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David
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E-book287 pagine3 ore

David

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Info su questo ebook

Se non la consegno all’altare, mi ammazzeranno. C’è solo un problema: sono ancora innamorato di lei.

Una volta era mia o almeno così pensavo. Ma è stato tanto tempo fa, prima della prigione, prima che diventassi il Macellaio. 
Rivederla non dovrebbe suscitare nulla in me; è passato troppo tempo. Forse si è persino dimenticata della mia esistenza nel momento stesso in cui sono stato rinchiuso in prigione. Io però mi sento ancora legato alla mia Angel. Sono ancora attratto da lei e condannato a volerla, anche se promessa a un altro uomo. 
Mi hanno incaricato di essere la sua guardia del corpo e, se non la consegno all’altare, mi uccideranno. Se lo faccio, però, la perderò per sempre e allora sarebbe meglio morire per mano di un sicario.
LinguaItaliano
Data di uscita2 mag 2021
ISBN9788831980876
David
Autore

Celia Aaron

Celia Aaron is the self-publishing pseudonym of a published romance and erotica author. Dark to light, angsty to funny, real to fantasy--if it's hot and strikes her fancy, she writes it. Thanks for reading. Sign up for my newsletter at aaronerotica.com to get information on new releases. (I would never spam you or sell your info, just send you book news and goodies sometimes). ;) You can find me on: Twitter: @AaronErotica Facebook: facebook.com/aaronerotica Instagram: celia_aaron

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    Anteprima del libro

    David - Celia Aaron

    Capitolo 1

    David

    La testa dell’assassino si staccò con una facilità gratificante. Il suo corpo cadde ai miei piedi mentre il sangue spruzzava dal collo, nel punto in cui lo avevo appena sgozzato.

    «Consegnala e basta!» Il grido proveniente dal piano di sotto mi strappò una risata bassa e roca, e scagliai la testa mozzata giù per le scale. Mi fermai ad ascoltare il rumore cupo che emetteva mentre rotolava per gli scalini e le urla colme di panico che si scatenarono al primo piano.

    «Venite a prenderla.» Per puro piacere, calciai giù dalla ringhiera il corpo esangue che precipitò con precisione schiantandosi in fondo ai cinque piani con un tonfo sordo. Altre grida, alcune delle quali indicavano che avevo schiacciato un altro degli scagnozzi di Blanco.

    «David!» Il grido preoccupato di Angel mi fece indietreggiare verso la porta. «Credo siano nel pozzo dell’ascensore.»

    «Cazzo.» La seguii nel corridoio, chiusi la porta con un colpo secco e mi precipitai verso l’appartamento in cui ci eravamo rintanati. Voci e suoni metallici suggerivano che aveva ragione riguardo al pozzo dell’ascensore. Avevo distrutto i cavi che sorreggevano l’abitacolo con colpi di pistola ben assestati, ma Blanco aveva inviato una quantità enorme di uomini, alcuni dei quali con tendenze suicide tali da provare ad arrampicarsi come l’Uomo Ragno sulle pareti di metallo.

    «Vai dentro.» Indicai l’appartamento. «Stai vicina alla porta.» Estrassi una pistola dalla parte posteriore dei pantaloni. «Tienila stretta. Qualunque cosa tu veda, spara. Non esitare. Loro non lo faranno.»

    «Okay.» Annuì con un brusco cenno del capo e gli occhi pieni di determinazione. «Non tornerò indietro. Non permetterò loro…»

    La afferrai per la camicia e la strattonai verso di me. «Non andrai da nessuna parte.» La baciai con ferocia, l’unico modo che conoscevo. Le circondai la vita con l’altro braccio, lei si aggrappò a me e curvò la schiena all’indietro. . Era alla mia mercé, proprio come piaceva a me.

    La sua lingua si intrecciò alla mia, mentre i rumori dal pozzo dell’ascensore si facevano più intensi. I tizi sulle scale non dovevano essere tanto più distanti. Ma continuai a baciarla, per ricordarle chi l’aveva avuta per primo e chi l’avrebbe avuta per sempre.

