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Il Serpente e la Colomba
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E-book170 pagine2 ore

Il Serpente e la Colomba

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Info su questo ebook

La giovanissima Amanda sposa Lord Radcliffe per salvare la sua famiglia dalla bancarotta e lo segue in India, dove l’uomo ha piantagioni di tè e terre.
Schiava di timori e pregiudizi, benchè desiderandolo, non riesce a concedersi al suo amore e così Lord Radcliffe trova consolazione tra le braccia di Sonja, una ambiziosa ragazza indiana che vorrebbe prendere il posto della moglie. Amanda deve così iniziare una battaglia per riconquistare il marito e rimane coinvolta in un vortice di intrighi e odi feroci che la portano a sfiorare la morte ma anche a conoscere la vera essenza dell’Amore.
LinguaItaliano
Data di uscita1 mar 2016
ISBN9788899531157
Il Serpente e la Colomba

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    Anteprima del libro

    Il Serpente e la Colomba - Lucia Guazzoni

    1.

    primo capitolo

    La pesante carrozza da viaggio, trainata da quattro cavalli bai, avanzava senza eccessiva velocità lungo la strada polverosa, poco più di una pista, che da Cochin, grande porto dell’India sud-occidentale, portava verso il sud, verso Shencotta e Rajapalajam, inoltrandosi sempre di più nel Kerala.

    La sua destinazione finale era la residenza Il Nido della Colomba, situata al centro di una vasta distesa di piantagioni di proprietà di Lord Geoffrey Andrew Radcliffe. Le piantagioni si trovavano ai piedi delle montagne, vicine ad un piccolo villaggio a una decina di miglia da Shencotta, sulla strada per Pondicherrey, altro grande porto, situato sulla costa orientale.

    Il paesaggio intorno era fatto di piccoli villaggi isolati, grandi piantagioni di tè, di cotone e di caffè, templi maestosi, fiumi lenti in cui si bagnavano elefanti, bufali d’acqua, donne e bambini. Grandi alberi ricoperti di fiori lasciavano cadere i loro rami fino quasi a sfiorare l’acqua che scivolava via, portando con sé lumini accesi di offerta e coroncine di fiori. Qua e là si alzavano le alte colonne di fumo delle pire sulle quali venivano bruciati i cadaveri e il suono di nenie e canzoni si mischiava nell’aria profumata di mille profumi strani, balsami, spezie, incensi.

    In quella primavera della metà dell’800, il Kerala era ormai un crogiolo di lingue e di razze: la lingua ufficiale era l’ hindi, ma si parlava anche il francese, dato che i francesi erano sbarcati a Pondicherrey già da un secolo, dilagando poi nella pianura fino ai contrafforti montuosi e anche più a nord. Il contatto con i francesi aveva lasciato alla gente del luogo un particolare modo di fare e di affrontare le cose, una certa tipica indifferenza che li rendeva unici. Si parlava però anche portoghese, spagnolo, olandese, il Kerala era stato meta di navigatori, conquistatori, mercanti, affascinati dalla grandezza del paesaggio, dalla ricchezza opulenta dei suoi Principi, dalla placida vita che vi si conduceva. E molti stranieri, soggiogati da quella bellezza pacifica e dalla cordialità della popolazione, molto diversa dalle popolazioni battagliere del nord, avevano scelto di fare di quell’angolo di India la loro patria per sempre. Nel Kerala la gente tendeva a preferire lunghe soste, risate, canti a battaglie e litigi. Le donne erano piccole di statura, tondette e sorridenti, gli uomini avevano la carnagione scura e i capelli neri corti e ondulati. Erano il sud dell’India, con tutto ciò che comportava essere il sud in un qualsiasi paese del mondo: clima più caldo, carattere più solare, un tranquillo fatalismo che, accentuato anche dalla religione indù e buddista, faceva sì che tutto sembrasse più ospitale e cordiale.

    La Compagnia delle Indie aveva esteso il suo monopolio in tutta l’India e guarnigioni inglesi si erano attestate principalmente nelle regioni del nord, più consone ai principi inglesi, dove era nata una seconda Inghilterra, che manteneva i rigidi canoni della madre-patria quasi senza essere mitigati dal contatto con arte, lingue o culture diverse. Come un detto inglese diceva, non aveva importanza chi fosse la gente che si aveva intorno, bastava che sapesse fare una tazza di tè decente. E gli indiani sapevano fare il tè meglio di chiunque inglese!

