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Le ceneri della vita
Le ceneri della vita
Le ceneri della vita
E-book174 pagine2 ore

Le ceneri della vita

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Info su questo ebook

Giacomo è, in apparenza, un ragazzo qualunque. Un problema comportamentale lo rende, però, diverso dagli altri: non riesce a relazionarsi con nessuna ragazza. La soluzione a questo problema si cela nella sua nuova città, dove andrà a vivere. Qui inizierà un percorso di autoguarigione, che lo porterà a riscoprire il proprio passato e ad affrontare il presente da terremotato.
LinguaItaliano
Data di uscita2 feb 2022
ISBN9788833469447
Le ceneri della vita

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    Anteprima del libro

    Le ceneri della vita - Andrea Cangiotti

    Capitolo primo

    Le tre città

    La parola fine non è solo sinonimo di morte, ma anche di nuovo inizio.

    Giacomo lo sapeva bene e la chiave che aveva in mano glielo ricordò. La luce della luna aveva bussato alla finestra. Il ragazzo la fece entrare per affievolire dei ricordi dolorosi, ancora vividi nella sua mente, offuscata da una notte insonne: l’ennesimo incubo lo aveva fatto sobbalzare, rendendo le ombre prodotte dai lampioni vibranti come fossero dei piccoli mostri.

    Ma il tempo aveva giocato a suo favore perché, se ogni tanto la memoria ruggiva nel buio, la speranza lo aveva proiettato verso una dimensione di redenzione. I suoi silenzi mattutini e i nervi tesi erano rimasti inalterati. Il bambino che, in lui, ancora si divertiva a giocare con il tempo lo riportò indietro con la mente al giorno in cui il suo percorso di cura ebbe inizio.

    Quella mattina il sole s’infilò timidamente fra gli alberi, riflettendo una luce opaca e trasformando l’altura in un immenso mantello color oro. Tale trasmutazione del paesaggio e delle sue tonalità aveva da poco svegliato Giacomo che, a piccoli passi, si apprestava a raggiungere la sala da pranzo, dove i genitori lo stavano aspettando. Di prima mattina non brillava né di spirito audace né di spiccata loquacità, anche se la sua particolare condizione gli imponeva un atteggiamento contrario: cercare di confidare alla famiglia ogni più intimo pensiero o profondo segreto, custodito fra le braccia della timidezza. E proprio in questa peculiare caratteristica risiedeva il problema, secondo lo psichiatra che lo aveva in cura. La sua, infatti, non era propriamente timidezza, ma era stata qualificata dallo stesso specialista come un disturbo dell’apprendimento.

    Il ragazzo non aveva ancora raggiunto la maggiore età, anche se questa era ormai alle porte. I diciotto anni sarebbero arrivati il sei gennaio venturo e, visto che Natale era alle porte, mancava davvero poco tempo. E una vera diagnosi del suo disturbo non poteva essere fatta definitivamente prima che Giacomo uscisse dalla critica fase adolescenziale. Difatti, le mancanze e le difficoltà nello studio potevano anche dipendere dal semplice fatto che Giacomo era, ancora, in fase di maturazione psicologica. Quindi qualche défaillance era, per così dire, semplicemente prodromica alla fase evolutiva della sua personalità. Lo psichiatra aveva consigliato una terapia familiare consistente nel dedicare un’ora delle prime ore mattutine a un dialogo con Giacomo. Un colloquio incentrato su spontaneità e fiducia in se stessi. Nessuno avrebbe dovuto costringere il ragazzo a parlare controvoglia o a suggestionarlo. Assieme a questo tipo di supporto, lo psichiatra aveva anche consigliato l’assunzione giornaliera di psicofarmaci che alleviassero ansia e tremori improvvisi. Qualche dubbio in merito alla malattia diagnosticata era venuto ai due genitori, entrambi infermieri, soprattutto alla madre, una signora dai lineamenti morbidi, con folti capelli mossi e rossi e uno sguardo dolce e incerto. Era di bassa statura, ma la sua innata capacità di camminare su tacchi alti la rendeva più slanciata e sicura di sé.

    Aveva notato che suo figlio aveva tremori quando nelle vicinanze c’era una ragazza, magari intenta a scrutare proprio la sua fisicità. In effetti, se l’incertezza di Giacomo aveva chiare origini materne, la sua bellezza derivava, invece, da geni paterni. Suo padre era un omone alto, ben piazzato, con braccia e gambe esili, ma robuste; di certo non poteva passare inosservato quando, d’urgenza, si affannava nei corridoi asettici dell’ospedale.

    Aveva però un difetto: si ritrovava spesso a fare ragionamenti dozzinali e maldestri. Era ancora vivido nella memoria di Chiara, la madre di Giacomo, quanto fosse accaduto in uno dei colloqui di scuola di loro figlio. Mauro, il padre, non sopportava queste chiacchierate con i professori.