    Lei mi morse il labbro inferiore, ricambiando con lo stesso ardore. Continuammo così per qualche altro secondo, poi la lasciai andare e la spinsi verso la porta.

    «Aspettami, Angel.» Infilai le dita nella fessura tra le porte dell’ascensore aprendole a forza, e puntai l’altra pistola in basso, nell’oscurità.

    Un singolo grido. «Sta per…»

    Aprii il fuoco, sbirciando oltre il bordo solo quando fui certo che se la stavano facendo addosso per la pioggia di proiettili. Feci fuori due scalatori con facilità, ma il terzo riuscì a saltare sull’abitacolo dell’ascensore. Mirai al pannello del soffitto, proprio nel punto in cui pensavo si trovasse. Quando il tuono dei proiettili rimbombò nello spazio chiuso, l’uomo precipitò. Centrato in piena testa.

    Udii dei passi pestare gli scalini.

    Angel aprì la porta di uno spiraglio, bloccandola con la base di una lampada. «Stanno arrivando.»

    Ricaricai la pistola. «Aspettami.»

    Angel incontrò il mio sguardo, prima di sollevare la sua arma e appiattirsi contro la parete, proprio dietro la soglia. «Ti aspetterò sempre.»

    «Ecco la mia ragazza.» Non appena la porta delle scale si aprì schiantandosi contro il muro, feci fuoco. Due corpi caddero a terra, forse tre.

    Altri uomini stavano arrivando e non avevo abbastanza proiettili per tutti, ma avrei sparato fino a esaurirli. Poi, sarei andato avanti a mani nude per tutto il tempo che il mio corpo avrebbe retto.

    Uno sparo improvviso proveniente dall’appartamento, mi fece correre verso Angel. Mi precipitai dentro come una furia, ma lei non era contro la parete.

    «Angel!» Saettati in mezzo al caos, mentre altri spari rimbombavano alle mie spalle.

    «Indietro, figlio di puttana.» Jorge teneva Angel davanti a sé, con la pistola puntata alla tempia. «Altrimenti, le fracasserò il cranio solo per divertimento e dirò a Blanco che sei stato tu. Lascia cadere le pistole.»

    Tutto, dentro di me, si gelò.

    «Non farlo!» Gli occhi spalancati di Angel mi imploravano.

    Non l’avrei delusa di nuovo. Non l’avrei lasciata. Non avrei mai smesso di salvarla, se avessi potuto.

    «No!» Il suo grido mi frantumò il cuore, nel momento in cui feci cadere a terra le pistole.

    Jorge puntò la canna della sua arma su di me, col dito sul grilletto e un ghigno sul volto sfregiato.

    Capitolo 2

    David

    Cinque Anni Prima


    «L’ho vista di nuovo.» Mi tolsi la maglietta macchiata di sangue e la gettai sulla pila di panni sporchi ai piedi della mia branda.

    Peter si mise seduto e il sonno scivolò via dai suoi occhi in un istante. «Dove?»

    Mi stravaccai sulla branda e il tessuto sudicio scricchiolò sotto il mio peso. Anche se avevo solo sedici anni, ero più grosso di molti degli uomini in cui mi imbattevo. Una buona cosa – la mia stazza aveva i suoi vantaggi. Estrassi dalla tasca un rotolo di banconote e lo lanciai a mio fratello.

    Lui l’afferrò al volo e fischiò. «Fantastico.» Si sporse in avanti, lo spazio tra i nostri giacigli gli consentiva appena di appoggiare i piedi a terra. «Ma che danni hai riportato? E dimmi di più di lei.»

    La riluttanza a parlare mi ruggì nelle vene e rimpiansi di avergli detto della mia ragazza misteriosa. Le rapide visioni di lei degli ultimi sei mesi erano come piccoli gioielli preziosi che trovavo per caso, raccoglievo e serbavo gelosamente per i momenti di solitudine.

    Peter tastò con le dita un livido scuro che si stava allargando sulla mia spalla. «Slogata di nuovo?»

