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In nome del figlio
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In nome del figlio
E-book197 pagine2 ore

In nome del figlio

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Info su questo ebook

Erano mesi che mi preparavo a spiegarti questa nostra vita apparentemente così lineare e invece così maledettamente ingarbugliata. Tortuosa. Mi verrebbe da dire: inversa. Dove ogni cosa non è ciò che sembra, dove ogni personaggio mostra la maschera che ha scelto di portare. Ogni personaggio tranne te.

Una storia lunga quarant’anni.
Un segreto inconfessabile.
Una promessa.
L’ultimo compleanno.
La resa dei conti.
Maria.

Vi aiuterò a suonare questa sinfonia, o forse solo questo quartetto d’archi, che diffonderà finalmente la musica della nostra storia, che era scritta da quarant’anni e nessuno aveva mai avuto il coraggio di suonare: ti darà una consapevolezza nuova, uno sguardo più limpido, puntato sul futuro perché sarà ancorato ad un passato finalmente definito, spiegato. Fermo.

Licia Allara, piemontese, è nata nel 1966. Sposata, con tre figli, ha vissuto in diversi paesi europei. Attualmente abita a Cascais, in Portogallo. Collabora con una piccola ONLUS italiana, adora il tennis e le onde dell’oceano. In nome del figlio è il suo secondo romanzo; nel 2019 ha pubblicato, sempre con Europa Edizioni, Lettera alla sposa.
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2021
ISBN9791220114523
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    Anteprima del libro

    In nome del figlio - Licia Allara

    LQpiattoAllara.jpg

    Licia Allara

    IN NOME DEL FIGLIO

    © 2021 Europa Edizioni s.r.l. | Roma

    www.europaedizioni.it - info@europaedizioni.it

    ISBN 979-12-201-1069-3

    I edizione luglio 2021

    Finito di stampare nel mese di luglio 2021

    presso Rotomail Italia S.p.A. - Vignate (MI)

    Distributore per le librerie Messaggerie Libri S.p.A.

    IN NOME DEL FIGLIO

    Questa è un’opera di fantasia. Ogni riferimento o somiglianza a persone reali, viventi o defunte, o a fatti realmente accaduti è puramente casuale.

    Prologo

    Un’alba piatta di nuvole scure lo sorprese seduto sulla spiaggia: il capo chino, le ginocchia abbracciate, i piedi nudi, le maniche e i pantaloni arrotolati, la camicia slacciata sul petto, i capelli induriti dalla salsedine, arruffati dal vento e dalla notte insonne.

    Si trovò davanti al mare, avvolto su sé stesso, intrappolato nel suo stesso corpo come fosse una scultura di pietra, come fosse uno scoglio di quel mare, che solo il tempo avrebbe potuto consumare, sgretolare, convertire in sabbia. Ritornare terra.

    Non aveva percezione della propria corporeità, come se il suo corpo e la sabbia e il vento e l’acqua che gli sfiorava i piedi fossero stati una cosa sola, racchiusa in un momento senza tempo, senza confini tra le materie. Senza coscienza.

    La sabbia intorno a lui non recava le sue orme, solo quelle dei gabbiani, solo le piccole, mobili piramidi dei granchi, le buchette impercettibili delle pulci di mare. La sabbia era un tutt’uno con le sue piccole creature, ignara come i gabbiani coi loro gridi disperati.

    La risacca scandiva i secondi, lambendo a ritmo regolare la battigia come una pendola lenta, rassicurante e ossessiva, che spogliava il tempo di ogni significato, di ogni aspettativa. La risacca si frangeva e rifrangeva sul bagnasciuga, tentando invano di sciacquare la sua coscienza.

    Il giorno schiariva dietro le nuvole scure, piatte e grigie come quel mare che le rifletteva: il mare scuro e tranquillo sembrava riflettere le nere nubi del suo cuore.

    Non avrebbe saputo dire da quanto tempo fosse lì, né da dove fosse arrivato. La percezione del suo recente passato, così come quella del suo stesso essere, era annebbiata e confusa.

    Non sentiva il freddo della sabbia umida, né il tepore del mare sui piedi nudi, né i pizzichi dei piccoli granchi che gli scalavano i piedi; non capiva dove finisse il suo corpo e dove iniziassero gli elementi esterni. Non aveva sensazioni, come se avesse avuto la stessa temperatura dell’aria che lo circondava, e della sabbia su cui stava seduto, e dell’acqua che a ritmo regolare gli bagnava i piedi.

