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Freddie Mercury: The show must go on
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E-book299 pagine4 ore

Freddie Mercury: The show must go on

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Info su questo ebook

Una vita passata all’insegna del cambiamento, della continua ricerca del nuovo, dell’inaspettato, del sorprendente. Dentro e fuori di sé. È il riassunto della breve e travolgente parabola esistenziale di Farrokh Bulsara, in arte Freddie Mercury. Dall’incontro nel 1970 con un paio di musicisti a caccia di gloria – il chitarrista Brian May e il batterista Roger Taylor – nascerà un gruppo destinato a scalare le classifiche e rivoluzionare il modo di fare, vedere e sentire la musica per sempre: i Queen. Dotato di una presenza scenica unica la mondo e di una voce altrettanto singolare e in grado di realizzare un’estensione inusuale, Freddie Mercury ha dominato i palcoscenici prima del Regno Unito e poi internazionali. La sua vita sul palco e fuori è stata spezzata dall’Aids, nel novembre del 1991. La musica di Mercury e del suo gruppo non è però scomparsa con lui e ancora oggi la figura del cantante dei Queen è riconosciuta come una delle più influenti dell’intero panorama musicale. 
LinguaItaliano
EditoreDiarkos
Data di uscita5 nov 2020
ISBN9788836160501
Freddie Mercury: The show must go on

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    Anteprima del libro

    Freddie Mercury - Paolo Borgognone

    Introduzione

    «Non sarò una rockstar. Sarò una leggenda».

    C’è tutto Freddie Mercury – nato Farroock Bulsara da Zanzibar – in questa sua celebre frase pronunciata in chissà quale intervista rilasciata a chissà quale ascoltatore distratto.

    Essere il migliore non era sufficiente per lui. Doveva essere unico. E ci è riuscito.

    Giocando con il destino, con quella strana bocca con dei denti in più rispetto al normale che gli consentiva di raggiungere note che per gli altri non esistono; aggiungendoci determinazione, grinta, la capacità di andare oltre gli ostacoli, prevedere il futuro e anticiparlo, ma anche quella di non farsi fermare mai, neanche dalla paura del nuovo, del non sperimentato. Ogni giorno una prova, ogni prova una sfida. Non porsi limiti significava, per lui, non avere limiti.

    Quando giovanissimo passeggiava sotto le due torri, oggi sostituite da un arco, dello stadio di Wembley – il luogo per concerti che più d’ogni altro ha rappresentato il palcoscenico della sua gloria – non si limitava a sognare di conquistarlo, quel catino. I sogni sono immateriali. Lui, invece, sapeva che sarebbe successo. Sentiva la folla ai suoi piedi, la sua passione, l’amore quasi ubriaco che avrebbe ricevuto e restituito al suo pubblico.

    Magari non aveva ancora idea di come sarebbe stato suo, ma niente e nessuno poteva toglierglielo. Non i bulli che tormentarono la sua infanzia e adolescenza, pronti a farsi gioco di quel ragazzo magro che, una volta trasferitosi in Inghilterra, parlava strano e si comportava anche strano; non i primi compagni d’avventura con cui divideva il palco, troppo al di sotto delle sue capacità artistiche per soddisfare anche solo minimamente quella sete di grandezza; non qualche impresario senza scrupoli che vedeva nel suo talento e nella sua voglia di arrivare soltanto la classica pentola piena di monete d’oro da mettersi in tasca; non gli invidiosi che ne stroncavano ogni esperimento, che giudicavano ogni innovazione troppo oltre, senza capire che i confini non erano fatti per Freddie; neanche quella stampa schierata contro per principio, pronta a seppellirlo a ogni passaggio, tanto la scusa con uno così la trovi sempre; o i gelosi disposti a vendere le sue foto, scattate nel passato, fianco a fianco in giro per il mondo, per quattro spiccioli. E, alla fine, neanche la terribile malattia che lo inseguirà e lo ghermirà togliendocelo prima, molto prima, del tempo.

