimase in balia della curiosità fuori luogo di mamma. Era il peggio che potesse capitargli in quel contesto.

    «Mamma» sbuffò pertanto, ingoiando con eleganza un’importante sequenza di ruggiti di rabbia per lasciare trasparire solo la sua legittima scocciatura, «per favore…»

    «Chiedevo soltanto» precisò lei, come se ce ne fosse stato il bisogno, facendo vibrare il suo caschetto biondo cenere per porsi con aria stizzita sulla difensiva: «È forse diventato reato chiedere?»

    Davide roteò le pupille senza aggiungere più nulla, consapevole che se errare poteva considerarsi umano, perseverare invece sarebbe stato diabolico. La sua mossa vincente era perciò restare zitto e soprassedere; proposito che condusse in porto con l’implicito beneplacito di Patrizia.

    Prima di ritirarsi nuovamente nei suoi appartamenti e rituffarsi sopra il giaciglio ancora disfatto, annegò l’ansia che mamma gli aveva messo addosso dentro una tisana al finocchio. Poco alla volta gli pareva di stare meglio; forse l’aspirina stava cominciando a funzionare.

    Tornato orizzontale, riposò per altre due ore circa. Si ridestò verso le diciotto con l’arrivo del messaggio numero cinquantadue su Whatsapp. E siccome il malessere era pressoché svanito, fatta eccezione per un lieve mal di stomaco che con ogni probabilità era legato a un principio di fame, iniziò a passare in rassegna le varie chat attive. Si trattava perlopiù di didascalici auguri, complimenti e congratulazioni in serie provenienti da amici, parenti e conoscenti per aver concluso con successo il percorso di studi universitario e di commenti entusiastici per la nottata di festeggiamenti trascorsa, da parte di chi aveva presenziato all’evento.

    Lesse addirittura un Dottooore, dottooore, dottore del buco del cul, vaffancul, vaffancul, ricevuto da un numero che non era registrato sulla rubrica del telefono. Il goliardico tormentone era stato la colonna sonora della giornata che lo aveva visto protagonista incravattato, a partire dalla proclamazione ufficiale con il rituale della stretta di mano ai docenti fino all’ultima diapositiva di cui aveva memoria, allorché chi si era offerto di fargli da tassista lo aveva salutato davanti al cancello di casa con il medesimo, accorato, ritornello. Doveva ammettere che il coro, ieri, non si era affatto risparmiato. Così come non si erano risparmiati tutti gli invitati alla cerimonia successiva alla discussione della tesi, tanto generosi nel rendergli i meritati omaggi quanto premurosi nell’assicurarsi che il suo calice fosse sempre pieno fino all’orlo. Di Claudia, per contro, non aveva rinvenuto alcuna traccia. Né prima, né durante, né dopo la conquista della pergamena.

    II

    «Sei vivo?»

    Lo specchio non osava sbilanciarsi al riguardo, offrendo a Davide l’evidenza di un’immagine insieme nitida e pallida. Il riflesso del suo viso era una fotocopia sbiadita, scolorita per via di cartucce in esaurimento cui mancava il ricambio. Ne aveva fatto un utilizzo sconsiderato, nonché eccessivo. Povero fegato.

    «Suppongo di sì.»

    Era circa un mese che aveva deciso di farsi crescere la barba, che quindi se ne stava attaccata alla faccia da un po’, abbastanza per poter essere giudicata lunga secondo gli ovvi canoni dell’opinione comune. Ma se per esibirsi davanti ai professori della commissione e al pubblico in sala se l’era sistemata proprio bene, dando l’impressione di trattarla con appositi prodotti estetici, a quarantotto ore di distanza appariva un cespuglio di peli neri spettinati. E non era il tratto ridotto peggio. La chioma, mossa e scurissima, aveva perso la sua naturale opacità a causa di una patina d’unto che la faceva brillare; le iridi, di regola verdi, erano gialle, al pari del contorno occhi. C’era qualcosa di storto pure nella forma della mandibola, tuttavia Davide non riusciva a capire cosa. Era il mattino del suo secondo giorno da dottore; il primo era evaporato.

    «Allora stasera sei dei nostri?»

    Economia e Management, niente meno, con conseguente laurea magistrale in Amministrazione e Gestione d’impresa. Il nome del corso aveva una sua forte personalità, era altisonante, come pure la specializzazione. Sarà stata la componente direzionale intrinseca nel titolo, oppure la sonorità parzialmente anglofona, fatto sta che pronunciare quella formula riempiva la bocca. Era un’etichetta vincente.

    Economia e Management. Aveva concluso la triennale in un lustro, la tesina poi gli aveva portato via dodici mesi; altri tre anni per completare gli ipotetici due aggiuntivi e uno ulteriore per la tesi finale; in mezzo esami opzionali che gli avevano rubato circa due semestri. In tutto, aveva sgobbato all’università per undici lunghissimi anni. Adesso si era convinto che fosse giunta l’ora di mettersi al lavoro per fare fruttare nella pratica gli studi portati avanti nella teoria, trovando un impiego. Cosa, di preciso, ancora Davide non lo sapeva. Ma era sicuro che lo avrebbe scoperto strada facendo, iniziando da qualche parte.

    Amministrazione e Gestione d’impresa. Possedeva la chiave per fare i soldi. Ecco cosa significava la dicitura, in sintesi. E non gli era capitata fra le mani per caso, piovuta dal cielo per pura benevolenza di chissà quale dio arrivista; l’aveva ottenuta con merito, attraverso il sacrificio, versando i proverbiali sudore, lacrime e sangue su libri che erano più spessi che profondi, più pesanti che attraenti. Più costosi che intriganti, soprattutto. Così ora si ritrovava fra le dita il biglietto fortunato della lotteria

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