    Quel pomeriggio, Chiara era uscita dal lavoro in anticipo perché Giacomo aveva riferito, con tono funereo, che i colloqui delle scuole medie si sarebbero tenuti un’ora prima. Una volta salita in macchina, fece squillare ripetute volte il telefono di suo marito che però non rispose.

    Riprovò e, dopo due squilli, finalmente giunse alle sue orecchie la voce squillante di Mauro: «Dimmi, cara. Ero a sbrigare alcune faccende.»

    «Quali faccende?»

    «Dovevo recuperare le mie divise nuove.»

    «Oggi il colloquio con i professori di Giacomo si terrà alle 13:00 e non alle 14:00!» incalzò la moglie.

    Nessuna risposta venne dall’altro capo del telefono.

    «Ehi, ci sei?»

    «S… sì!» tentennò Mauro, «Ma devo proprio venire?»

    «Certo che devi, è tuo figlio!»

    «Arrivo», concluse il marito con tono di rassegnazione.

    La scuola non si trovava distante dall’ospedale e, entrandovi, si aveva la sensazione che quel posto non fosse così diverso dal luogo di lavoro dei genitori di Giacomo.

    I corridoi erano completamente bianchi. Sul soffitto, una muratura color latte da poco ripitturata accecava quasi la vista a causa della luce fredda che scorreva lungo le travi che sostenevano il tetto. Il pavimento, invece, era formato da mattonelle di due diverse tonalità di bianco: una più chiara e una più scura, dovuta alle impronte delle scarpe che vi passavano sopra. Quel primo pomeriggio c’erano parecchie impronte.

    Questa circostanza non infondeva ottimismo nel cuore di Mauro: ad ogni passo, sentiva avvicinarsi un brusio. Erano le voci dei tanti genitori in fila, in attesa del proprio turno.

    «Andiamo dalla professoressa di storia, ci sono solo tre signori ad attendere», disse Chiara prendendo Mauro per un braccio e trascinandolo di forza, come se in quel punto una calamita tenesse suo marito inchiodato a terra.

    «Su, avanti!» la donna era impaziente di parlare con uno dei docenti di Giacomo. Quando arrivarono davanti alla porta, Mauro si sedette su una sedia. Chiara, invece, si appoggiò al muro, colpendolo con il tacco a spillo della sua décolleté. Per lei era solo un modo di scaricare la tensione, ma la bidella la invitò a smettere: «Così macchia il muro, signora!»

    «Oh, chiedo scusa.»

    Finalmente, dopo circa trenta minuti di attesa, arrivò il loro turno. Quando entrarono, la professoressa li accolse con un sorriso, anche se non era chiaro quanta reale gentilezza ci fosse in quel gesto. Quando iniziò a parlare, capirono che la loro perplessità era del tutto fondata: «Dunque, voi siete i genitori di Giacomo, vero?»

    «Sì», esclamarono entrambi all’unisono.

    «Qui abbiamo…» e si interruppe, scorrendo con il dito fino al punto che stava cercando. «Allora, Giacomo ha avuto due interrogazioni in questo primo semestre», proclamò la professoressa, fissando intensamente gli occhi della madre, «nella prima interrogazione ha preso cinque, mentre nella seconda ci ha stupiti con un bel sei e mezzo.»

    «Ok, allora diremo a nostro figlio di impegnarsi di più le prossime volte», affermò rapido Mauro, come a voler chiudere in fretta questa conversazione a stento cominciata.

    «Ma, mi scusi, professoressa», esclamò Chiara, facendo finta di non aver sentito la frase appena proferita dal marito, «come mai questa differenza di voto fra la prima e la seconda interrogazione?»

    «Beh, nella prima venne interrogato assieme ad Elena, la sua compagna di banco. Nella seconda, invece, ha ripetuto sinteticamente la prima guerra mondiale assieme a Vittorio.»

    «Capisco cosa vuole dire», concluse Chiara rattristita.

    «Ma secondo lei», prese d’un tratto la parola Mauro, «è normale quello che dice? Sarà mica colpa del genere femminile! Mia moglie è donna tanto quanto questa Elena, ma Giacomo non ha atteggiamenti diffidenti verso di lei. Piuttosto tenga d’occhio la sua alunna, si venisse mai a sapere che questa ragazzina infastidisce nostro figlio, facendogli dimenticare le cose studiate!»

    Chiara fece un’espressione imbarazzata, mentre l’esile professoressa si infastidì. Anche il suo tono di voce sembrò farsi tagliente, quando ribatté al padre di Giacomo: «Ma cosa va dicendo? Elena è una delle ragazze più calme della mia classe. Quello che lei sostiene è pura utopia!»

