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Torino che nessuno conosce
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E-book304 pagine4 ore

Torino che nessuno conosce

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Alla scoperta della storia magica e segreta del capoluogo piemontese

La città di Torino custodisce segreti ignoti anche alla maggior parte dei torinesi stessi, che spesso attraversano vie e vicoli senza conoscere le vicende dei personaggi a cui sono intitolati. I palazzi, le strade e i musei raccontano aneddoti che pochi sono in grado di ascoltare. La storia della città è ricca di avvenimenti storici di grande importanza, che a volte vengono ignorati o dimenticati dai visitatori che la esplorano. Visitatori che invece sono ben consapevoli dell’alone sovrannaturale e occulto che caratterizza Torino, una delle capitali europee della magia (nera, soprattutto). Ma anche questo è un aspetto che nasconde molto più di quello che si pensa. Laura Fezia conduce i lettori in uno straordinario viaggio alla scoperta del volto oscuro di Torino, delle storie, dei personaggi e degli aneddoti più segreti ed emozionanti della città.

I luoghi misteriosi, i personaggi sconosciuti e i segreti della città più magica d’Italia

Tra gli argomenti trattati:

Una gloriosa e misteriosa anticamera
Torino romana
Torino nel Medioevo
Torino barocca
Tutta la storia di Torino in un solo palazzo
Napoleone a Torino
«Qui si fa l’Italia o si muore!»
C’era una volta la Fiat
La città del mistero
Quale sindone c’è a Torino?
Vie curiose, misteriose, inquietanti
Torino degli spiriti
Segreti, intrighi e misteri della Certosa reale di Collegno
Torino e il fuoco
Un po’ di cronaca, ovviamente nera
A Torino il mistero è alla luce del sole
Laura Fezia
È nata a Torino, dove vive e lavora. Studiosa del mistero, appassionata di cronaca giudiziaria, fa la consulente e la scrittrice. Con la Newton Compton ha pubblicato Misteri, crimini e storie insolite di Torino; Il giro di Torino in 501 luoghi; Forse non tutti sanno che a Torino…; Alla scoperta dei segreti perduti di Torino; Torino segreta dei Savoia, Storie segrete della storia di Torino e Torino che nessuno conosce.
LinguaItaliano
Data di uscita17 set 2021
ISBN9788822752659
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    Anteprima del libro

    Torino che nessuno conosce - Laura Fezia

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    754

    Prima edizione ebook: ottobre 2021

    © 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-5265-9

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica a cura di Punto a Capo, Roma

    Laura Fezia

    Torino

    che nessuno conosce

    Alla scoperta della storia magica

    e segreta del capoluogo piemontese

    marchio-front.tif

    Newton Compton editori

    Indice

    Una gloriosa e misteriosa anticamera

    Torino romana

    Torino nel Medioevo

    Torino barocca

    Tutta la storia di Torino in un solo palazzo

    Napoleone a Torino

    «Qui si fa l’Italia o si muore!»

    C’era una volta la FIAT

    La città del mistero

    Quale Sindone c’è a Torino?

    Vie curiose, misteriose, inquietanti

    Torino degli spiriti

    Segreti, intrighi e misteri della Certosa Reale di Collegno

    Torino e il fuoco

    Un po’ di cronaca, ovviamente nera

    A Torino il mistero è alla luce del sole

    Bibliografia

    Una gloriosa e misteriosa anticamera

    Nelle vecchie case di un tempo, soprattutto (anche se non solo) in quelle della nobiltà e della buona borghesia, esisteva un ampio ambiente ormai quasi del tutto assente nelle costruzioni moderne: l’anticamera o ingresso. Aveva il compito di celare le stanze in cui gli abitanti vivevano la propria quotidianità agli occhi indiscreti di coloro che bussavano alla porta per una visita di cortesia o un servizio. Solo quando qualcuno si trasformava da semplice conoscente in amico poteva accedere all’intimità della famiglia.

    Torino – che ancora, sotto sotto, risente del proprio passato di città sede della corte reale – ha molte anticamere e tra queste la più intrigante è certamente la Valle di Susa.

