Il fiume è il confine
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Thriller - romanzo breve (57 pagine) - L’Orinoco è il confine. Tra Venezuela e Colombia. Tra i Serrano e i Menendez. Tra il suo passato e il suo futuro.
Puerto Ayacucho, Venezuela, 2014. Rebecca collabora con una ONG che gestisce un piccolo presidio medico/chirurgico. Ma non è una volontaria. Il suo passato cela segreti, questo è evidente a Ismael, il direttore sanitario della ONG, che l’ha conosciuta sei mesi prima, in Nicaragua. La determinazione di Rebecca, i suoi metodi – talvolta discutibili – volti a fornire un supporto più concreto alla ONG, la pistola che spesso porta con sé, la sicurezza con cui tratta con don Felipe, un boss locale… Sono indizi piuttosto inequivocabili di una personalità forgiata nell’esperienza, aspetti che però Ismael pare preferisca non approfondire troppo. Purtroppo, i conti aperti di Rebecca si ripresentano, trascinandola come conseguenza nel letale antagonismo tra il clan Serrano e il clan dei Menendez per il controllo di quel tratto dell’Orinoco, il confine d’acqua tra Venezuela e Colombia. E non solo…
Nata e cresciuta a Roma, trapiantata in Romagna nel 2012, Elena Di Fazio lavora come freelance in campo editoriale dal 2007. Dal 2004 in poi ha scritto e pubblicato racconti di fantascienza su antologie e webzine di settore. Nel 2017 ha vinto il Premio Odissea col romanzo Ucronia (Delos Digital), vincitore anche del Premio Italia l’anno successivo. Nel 2020 ha vinto il premio Urania Mondadori col romanzo Resurrezione. Insieme a Giulia Abbate cura la collana Futuro presente di Delos Digital, dedicata alla fantascienza sociale, e la collana di saggistica Guida al fantasy.
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Anteprima del libro
Il fiume è il confine - Elena di Fazio
1
Stato di Amazonas, Venezuela, 2014
L’avevano svegliata i colpi secchi sulla porta del suo alloggio.
Rebecca si ritrovò fuori dal letto con lo zaino in mano, ansante, gli occhi sgranati e il cuore che martellava in petto. Impiegò un po’ a mettere a fuoco le pareti di legno, il giaciglio disfatto, gli abiti ammucchiati qua e là nella stanza. Poi abbassò lo sguardo sulle proprie dita, immerse nello zaino e già strette sul freddo metallo della sua Taurus CIA 650.
L’odore della pioggia la stava riportando al presente: Venezuela, Puerto Ayacucho, Amazzonia.
Non è Kabul, si ripeté fino a riprendere il controllo.
Altri colpi alla porta.
Rebecca vide l’ora sulla sveglia: le otto meno dieci. All’ansia subentrò l’irritazione. Mise via zaino e revolver. – Chi è? – sbottò in spagnolo spalancando l’uscio. Si ritrovò davanti i capelli biondi e il volto sbarbato di Ismael Nord, chirurgo e direttore sanitario nell’ospedale per cui Rebecca lavorava da sei mesi.
– Che c’è? – gli disse, brusca. – Avevamo appuntamento alle nove.
– Esatto – fece Ismael, lo sguardo severo. – Volevo assicurarmi che ti svegliassi in tempo. – E mimò il gesto di tracannare alcol da una bottiglia.
Rebecca represse un moto di stizza. Era rientrata a tarda notte dopo una serata fuori al bar di Nelson, sulla provinciale che portava in centro città. Gli alloggi dei dipendenti si trovavano nello spiazzo dietro l’ospedale, una struttura di minuscole camere singole attaccate le une alle altre. Quella di Ismael stava tre battenti più in là: forse Rebecca aveva fatto un pelo più rumore del dovuto mentre barcollava alla ricerca della propria. – Senti, ci vediamo fra un’ora nel parcheggio. Delle jeep si occupa Roberto, mi faccio dare le chiavi da lui. – Senza sorridere rientrò in camera e si chiuse la porta alle spalle.
Adesso sì che li sentiva, i postumi della sbornia. Mal di testa, bocca asciutta, un filo di nausea. Doveva aver sudato parecchio nel sonno, perché la maglietta era zuppa.
