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Una storia normale
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E-book188 pagine2 ore

Una storia normale

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Il libro narra le vicende dei tre protagonisti, due uomini, Giulio ed Ermes, alle prese con la perdita di senso della vita, e un bambino, Amos, che incarna nonostante quello che sta affrontando, la leggerezza smarrita dai due adulti.

La vicenda inizia con il flashback su un incidente accorso ai due giovani al termine di un concerto a Trieste, un evento che chiude per entrambi l'età della spensieratezza e che apre la storia di Amos concepito in quella stessa occasione, e prosegue poi riaprendosi dieci anni dopo su una scena di pesca che vede protagonista il piccolo Amos, sognatore come ci si aspetterebbe da un bambino della sua età, ma sofferente per l'assenza della figura paterna.

Nei primi capitoli si assiste alle vicende personali dei tre protagonisti, delle vicende nelle quali si adombra l'incombenza della vita:

Ermes, riflessivo e riservato, sta affrontando assieme alla sua compagna, la stancante ricerca della genitorialità in una società che sembra non riconoscere questo bisogno.

Giulio, egoista e istintivo, non sapendo di essere il padre di Amos, è imprigionato in un passato che lo vela di grigiore e vive tra il desiderio di rivalsa e quello di sconfitta, con una netta preferenza per quest'ultima.

Amos, bambino dolce e sognatore, è alle prese con i primi indecifrabili segni dell'amore e nel contempo scopre che la madre sta affrontando una terribile malattia.

Nello sviluppo del libro i tre protagonisti prendono pian piano atto della realtà della vita con le proprie storie si sviluppano incrociandosi e condizionandosi, pur nella sostanziale incomunicabilità della natura umana. La conclusione giunge infine nella comunione finale a cui si giungerà non grazie alla condivisione di un esperienza di climax, bensì tramite la concordanza del fine: la ricerca della felicità esperita come partecipazione alla vita.
LinguaItaliano
Data di uscita29 giu 2022
ISBN9791221407686
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    Anteprima del libro

    Una storia normale - Emanuele Facchin

    TRIESTE ore 05:37

    Scese dal muretto spiccando un lungo salto fino al tettuccio di un’auto, poi scivolò sul cofano, scaldandosi le zampe sulla lamiera soleggiata. Mancava poco all’aurora, il sapore del mare tracimava denso su tutta Trieste e Levante, gatta rossa di taglia media, si era avviata a caccia di topi per colazione. Lasciava nel tepore della tana, tra l'intercapedine di un magazzino e un negozio d'abbigliamento, tre gattini affamati. La tana migliore che avessero mai avuto dai tempi dei cassonetti al porto, pensava sempre allontanandosene: si girava, sbirciando alla tana con piglio felice e ripartiva per la caccia allontanandosi dal miagolio dei suoi piccoli. Durante la notte il vento gelido e umido di Trieste insisteva fin dentro la tana e perciò al mattino i suoi piccoli doveva leccarli per bene affinché si svegliassero. Gil, il più piccino, s'era cullato a lungo in quelle carezze facendo le fusa immerso nei sogni. Era perché aveva il sonno pesante, non per il freddo, dicevano i suoi fratellini lamentandosi della disparità di trattamento. Però quando Gil apriva gli occhi tutti i suoi fratelli gli si facevano accanto perché lui aveva la voce possente, miagolava più forte di tutti, sovrastando il rumore del traffico e facendo capire il livello della loro fame, a quel punto Levante non poteva far altro che uscire per la prima battuta di caccia della giornata

