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La Nuova Via Della Seta: Il mondo che cambia e il ruolo dell'Italia nella Belt&Road Initiative
La Nuova Via Della Seta: Il mondo che cambia e il ruolo dell'Italia nella Belt&Road Initiative
La Nuova Via Della Seta: Il mondo che cambia e il ruolo dell'Italia nella Belt&Road Initiative
E-book344 pagine5 ore

La Nuova Via Della Seta: Il mondo che cambia e il ruolo dell'Italia nella Belt&Road Initiative

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Info su questo ebook

A questa "riscoperta-invenzione", che ha preso il nome di Belt and Road Initiative, fa da sfondo una storia millenaria. Sono duemila gli anni che ci separano dall'apertura di quella che conosciamo come la Via della seta e che oggi i più recenti eventi politici internazionali ci costringono di fatto a riprendere e ristudiare. L'Italia rappresenta nel Mediterraneo un partner ideale per la Nuova via della seta, beneficiando dal punto di vista geografico di una posizione strategica, ideale tanto per la distribuzione di merci asiatiche quanto per l'invio di prodotti europei destinati al resto del mondo.
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita29 nov 2019
ISBN9788832176926
La Nuova Via Della Seta: Il mondo che cambia e il ruolo dell'Italia nella Belt&Road Initiative

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    Anteprima del libro

    La Nuova Via Della Seta - Diego Angelo Bertozzi

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    Un presente dalla storia millenaria

    Una storia antica, tra commerci, scambi culturali e sicurezza

    L’espressione Via della seta è stata coniata nel 1877 dal barone Ferdinand von Richthofen, uno studioso e viaggiatore tedesco che fu tra i protagonisti delle tante e controverse missioni straniere impegnate nella riscoperta dei tesori artistici e architettonici lungo le direttrici commerciali che collegavano l’Asia centrale alla Cina occidentale. Controverse perché queste spedizioni (alle quali sono collegate anche romanzesche storie di spionaggio) di fatto approfittavano del progressivo decadere del potere imperiale cinese, dell’erosione della sua capacità di controllo del territorio sotto i colpi delle mire espansioniste (e tra loro concorrenziali) del cartello che univa le maggiori potenze mondiali. Tanto che, parallelamente alla corsa alla concessioni, si era sviluppata una vera e propria gara internazionale per l’accaparramento di un patrimonio artistico inesauribile, che vedeva impegnate spedizioni britanniche, tedesche, russe, francesi, giapponesi e statunitensi, le cui scoperte arricchirono oltre una trentina di musei e istituzioni culturali a Parigi, Londra, Berlino, Nuova Delhi e persino in Kansas. Un prelievo culturale che i cinesi, sempre più insofferenti alle umiliazioni patite dal proprio Paese e impegnati in un difficoltoso processo di liberazione nazionale, sopportavano sempre meno e non certo a torto come ebbe a sottolineare l’orientalista britannico Arthur Waley: «Credo che il modo migliore per comprendere i loro sentimenti sia immaginare quello che proveremmo noi se un archeologo cinese venisse in Inghilterra, scoprisse un nascondiglio di manoscritti medioevali in un monastero in rovina, corrompesse il guardiano e se li portasse a Pechino» [Hopkirk P., 2016, pag. 220].

    A questa riscoperta-invenzione recente, che ha preso il nome di Belt and Road Initiative, fa da sfondo una storia millenaria. Sono duemila, infatti, gli anni che ci separano dall’apertura di quella che conosciamo come la Via della seta e che oggi i più recenti eventi politici internazionali ci costringono di fatto a riprendere e ristudiare, anche solo per la necessità di stare al passo con una discussione che esce dalle aule accademiche per farsi sempre più pubblica, persino popolare. È fuori di dubbio che oggi questa definizione sia inestricabilmente legata a quella dell’ascesa della potenza cinese e alla rinnovata idea di un flusso commerciale (e non solo) che colleghi sempre più l’est con l’ovest del continente euroasiatico, se non il mondo intero.