    Freddie Mercury ha scritto canzoni indimenticabili, ha trascinato il pubblico di tutto il globo a gorgheggiare e cantare con lui, ha riempito pagine di giornali e la vita di chi lo ha conosciuto. Ha amato il mondo, l’arte del Giappone, l’invisibilità che gli garantivano gli Usa, ma anche la passione dei sudamericani, il trasporto degli australiani, la tranquillità della Svizzera e la sua casa nel verde di Londra a qualche centinaio di metri dalle serafiche rive del Tamigi.

    Impareggiabile, sognatore, trasgressore, esteta, testardo, innovatore, ribelle, perfezionista, oltraggioso, timido, unico. C’era questo in Freddie Mercury, e tutto quello che lui era lo ritroviamo ancora oggi – quando sono quasi trent’anni che non è più con noi – nelle canzoni immortali che ha lasciato dietro di sé. Nelle quali ognuno si rispecchia e si riconosce a modo suo. Vedendo sé stesso e la propria vita scorrere tra quelle note.

    Perché creare nella musica un mondo che tutti possano chiamare il proprio è quello che fanno i grandi: renderlo immortale è quello che fanno le leggende.

    Il ragazzo che odiava il cricket

    I think I’m returning back

    Those days when I was young enough to know the truth.

    Goin’ Back

    «Una farfalla mai stata crisalide, che non amava parlare di quando era un bruco». Così Peter Freestone – dipendente, consulente, amico, confidente a cui verrà dato dal cantante il soprannome di Phoebe, autore del libro Freddie Mercury. An intimate memory by the man who knew him best – racconta il rapporto fra il ragazzo che diventerà il frontman dei Queen e la sua infanzia, passata tra Zanzibar e Bombay, prima del trasferimento nel Regno Unito.

    Un prima parte di vita che Freddie ha poi simbolicamente cancellato, soprattutto quando – pochi anni dopo, una volta a Londra e sul punto di diventare qualcuno – scelse di cambiare definitivamente nome. Da Farrookh – ma c’è chi lo scrive Farrock, Farroukh o, più semplicemente, Frederick, noi ci atterremo alla prima versione – a Freddie. Inventandosi anche un cognome che col suo non c’entrava proprio nulla: Mercury – come mercurio, il messaggero degli Dei – invece di Bulsara, ereditato – come da tradizione nel gruppo etnico di cui facevano parte i suoi genitori – dall’area geografica di provenienza, in questo caso la città di Bulsar nello stato indiano federato del Gujarat, oggi nota come Valsad.

    Quello della sua prima giovinezza è stato quindi un periodo di cui il performer evidentemente non voleva diffondere particolari, neanche nell’intimità della sua cerchia di amicizie più strette, ma che ha segnato – come è naturale che succeda – la sua formazione e quindi lo sviluppo della personalità che abbiamo poi conosciuto.

    Tutto inizia il 5 settembre 1946. Quel giorno, all’ospedale governativo di State Town, la più importante città dell’isola equatoriale di Zanzibar, nasce un bambino destinato a significare molto nella storia della musica rock e non solo.

    Il mondo è appena uscito dalla follia della Seconda guerra mondiale. Un evento così drammatico e gigantesco da aver avuto conseguenze fino al di fuori dei teatri di battaglia veri e propri – l’Europa e l’Asia – e che è arrivato a lambire anche questo sereno arcipelago, all’epoca protettorato britannico.

    Zanzibar è sempre stato, grazie alla sua posizione a circa 40 chilometri dalla costa orientale dell’Africa poco a sud dell’Equatore, un luogo di grandi traffici mercantili e commerciali, e quindi di incontro tra diverse culture. La popolazione indigena dei Bantu si è mischiata con le ondate arrivate in epoche diverse dal resto del continente, ma anche dall’India, dal corno d’Africa, dai Paesi che si affacciano sul Mar Rosso e soprattutto dalla Persia, dando vita alla cultura Swahili – una parola derivata dall’arabo e che indica una popolazione costiera – che ha lungamente influenzato l’esistenza stessa di una gran parte delle nazioni della zona a oriente del continente.