    In Inghilterra in quel periodo era Regina e Imperatrice, Vittoria, una bellissima e fragile fanciulla che, una volta salita sul trono, si era rivelata fatta di acciaio del più puro. Sotto di lei l’Impero si era allargato, la mano inglese si era estesa e ormai l’inglese era la lingua più parlata in tutto il mondo conosciuto. Assieme alla lingua, Vittoria e il suo esercito, aveva portato per il mondo il suo modus di vivere, il suo codice d’onore. Così anche in India, come nel resto del mondo, gli uomini inglesi erano fieri e di poche parole, restii a mostrare i loro reali sentimenti, consci soltanto di essere la razza superiore che dominava il mondo. Le donne inglesi avevano quindi accettato di buon grado il loro ruolo di secondo piano, accontentandosi di essere brave mogli e madri e lasciando il resto in mano agli uomini, come d’altra parte era sempre stato. Le regole del bon-ton erano rigidissime e, a mano a mano che gli anni passavano, Vittoria Regina diventava sempre più intransigente e sempre meno disposta ad accettare deroghe al suo modo di pensare. Si era così arrivati a considerare scandaloso non solo il nominare in pubblico indumenti intimi o malattie, parti del corpo o banalità come raffreddori o tossi, ma addirittura a nascondere anche solo all’immaginazione certe parti del corpo femminile e maschile che avrebbero potuto far nascere pensieri poco retti. Si

    era quindi arrivati al punto di ricoprire pudicamente le gambe dei pianoforti, dei tavoli e delle sedie che, con le loro forme sinuose, avrebbero potuto, seppur vagamente, far venire alla mente delle forme femminili. Tutte le statue e tutti i quadri erano stati accuratamente coperti e mimetizzati nei punti strategici e la società che ne era venuta fuori era di una rigidezza pari, se non superiore ai primi Puritani, poiché i Puritani avevano basato le loro rigide regole sulla religione, mentre la nuova società inglese basava le sue regole su una specie di distorto codice d’onore e di morale.

    L’abbigliamento femminile era diventato sempre più complesso e si era arricchito di sottogonne, una signora che si rispetti non poteva averne meno di tre. E poi corpetti, camicie e culottes che non dovevano lasciare scoperto nemmeno un centimetro di pelle, né di giorno né, tantomeno, di notte; per arrivare poi all’eccesso opposto nelle serate di gala, in cui gli abiti da sera coprivano persino le scarpe ma lasciavano quasi scoperte le spalle e i seni. Che, d’altra parte, non potevano né dovevano mai essere nominati o fissati, come se non esistessero. Ma, come disse un viaggiatore francese in visita in Inghilterra in quel periodo, parlando delle feste a cui era stato invitato, la cosa era abbastanza facile, dato che ballare con una donna inglese seminuda era come ballare tenendo tra le braccia delle borse di ghiaccio. In questa società chiusa ed estremamente rigida, l’educazione delle fanciulle di nobile origine veniva affidata alla famiglia nei panni di qualche zia o cugina rimasta zitella e tenuta per carità, che così poteva sdebitarsi. Nelle famiglie più aperte o dove non era a disposizione una parente povera, si ricorreva a qualche impeccabile convitto per signorine per rendere una fanciulla pronta ad entrare in società. Ciò che una fanciulla doveva imparare era versare il tè, danzare in modo impeccabile, leggere e scrivere, ricamare, suonare almeno uno strumento, cantare, saper intrattenere gli ospiti e sapersi comportare adeguatamente in ogni situazione. L’equitazione veniva considerata una stravaganza, una vera dama viaggia in carrozza! Ogni altra conoscenza era considerata poco femminile; non solo, una donna troppo colta avrebbe certo messo in imbarazzo un uomo e le sarebbe stato difficile trovare marito, dato che il concetto era che una donna doveva parlare poco e sapere meno ancora.