    Lo liquidai con noncuranza. «Non penso. Non ci crederai, ma il tizio mi ha colpito con la testa! Quando ha visto che la situazione prometteva male, si è scagliato su di me come un lottatore di wrestling.»

    Peter si afferrò l’orlo della maglietta sudicia e se la sfilò. Non era affatto piccolo, ma in confronto a me era quasi scheletrico. «Hai una ferita che sanguina.» Premette il tessuto sul mio avambraccio.

    «Sì. Dopo la testata ha tirato fuori un coltello.» Il tizio era il proprietario di un ristorante a Hunting Park. Vendeva noodles schifosi, ma il suo business principale erano le ragazze nel retrobottega – quelle senza passaporto, che non parlavano una parola di inglese. Lui pensava che Serge Genoa, il boss del più grosso cartello del crimine di Filadelfia, non ne fosse al corrente, ma ovviamente non era così. In città non si concludeva nessun affare sporco senza il suo beneplacito, e lui ci prendeva sempre la sua parte. Il vecchio boss mi chiamava il ragazzino ma questo non gli impediva di affidarmi lavori che uomini il doppio di me si rifiutavano di fare. A me non importava, i soldi erano soldi. E il denaro era l’unico modo per permettere a me e Peter di uscire dall’inferno in cui vivevamo.

    «Hai dovuto…» Peter lasciò la domanda in sospeso, forse temendo la risposta. Lui aveva la mente per gli affari, non per il sangue.

    «È vivo, ma pagherà a Serge quello che gli deve.»

    «Altrimenti, tornerai da lui.» Peter tamponò dell’altro sangue dal mio braccio; la sua voce aveva una nota di amarezza che non avrebbe dovuto esserci. Eravamo troppo giovani per quel tipo di vita. Lo capivo come se vedessi me e mio fratello dall’esterno. Però, quello che capivo non valeva un cazzo. Contava solo la sopravvivenza.

    Annuii. «Altrimenti tornerò da lui.»

    Lui sospirò e finì di bendarmi il braccio. «Ci vorrebbero dei punti…»

    Scoppiai a ridere. «Certo, come no. Andrò all’ospedale, pagherò il conto con i miei sguardi, magari tu potresti portare anche dei fiori e…»

    «Chiudi il becco.» Gettò la maglietta sulla pila di panni sporchi. Avremmo dovuto lavarli alla svelta; almeno adesso avevamo un po’ di soldi per pagare la lavanderia automatica. «Smetti di girarci intorno e dimmi di lei. Era…»

    «Shh

    Si sentirono dei passi nel corridoio e ci sdraiammo all’istante, fingendo di dormire.

    La porta della nostra stanza si aprì e i cardini cigolarono come in un film dell’orrore.

    «Ragazzi, lo so che siete svegli.» La sua voce ci avvolse come una carezza limacciosa.

    Non ci muovemmo. Non respirammo.

    Lui fece schioccare la lingua sui denti, e quel suono familiare mi diede la nausea. «Se sento un altro rumore provenire da questa stanza tornerò, e non vi piacerà affatto.» La sua voce nascondeva un accenno di trepidante attesa, come se sperasse in una nostra infrazione per poter mettere in pratica la sua minaccia.

    Aprii gli occhi di una fessura, giusto per poter vedere la figura gigantesca sulla soglia. Il nostro ultimo padre affidatario, Gerald Raines, sapeva bene come picchiare, sebbene i suoi giorni d’oro fossero passati da un pezzo. La cosa peggiore, però, era la sua astuzia. Quando si inferociva, che fosse per via del bere o perché si soffermava a riflettere sulla sua vita di merda, si assicurava che io non fossi nei paraggi e se la prendeva con Peter. Più di una volta ero tornato a casa e avevo trovato Peter pieno di lividi e con gli occhi neri. La rabbia, di solito, prendeva il sopravvento e andavo a cercare Gerald per ammazzarlo. Ma lui non c’era mai, come se sentisse il pericolo, e spariva prima che la tempesta si abbattesse su di lui. Ogni volta avrei voluto scappare, portare via Peter da quel mucchio di rifiuti e vivere per strada, se fossimo stati costretti. Però Peter mi convinceva dicendo che, in fondo, non era così male, che quella era l’ultima volta che avremmo vissuto con un tetto gratis sulla testa, e mi spiegava, per la milionesima volta, che se fossimo rientrati nel sistema dei servizi sociali , ci avrebbero separati.