    Rinnovata, appunto, perché questo flusso non è nuovo e nel passato ha interessato popoli diversi, imperi e regni molti dei quali neppure ricordiamo più. Se l’impero persiano resta per noi familiare (anche nella ricostruzione interessata di una atavica contrapposizione tra occidente civile e oriente barbarico e decadente), altre realtà storiche arricchiscono quasi esclusivamente solo il patrimonio intellettuale di accademici e studiosi: che dire infatti della Battriana? O dell’impero dei Kushana che dalla metà del I secolo alla metà del III secolo d.C. controllavano le principali vie commerciali – dovettero imparare a leggere e scrivere in diverse lingue e accogliere diverse tradizioni religiose – lungo le quali il buddhismo si diffuse in Cina e in altri paesi asiatici proprio attraverso la Via della seta? Poco o nulla sebbene si parli di realtà territoriali molto estese (quello dei Kushana si allungava dall’attuale Tagikistan fino alla valle del Gange) la cui intermediazione culturale mise in contatto il Mediterraneo con il Celeste impero cinese. Popoli e regioni che – racconta Peter Frankopan nella sua poderosa ricostruzione storica – sono state «cancellate, soffocate dalla martellante narrazione dell’ascesa dell’Europa» [Frankopan P., 2017, pag. 6].

    A dispetto dell’ormai nota definizione, non si trattava di una via o di una strada, ma di una vasta rete di itinerari che dal cuore della Cina, attraverso l’Asia, giungevano alle coste mediterranee del Medio Oriente e lungo i quali non veniva commerciato solo il prezioso tessuto, ma anche carta, spezie, ceramiche e cobalto iraniano, e transitavano, costruendo le fondamenta di templi, statue e infrastrutture, le culture filosofiche e religiose. E con esse diplomatici, monaci ed esploratori che veicolavano valori, idee politiche, tecnologie. Era il tempo nel quale l’Occidente, tanto abituato a presentarsi come il centro e il motore della storia, era nascosto dall’ombra dell’Asia e del maggiore centro del consumo mondiale: la Cina.

    Così a quella dell’occidentale padre della Via della seta, il barone von Richthofen, va obbligatoriamente aggiunta la ben più corposa e densa di conseguenze storia del padre orientale. Nel 138 a.C. Zhang Qian fu inviato dalla dinastia Han in missione segreta in quelle che allora erano ritenute le misteriose regioni dell’ovest. Fallì, ma portò in dono alla Cina, come determinante conseguenza, la scoperta dell’Europa: fu lui «ad aprire la pista occidentale verso l’Europa, quella che avrebbe in seguito collegato le due superpotenze dell’epoca: la Cina imperiale e la Roma imperiale. Ed è lui che si può a buon diritto considerare il padre della Via della seta». Catturato e tenuto prigioniero per un decennio alla corte dei sovrani Xiongnu – la principale preoccupazione alle frontiere per la dinastia cinese – rientrò nella capitale Chang’an con un ricco patrimonio di descrizioni politiche, militari e geografiche su regni e città prima sconosciute e di notizie sulle merci che transitavano. Era la scoperta oltre la mitologia dell’esistenza di un flusso commerciale che già interessava – sebbene all’insaputa della corte – la Cina stessa con i suoi tessuti. Vie che da quel momento in avanti dovevano essere protette per garantire l’approvvigionamento di merci dell’ovest e aprire relazioni commerciali con l’Occidente, ma anche per dare sicurezza all’impero e alimentare rapporti diplomatici con i popoli confinanti: il prolungamento del sistema difensivo – oggi conosciuto come Grande Muraglia – in direzione nordovest fino alla Porta di Giada, il rafforzamento del corridoio di Hexi (una striscia di terra che attraverso Tibet e deserti della Mongolia collegava l’impero alle regioni occidentali), la presenza di guarnigioni e l’insediamento di soldati-contadini da un lato rispondevano a esigenze di sicurezza politico-militari, dall’altro resero più tranquillo il passaggio dei mercati (e dei loro cammelli) con le loro sete, i vetri romani, le spezie (chiodi di garofano, noce moscata, zenzero, cannella, cardamomo) le pietre preziose e le porcellane.