Andò a farsi la doccia nei bagni comuni, dove incrociò due chirurghe dell’ospedale che si preparavano per il turno. Portavano la t-shirt nera dei medici della Right to Healthcare, la ONLUS neozelandese che aveva tirato su l’ospedale riciclando un vecchio edificio scolastico in disuso. Erano entrambe facce nuove, arrivate con l’ultimo gruppo di reclute da Wellington. Mentre si asciugava nello spogliatoio, Rebecca scorse una delle due donne che le lanciava occhiate di sottecchi. Dovevano essere i suoi tatuaggi a incuriosirla, soprattutto il grosso colibrì colorato che spiccava sulla spalla destra e che attirava spesso gli sguardi delle persone.
Rebecca finì di frizionarsi con l’asciugamano e si spazzolò i capelli lunghi e scuri. Indossò anche lei la t-shirt della Right to Healthcare, nella versione bianca del personale amministrativo. Infilò i risvolti dei pantaloni cargo dentro un paio di scarponi, poco adatti al clima tropicale, ma indispensabili ora che la stagione umida trasformava i sentieri in torrenti di fango. Che a Puerto Ayacucho ci fosse anche una stagione secca iniziava a sembrarle più che altro una leggenda: da quando Rebecca era in Venezuela non aveva visto altro che pioggia.
Fuori dai bagni il cielo era tornato azzurro e le nubi del temporale notturno si erano ammassate a nord-est, verso il delta dell’Orinoco. L’umidità formava una costante patina appiccicosa sulla pelle e sotto i vestiti. Soffiava un vento leggerissimo che accarezzava la vegetazione tropicale, gli arbusti sempre più alti e fitti man mano che si scendeva verso l’argine del fiume.
Rebecca si presentò al parcheggio alle nove e un quarto per ripicca. Trovò Ismael poggiato a una jeep, le braccia conserte sulla t-shirt nera e un mezzo broncio che la fece ridere sotto i baffi. L’uomo fece per dire qualcosa, poi sospirò e si infilò in macchina dal lato del passeggero.
Rebecca prese posto al volante e mise in moto il veicolo. Il display segnalava carburante in esaurimento. – Roberto, accidenti a te – brontolò, uscendo dal parcheggio a retromarcia. – Gli avrò detto mille volte di controllare che le auto abbiano sempre il pieno. – Le jeep servivano al personale medico e infermieristico per portare assistenza dove non si poteva fare altrimenti, incluse le aree impervie in prossimità della foresta amazzonica. Spesso Rebecca aveva organizzato spedizioni nel delta dell’Orinoco, dove le popolazioni native erano flagellate dalle malattie che i cercatori d’oro e altri intrusi continuavano criminalmente a diffondere. Quel giorno l’obiettivo era tutt’altro: avevano appuntamento con don Felipe Serrano, uno dei pezzi grossi di Puerto Ayacucho, per una generosa donazione di mascherine e guanti sterili all’ospedale.
Rebecca imboccò la Troncal 12 in direzione sud verso il Cazar, night club di proprietà del clan Serrano.
– Non mi piace che gente come quella ci faccia dei regali – disse Ismael, ancora corrucciato.
Dunque era questo a disturbarlo. Non ne fu sorpresa: in fondo era un rampollo di buona famiglia, con una moralità meno flessibile della sua.
Si erano conosciuti l’anno prima in un villaggio sperduto tra le montagne del Nicaragua. Ismael lavorava presso un piccolo ambulatorio della Right to Healthcare a cui Rebecca forniva aiuto logistico di tanto in tanto. Quando l’uomo era stato trasferito in Venezuela, l’aveva convinta a seguirlo per un impiego a tutto tondo. A persuaderla erano stati anche i kalashnikov di una gang nicaraguense con cui Rebecca si era messa nei guai, ma preferiva tralasciare quella parte della storia. Si sentì tuttavia piccata dalla ramanzina: – Siamo quasi a secco e la Right to Healthcare tarda a mandare rifornimenti. Preferisci starnutire virus nella pancia aperta della gente?
– No, ma continua a non piacermi.
– Primo, mi hai chiesto