Gli Alienati
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Anteprima del libro
Gli Alienati - Laura Castellani
Contents
Title Page
Copyright
Il Normodotato
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La Sibilatrice
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Lo Zerbino
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Il Resiliente
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Gli Alienati
Laura Castellani
Copyright © 2023 Laura Castellani
Titolo originale | Gli Alienati
Autore | Laura Castellani
Immagine di copertina | Depositphotos.com
Copertina | Cddesign
Editing | Eadon Servizi Editoriali
Correzione, revisione finale| Libriamo – Sogni a Libri aperti
Progetto grafico interno | Libriamo – Sogni a Libri aperti
ISBN | 979-12-200-4495-0
© Tutti i diritti riservati all’Autore
Questo libro non potrà formare oggetto di scambio, commercio, prestito e rivendita e non potrà essere in alcun modo diffuso senza il previo consenso scritto dell’autore.
Qualsiasi distribuzione o fruizione non autorizzata costituisce violazione dei diritti dell’editore e dell’autore e sarà sanzionata civilmente e penalmente secondo quanto previsto dalla legge 633/1941.
Questo libro è un’opera di fantasia.
Ogni somiglianza a persone reali, vive o morte,
imprese commerciali, eventi e località
è puramente casuale.
Il Normodotato
1
Era stato definito normodotato. Come sinonimo di senza palle. Che poi i due termini ci azzeccavano tra loro come il fidanzamento tra il sole e la luna.
Sospirò seduto a quella scrivania piena di polvere. La signora delle pulizie svuotava solo il cestino. Non faceva neppure finta di passare lo straccio su quegli acari ormai così grassi. Avrebbe dovuto portare straccio e disinfettante, ma ogni mattina lo dimenticava.
Ultimamente dimenticava tutto, perso nell’organizzazione della sua realtà frenetica nel piattume giornaliero. S’imponeva di non pensare, di non riflettere sulla vita. Gli avevano detto che capire il perché di questa esistenza era un arrovellamento troppo difficile per il suo standard.
Mah, non sapeva neppure di essere uno standard.
Fissò lo schermo, i soliti file lo aspettavano. Sempre uguali a se stessi, solo con dati diversi. Dati che non interessavano a nessuno, burocrazia allo stato
puro e, soprattutto, di cui a lui non fregava un cazzo.
Bip!
La sua mente lo censurò. Non doveva iniziare a pensare. Lo avrebbe portato a desiderare di più, a volere qualcosa di diverso da tutto quel grigiore. Guardò fuori dalla finestra lurida. Ah sì, neppure quella puliva, la solita signora delle pulizie. Avrebbe dovuto armarsi di pulisci vetri, quando se lo fosse ricordato. Non era mai stato avaro, perfino la cucitrice verde pisello si era comprato perché non gli era stata data in dotazione.
Doveva andare a pisciare. Ogni ora doveva assolutamente muoversi da quella tortura d’inedia, doveva almeno manifestare qualche impulso da essere umano. Urinare era una scusa per compiere i passi dalla scrivania al bagno. Non era mai stato di vescica debole, ma andava regolarmente là per sgranchirsi le gambe. Non poteva fare sempre la spola alla macchinetta del caffè. Non era così masochista da regalarsi un’ulcera perforante.
Aveva studiato attentamente la macchinetta erogatrice. Per anni l’aveva fissata. L’omino arrivava, l’apriva, prendeva tutta l’acqua sporca che residuava, puliva l’erogatore con uno straccio lurido, che in origine doveva essere tra il giallo paglierino e il panna tendente al crema, caricava le varie indefinibili miscele, prelevava i soldi con un tintinnio di monete dorate e argentate, poi, con la stessa flemma e con lo stesso grande entusiasmo, passava all’erogatrice successiva riempiendola di tutte le schifezze possibili. Anche lui mangiava quelle cose, soprattutto quando aveva bisogno di zucchero. Gli sembrava meno cinereo quell’ambiente con lo zucchero in corpo. Più tendente al colore perlato.
Anche il bagno era grigio. Le mattonelle in alcuni punti erano scheggiate come se si fossero, anche loro, frantumate i coglioni di stare lì. In altri punti erano crepate, con le fessure luride. Si rese conto di pensare alla parola lurido
troppe volte in quella giornata.