    Un rapido movimento attirò la sua attenzione, alcune foglie ingobbendosi presagirono la presenza della colazione. Attese, controllando se tornavano a muoversi o se da qualche parte spuntava il naso di un topastro di città e uno squittio nervoso gli indicò in maniera ineluttabile che aveva trovato quello che cercava, subito dopo scorse la punta di un muso grigio che annusava l'aria. Senza alcuna fretta si preparò all'attaccò, la posizione dominante sul cofano dell’auto le permetteva una visione ampia sul territorio circostante, perciò prima di partire controllò che non ci fossero altri predatori a fargli concorrenza, poi fece un salto a terra camminando furtiva e lambendo il marciapiede oltre una vecchia bicicletta; infine proseguì rasente al muro, mentre il naso del topo continuava la sua ricerca. Percepiva il puzzo di un gatto, ma troppo indefinito per indicare un pericolo imminente. In quel momento Levante aumentò l'andatura, sfilò accanto a un cassonetto, fermandosi dietro a un ippocastano stretto in un’aiuola. Mosse un passo lento, poi un altro ancora più lento, poi uno ancora, sporgendo il muso dall'albero. Quindi alzò la coda e appoggiò il peso sulle zampe posteriori sedendosi come una molla. Il topo emise un rantolo incerto e se solo si fosse voltato ancora di qualche grado l’avrebbe vista arrivare. Levante partì all'attacco con due balzi morbidi e sicuri, a cui seguì una zampata robusta, rapida come la falce e decisa come una schioppettata. Il pasto grigio gli sfuggì per un pelo: scartò a destra, protetto dallo pneumatico e cominciò a correre all’impazzata. Levante si lanciò all'inseguimento, infilandosi sotto l'auto e uscendone dal davanti, quindi continuò in linea retta tallonando il roditore a poche decine di centimetri, mentre questi zigzagava sull’asfalto in cerca di un buco in cui nascondersi. Un anziano assisteva alla scena oltre il vetro di una finestra al terzo piano, la galoppata delle due bestiole aveva attirato il suo sguardo proprio mentre stava per aprire le tende e far entrare la luce del mattino. Levante allungò la rincorsa in un paio di occasioni cercando di indovinare la traiettoria della sua preda, purtroppo però la velocità impediva la precisione e in entrambi i casi quando stava per allungare la zampa il topo aveva improvvisamente cambiato direzione. Ad un certo punto però s'accorse di un particolare che il suo avversario, forse rintronato dalla fuga, non aveva colto. Il topastro si stava avviando in linea diretta e speranzosa verso un chiusino in fondo alla strada, uno di quelli che era stato ricoperto con una fitta rete metallica appunto per impedire il passaggio agli abitanti del sottosuolo. Una soluzione che da un paio di mesi era stata applicata alle vie del centro. Levante calcolò la distanza dal chiusino quindi al momento opportuno spiccò un balzo, poi ancora uno e proprio nel momento in cui il topo, terrorizzato, si accorgeva della rete, gli fucilò una zampata tale da schiantarlo tramortendolo contro il cordolo lucido del marciapiede.

    La bestiola subì il doppio colpo, ma non ebbe il tempo di riprendersi che Levante, con la rapidità della

    morte, lo prese al collo stringendolo forte fino a farlo scrocchiare come un grissino.

    Il corpicino esangue si accasciò, nonostante questo Levante trattenne ancora chiusa la mascella: non c'era da fidarsi dei topi, sapevano fingersi morti meglio degli attori. Poi dopo qualche ulteriore istante d’attesa rilassò i muscoli delle zampe, della schiena e infine anche del muso. Il cadavere del topo gli penzolava dalla bocca che era increspata in un sorriso di malcelata soddisfazione.

    Salì sul marciapiede passeggiandoci in centro, anche quel giorno i suoi gattini avrebbero avuto da mangiare. giunta all’incrocio si accinse ad attraversare: la pioggia della notte aveva lavato la città, l'asfalto bagnato riluceva al sole obliquo del mattino. S'avvio lenta all'altro lato della carreggiata chiudendo gli occhi per i riflessi, quando con il rombo di una marmitta bucata arrivò dalla curva cieca uno scoppiettante furgone rosso.

    «Il gatto, il gatto. Attento al gatto!» gridò il ragazzo seduto sul sedile accanto alla guida.

    Il guidatore sterzò all'ultimo momento, sfiorando il grosso gatto rosso.

    «Animali del cazzo, sono sempre in mezzo alla strada» blaterò.