    Nota cone l’isola delle spezie, soprattutto per la coltivazione dei chiodi di garofano, alla fine degli anni Quaranta Zanzibar stava conoscendo, dopo secoli di storia travagliata, un periodo di stabilità politica e quindi anche economica. Il trattato Heligoland-Zanzibar del 1890 aveva definitivamente messo fine alle mire espansionistiche sull’area dell’Impero germanico e alle conseguenti tensioni militari, lasciando la zona sotto il protettorato della Corona britannica. Che fece, come primo passo, piazza pulita dei retaggi dell’odiosa cultura dello schiavismo che aveva, sotto i diversi governanti, prosperato, tanto nell’arcipelago che sulla terraferma. Curiosamente, per ottenere questo risultato fu necessaria, nel 1896, una guerra, combattuta tra la Marina di Sua Maestà britannica e le forze del sultano di Oman che rivendicava pretese sulle isole e i suoi porti. Un conflitto passato alla storia come il più breve di sempre: 45 minuti di bombardamenti dal largo dalle navi inglesi, che portarono all’immediata resa degli omaniti.

    Una delle culture presenti nel melting pot di Zanzibar era quella della popolazione di fede Zooroastriana dei Parsi – discendenti da antichi antenati persiani – a cui appartenevano anche Borni e Jer Bulsara, i genitori di Farrookh. Si tratta di una comunità stretta da forti vincoli e con una fede religiosa molto sentita e tradizionalista. Qualcosa che non sembrava proprio andare d’accordo col carattere ribelle, innovativo, rivoluzionario e senza freni del cantante dei Queen. Il quale, tuttavia, ebbe un rapporto sempre di grande rispetto coi suoi genitori e sua sorella Kashmira, nata alcuni anni dopo di lui, nel 1951, quando la prima permanenza dei Bulsara nell’isola volgeva alla fine e altri importanti cambiamenti stavano per arrivare nella sua vicenda umana.

    La famiglia Bulsara viveva in una casa a due piani bianca, con le imposte verdi, non particolarmente vistosa. Borni era un contabile presso un ufficio del governo inglese: un impiego tranquillo che consentiva una vita serena e relativamente agiata in una zona tropicale dove si poteva godere anche di una natura rigogliosa e ospitale, baciati da un clima perennemente dolce e piacevole che permise al piccolo Farrookh di crescere i primi anni dell’esistenza praticamente sempre all’aria aperta. Eppure i genitori furono molto felici di potersi lasciare questo piccolo giardino dell’eden alle spalle e tornare – quando il loro primogenito aveva soltanto cinque anni – in India, proprio in quella Bombay dove, allora come oggi che la città ha cambiato nome in Mumbai, vive la più grande delle comunità Parsi del mondo.

    Una decisione dettata anche dalla prospettiva di tornare in mezzo alla propria gente, a una realtà maggiormente allargata e coesa, e presa soprattutto perché Bombay era, a giudizio dei genitori, il luogo ideale dove dare al loro figlio maschio un’educazione più legata ai valori tradizionali che rivestivano per loro un’irrinunciabile importanza. Qui il piccolo Farrookh, ormai in età scolare, venne associato a un collegio di istruzione pubblica britannica, la St. Peter’s School di Panchgani. Una scuola aperta agli inizi del Novecento, in una zona non lontana da quello che oggi è il Koyna Wildlife Sanctuary, un parco protetto dove vivono rari esemplari della tigre del Bengala. L’istituzione ha un motto in latino, «Ut Prosim», ovvero «affinché io possa essere utile» e come simbolo una fenice, che tornerà come ispirazione e base per il disegno del logo del gruppo dei Queen che Mercury creerà qualche anno dopo a Londra.