    Oggi quando fondazioni e studiosi descrivono il rinnovato progetto di Via della seta, legano il suo precedente proprio alla dinastia Han e, con gli occhi rivolti al presente, descrivono un primo esempio di globalizzazione. Così, a titolo d’esempio, si esprime uno studio dello statunitense Council of Foreign Office: «L’originale Via della seta nacque durante l’espansione verso ovest della dinastia cinese Han (206 a.C.-220 d.C.), che forgiò le reti commerciali in tutti gli attuali Paesi dell’Asia centrale quali Kirghizistan, Tagikistan, Kazakistan, Uzbekistan, Turkmenistan e Afghanistan, così come il moderno Pakistan e l’India a sud. Quelle rotte alla fine si estendevano per oltre quattromila miglia verso l’Europa. L’Asia centrale fu quindi l’epicentro di una delle prime ondate della globalizzazione, che collegava i mercati orientali e occidentali, stimolando immense ricchezze e mescolando tradizioni culturali e religiose» [McBride J., 2015].

    L’importanza strategica della regione che oggi conosciamo come Xinjiang – sia per la sicurezza e l’integrità territoriale cinese che per la sua proiezione estera lungo i corridoi continentali – ha qui la sua origine. In quanto cuore dell’Eurasia, questa nuova regione entrata con la dinastia Han nel territorio e nella storia della Cina imperiale, pur ai margini dei grandi imperi, divenne «uno degli snodi principali del commercio transcontinentale, recipiente ideale per le differenti visioni del mondo provenienti dai quattro angoli dell’enorme massa euroasiatica» [Rippa A., 2015, pag. 78].

    Commercio, politica e sicurezza stabilirono, quindi, fin da subito un inestricabile legame. La seta stessa aveva una preziosità che andava oltre il valore commerciale per diventare politico-diplomatico, perché il suo commercio serviva per procurarsi cavalli utili per difendersi con maggiore mobilità sul terreno dai veloci eserciti delle confederazioni nomadi e per suggellare, sotto forma di dono, accordi diplomatici con i capi delle stesse. Tanto preziosa la seta da essere anche una forma di valuta, perché arrivava alle guarnigioni cinesi di confine come pagamento per i soldati che, a loro volta, la scambiavano con i commercianti per acquistare beni essenziali per il mantenimento [Chanda N., 2015]. Preziosa come la pace, a dimostrare che quella antica rete di infrastrutture non aveva solo il compito di favorire gli scambi commerciali, ma anche una funzione diplomatica e di sicurezza.