    «Ragazzi, siete fortunati che vi ho preso io. Due animali come voi non si meritano altro che una vita in una cella di due metri per due. È lì che finirete, in ogni caso. Tutti e due.» Esitò sulla soglia, aspettando un motivo qualsiasi per dare libero sfogo alla violenza che gli intorbidiva l’animo. Doveva sentirsi alquanto baldanzoso, quella sera, per aggredirci quando c’ero io. Di sicuro, aveva bevuto come una spugna. La sua ombra scura rimase in agguato sulla porta per qualche istante ancora, poi la porta si richiuse cigolando, e i passi pesanti segnalarono la sua ritirata.

    Peter esalò un respiro tremante, e quasi riuscii a percepire la sua paura. Quel peculiare olezzo rancido e appiccicoso che mi era molto familiare, per via del tipo di lavoro che facevo. Lavoro. La mia fonte di guadagno. Avrei riso, ma non c’era nulla di divertente. Non proprio. Quello che facevo era sbagliato, non c’era altro modo di definirlo, ma ci procurava denaro, ed era tutto ciò che mi importava.

    I soldi significavano libertà, e avrei fatto qualsiasi cosa perché io e Peter fossimo finalmente liberi.

    Dopo che Gerald se ne fu andato, aspettammo un altro po’ per assicurarci che fosse tornato alla sua lurida poltrona reclinabile del minuscolo salotto. Fissai il soffitto scuro: le macchie di umidità erano l’unica nota di colore nella stanza; in sottofondo, sentivo pulsare il dolore delle ferite.

    Lei sbucò d’improvviso da un angolo della mia mente, i suoi capelli come nuvole di fumo che non riuscivo ad afferrare. L’avevo vista diverse volte, quasi sempre in quel buco schifoso di quartiere. Forse viveva lì vicino. Proprio come noi, non andava a scuola; sembrava sbattersene di tutto e nei suoi occhi diffidenti, c’era fin troppa consapevolezza. Dal primo momento in cui l’avevo vista, mi era piaciuta. Era una stupida cotta giovanile, o cazzate simili. Ma non potevo negarlo. Ogni volta che la vedevo, mollavo Peter e il gruppo di sbandati o sballati con cui eravamo, per seguirla. Lei, però, fuggiva via e si dileguava nei vicoli afosi prima che potessi raggiungerla. Forse la spaventavo. Ero un ragazzone e avevo sempre l’aria di essere una specie di pericolo vagante. La paura aveva senso.

    Ma quella notte era stato diverso. Lei era a Hunting Park, camminava sul marciapiede con gli auricolari nelle orecchie e le mani nelle tasche dei jeans stretti. Io ero dall’altro lato della strada, che andavo di fretta verso il Noodle House. Volevo arrivare lì alla chiusura per intrufolarmi furtivo e risparmiarmi eventuali testimoni.

    Nonostante la fretta avevo attraversato la strada e mi ero diretto verso di lei, che andava nella direzione opposta. Non aveva il solito atteggiamento guardingo e il suo corpo era languido e rilassato. Passeggiava nella notte, in jeans e canottiera, le Converse logore e i capelli scuri spessi come nastri: il sogno vivente di qualsiasi rapitore.

    Col cuore a mille mi precipitai verso di lei. Avevo le mani sudate e ripassavo il mio ciao nella mente. La voce mi si era abbassata anni prima, ma non avevo dubbi che avrebbe potuto incrinarsi quando le avrei parlato.

    Lei rallentò il passo e alzò lo sguardo.