    Come tutte le scuole di ispirazione inglese la St. Peter’s dedicava molto spazio – accanto alle materie tradizionali – alle discipline sportive. Qui, curiosamente, un giovanissimo Freddie scoprì di avere un buon talento per la boxe, mentre – ed è una sensazione che proverà tutta la vita – odiava il cricket, praticamente lo sport nazionale da quelle parti. In compenso, ricordava la madre Jer, aveva successo praticamente in tutto quello che faceva, sia da un punto di vista scolastico che sportivo. Nel libro fotografico Freddie Mercury, the Great Pretender, pubblicato nel 2012 da Goodman con testi di Sean O’Hagan, vediamo delle straordinarie immagini dei tempi della St. Peter’s nelle quali Farrookh compare con al collo medaglie conquistate in attività come il salto in alto o mentre posa con una grande coppa vinta come miglior studente.

    Uno studente che dimostrò anche una grande passione per un’altra disciplina, la musica. Durante i primi anni a scuola prese lezioni di pianoforte, tanto da arrivare fino al quarto livello di apprendimento, ben oltre i rudimenti di base. In quello stesso periodo Farrookh subì il fascino del teatro e si cimentò anche come attore: «Tutto pur di comparire» commentava sua madre.

    La prima band

    Ma il momento di svolta – uno dei tanti di questa storia – avviene nel 1958 quando un dodicenne Freddie, come ormai lo chiamavano in molti a scuola e non soltanto, decide di unirsi a un gruppo musicale. Gli Hectics, ovvero gli agitati. Niente più di una band scolastica come ne nascono a migliaia ogni giorno in qualsiasi parte del mondo, eppure è il primo passo di una carriera straordinaria che porterà questo ragazzo un po’ timido e un po’ sfacciato a diventare un’icona della musica rock. In vita e anche dopo.

    Per quanto sia stato l’unico ad avere una carriera nel settore, non fu Freddie a fondare il gruppo, ma un altro membro, Bruce Murray, che candidamente ammise di aver avuto l’idea «soprattutto per impressionare la popolazione scolastica femminile». La mini band, che vantò subito un certo successo nell’area, era composta da ragazzi qualunque e l’unico vero artista (magari ancora inconsapevole) era Freddie. Il loro repertorio si basava sulle canzoni che andavano per la maggiore in quel periodo – ai fan dei Queen non sfuggirà che la band tornerà a queste radici primordiali durante molti dei suoi show cantando dal vivo quello che in un concerto Mercury definì «Rock a là Queen» – e sui loro intepreti: Elvis Presley, naturalmente, ma anche Cliff Richards e Fats Domino. I suoi compagni di avventura negli Hectics raccontano come Freddie fosse «un talento naturale», capace di ascoltare una canzone anche una sola volta alla radio – il suo programma preferito era la Binaca Hit Parade trasmessa dalla stazione locale ogni mercoledì – per poi essere capace di riprodurla fedelmente, senza bisogno di spartiti. Nonostante la scuola, severa e tradizionalista, non vedesse di buon occhio la band scatenata e il suo cantante in erba, gli altri membri del gruppo ricordano l’influenza soprattutto di uninsegnante irlandese di musica, la signora O’Shea, che avrebbe contribuito molto allo sviluppo del senso innato per la melodia di Freddie.