L’ultimo libro che aveva letto sul pensiero positivo gli aveva proibito di vedere le cose materiali in negativo. Cercò di risintonizzare il pensiero, di cancellare quella parola tremenda.
Mentre teneva tra le mani l’uccello per spremergli qualche goccia d’urina, cercò di focalizzare l’attenzione su quella crepa costante negli anni come il Natale e l’Epifania. Era dritta, lunga, brutta e percorreva la mattonella con una forza dirompente.
Bene, il bagno non era grigio ma perlato, e quelle piastrelle non erano rotte ma belle nella loro differenza dall’originale perfetto.
Ma chi cazzo voleva prendere per il culo?
Tirò su la lampo, andò a lavarsi le mani e le strofinò con una delle poche salviettine superstiti all’onda dei colleghi.
Quei cazzoni tiravano giù un sacco di carta tutta insieme, tanto mica pagavano loro.
Quel giorno procedeva così: non gli andava bene nulla, anzi, ogni momento non gli andava bene nulla. Avanzava sul cammino della vita senza un perché in grado di saziare la fame che aveva dentro.
A proposito di fame. Si passò la mano sul ventre pingue, i rotoli c’erano, gli davano fastidio solo se ci pensava, altrimenti non lo preoccupavano affatto, tranne quando doveva comprarsi da vestire. E lì erano cazzi amari.
Alzò le spalle. Necessitava di un giro alla macchinetta. Ormai era ora di pausa. Era sempre ora di pausa per lui. Prese le scale e andò nel regno degli zuccheri e dei sali in eccesso. Salutò con un cenno due colleghe che starnazzavano bevendo qualcosa di caldo. Forse era caffè o cioccolata forte o al latte, ma che problemi si faceva? Non gliene fregava un cazzo, bastava solo che le due galline non lo investissero con i loro discorsi idioti sul nulla.
Gli argomenti erano sempre e solo quelli: cosa preparavano da mangiare, quanto rompevano i coglioni i figli, e quanto era pesante il marito che evidentemente non le scopava più.
Rabbrividì, ci voleva proprio coraggio a intingere il biscotto in quelle farlocche.
A proposito di biscotti, l’omino delle macchinette
dove cazzo aveva piazzato i Ringo? Non poteva sopravvivere senza la sua dose quotidiana. Non era contemplato.
Scrutò una a una le schifezze: salamini con i grissini mignon, arachidi salate che in un boccone le avrebbe fatte fuori subito, frolle che si sfaldavano prima di raggiungere le labbra, cracker talmente salati da dover bere subito e quindi ci sarebbe stato da spendere ulteriori soldi dalla fottuta macchinetta, caramelle gommose che rimanevano incardinate ai denti, tanto da dover ruminare tutta la mattina per riuscire a staccarle, gomme americane per recuperare un alito dignitoso e... infine, in basso, eccoli i biscotti che adorava. Peccato finissero sempre alla velocità di una scoreggia.
A proposito, non aveva ancora defecato quella mattina. Il dottore gli aveva detto che era necessario farlo tutti i giorni e lui si mangiava ogni mattina a colazione una tazza gigante di caffellatte con dentro quella specie di mangime per conigli integrale. Veniva un pastone orrido ma produceva delle gran cagate... Poi, aggiungendoci cinque o sei cucchiai di zucchero, rigorosamente di canna, era più mangiabile. Faceva sempre schifo, ma almeno era dolce.
Guardò l’orologio, ancora sei ore e ventidue minuti e qualche manciata di secondi per evadere da lì. Non era per nulla una prigione ma lui si sentiva in gabbia come se lo fosse stata. No, non poteva cominciare con le paranoie. Lo strizzacervelli gli aveva intimato di smetterla con le seghe mentali. Gli aveva concesso solo quelle fisiche, ma di quelle non se ne faceva tante. Era più gratificato dall’arrovellarsi sulle scemenze della vita, perché non voleva pensare alle cose importanti.
La differenza tra la vita, la morte e quell’infinitesimale tempo tra l’una e l’altro lo affascinava da sempre. Capire cosa succede tra l’esserci e non esserci più. L’avrebbe prima o poi scoperto solo morendo, ma gli sarebbe tanto piaciuto scoprirlo prima. Si ficcò tutti i biscotti in bocca, erano quattro non un granché.