    La sua mente, il suo cuore e la sua coscienza erano intorpiditi, e invano planate di gabbiani tese sulla sua testa gli gridavano di destarsi. Di tornare in sé. Di scuotersi, di sollevare la testa, guardare il mare, muovere le dita dei piedi, sentire freddo.

    Di provare vergogna.

    Di avere il coraggio di guardarsi le mani.

    La testa china, gli occhi chiusi. Per un attimo, un pensiero lo attraversò: forse non sono nemmeno qui; non c’è il mare appena oltre i miei alluci, e forse non è l’alba. E io non ho ucciso nessuno.

    Da lontano giungeva l’eco dei primi furgoni sulla strada, giungeva il profumo del pane che cuoceva nei forni: inconsapevole, la vita si risvegliava, come ogni giorno.

    Il suono torvo di una sirena lacerò l’alba e il suo torpore. Leonardo finalmente alzò la testa, si guardò le mani: macchie scure di sangue rappreso lo fissarono, come un verdetto. Il rumore della sirena si fece sempre più forte, sempre più vicino: Leonardo si girò verso quella chiara e assordante condanna senza appello.

    Stavano arrivando, erano lì per lui.

    PARTE PRIMA – PENSIERI

    Leonardo

    Quella mattina la sveglia non fece in tempo a suonare. Leonardo, che la sveglia solitamente scaraventava nel mondo direttamente da quello dei sogni, con fare lieve la spense.

    Fece per scivolare fuori dalle lenzuola, poi si fermò.

    Era il ventisei di aprile, compleanno di suo padre, ultimo dei riti perduti di Leonardo. Come ogni anno, sarebbe tornato a Genova per festeggiare: l’aperitivo in piazza, poi la cena a casa con la tavola preparata a festa, lo champagne, la torta alle mandorle. Quest’anno, compleanno rotondo, traguardo importante: Orfeo, suo padre, compiva ottant’anni.

    Questa sera Leonardo sarebbe tornato a casa, come ogni anno il ventisei di aprile: nelle stanze della sua infanzia, della sua giovinezza, in quell’appartamento dalla grande terrazza affacciata sul mare dove suo padre ancora viveva.

    Il compleanno di Orfeo.

    Nel passato remoto di Leonardo mille rituali imprescindibili avevano costellato le settimane, le stagioni, gli anni, dando ciclicità alla vita, permettendo di superarne ostacoli e brutture, agevolando la comprensione della morte, che del ciclo della vita era inevitabile compimento. Poi, la crescita personale, la carriera, il mutare dei tempi e dei luoghi avevano congiurato contro le vecchie abitudini, ripetitive e rassicuranti. Avevano cancellato quei caldi abbracci di una società materna, punti di riferimento dell’infanzia e rifugi sicuri nell’adolescenza inquieta: cari, piccoli riti di una società perduta.

    La Messa del mattino ogni domenica, con il vestito buono, il fazzoletto profumato, le scarpe tirate a lucido, le paste ben impacchettate prima di tornare a casa.

    La processione del Corpus Domini, e dell’Assunta a Ferragosto, e dell’Addolorata, e della Via Crucis.

    L’albero di Natale e il presepe dalle mille statuine, i Magi che si avvicinavano un po’ ogni giorno, e il Bambin Gesù che compariva alla mezzanotte esatta.

    Il pranzo al sacco di Pasquetta sulla spiaggia, e se era brutto la pasqualina si mangiava sulla terrazza di casa.

    Il cimitero il Giorno dei Morti, col suo odore di crisantemi e acqua marcia.

    I compleanni, con il vestito della domenica anche se domenica non era, le tovaglie più fini e l’argenteria, un pranzo da re e candeline in numero esatto.

    I compleanni: da anni ormai se ne celebrava solo uno, quello di suo padre. Ultimo dei riti perduti di Leonardo.

    ***

    Leonardo quella mattina del ventisei di aprile si girava e rigirava nel letto, chiedendosi come avesse potuto fare altro, in quei tempi, così ingombri di appuntamenti irrinunciabili. Eppure allora, inspiegabilmente, si aveva tempo di far tutto: senza calcolatrici, computer, fax, lavastoviglie e robot da cucina; pochi stimoli, poche passioni vere, amicizie coltivate.