    Cazzo. Quel viso. Un ovale dal mento appuntito, il naso delicato e gli occhi scuri, immensi. Quel momento mi ricordò uno stupido biglietto di San Valentino che avevo ricevuto quando ancora andavo a scuola. In seconda elementare. Un enorme cuore rosso trafitto da una freccia e una scritta sciocca del tipo Cupido ha fatto centro, sei innamorato! Ma, Dio era proprio così. Mi sentivo trafitto, e qualcosa dentro di me cominciò a sanguinare. Lei era la freccia e il suo sguardo la punta della lama che lacerava ogni frammento di muscolo e osso, colpendomi in pieno il cuore.

    «Tu.» Il tono sospettoso della sua voce rese la mia ferita più profonda. Si tolse un auricolare e si guardò intorno, come se cercasse la via di fuga più rapida. Non potevo biasimarla.

    «Ciao.» La mia voce non si incrinò, per fortuna. Mi fermai a pochi passi da lei, abbastanza vicino da poter cogliere il suo profumo. Sudore, sapone economico e qualcosa di più ricercato a cui non riuscivo a dare un nome.

    Un lampione ronzava poco lontano. I grilli frinivano nell’erba alta del cortile mal tenuto di una casa alla mia destra. Il suo respiro, però, sovrastava tutti quei rumori, almeno secondo me. Affrettò il passo, e notai la vena del suo collo pulsare a ritmo incerto.

    «Cosa vuoi?» La sua voce uscì bassa ma sicura, appena percorsa da un lieve tremore.

    «Niente.» Scossi la testa. «Cioè, non niente, volevo solo parlare.»

    «Parlare?» Mi fissò le mani, le nocche mostravano ancora le ferite dell’ultimo lavoro.

    Paura. Quell’odore familiare si diffuse nell’aria afosa. Lei aveva paura di me. E c’era una minuscola parte della mia anima incasinata che godeva di quel timore. Tuttavia, il resto di me voleva metterla a suo agio. Ma in quella parte oscura e squallida della città, con i lampioni rotti, il rap estremo che suonava in lontananza e un sacco di lotti vuoti in cui si compiva ogni sorta di delitto, la tranquillità era una cosa poco comune, proprio come una ragazza come lei che girava da sola a quell’ora di notte.

    «Mi stai seguendo?» Teneva la mano sinistra in tasca, e avrei scommesso il rotolo di soldi sotto il cuscino di Peter che aveva un coltello.

    «No. Sono qui solo per…» Ammazzare di botte un tizio. «Per far visita a degli amici.»

    «Credevo che vivessi a Tioga» disse spostando il peso sul piede destro.

    «Sai dove vivo?»

    «Ti ho solo visto strisciare come un maniaco da quelle parti.»

    Strisciare come un maniaco. Okay, quello fu un colpo basso. «Non striscio come un maniaco. Cioè, vivo lì, sì, ma non…» Non sapevo come contestare l’atteggiamento bellicoso con cui andavo in giro, come se fossi sempre pronto a una rissa senza mai cercarne davvero una. Certo, tendenzialmente ero silenzioso e riservato. Ma voleva dire che ero un maniaco? No. Solo… riservato.

    Sulle sue labbra apparve un leggero sorriso, che quasi mi strizzò il cuore. «Ti ho offeso, dandoti del maniaco?»

    Del tutto incerto se lei mi stesse prendendo in giro o su cosa fare, mi passai una mano tra i capelli. Almeno, non stava fuggendo via.

    «Non sono un maniaco.»

    «Mi fissi come un maniaco.» Le sue spalle si rilassarono appena, ma la mano rimase nella tasca.

    «Non è mia intenzione. È solo che sei, insomma sei…» Carina, forza, diglielo! «Strana!» farfugliai la parola a tentoni.

    «Io sono strana? Ma se non mi conosci nemmeno.» Arcuò un sopracciglio scuro. La sua pelle vellutata e olivastra era luminosa sotto la luce tremolante del lampione.

    «È vero, ma ti ho vista.» Volevo infilarmi le mani in tasca, ma quel gesto l’avrebbe messa in allarme, perciò rimasi immobile – sebbene la finestra di tempo per raggiungere il Noodle House si stesse restringendo ogni secondo che rimanevo impalato lì.