    Ma tra le eredità che essa lascia, ce n’è un’altra che storicamente l’ha identificata oltre i prodotti e le merci e in nome della quale viene indicata come precedente per una globalizzazione di segno diverso: il clima di tolleranza e convivenza che per molto tempo ha caratterizzato la vita nelle città e nei regni che attraversava. Si pensi a Chang’an, la capitale dell’impero cinese per diverse dinastie a partire dagli Han (206 a.C.-9 d.C.) fino ai Tang (618-907 d.C.), che fu probabilmente la più grande città del mondo, e punto di partenza verso l’occidente e terminale orientale della Via della seta. Tra il suo milione di abitanti ospitava una corposa comunità di immigrati composta da mercanti, semplici viaggiatori e fuggiaschi che portavano con loro culture e pratiche religiose le più diverse, da quella zoroastriana a quella cristiana. Stiamo parlando della odierna Xi’an – importante centro per la ricerca scientifica e l’industria ad alta tecnologia – che nelle cartografie ufficiali della Belt and Road Initiative riprende ancora su di sé il ruolo di inizio e terminale. A rievocare efficacemente l’atmosfera di questa prima globalizzazione che viaggiava sulle carovane è lo studioso e viaggiatore italiano Giuseppe Tucci: «Coi carovanieri dell’Asia centrale camminavano anche le idee. Ad essi si accoppiavano artisti avidi di fortuna, missionari e apostoli di quelle tante religioni che i primi secoli dell’era cristiana videro pullulare dall’Oriente all’Occidente, pellegrini che si recavano a visitare luoghi consacrati dalla leggenda o dalla memoria di qualche dio o qualche santo. […] Bisogna aver visto questi grandi bazar dell’Oriente per avere un’idea di quella vita multiforme che in essi ancora si svolge. La gente porta con sé i suoi idoli e i suoi libri e improvvisa spesso i suoi templi […]. Ognuno vicino all’altro, con quella mirabile coesistenza e tolleranza di fedi diverse che soltanto l’Oriente conosce fin dalla più remota antichità» [Rippa A., 2015, pagg. 83-84]. Il libro bianco pubblicato dal governo della Cina popolare nel 2015 ha definito questa eredità come lo spirito della Via della seta, per sottolineare quel clima di convivenza, rispetto e cooperazione tra Oriente e Occidente: «Per migliaia di anni, lo Spirito della Via della seta – pace e cooperazione, apertura e inclusività, apprendimento reciproco e reciproco vantaggio – è stato trasmesso di generazione in generazione, ha promosso il progresso della civiltà umana e ha contribuito notevolmente alla prosperità e allo sviluppo dei paesi lungo la Via della seta. Simbolizzando la comunicazione e la cooperazione tra Oriente e Occidente, lo Spirito della Via della seta è un patrimonio storico e culturale condiviso da tutti i Paesi del mondo».

    Va qui ricordato come questa sottolineatura – costante premessa del discorso ufficiale sul progetto – sia confacente a una diplomazia cinese che da sempre sostiene la convivenza e il rispetto tra autonome e sovrane vie di sviluppo e diversi sistemi politici, e che da alcuni anni fa del reciproco vantaggio e del futuro condiviso due concetti chiave della propria politica estera.

    Non solo terra: il ritorno di Zheng He, la riscoperta dei mari

    La crescita della Cina non è solo quella di una potenza continentale, leader a livello globale nel settore ferroviario e dell’alta velocità, ma anche quella di un Paese che ha riscoperto una vocazione marittima che per lunghi tratti della sua storia è stata imbrigliata, trattenuta dall’esigenza strategica della messa in sicurezza dei propri confini terrestri e, pure, da un senso di superiorità rispetto al mondo esterno e dalla convinzione di una piena autosufficienza. Se ancora nel 2000 – quindi in pieno boom dell’export cinese – solo Shanghai figurava tra i primi venti porti al mondo, oggi la situazione è ben diversa perché nella stessa classifica tra i principali porti al mondo ben nove sono cinesi e sei di questi si trovano nella top ten. Nel 2010 – racconta il giornalista Giuliano Marrucci – «Shanghai con i suoi 29 milioni di Teu (circa tre volte la somma di tutti i porti italiani) ha superato il porto di Singapore ed è diventato il principale porto al mondo per container» e oggi gli stessi porti cinesi «movimentano oltre 180 milioni di Teu l’anno, più di quanto transiti da tutti i porti americani, giapponesi, coreani e dell’Unione Europea messi insieme» [Marrucci G., 2017, pagg. 27-28). Nel frattempo, nel settembre del 2013, era giunta in Europa la Yong Sheng, la prima nave commerciale cinese dopo 34 giorni di tragitto da Dalian a Rotterdam via mar Glaciale Artico. Insomma, dal 2017 è persino normale parlare di «conquista cinese dei porti europei», dal Mediterraneo al mare del Nord, da Haifa a Rotterdam, passando dal Pireo e da Valencia, e di «espansione nel mare nostrum» [de Forcade R., 2017].