    Inutile dire che, di lì a poco, Chiara si vide costretta a trascinare via il marito per evitare di peggiorare la situazione.

    «Come ti è venuto in mente di dire quella cosa?»

    «Era per difendere te e Giacomo. Sembrava stesse accusando nostro figlio di nutrire odio verso le ragazze e verso di te, che sei la sua mamma.»

    «Ma amore, non stava dicendo quello. Cercava solo di dire che Giacomo si sente a disagio ad essere interrogato in coppia con una sua compagna. Tutto qua!»

    «E allora, se pensa ciò, perché non lo interroga sempre con un maschio?»

    Anche Mauro, però, non aveva tutti i torti.

    «Quello che a noi interessa è capire perché Giacomo reagisce così in presenza di una qualsiasi ragazza, ok?»

    «Certo, certo, lo so!» rispose il marito, senza aggiungere altro.

    Questo quesito non aveva ancora trovato soluzione. O meglio, la risposta che entrambi avevano avuto proveniva dalle teorie dello psichiatra di famiglia. Costui aveva deciso di seguirli anche dopo il loro ultimo trasloco, il terzo da quando Giacomo era nato.

    Fin da piccolo, egli aveva dimostrato grande sensibilità e voglia di scoprire il mondo che lo circondava. Amava fare lunghe passeggiate, anche se questa sua passione si perse un po’ andando ad abitare in città fino all’età di dieci anni. Ovviamente, vista la sua acerba età, era spesso a passeggio mano nella mano con la madre o il padre. Qualche volta, però, uscendo dalla scuola elementare, allungava apposta il percorso fino casa per godersi l’aria limpida che, dopo tante ore trascorse in aula, gli mancava come a un marinaio in pensione manca il suo veliero.

    L’unico problema era che in città c’era molto traffico. In più, le automobili dovevano affrontare ripide salite e pericolose discese. Per cui Giacomo non si fidava troppo ad attraversare le vie principali; cercava piuttosto di scoprirne altre, che fossero più tranquille. Il viale che conduceva a casa sua era in pianura e semi deserto. Lo percorreva tutti i giorni, lasciandosi trasportare dal canto degli uccellini o dal gracchiare delle rane che saltellavano in un laghetto lì vicino. A parte questo momento piacevole, ne ricordava pochi altri in cui era riuscito a godersi il verde che padroneggiava ovunque.

    La seconda città in cui andò a vivere per circa sette anni e mezzo era caotica. Qui frequentò scuole medie e superiori. Arrivato a metà del primo semestre del suo quarto anno di liceo scientifico, andava malissimo in tutte le materie. I genitori decisero di fare un altro trasloco, proprio perché Giacomo in quel luogo non si sentiva a suo agio. Il ragazzo dava spesso la colpa al modo di parlare dei professori, tanto che Giacomo la ribattezzò la Città delle chiacchiere.

    Chissà che suo padre non sviluppò qui la sua spiccata avversione per i colloqui scolastici. In questo luogo remoto il problema non consisteva nelle salite anguste o nelle rischiose discese, ma nella gente che vi risiedeva. Per qualche misteriosa ragione, sembravano tutti affetti da un morbo contagioso che procurava strane compulsioni verbali; infatti, erano proprio queste ad inquietare il ragazzo: le parole. Ma non tanto per il loro significato, quanto nel modo e nei tempi in cui venivano snocciolate tutte d’un fiato dagli abitanti. Era incredibile come le persone riuscissero a parlare in modo sbrigativo, senza troppo pensare a cosa stessero dicendo. Altrimenti, dovevano per forza avere un segreto per riuscire a dire concetti tanto ragionati senza nemmeno rifletterci a lungo. Spesso si parlavano sopra l’un l’altro, fino a creare solamente un lieve borbottio senza più alcuna distinzione fra una parola e l’altra. Giacomo si stupiva, ogni volta, nel notare quante parole riuscissero in un minuto a incastrare in una frase. Prendere fiato, a simboleggiare una virgola come segno grafico, era sacrilego per la maggior parte di loro. Il ragazzo non poteva competere con simili individui. Tutte le volte che tentava di inserirsi all’interno di un discorso, i suoi buoni propositi venivano risucchiati da questo vortice di parole che non trovavano mai una fine. Era come cercare di ascoltare una conversazione registrata, ma volutamente accelerata con un apparecchio elettronico. L’unico uomo della città, immacolato in tutti i sensi, che parlava senza fretta era il prete della chiesa.

    Le sue liturgie erano melodiche e ogni parola sembrava prendere vita dai suoi occhi per, poi, uscire dalle sue anziane labbra. Giacomo a ogni buona occasione si dirigeva nella piccola chiesa,

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