    Questo vasto territorio – 1200 chilometri quadrati di superficie – confinante con la Francia, fu da sempre tra le più importanti vie di comunicazione tra il Mediterraneo e l’Europa nord occidentale, colonizzato, nel corso dei millenni, da popolazioni eterogenee, attraversato da eserciti, mercanti, pellegrini, semplici viandanti, animato da scontri e alleanze, tratto significativo della via francigena, teatro di guerre e trattati di pace, serbatoio di sacro e profano, miracoli e omicidi, fucina di idee, di cultura e di leggende. Tutto ciò e molto altro ha lasciato nell’incantevole paesaggio che lo contraddistingue tangibili testimonianze storiche rappresentate da vestigia di varia natura, castelli, fortificazioni, abbazie.

    Ma non solo.

    In Valsusa esistono, per esempio, le tracce di qualcosa che oltrepassa la Storia e parla dell’epoca d’oro in cui gli uomini camminavano con gli dèi: si tratta di Rama, una mitica città ciclopica detta l’Atlantide piemontese, la cui esistenza, in base alle pochissime notizie che la riguardano, può essere collocata temporalmente trentamila anni prima di Cristo.

    Susa_valley_from_Sacra_di_San_Michele.jpg

    La Valsusa vista dalla Sacra di San Michele (foto di Isiwal su licenza CC BY-SA 4.0).

    Racconta una leggenda che in un tempo antichissimo un dio dall’aspetto di un drago di fuoco discese nel territorio della valle e donò la Conoscenza agli uomini: insegnò loro le scienze, l’agricoltura, l’arte, l’alchimia, in una parola lo Shan, un termine che indica la Natura, intesa nella sua globalità, sia sul piano materiale, sia su quello sottile. Quando decise di lasciare il Pianeta, costruì una grande ruota d’oro forata al centro, utilizzando il metallo del carro con cui solcava i cieli, nella quale racchiuse i suoi doni per l’umanità. Tale ruota, insieme ad altre reliquie, venne portata nel Tempio del fuoco, intorno al quale fu costruita la città di Rama, protetta da un grande drago, il cui scopo era quello di custodire e dispensare l’antica Conoscenza a chi ne fosse stato degno. Tali preziose risorse, per esempio, furono alla base della sapienza dei druidi. Rama iniziava, secondo la mitologia, nella zona del Roc Maol, l’odierno Rocciamelone, forse sul monte stesso e da lì si estendeva lungo tutta la valle, attraverso i territori degli attuali paesi di Bruzolo, Chianocco e Foresto, sulle rive della Dora: aveva mura imponenti, simili a quelle delle città megalitiche del Centro America, delle quali rimangono poche vestigia nascoste dalla vegetazione. Ma poi l’imponente complesso scomparve, così come era scomparsa Atlantide, inghiottita dall’oceano per volere degli dèi a causa dell’iniquità dei suoi abitanti, come testimonia anche Platone nel Crizia e nel Timeo, mentre sono sconosciute le cause che decretarono la fine della città megalitica della Valsusa. Si narra, tuttavia, che la Conoscenza in essa custodita non andò perduta: il cerchio di pietre all’interno del quale si manifestava il misterioso dio diventa di nuovo visibile a chi «ha occhi per vedere» nella notte di Samhain – corrispondente al capo d’anno celtico e trasformata in Halloween dalla cultura occidentale d’oltreoceano – durante la quale la valle si popola di presenze – umane e non – che «si incontrano tra le eterne, maestose pietre e celebrano il ritorno alla Terra ancestrale».

    Esistono molteplici versioni di questo mito, una delle quali indica in Fetonte il dio che discese presso gli uomini. Tale personaggio, a sua volta, è presente in altre leggende che riguardano Torino: si tratterebbe dello scapestrato figlio di Apollo che rubò il carro solare del padre e – non sapendolo guidare – combinò tutta una serie di guai prima di essere raggiunto da una folgore di Zeus e precipitare nel fiume Eridano, da alcuni indentificato con il Po. L’individuazione della sua tomba è motivo di gustosi battibecchi tra gli esoteristi (e soprattutto tra i sedicenti tali): prevale la tesi – peraltro senza riscontro alcuno – che si trovi nella zona meridionale del parco del Valentino, laddove Carlo Ceppi costruì la Fontana dei dodici mesi in occasione dell’Esposizione del 1898.

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    La caduta di Fetonte nel fiume Eridano in un’incisione di Nicola Beatricetto (

    xvi

     secolo).