    Il topo le era caduto dalla bocca per lo spavento e ora giaceva in mezzo alla strada, schiacciato come una pizza. Levante lo raccolse con la punta dei denti, nel sollevarlo però la testa si staccò dal resto del corpo, a malapena potevi capire che era un topo. Ebbe un attimo di esitazione, non era cibo da presentare ai suoi gattini si disse, che razza di madre era a portare a casa quello slabbrotto di carne e peli. Studiandolo meglio però gli venne un'idea. Topo macinato, oggi si mangia topo macinato. I suoi piccoli sarebbero stati contenti di mangiare topo macinato, quali altri gattini potevano vantarsi di aver mangiato topo macinato? Sarebbero stati ancora più contenti del solito per quella morbida prelibatezza. Riprese la strada di casa e sembrava camminasse sulla punta delle zampe, tanto pareva alta. Quando cominciò a sentire il miagolio di Gil si fermò e attese, poi sussurrò di nuovo tra sé e sé: topo macinato e proseguì tra la parete e l'intercapedine del magazzino: la sua tana.

    ERMES

    Scartammo a sinistra con una manovra azzardata attraversando un incrocio e infilandoci in una stradina curva che sembrava un senso unico. Quando vidi il gatto urlai a Giulio che sembrava non essersene nemmeno accorto. Lui fece una brusca sterzata e blaterò: «Animali del cazzo, sono sempre in mezzo alla strada»

    «Ma come cavolo guidi» brontolai, mentre cercavo oltre il lunotto posteriore la sagoma del gatto sperando si fosse salvato.

    «È una scorciatoia» rispose Giulio portando la mano al cambio per scalare la marcia.

    «Una scorciatoia per il cimitero» aggiunse Massimo che si era proposto come autista alla fine del concerto.

    «Se l'è fatta sotto il gatto, eh?» scherzò Giulio.

    Aveva gli occhi felici, stanchi ma felici: brillavano come due diamanti.

    Lo fissai ammirato, quella sera aveva dato il massimo sul palco. Giulio rallentò avvicinandosi al dare precedenza all'incrocio, poi girò a destra sulla strada che sale all'Università in una Trieste che sembrava vuota.

    «Dai, dai. Raccontatemi ancora cosa vi ha detto quel tipo» chiese Adele, appoggiando il mento sul sedile del guidatore.

    I volti provati di Giulio e Massimo si illuminarono di felicità e anche io presi l'espressione di un bimbo gioioso; Simone e Cristina dormivano, altrimenti avrebbero sorriso anche loro.

    «Cosa vuoi che ti dica» temporeggiò Giulio, con una punta snob nella voce.

    «Raccontami di nuovo tutto quello che vi ha detto» lo pregò ancora Adele con un filo d'impazienza.

    Il furgone, un vecchio Bradford che avevamo recuperato da un carrozziere e che sarebbe stato pronto per lo sfasciacarrozze, sfiorò una macchina parcheggiata in seconda fila. Massimo se ne accorse puntando deciso uno sguardo di rimprovero su Giulio il quale non gli badò nemmeno, aveva cominciato a raccontare per l’ennesima volta della chiacchierata con quel produttore discografico, e non aveva intenzione di ricevere un altro rimbrotto.

    «Allora» proseguì Giulio come un consumato cantastorie,«appena siamo scesi dal palco si è presentato con un biglietto da visita».

    Adele, pur sentendo per la quinta volta la stessa storia, pendeva dalle sue labbra.

    «Non ha neanche continuato ad ascoltare il concerto» aggiunsi io«sembrava fosse interessato soltanto a noi».

    «Dicevo!» insistette Giulio, pretendendo il palco tutto per sé come faceva ai concerti.«Si è presentato con il biglietto da visita tra le dita e mi ha detto: Siete bravi, ho bisogno di riempire una tournée estiva. Un ventina di date, feste di paese, qualche locale e un paio di teatri. Se va tutto bene poi possiamo parlare con la Sony».

    «Giulio non sapeva cosa rispondere» aggiunsi io,«è rimasto a bocca aperta, inebetito come un palo».

    Giulio non gradì il commento e mi guardò di storto, poi Adele si allungò per dargli un bacio sulla guancia che lo fece spostare inavvertitamente al centro della carreggiata.

    «Guarda la strada» lo sgridò Massimo.

    «E come vi siete messi d’accordo» chiese subito Adele coprendo in parte le parole di Massimo che si teneva stretto al bracciolo.