    Tutto questo lo aiutava a superare anche altre difficoltà: pur non avendo mai voluto scendere troppo nei particolari, Farrookh non ha mai nascosto di aver sofferto, in quel periodo scolastico, dell’atteggiamento da bulli di alcuni suoi compagni. Un comportamento purtroppo diffuso in molti ambienti e al quale Mercury reagì affidandosi, oltre che alle sue attività extra scolastiche, anche alla boxe: essendo un buon lottatore – raccontano le cronache sportive scolastiche dell’epoca – e soprattutto un bravo incassatore, riuscì in qualche modo a difendersi e a crearsi intorno una corazza che poi contraddistinguerà molti dei suoi comportamenti e perfino dei suoi rapporti in età adulta. Di quell’epoca, in qualche rara intervista, parlò come di un periodo che gli «aveva insegnato a contare solo su se stesso, senza fare affidamento sull’aiuto di nessuno». Un atteggiamento che ha portato qualcuno a puntare il dito contro i genitori, che lo avrebbero sostenuto poco in quel delicato processo di crescita. Ma bisogna sempre considerare che le famiglie Parsi, soprattutto in quell’epoca, avevano certo poca dimestichezza con i criteri educativi più moderni e inclusivi.

    Lo stesso discorso vale per un altro aspetto chiave della personalità di quello che diventerà il leader della rock band più famosa al mondo. L’inclinazione verso l’omosessualità iniziò a manifestarsi proprio durante gli anni alla St. Peter’s, peraltro rigorosamente solo maschile. Secondo Laura Jackson (Mercury: the King of Queen) fu proprio nel collegio di Panchgnai che Freddie avrebbe avuto la sua prima esperienza con un altro ragazzo. Naturalmente non ne parlò con nessuno, men che meno con la famiglia.

    Va considerato che secondo i principi dello Zoorastrismo l’omosessualità è una pratica esecrabile e duramente condannata. Pur non venendone scosso in maniera profonda o visibile, appare francamente impossibile che l’adolescente Freddie cercasse conforto e aiuto nei parenti, a prescindere dal rapporto instaurato con loro. Anche questa esperienza rimase quindi nel suo bagaglio umano, che Farrookh si porterà dietro quando di lì a poco arriveranno a stretto giro di posta altri terremoti a sconvolgere la sua esistenza.

    Al centro del mondo

    Nel 1962, a sedici anni, dopo aver cambiato scuola per un breve periodo a causa del fallimento di un esame di ammissione al livello di istruzione superiore, un altro trasloco gli cambia di nuovo la vita: la famiglia torna a Zanzibar, dove resterà altri due anni fino a quando, a causa della rivoluzione del 1964, dovrà scegliere di spostarsi di nuovo. Il 19 dicembre del 1963 l’isola al largo della Tanzania aveva ottenuto l’indipendenza dal Regno Unito, incanalandosi nello stesso processo storico di disfacimento dell’Impero britannico che aveva già toccato altre zone dell’Africa e dell’Asia. Ma a Zanzibar la creazione di una monarchia costituzionale governata da un sultano e da un’èlite politica araba durò poco: nel giro di pochi mesi formazioni politiche come l’Afro-Shirazi Party e l’Umma Party che raccoglieva seguaci nell’ala più estremista della popolazione araba diedero il via alla rivolta che scoppiò il 12 gennaio del 1964. Nella confusione che seguì – durata comunque poche settimane – anche le proprietà di personalità arabe moderate e indiane vennero saccheggiate. A quel punto, con Zanzibar che entrò nella sfera di influenza della Tanzania, ai Bulsara parve saggio e conveniente cambiare di nuovo aria, dopo soltanto due anni dal loro rientro.

    Il padre e la madre sarebbero voluti tornare indietro, in India. Ma Freddie aveva altri progetti e un obiettivo molto più ambizioso: l’Inghilterra. Un Paese che stava diventando il centro del mondo non più per il dominio sui mari e nei commerci, ma per la cultura giovanile, e che da un paio di anni impazziva per quattro ragazzi coi capelli lunghi e il forte accento scouser – quello tagliente e arrotato di Liverpool – che avrebbero cambiato la storia della musica popolare, i Beatles. Londra era sempre di più un polo di attrazione, una terra promessa dove ogni sogno era lecito, qualsiasi strada era aperta e il successo non era una chimera irraggiungibile per nessuno. Bombay era una meraviglia con il suo caleidoscopio di colori, culture, musiche e profumi e aveva contribuito a plasmare una personalità eclettica e aperta come quella di Freddie, mai spaventato dalla novità o dall’eccesso, ma il richiamo della capitale britannica era un canto al quale non era possibile resistere.