    La riscoperta della dimensione marittima è una delle tante conseguenze della politica di riforma e apertura avviata da Deng Xiaoping alla fine degli anni Settanta del secolo scorso, di quelle zone economiche speciali, istituite nel decennio successivo, nelle province orientali per attrarre investimenti stranieri e via via sempre più coincidenti (Dalian, Tianjin, Shanghai e Guangzhou) con i grandi porti sul mar Cinese Orientale e meridionale. Le implicazioni di questo ritorno al mare sono tante, soprattutto a livello di sicurezza perché le rotte commerciali, in entrambi i sensi, devono essere protette soprattutto nei loro passaggi strategici (gli stretti di Hormuz e Malacca, il canale di Suez, il passaggio tra il mar Rosso e il golfo di Aden), richiedono una adeguata capacità di proiezione militare, collaborazioni internazionali e l’approntamento di avamposti strategici. Per questo negli ultimi anni si è giunti al varo della prima portaerei cinese (la seconda è in via di ultimazione), alle esercitazioni militari congiunte nel Mediterraneo e nel mar Baltico (con la Russia) e nello stretto di Hormuz e nel mare dell’Oman (con l’Iran). E normalità è, soprattutto, quell’abbandono del pensiero strategico collegato alla priorità della terraferma sul mare per sviluppare una moderna forza militare in «coerenza con i propri interessi di sicurezza nazionale e di sviluppo e i diritti e interessi legittimi» in grado di «proteggere la sicurezza delle vie di comunicazione marittime strategiche e gli interessi all’estero e partecipare alla cooperazione marittima internazionale». Ormai il compito cui è chiamata la marina cinese si spinge fino alla «protezione dei mari aperti» e dei cinque milioni di connazionali che lavorano all’estero e sempre più esposti a rischi crescenti¹. Non può esserci dubbio sul fatto che il mare non è solo un’opportunità, ma anche la grande preoccupazione di Pechino, la certezza di una pericolosa vulnerabilità perché sulle acque transita il 90% delle merci, in entrata e in uscita, e attraverso di esse giungono le indispensabili forniture energetiche. Tensioni regionali, conflitti militari e la presenza di un vero e proprio serpente di basi militari statunitensi compongono i contorni dello spettro del blocco economico.

    Questa Cina marittima vivrebbe secondo alcuni una vera e propria rivincita di Zheng He, l’ammiraglio e funzionario governativo che tra il 1405 e il 1433 compì, per incarico dell’imperatore Yongle della dinastia Ming, sette spedizioni marittime; una rara spinta verso l’ignoto in cinquemila anni di storia che aveva dimostrato la superiorità tecnica cinese sull’Occidente nella navigazione d’alto mare [Fumagalli M., 2013, 11]. La sua flotta dei tesori, composta da oltre 60 grandi giunche – sorta di portaerei dell’epoca – e 250 navi più piccole con un equipaggio di 28mila marinai, tra i vari viaggi toccò il Vietnam, la Thailandia, Giava, lo Sri Lanka e l’India per spingersi fin verso il golfo Persico e il corno d’Africa, fermandosi a Malindi e Mogadiscio. Una serie di viaggi che, seguendo mari già solcati dai mercanti cinesi, doveva essere anche una dimostrazione di potenza dell’impero e occasione per diffondere il sistema tributario cinese possibilmente evitando l’uso della forza, preferendo dare sostegno ai sovrani locali che si mostravano favorevoli, ricorrendo più all’intrigo e al commercio che alle armi e «sforzandosi di stabilire le basi di un commercio equo per le due parti». Da lì a poco, con Pechino nuovamente ritiratasi sul continente, sarebbero arrivati sui quei mari i vessilli europei, a partire da quelli portoghesi, per un nuovo tipo di globalizzazione che avrebbe utilizzato per imporsi mezzi ben diversi: «Mentre i cinesi ricorrevano alla diplomazia e, al peggio, se la prendevano solo coi sovrani, gli europei massacrano la popolazione e la riducono in schiavitù. Come si rileva da numerosi storici, Vasco da Gama, Almeida e Albuquerque, i colonizzatori portoghesi, hanno deliberatamente adottato una politica di terrore contro la popolazione civile […]. Per i cinesi dei Ming l’India è un’altra cosa: certo una terra di ricchezze, ma senza una focalizzazione esclusiva su questo. […] Il commercio deve essere fondato sullo scambio il più uguale possibile nel quadro del tributo» [Pelletier P., 2011, pagg. 183-190].