    Lettere scritte.

    Leonardo, da quanto tempo non scrivi una lettera?

    Leonardo si girava piano sotto le coperte; ogni tanto guardava l’orologio, quasi fermo tra una riflessione e l’altra.

    Leonardo, è ora che ti alzi.

    Leonardo si girò e si appoggiò su un gomito, a guardare Sara.

    Le fessure delle tapparelle gettavano tratteggi di luce sul muro, sul letto, sui capelli scuri e freschi di Sara, sul suo viso nascosto e accaldato di sogni.

    I pensieri di Leonardo accarezzavano Sara, le volteggiavano intorno, la includevano e la escludevano allo stesso tempo. Sara così vicina, così lontana.

    Chi è Sara? Quanto conta veramente per me? Perché faccio l’avvocato? Perché ho lasciato il mare, e gli amici con cui passeggiavo a piedi nudi sotto la luna? Perché non ne ho mai provato nostalgia? Forse là la fanno ancora la processione, con la Madonna di gesso con il naso rifatto, caracollante nella portantina di velluto nero! La Madonna: Leonardo, quant’è che non dici una preghiera? E chi è Dio, oramai?

    Leonardo, è ora che ti alzi.

    Leonardo guardò ancora una volta la sveglia, cambiò posizione, respirò il respiro tranquillo e ignaro di Sara.

    I tratteggi di sole sulla parete si spostavano impercettibilmente con l’avanzare del giorno. Giorno ventisei di aprile, ultimo rito sopravvissuto al progresso: il compleanno di suo padre.

    Ogni anno, il ventisei di aprile, Leonardo saltava giù dal letto, sgusciava fuori dalla stanza buia, si infilava sotto la doccia, organizzava la giornata per liberarsi per l’ora di pranzo. Uno spuntino al volo, poi in centro a comprare il regalo, infine il muso della macchina puntato verso il mare.

    Quest’anno c’era qualcosa a intralciare i gesti consueti, tutti quei pensieri slegati che gli impedivano di dormire, che non lo lasciavano alzare. Pensieri che si affacciavano e sparivano, che chiedevano senza dar tempo di rispondere e come le stelle perdevano la loro nitidezza appena Leonardo tentava di fissarli. Pensieri esuli, nascosti alla sua coscienza; proibiti dalla sua nuova vita, banditi perché slegati dalla praticità del vivere, dalla concretezza del lavoro e quindi ritenuti sterili, puerili, inutili. Pericolosi.

    Pensieri liberi rimasti orfani, rinchiusi da anni in qualche lontano ostello dimenticato.

    Sara si rigirò nel letto con un respiro più profondo e si avviluppò nelle lenzuola tendendo le mani verso Leonardo. Le mani di Sara.

    ***

    Leonardo ripensò alle mani di sua madre. Pensò alle mani della Ida, la governante antica, in casa da sempre, che ancora oggi si prendeva cura di suo padre, l’avvocato vedovo e triste, l’avvocato assente. Mani di donne, cariche di lavori così diversi. Di valori così diversi.

    Ma era solo il tempo che aveva strappato i valori dalle mani di Sara?

    Le mani della Ida: Leonardo non le aveva mai viste ferme. Rotonde, piene e un poco lentigginose, si mettevano in moto la mattina sui bricchi, le tazze, il pane e la marmellata della colazione, e si fermavano la sera sull’ultimo grano del rosario. La Ida che spolvera, impasta, insapona e risciacqua, che stira e sprimaccia, che sforna la pasqualina più buona del mondo. Le mani della Ida che si aggiusta la crocchia, che rammenda le calze, che sfoglia fiabe per Leonardo ammalato. Le mani della Ida ora rinsecchite e vecchie di vene e artrosi ma mai abbandonate sul grembo.

    Leonardo rivide le mani eleganti di sua madre, fredde nel tocco, anche quand’era una carezza: non le aveva mai viste ferme. Sua madre che monda le verdure chiacchierando fitto con la Ida, che innaffia, e pota, e coglie i fiori del terrazzo, e li sistema con un calore per lei inconsueto nei vasi di cristallo. Sua madre che cuce, che sferruzza e ricama le cifre sui fazzoletti di suo padre, che mette a posto i quaderni di scuola, e controlla l’ordine della cartella. Mai ferme le mani di sua madre. Diverse da quelle della Ida, in altre faccende affaccendate, ma uguali a quelle della Ida: mai ferme.