    A Londra

    Fu così che in quell’inizio del 1964 i Bulsara compirono il loro ultimo trasloco internazionale. Arrivati sul suolo inglese vissero per un certo tempo presso dei parenti e poi si trovarono una villetta nella zona di Feltham, alla periferia sudovest della capitale inglese, vicino all’area dell’aeroporto di Heathrow nel distretto di Hounslow. La cittadina – famosa fino all’inizio del ventesimo secolo soprattutto per una varietà di piselli chiamati Feltham First – è solo a 21 chilometri da Charing Cross, considerato il punto più centrale di Londra, ma le differenze sono, ed erano a maggior ragione nel 1964, enormi. La zona è una delle più miste, da un punto di vista etnico, della città. A oggi quasi un residente su quattro è di origine asiatica e il melting pot di quest’area è tra i più diversificati della capitale inglese.

    Peraltro, vale la pena di notarlo, l’aria di Feltham è particolarmente proficua per i musicisti. A pochi metri – ma lo scopriranno solo anni dopo – da casa Bulsara c’era la villetta di Harold e Ruth May e del loro geniale figlio Brian e qui, nello stesso quartiere, sono nati anche Jimmy Page dei Led Zeppelin e Vic Briggs, chitarrista degli Animals. Purtroppo la memoria è spesso corta. Il 24 novembre del 2009, nel diciottesimo anniversario della scomparsa di Freddie, al centro dell’area pedonale della piazza principale di Feltham, Brian May insieme a Jer e Kashmira Bulsara, inaugurarono un monumento dedicato alla sua memoria, una stella in granito di sapore vagamente hollywoodiano, che però venne rimossa solo due anni dopo, a causa del deterioramento dovuto alle intemperie e alla mancanza di cure. Ancora oggi non è stato determinato un luogo dove ricordare quello che è stato forse il figlio (anche se adottivo) più famoso della zona.

    L’ennesimo trasferimento fu traumatico per la famiglia. Bomi dovette trovare un lavoro certo meno significativo di quello che aveva a Zanzibar e si impiegò come contabile, mentre Freddie si iscrisse a una scuola superiore a Isleworth. Non proprio un posto idilliaco. La provenienza straniera, i suoi comportamenti particolari e l’aria decisamente differente da quella stereotipata della maggior parte dei suoi compagni lo resero presto facile bersaglio di scherzi anche pesanti.

    Lui sapeva che certo da lì non sarebbe scappato e quindi si armò di grande sopportazione e molta autoironia, tanto che presto finì per confondersi con il panorama o la tappezzeria e uscì dalla sfera di interesse degli immancabili bulli. L’accoglienza, comunque, non fu certo delle migliori e – ancora una volta – sappiamo che Mercury cercò di cancellare i brutti ricordi, lasciandosi quel periodo alle spalle per sempre, fingendo non ci fosse mai stato. Non per caso era un Great Pretender. Durante il periodo degli ultimi anni di scuola si impegnò soprattutto nello studio delle arti, della letteratura e della musica – che era ormai il suo principale interesse – non disdegnando tuttavia di aiutare in casa, facendo qualche lavoretto estivo. Come molti dei giovani abitanti di quella zona anche a lui toccò il carico e scarico delle merci dello scalo di Heathrow, un impegno che però Freddie non amava: la leggenda racconta che costringeva spesso i suoi colleghi a lavorare anche per lui, vantando di doversi conservare in splendida forma (soprattutto le mani a cui teneva particolarmente) in quanto destinato a una luminosa carriera. Che per ora vedeva soltanto lui, è chiaro. Chissà in quanti ci avranno creduto davvero.