    Oggi il recupero di quei viaggi, di quella Cina potenza marittima e tecnologica decisa a mostrare la propria forza, ma ricorrendo allo strumento diplomatico e alle armi del commercio, rientra come simbolo di continuità nella Via della seta marittima (The 21st-Century Maritime Silk Road) proposta nel 2013 da Xi Jinping. Ma già in precedenza questo ritorno era tracciato, proprio nel segno di una Cina destinata al ruolo globale: durante la cerimonia di inaugurazione delle olimpiadi pechinesi del 2008 era stata srotolata una antica mappa della Via della seta con centinaia di donne che, vestite di blu per rappresentare il mare, reggevano enormi remi che ripercorrevano i viaggi dell’ammiraglio dei Ming. In contrapposizione al pesante e sanguinoso retaggio del colonialismo occidentale, la figura di Zheng He rappresenta oggi il simbolo dell’apertura della Cina popolare al mondo, della sua pacifica ascesa, nel nome del commercio, del mutuo beneficio e del rispetto della sovranità [Chen Gongyuan, 2015].

    È una delle componenti del soft power che Pechino proietta con maggiore successo proprio sugli ex Paesi coloniali: i leader cinesi hanno invocato i viaggi dell’ammiraglio «con crescente frequenza per giustificare le affermazioni di Pechino che l’ascesa della Cina non rappresenta una minaccia» e i racconti di quella flotta seguono una logica per la quale «la Cina dinastica si è astenuta dalla conquista anche quando possedeva una grande flotta» a dimostrazione che «l’ascesa pacifica è il risultato inevitabile dello sviluppo della storia cinese» [Holmes J., Yoshihara T., 2009].

    E sempre la memoria di quei viaggi ci racconta oggi della centralità dell’Africa – negli anni Cinquanta lo era in nome della comune lotta anti-coloniale – lungo la nuova Via della seta: le flotte dell’ammiraglio avevano toccato quello che noi conosciamo come Kenya, oggi elevato a hub principale del continente per i progetti infrastrutturali cinesi per la sua strategica posizione geografica, per il porto orientale di Mombasa e per i possibili collegamenti ferroviari terrestri.

    Non solo Pechino

    L’identificazione ormai generalmente accettata tra Cina e creazione di Nuove Vie della seta è di fatto segnale di un successo diplomatico, sul difficile terreno del soft power, colto da Pechino in cinque anni di intensa attività. Perché di fatto, se si esclude la comunità di studiosi e analisti politici, sono stati archiviati i precedenti tentativi di riproporre quell’antica rete di traffici e scambi compiuti dagli Stati Uniti, soprattutto sotto la presidenza Obama, per stabilizzare l’area medio-orientale dopo gli interventi militari in Afghanistan e in Iraq. Tentativi che avevano sollevato qualche preoccupazione proprio a Pechino – che allora sembrava ancora potenza in ascesa ma marginale – tanto che possiamo leggere la Belt and Road del 2013 come una risposta pianificata e sicuramente più strutturata.