    «Lì per lì ho pensato fosse uno scherzo,» si giustificò Giulio.«invece quel tipo mi teneva gli occhi addosso aspettandosi una replica immediata».

    «Gli ha stretto la mano come se dovesse sbattere un tappeto: Certamente, certamente siamo interessati» insistei scimmiottando la risposta che aveva dato al produttore discografico.

    Massimo si unì alla risata, mentre Giulio prese l’espressione di un bimbo ferito

    Non sembrava permaloso, eppure io sapevo quanto si infastidisse dentro di sé.

    «A proposito» aggiunsi come per cambiare discorso«dove lo passiamo il capodanno?»

    «Sempre che non abbiamo qualche ingaggio» aggiunse Massimo sorridendo.

    «Io vorrei andare in montagna» disse Giulio cercando gli occhi di Adele.«Che ne pensate?».

    «Un bel capodanno in Carnia in stile birra e neve ?» propose Massimo.

    «Io sono perfettamente d’accordo» affermai.«Quando si parla di birra e di Carnia sono sempre d’accordo».

    Dal fondo del furgone, Paolo, il nostro più assiduo fan di sedici anni che ci seguiva da quando ne aveva dodici, grugnì una russata. Le risate cessarono all’istante.

    «Il pupo è stanco» sussurrò Adele.«Avete chiamato sua madre per dirle che facevamo tardi?».

    «L’ho chiamata io» rispose Massimo.

    Adele sbirciò il ragazzo con tenerezza.

    «Questa sera ha fatto il matto» commentò, mentre il furgone svoltava a sinistra immettendosi nella ripida salita verso Opicina.

    Le luci della città restavano in basso come un tappeto di stelle. Massimo girò lo sguardo al mare allungando la vista finché non colse gli estremi del molo Audace.

    «Si vede il molo» disse.

    «Macché molo e molo, laggiù c'è il mare aperto, e accanto al mare, l’orizzonte sconfinato del nostro futuro» sottolineò trasognato Giulio con la bocca allargata in un sorriso.«Quest'estate facciamo la tournée e in un paio di anni arriviamo in vetta alla classifica».

    Lo promise con una tale sicurezza che per un attimo sembrò che il tempo di quei due anni fosse già passato, che stessimo già percorrendo una delle solite strade tra un concerto e un altro, in qualche capitale europea, attesi e acclamati come star del firmamento musicale, e per un attimo rimanemmo sospesi in quel sogno, poi come mi uscì tra i denti una domanda sciocca.

    «E la ferramenta di tuo padre?» chiesi a Giulio.

    «Il solito pragmatico eh?» replicò lui, poi mi sputò un fanculo la ferramenta che mi fece tacere.

    «Siamo forti. Questo non si può negare» disse Massimo.«E quando abbiamo iniziato con Danza con me¹ avete notato la reazione del pubblico. Sembravano come ai concerti dei Beatles».

    «Non esagerare, adesso» lo stuzzicai. «Non sta affatto esagerando» s’inserì Adele«io mi sono accorta di come vi squadravano quelle ragazzine».

    Giulio e Massimo si scambiarono una rapida occhiata, io la intercettai al volo, tenendomi però i pensieri ben stretti. Giulio scalò marcia andando a infilarsi nella rotonda che attraversava il percorso del tram. Dietro, comodamente seduti e addormentati, non avvertirono il passaggio sulle rotaie.

    «Paolo non si sveglia nemmeno con una bastonata» sentenziò Giulio per cambiare discorso.

    Adele girò lo sguardo verso il ragazzino e precisò:«Faceva finta di essere dell’organizzazione. Controllava gli ingressi al palco. Era tutto esagitato, povero caro».

    «Ci credo, con tutte quelle ragazze che c’erano in giro questa sera» aggiunse Massimo.

    «Ma cosa dici, lui non è uno di quelli fissati come voi» si lamentò Adele raccogliendo una risata generale.

    «Sei sicura amore?» chiese Giulio passando la marcia in quarta«alla sua età gli ormoni sono grossi come angurie, non è il cervello a comandare in quel periodo della vita».

    «Va là, sei il solito animale» commentò Adele.

    «È vero» confermai«Io non riuscivo neanche a fare i compiti, tanto mi tenevo

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