    Le mani di Sara: è bella, Sara, è buona, è dolce, ma le sue mani toccano solo cibi surgelati, e il cellophane della lavanderia, e i fogli, e i documenti, e le fotografie, e gli story-board, e la tastiera sulla sua scrivania. Hanno valore le mani di Sara?

    Leonardo, alzati.

    ***

    Altra cosa era suo padre.

    Alto, magro, stempiato e un po’ curvo, più vecchio degli ottant’anni che oggi compiva, sembrava non provare più niente: di tutta l’energia di un tempo non era rimasta traccia.

    Con Leonardo poche parole, poche domande, laconiche risposte. Le loro telefonate erano sempre più uguali, più brevi, sempre più vuote.

    I loro incontri incredibilmente freddi. Leonardo lo trovava in poltrona, o seduto in terrazza; raramente a curare le sue piante, unica occupazione che sembrava tenerlo ancora vivo. Leonardo lo salutava, prendeva la sua mano ossuta, baciava le sue guance scavate. Nessuna emozione si trasmetteva a quei contatti, nessuno sguardo si intrecciava su quei gesti così usati e logori, così dovuti. Inutili.

    Leonardo sistemò il cuscino, si mise supino e intrecciò le mani dietro la nuca.

    Pensò a quel vecchio che era diventato suo padre: a ciò che era stato, alla sua determinazione, ai discorsi colti, alla passione per il lavoro; ripensò alla sua arroganza, alla sua perentorietà e alla sua alterigia: tutto sparito, consumato come una candela che estingue la fiamma senza lasciare che qualche moccolo di cera.

    A Leonardo quello spegnersi sembrava prematuro, pensava non avesse ancora l’età per perdere gli interessi e per chiudersi al mondo.

    Aveva perso la moglie, Leonardo si era trasferito a Milano, e Orfeo aveva chiuso lo studio: era rimasto solo. Tuttavia, avrebbe potuto finalmente coltivare le sue passioni: la giurisprudenza, gli studi teologici e le sue piante; c’era ancora la sua bella casa zeppa di libri e il mare fuori dalle finestre, al di là del terrazzo, a segnare una continuità tra passato, presente e futuro; e c’era sempre la Ida e la sua dedizione.

    Eppure.

    Eppure, era spento e triste, era vecchio anche se l’età non glielo avrebbe imposto. Sembrava rassegnato: di una rassegnazione senza pace.

    Leonardo non avrebbe saputo dire quando fosse iniziato il processo, quando suo padre avesse cominciato ad abbandonarsi al trascorrere del tempo, quando la sua vita fosse diventata un mero insieme di consuetudini mai scalfite da una quotidianità immobile.

    Sicuramente non c’era stato un singolo momento, un cambiamento improvviso, un interruttore che in qualche modo avesse spento la luce e introdotto il buio nella sua vita. Piuttosto, era stato un processo graduale e continuo, un progressivo atrofizzarsi del suo slancio vitale.

    La morte di Maria, sua moglie, e più ancora la chiusura dello studio, avevano senz’altro contribuito, avevano incrinato qualcosa, forse posto le basi per una successiva evoluzione. Ma tutto cominciò qualche tempo dopo, come se ad un certo punto della vedovanza l’avvocato avesse iniziato a fare i conti con qualcosa; forse con sé stesso. Come se avesse pian piano scoperto ammanchi di una vita, bilanci falsificati. Forse fallimenti.

    Forse pentimenti.

    Leonardo si chiese spesso cosa stesse succedendo a suo padre: cosa pensasse, come vivesse il ricordo di sua madre, se gli fosse difficile sopravviverle. Era duro da credere, visti i rapporti intercorsi tra loro per tutta una vita.

    Si chiese spesso cosa ne pensasse la Ida, se sapesse qualcosa, se loro due si fossero finalmente avvicinati un poco dopo tutti quegli anni, uniti magari dai segreti dell’età.

    Si chiese spesso tutto ciò, Leonardo, ma non ne parlò mai né con suo padre né con la Ida.

    Per riservatezza, per pudore. O

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