    Ma potremmo persino andare ancora più a ritroso, al tempo in cui gli Stati Uniti iniziavano a percepirsi come possibile nuova potenza globale e centro di un nuovo impero, ideale e commerciale al contempo. Il senatore Thomas H. Benton fu tra i tanti profeti dell’impero americano di metà Ottocento e uno tra i primi a sottolineare l’importanza, anche sul piano globale, del collegamento tra la costa orientale e il Pacifico, attraverso le Montagne rocciose e a proporre a un gruppo di uomini di affari di Boston la costruzione di una ferrovia transcontinentale: «una volta terminata, cambierà il volto del mondo commerciale a tutto vantaggio della nostra America». La sua visione – come vedremo non era l’unico ad alimentarla – era assai schietta nei presupposti ideologici che individuavano in Washington il centro di un commercio mondiale in grado di mettere in comunicazione diretta l’Asia con l’Europa e realizzare così, sebbene in forma diversa, il sogno di Cristoforo Colombo: «L’Asia orientale verrà raggiunta passando per Occidente attraverso una rotta di cui possediamo la chiave; è la rotta del commercio asiatico, che si è andata spostando dai tempi di Salomone in poi, che ha fatto sorgere città e regni ovunque passasse e ha cambiato per l’ultima volta la sua collocazione per fissarsi definitivamente sul tragitto più sicuro, rapido e breve, cioè il tragitto che passa attraverso l’America, destinato a far rivivere lungo il suo corso le glorie di Tiro e Sidone, di Baalbek, Palmira e Alessandria, un tempo centro del commercio e dell’impero; le rovine di queste città attestano ancora oggi l’antica magnificenza e suscitano la meraviglia del viaggiatore» [Bairati, 1975, pagg. 173-178]. A rivivere e tornare alle grandezze di un tempo sarebbe stata anche l’antica Via della Seta che vedeva nella siriana Palmira – citata dall’autore – uno dei suoi lussuosi terminali mediterranei e la cui storia è strettamente legata all’antico percorso commerciale e al dialogo tra mondo romano e regni ed imperi asiatici.

    Torniamo all’oggi. Pochi anni dopo l’invasione dell’Iraq del 2003, il vice-segretario di Stato Richard A. Boucher suggeriva come obiettivo quello di «ravvivare gli antichi legami tra Asia meridionale e Asia centrale e contribuire a creare nuovi nessi nei settori del commercio, dei trasporti, della democrazia, dell’energia e delle comunicazioni» [Frankopan P., 2019, p. 7]. In linea con questi suggerimenti, contenuti anche nei due Silk Road Strategy Act del 1999 e del 2006², nel 2011, a Chennay in India, Hillary Clinton annuncia ufficialmente la New Silk Road Initiative, il cui cuore è rappresentato dalla stabilizzazione dell’Afghanistan, e di conseguenza in Asia centrale e meridionale, attraverso l’integrazione economica, la rimozione di barriere burocratiche al libero flusso di merci e la costruzione di un ampio reticolo di arterie di collegamento come ferrovie ed autostrade. Gli anni successivi hanno poi dimostrato i limiti politici ed economici di tale iniziativa, sancendone il fallimento: l’instabilità nell’area, l’esclusione di attori fondamentali per la sua riuscita quali Iran e Pakistan e la scarsità di risorse economiche.

    Solo negli ultimi tempi, dopo un iniziale disinteresse in nome della svolta unilateralista, l’amministrazione Trump sembra tornare sui propri passi per riproporre nuove forme di collaborazione e integrazione alternative a quella di Pechino.

    1 I riferimenti riportarti sono contenuti in China Daily, China’s Military Strategy, 25 maggio 2015, testo integrale in lingua inglese.