    Intanto, ottenuto il diploma, era arrivato il momento di scegliere che strada intraprendere, e Freddie non aveva dubbi. La sua meta ora era il corso di arti grafiche e design presso l’Ealing Technical College & School of Art a St. Mary’s Road, West London. Una scuola rinomata all’epoca e in pieno fermento in quegli anni. Nei suoi corridoi si potevano incontrare aspiranti scrittori, come Robert Rankin e Jan Warburton, il disegnatore Alan Lee che molti anni dopo vincerà un Oscar per Il Signore degli Anelli, Vic Duppa-Whyte che fu tra i primi a realizzare libri pop-up per bambini e un paio musicisti che di li a poco avrebbero fatto la storia del rock: Pete Dennis Blanford Townshend, fondatore degli Who, e Ronald (Ronnie) David Wood, fondatore dei Faces con Rod Stewart e – dal 1975 – membro dei Rolling Stones. Pezzi grossi.

    Ma tra i corridoi del palazzo in mattoni rossi di Ealing si aggirava anche un altro aspirante rocker, destinato a ricoprire un ruolo fondamentale nella vita di Frederick Bulsara, Timothy John Stafell.

    Ecco Tim

    Tim, per gli amici, era nato nel 1948 a Isleworth dove aveva frequentato la Hampton School: a un concerto di studenti di quella scuola, nel 1964, aveva incontrato e fatto amicizia con un ragazzo alto, timido e con una gran testa, non solo perché piena di capelli ricci. Quel giovane, appassionato di musica e di tecnologia al punto da star lavorando alla costruzione di una chitarra elettrica realizzata utilizzando una parte del legno avanzato dall’inverno nel camino di casa, si chiamava Brian Harold May. E lo incontreremo di nuovo. Presto.

    Tornando a Staffell, la musica era la sua passione. Dopo l’incontro con May riuscì a entrare in qualità di cantante nella band scolastica del giovanissimo chitarrista, i 1984, nome evidentemente derivato dalla lettura del capolavoro distopico di George Orwell. Insieme i due iniziarono a esibirsi in giro per Londra, poi per un breve periodo presero strade diverse: Staffell si iscrisse appunto all’Ealing Technical College & Schol of Art, mentre May aveva vinto una borsa di studio in fisica presso l’Imperial College of Science and Technology e sembrava avviato a una splendida carriera scientifica o accademica.

    La musica continuò comunque a unirli tanto che, alla fine del 1967, scelsero di abbandonare l’ormai agonizzante band per fondarne una nuova, gli Smile. Misero un annuncio sulle bacheche dell’università – come si usava al tempo, secoli prima dell’invenzione dei social network – per trovare un batterista e di lì a poco, tra tutti quelli che si presentarono per il provino, emerse uno studente di odontoiatria della London Hospital Medical School, con un passato come suonatore di ukulele, e dal 1961 – quando ne ricevette una in regalo – devoto fan della batteria: si chiamava Roger Meddows Taylor, veniva da King’s Lynn, nel Norfolkshire, estremo lembo ovest dell’Inghilterra, anche se era cresciuto a Truro, in Cornovaglia. La musica era sempre stata la sua passione ma i genitori – regalo della batteria a parte – avevano ostacolato i suoi sogni di diventare un rocker. Aveva suonato in qualche piccolo gruppo di nessuna prospettiva, come i Reaction, e poi aveva accettato di trasferirsi a Londra per intraprendere gli studi – che lascerà incompiuti – su pressione della famiglia. Quando si presentò agli Smile fece un primo provino soltanto con dei bonghi, ma fu così impressionante da ricevere l’invito per una session con tutta l’attrezzatura, e la sua esibizione fu convincente. Gli Smile erano al completo e poterono iniziare la loro scalata al successo.

    La prima apparizione ufficiale del gruppo avvenne proprio all’Imperial

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