    «E cos’hai visto?» Percepii una nota di sfida mista a divertimento. Mi stava provocando?

    Sarei stato al gioco. «Hai scippato il portafogli di Yuri circa due settimane fa. Sei andata a sbattergli contro mentre stava facendo casino con i suoi amici di fronte al negozio all’angolo, quello con la tigre in vetrina. Non ha mai capito che sei stata tu. Poi, circa una settimana fa, ti ho vista mentre ti arrampicavi su una finestra a Woodley Terrace.» I suoi occhi si spalancarono mentre io continuavo. «Ho aspettato nei paraggi e ho pensato che vivessi lì. Ma poi, sei sbucata dalla recinzione posteriore con una federa gettata sulla spalla. Andavi di fretta. Gli sbirri si sono presentati quella notte, qualche ora dopo, probabilmente quando il proprietario è tornato e si è accorto che ti eri introdotta in casa sua. Ne ho ancora qualcuna, ma credo che la terrò per un’altra volta.»

    La sua mano si era stretta a pugno nella tasca. «Hai fatto una soffiata alla polizia?»

    Adesso, era il mio turno di arcuare un sopracciglio. «Pensi che lo farei?»

    «Non ti conosco.» Prese a tormentarsi il labbro inferiore coi denti. Piccoli, bianchi, perfetti – mi domandai se avesse portato l’apparecchio. Ripensandoci, era una tipa troppo da strada per quel genere di cose. L’apparecchio ai denti significava avere genitori a cui fregava qualcosa di te. Bastava uno sguardo per capire che si prendeva cura di se stessa da sola e che, a fine giornata, non tornava a casa da una famiglia amorevole.

    «Sto provando a rimediare.» Le tesi la mano. «Mi chiamo David. E tu sei?»

    Adocchiò il mio palmo aperto, poi fece guizzare di nuovo il suo sguardo sospettoso su di me. «E questo cosa significa?»

    «Ascolta, sarò diretto. Ho mollato la scuola in prima media, perciò potrei anche sbagliarmi, ma credo che quando qualcuno tende la mano in questo modo, significa che tu debba stringerla e presentarti.»

    Quel sorriso segreto guizzò di nuovo sulle sue labbra per un istante, ma non me lo regalò. Non del tutto. Capii che strapparle un sorriso avrebbe richiesto maggiori sforzi, e più le stavo accanto più volevo provarci.

    «Tu sei strano.» Scrollò le spalle, quasi in segno di resa, e prese la mia mano nella sua, che era calda e asciutta al contrario della mia zampa sudaticcia. Sostenne il mio sguardo. «Mi chiamo Angel.»

    Angel. Be’ non era un nome perfetto?

    «Piacere di conoscerti.» Vacillai e un’onda di domande si sollevò nella mia mente. Volevo sapere tutto di lei, ma le campane di St Andrew in lontananza mi avvisarono che mi ero giocato la possibilità di arrivare in tempo per la chiusura al Noodle House. Ciò significava che avrei dovuto intrufolarmi dentro prima di far scoppiare la vera violenza, e un’irruzione significava maggiori possibilità di venire beccato. Eppure, per il tocco delle dita di Angel valeva la pena correre quel rischio.

    Le nostre mani rimasero unite per un istante, poi lei ritirò la sua. Feci un passo nella sua direzione, come se il mio istinto mi dicesse di rimanerle vicino.

    Lei non indietreggiò, inclinò solo la testa per sostenere il mio sguardo. «Mi spiace davvero dovermene andare, ma ho un appuntamento a pochi isolati da qui.»

    «Un appuntamento?» Volevo rimanere con lei o semplicemente ascoltarla parlare e cercare di strapparle quel sorriso che teneva nascosto tra le labbra carnose.

    Lei annuì appena. «Potrebbe riguardare un certo furgoncino dei gelati parcheggiato sotto un lampione rotto.» Il modo in cui pronunciò la parola

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