    2 Così si legge nel documento del 1999: «L’interdipendenza economica ha stimolato la cooperazione reciproca tra i popoli lungo la Via della Seta e il ripristino delle relazioni storiche e dei legami economici tra questi popoli è un elemento importante per garantire la loro sovranità e il successo delle riforme democratiche e di mercato». Nell’aggiornamento del 2006 viene chiaramente indicato l’obiettivo strategico: «Impedire a qualsiasi altro paese di istituire un monopolio sulle risorse energetiche o sulle infrastrutture di trasporto dell’energia nei paesi dell’Asia centrale e del Caucaso meridionale che possano limitare l’accesso degli Stati Uniti alle risorse energetiche è importante per la sicurezza energetica degli Stati Uniti e di altri consumatori di energia nel mondo sviluppato e in via di sviluppo». Il testo completo è reperibile sul sito ufficiale del Congresso degli Stati Uniti all’indirizzo https://www.congress.gov/bill/109th-congress/senate-bill/2749/text

    La Cina e il cammino verso una nuova globalizzazione

    Addio alle cineserie: la nuova era in un mondo che cambia

    Il 19° congresso del Partito comunista cinese passerà certo alla storia non solo per l’elevazione del pensiero dell’attuale segretario Xi Jinping – «il socialismo con caratteristiche cinesi per la nuova era» – a guida per l’azione del partito e della dirigenza per i prossimi decenni, con il suo nome scritto nello statuto accanto a quelli di Mao e di Deng, ma perché è stato vissuto e seguito dalla stampa internazionale come un vero e proprio appuntamento globale. Riflessioni, programmi e parole d’ordine hanno superato i confini interni per rivolgersi al mondo intero, per tranquillizzarlo sulla crescita della nuova potenza asiatica e, al contempo, rammentare che gli equilibri stanno cambiando e che sulle regole della convivenza internazionale d’ora in poi anche Pechino avrà molto da dire. Non poteva che essere così, anche perché una parte dell’agenda dell’assise era frutto di un clima internazionale nuovo con la Cina protagonista in prima linea dei grandi dossier globali – dalla lotta contro il cambiamento climatico a quella contro il terrorismo – e consapevole che la trasformazione della propria economia domestica avrebbe fortemente influenzato ancora una volta quella globale.

    In sostanza, è cambiata la Cina e con essa il suo pubblico come aveva sottolineato nel pieno dello svolgimento del congresso un attento studioso quale è Kerry Brown: il partito che fu di Mao e ora è di Xi ha offerto «la sua solenne promessa di riportare la Cina al suo giusto posto nel mondo, fuori per sempre dal secolo delle umiliazioni. Mai prima d’ora il Paese è stato più forte, più ricco, più rispettato e più temuto. […] Sarà un congresso che dice al mondo e al popolo cinese che siamo importanti. E che nessuno può toglierci questo momento di rinascita. Questo è un messaggio globale, non solo un messaggio interno. Esso implica che la Cina parli al mondo come mai prima. In passato, anche nel 2012, i congressi sono stati in gran parte domestici, appuntamenti introspettivi, operazioni di partito per un pubblico di partito, guardato dal resto del Paese solo quando avrebbe potuto o avrebbe avuto bisogno di staccarsi dal lavoro quotidiano per distrarsi. Il resto del mondo poteva fare quello che voleva, non essendo il pubblico chiave» [Brown K., 21 ottobre 2017].

    Ci sono fatti e numeri che sostengono e alimentano il peso politico dell’ex Celeste impero sul palcoscenico mondiale e che sono sorprendenti se si pensa al fatto che ancora nel 1992 il suo prodotto interno lordo era inferiore a quello della Spagna e che quasi il 90% della popolazione viveva con meno di 2 dollari al giorno. Un quarto di secolo dopo ci troviamo di fronte al Paese guida del commercio globale (primo per esportazioni e secondo per importazioni), al secondo mercato azionario dietro quello statunitense, al principale partner commerciale di Paesi quali Stati Uniti, Germania, Giappone, Australia, Corea del Sud, India, Brasile e Arabia Saudita; al Paese che gode del

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