    Poiché l’educazione era, nella maggior parte dei casi, impartita da parenti o da insegnanti non sposate, le fanciulle arrivavano alla soglia delle nozze senza avere idea di che cosa significasse veramente diventare una moglie. Qualche madre illuminata rivelava alla figlia, la vigilia della cerimonia, cosa suo marito si sarebbe aspettato da lei, ma nella maggior parte dei casi le madri preferivano tacere, come una specie di rivalsa sul mondo: se loro stesse non avevano saputo nulla, non c’era ragione che le figlie arrivassero più preparate di loro stesse. Che anche loro affrontassero la cosa da sole! E la cosa, spesso era un terribile choc per delle ragazzine di quindici, sedici anni, tale era l’età in cui una fanciulla andava sposa, imbevute di poesie romantiche, di letture di eroi e cavalieri eterei e asessuati che si trovavano invece ad affrontare un uomo in carne ed ossa, spesso molto più vecchio, che pretendeva qualcosa di cui erano completamente all’oscuro e dalla quale non potevano sfuggire in alcun modo. Lo stringere i denti e l’adattarsi era così diventato un altro aspetto della società inglese, così che le donne, apparentemente fragili e pronte a svenimenti e gridolini, nascondevano invece in sé una forza e uno spirito di sopportazione che ben poche altre donne hanno avuto, in seguito. La loro forza maggiore stava nel piegarsi senza mai spezzarsi. Nascere donna in quel periodo significava essere destinata ad arricchire la propria famiglia attraverso matrimoni ben combinati in cui l’amore non era certamente un componente principale. L’amore era qualcosa di cui si leggevano poesie e si facevano sogni, ma la realtà invece era un marito di molto più anziano e poco disposto a dar credito a sogni e fantasie. La donna doveva essere capace di mandare avanti in modo ammirabile la casa, essere una buona madre, dare l’erede giusto e tenersi da parte, senza altre richieste. Da qui era nato quasi l’obbligo non scritto ma ormai radicato che nel matrimonio non ci potesse essere amore e che, anzi, questo fosse indice di bassa condizione sociale. Che Lord e Lady X si amassero era ridicolo, forse il loro stalliere amava la moglie che si era scelto da solo! Era invece comprensibile che Lord X avesse un’amante più o meno fissa e che Lady X non disdegnasse le attenzioni di qualche giovane in cerca di protezione. Era in quel genere di società che, in quell’inizio di primavera, la carrozza avanzava al piccolo trotto dei cavalli, portando alla sua nuova dimora Amanda De Castelain e suo marito, sir Geoffrey Andrew Radcliffe. Erano giunti a Cochin dall’Inghilterra il giorno precedente, dopo un lungo viaggio per mare e la fanciulla era ancora frastornata ed impaurita. Non sapeva quasi nulla di questo suo marito, se non che era molto ricco, che aveva salvato la sua famiglia dalla rovina e che l’aveva sposata e ricoperta di vestiti e gioielli nel giro di due mesi. Sua madre le aveva spiegato che Lord Radcliffe possedeva una immensa piantagione di tè, una casa che si chiamava Il Nido della Colomba in un posto dal nome impossibile e che viveva in India da moltissimo tempo. Suo padre vi era giunto con l’Esercito Britannico più di trent’anni prima, ma aveva preferito lasciare la divisa e dedicarsi alla coltivazione del tè. Aveva sposato la figlia di un nobile scozzese e non era più rientrato in Inghilterra, sembrava che avesse trovato la vita in India molto più di suo gusto. Quando il figlio Geoffrey aveva avuto sette anni, lo aveva imbarcato per la madre patria per acquisire quell’educazione che lo avrebbe fatto riconoscere in giro per il mondo come un vero Lord inglese. Aveva sperato che tornasse con una moglie, ma Geoffrey invece, dopo aver girato l’Europa ed essersi divertito come ogni bravo rampollo inglese, era tornato solo e, alla morte del padre, si era dedicato completamente alle piantagioni, ingrandendole e facendole fruttare sempre di più. Soltanto quando anche la madre era morta, il giovane Lord si era reso conto che avrebbe dovuto avere un erede e così ora Amanda era seduta accanto a lui in quella carrozza, diretti chissà dove, in un paese sconosciuto e che la spaventava un poco, moglie di uno sconosciuto che, invece, la spaventava moltissimo.

    2.

    secondo capitolo

    Il dondolio della carrozza dava ad Amanda quasi più noia del beccheggio e del rollio della nave, ma lei teneva cocciutamente gli occhi chiusi. La strada era polverosa, le cortine di cuoio messe sui finestrini non impedivano del tutto alla polvere di entrare e ad ogni curva della carrozza si spostavano quel tanto che bastava per far entrare folate di finissima polvere giallastra; nello stesso tempo, però, le impedivano quasi completamente di vedere fuori il paese che stavano attraversando, ma la fanciulla non osava muoversi per scostare le pesanti tende scure. Il calore era soffocante e il vestito da viaggio, quello che Madame Sophie, la famosa sarta di Londra, aveva considerato il più adatto per le Colonie, la stava uccidendo lentamente. Per l’ennesima volta si portò la mano guantata all’alto colletto di pizzo color ecru e cercò di scostare appena il bordo, così che l’aria penetrasse almeno fino alla gola. Sentiva che, sotto alla giacchina aderente di panno color tabacco con i risvolti verdi e alla camicetta di seta, il sudore la stava bagnando come se fosse seduta dentro ad una tinozza, ma non poteva fare nulla, se non restare immobile e fingere di dormire, sotto alla veletta verde cupo. Per un attimo i suoi occhi scivolarono sugli stivali lucidi e neri dell’uomo seduto accanto a lei, apparentemente rilassato e completamente a proprio agio e provò un piccolo brivido di paura. Suo marito. Ogni volta che pensava a lui in quei termini, le veniva alla gola una specie di singhiozzo, che reprimeva, naturalmente. Richiuse gli occhi, almeno fino a che fingeva di dormire, lui non si sarebbe sentito in dovere di tenere in piedi una conversazione o di costringerla a guardarlo in faccia, a parlare con lui. Mentre

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