Bene le galline vecchie erano sparite e avevano lasciato sgombra la macchinetta del desiderio. Cosa prendere di caldo? C’era anche il ginseng che un collega gli aveva detto fosse afrodisiaco.
Ripensò alla vecchia carampana che aveva a casa e optò per il solito tè che sapeva di acqua sporca. Forse gli avrebbe perforato lo stomaco, ma in quel momento se ne fotté. Anzi se ne fotteva tutti i giorni.
Perché gli veniva quel pensiero della gastrite sempre quando stava per tirar fuori il bicchiere di plastica bollente? Era perfino ustionante.
Ingollò tutto con la spietatezza di un cobra. Giù dalla gola, rovente, ma almeno sentiva qualcosa rispetto alla noia. Mortale, strisciante e nera.
Raggiunse con calma l’ufficio. Nessuno lo aveva
portato via. C’erano ancora la scrivania polverosa, il computer in stand-by, i vetri luridi e la poltrona scomoda.
Quante volte aveva chiesto una sedia che non gli spaccasse la schiena. Alla fine si era spaccato lui le balle a forza di chiedere. Si sedette, alzò le braccia e cominciò a digitare sulla tastiera impolverata come se non si fosse mai staccato. Agognava già la prossima pausa, esattamente cinquantasette minuti dall’apertura di quel file sempre uguale ma diverso.
Okay, l’ora di uscire stava per scattare. Era lì da due minuti e scalpitava per timbrare. Ora X giunta. Si precipitò sulla timbratrice e passò con furia il badge.
L’unica cosa che aveva fatto con velocità. Finalmente libero per i ventiquattro minuti che l’avrebbero portato a casa.
Deglutì sperando che le condizioni meteorologiche fossero favorevoli tanto da fare una passeggiata. Andava avanti e indietro, sempre a piedi, casa-lavoro, lavoro-casa. Ma che cazzo gliene fregava, al suo cervello, delle condizioni del tempo?
Si ricordò che in ufficio avrebbe potuto o sbirciare il cielo dai vetri luridi oppure aprire la finestra. Un po’ d’aria sarebbe stata salutare. Non ci aveva pensato. Quando era lì non pensava a nulla, tanto meno alla salute, o forse alzare le spalle e fregarsene dell’acidità del caffè era indice di preoccuparsi del benessere?
In quel cazzo di lavoro ogni tanto facevano qualche riunione sul benessere: ma cosa gliene fotteva? Lui, considerato uguale a un’ameba, non ci andava neppure. Avrebbe dovuto annuire a tutte le cazzate che diceva il relatore di turno. Un marchettaro come tanti altri, probabilmente nemmeno credeva a tutte le boiate che sparava. Dentro di loro non erano quello che dicevano, ne era certo, perché l’importante era prendere i soldi e andarsene a puttane.
Ecco, lui a puttane ci sarebbe anche andato, solo che non aveva i soldi. Li gestiva la donna che aveva sposato e lui doveva trombarla almeno una volta al mese per tenerla calma. Non l’amava, non l’aveva mai amata. Era una tipa ovvia che si era accontentata di lui, un tipo banale.
Camminò sul marciapiede, sempre quello a destra, che l’altro a sinistra gli faceva venire l’orticaria. Non sapeva bene il perché, ma la prima volta che aveva messo piede in strada per casa-lavoro, lavoro-casa, aveva preso quello a destra e ora lo angosciava camminare sul lato opposto.
Era troppo brutto e minaccioso.
Almeno sembrava.
Era quasi buio, doveva stare attento a non beccare qualche buca. Magari l’unica che c’era. Un passo per volta, massima attenzione. Non poteva distrarsi. Un passo, un passo, un passo fino a casa. Che ci fossero le striature rosa in cielo? Nessuna distrazione. Un passo, un passo, un passo.
2
Era sabato. Aveva dormito fino alle sei e si sentiva riposato. Si stiracchiò, dormire due ore in più rispetto al solito lo aveva reso maggiormente disposto a guardare il cielo e non aspettarsi il solito grigio.