    Con le leggende che parlano di Rama se ne intreccia un’altra, di epoca medievale, che racconta di un drago d’oro in una caverna del monte Musinè, a guardia di una sfolgorante gemma verde dagli straordinari poteri, che altro non sarebbe se non un oggetto di casa nei miti relativi a Torino: il Graal.

    Non si sa come né perché Rama scomparve, lasciando solo i pochi resti di mura visibili ancora oggi tra la vegetazione: come Atlantide, fu vittima dell’ira degli dèi a causa della malvagità dei propri abitanti e invece di essere sprofondata nell’oceano, venne sommersa da un diluvio o incenerita con un fulmine, riecheggiando la vicenda di Noè o quella di Sodoma e Gomorra?

    Di certo, nella leggenda della città ciclopica della Valsusa vi sono numerosi rimandi ad altre tradizioni e non solo per il racconto in sé, ma anche in relazione alle cause della sua misteriosa scomparsa, cui nessun autore fa cenno; anche le grandi città megalitiche del Centro America vennero improvvisamente abbandonate dai loro abitanti a un certo e imprecisato punto della Storia, restando per secoli sconosciute, avvolte dalla foresta e ritrovate solo casualmente.

    E allora possiamo ripensare ai racconti delle civiltà precolombiane, che narrano di Grandi Esseri venuti dalle stelle per portare la Conoscenza all’umanità, ma non solo: anche a quelli dei Sumeri, della Bibbia, dell’Iliade e dell’Odissea, dei Veda, della mitologia norrena, dove troviamo Anunnaki, Elohìm, Theoi, Deva, Asi, personaggi extra-ordinari, solo in seguito divinizzati, dotati di tecnologie allora fantascientifiche, in grado di volare su veicoli minuziosamente descritti (per esempio i Vimana dell’induismo), in possesso di armi micidiali. Anche il dio sceso in Valsusa, che si chiamasse Fetonte oppure in altro modo, si spostava, secondo la leggenda, con un carro di fuoco e insegnò agli uomini il «segreto dello Shan», ossia delle leggi che regolano l’universo «così in basso come in Alto», come afferma la Tavola smeraldina di Ermete Trismegisto, che ritroveremo ancora nell’ultimo capitolo.

    Insomma, nel mito di Rama si intrecciano gli alchimisti e i Grandi Esseri dei maya, degli inca, degli aztechi, Viracocha, Quetzalcóatl, Enki ed Enlil, Anu, Yahweh, Jupiter, Shiva, Thor, in una confusione solo apparente, ulteriormente complicata dalle traduzioni da lingue antiche, da diverse terminologie, da differenze culturali e dalle manipolazioni che, in alcuni contesti, ne vennero fatte, che però raccontano tutte la stessa storia: quella di un tempo in cui una o più civiltà evolute, provenienti dal Cosmo, scesero sulla Terra e forse addirittura non si limitarono a portare agli uomini la Conoscenza, ma crearono l’homo sapiens attraverso tecniche di ingegneria genetica. Quando se ne andarono, promisero di tornare, ma forse alcune delle loro creature non si dimostrarono all’altezza e non furono più in grado di utilizzare pienamente la tecnologia insegnata dai Padri Galattici: abbandonarono le città ciclopiche e tornarono a vivere da comuni mortali, conservando, con il trascorrere del tempo, solo più il ricordo sottile di quel momento d’oro della loro storia, che trasformarono in religioni o in miti.

    Ma altre leggende aleggiano sulla Valsusa, come quelle legate alla Sacra di San Michele.

    L’imponente complesso attuale, frutto di numerosi rimaneggiamenti e ampliazioni, fu fondato da san Giovanni Vincenzo, discepolo di san Romualdo, il quale, lasciata la cattedra episcopale di Ravenna che occupava dal 982, nella primavera del 988 decise di dedicarsi all’eremitaggio. Non si conoscono i motivi che lo spinsero a spostarsi dalla Romagna al Piemonte e a ritirarsi – con alcuni compagni – sul monte Caprasio, a pochi chilometri da Segusium, l’odierna Susa. Qui edificò una cappella dedicata alla Vergine, ma poco dopo accadde qualcosa che scombinò i suoi piani. Sognò, infatti, l’arcangelo Michele, che gli chiese di costruire un luogo sacro in suo onore. A questo punto le leggende forniscono versioni discordanti, la più intrigante delle quali, però, racconta quanto segue: il sant’uomo decise di obbedire ai desideri di Michele e si attrezzò per dare inizio alla costruzione della chiesa, ma la notte precedente l’inizio dei lavori uno stuolo di angeli trasferì tutto il materiale che era stato preparato sul Caprasio in cima al dirimpettaio monte Pirchiriano – sede di un antico culto druidico – e ciò fu interpretato come un segno che indicava il luogo dove il celeste committente intendeva fosse edificato il sacrario in suo onore; un’altra versione afferma che l’arcangelo si intrufolò di nuovo nei sogni di Giovanni e gli ordinò il cambiamento della location. Si manifestarono altri prodigi allorché il vescovo di Torino si accampò ai piedi del monte in previsione della consacrazione della chiesa, che avrebbe dovuto avvenire il giorno successivo: nella notte, però, si svegliò di soprassalto, allertato da grida di stupore e spavento e da un gran fragore. Uscito, scoprì che quel trambusto era causato da una visione straordinaria, che aveva attirato l’attenzione di molti valligiani: un globo di luce sorvolava il Pirchiriano, mentre dall’interno della chiesa pareva si sprigionassero alte fiamme. Il vescovo si arrampicò velocemente sulle pendici del monte e giunse in cima, spinto dalla curiosità entrò nell’edificio e vide qualcosa che lo lasciò stupefatto: l’altare era sollevato a qualche metro da terra in una grande esplosione di luce. Concluse che non sarebbe stato necessario procedere con la cerimonia di consacrazione, poiché questa era già avvenuta in modo soprannaturale.

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    La Sacra di San Michele in un’incisione ottocentesca.

    Nella costruzione e nello sviluppo della Sacra di San Michele entra anche un altro personaggio, tale Hugo di Montboissier. Costui, un nobile originario dell’Alvernia vissuto tra il 940 e il 1016, trascorse parte della sua vita sperperando denaro a destra e a manca, tanto da meritarsi il soprannome di Scucito; a un certo punto, però, si pentì (forse vedendo assottigliarsi il proprio patrimonio) e si recò a Roma per fare ammenda; qui gli venne posta un’alternativa tra un lungo esilio e la costruzione di un’abbazia. Hugo optò per la seconda e tornando in Francia fu catturato dalla chiesa costruita dall’eremita Giovanni Vincenzo, così scelse quel luogo per onorare il proprio impegno. Abbazia e chiesa furono donati ai monaci benedettini, che se ne presero cura fino al 1836 quando, per volere di Carlo Alberto, passarono all’ordine dei rosminiani.

    Altre leggende interessano sia la Sacra, sia la Valsusa in generale.

    C’è, per esempio, la storia della Bella Alda e del suo duplice salto, il primo accompagnato dagli angeli, il secondo esiziale per la protagonista. I particolari di questa vicenda sono ignoti, non si sa a quale epoca si riferisca, c’è chi dice ai tempi di Federico Barbarossa, chi sostiene risalga al xiv secolo, chi fornisce altre indicazioni ancora, ma questa incertezza è tipica delle leggende popolari. Meno ancora si conosce sull’identità di Alda, si sa solo che era un’avvenente fanciulla e proprio a causa del suo aspetto fu notata da alcuni rozzi mercenari che si erano inerpicati in cima al monte alla ricerca di bottino. Vedendosi improvvisamente circondata da quel gruppo di malintenzionati, la giovane, terrorizzata, fuggì, ma nella frenesia della corsa non si avvide di essere giunta in cima al torrione, di cui oggi restano solo i ruderi: non c’era più scampo, davanti a lei si spalancava il vuoto. Persona di grande fervore religioso, la giovane si raccomandò alla Madonna e piuttosto che cadere nelle mani dei suoi inseguitori, con una preghiera sulle labbra e gli occhi chiusi spiccò un salto. Ma la Vergine, per premiare la sua fede e il suo anelito di purezza, inviò due angeli che la sostennero nella caduta e la depositarono dolcemente al suolo, incolume. Il miracolo corse ben presto di bocca in bocca e Alda fu festeggiata da tutti gli abitanti, che la indicarono come prediletta dal Cielo, tanto che le amiche divennero gelose della sua popolarità e iniziarono a spettegolare, mettendo in dubbio il prodigio di cui era stata protagonista. La ragazza, allora, punta nel vivo e preda di un insensato orgoglio, volle replicare la performance per provare la preferenza celeste di cui si riteneva oggetto, certa che anche questa volta qualche santo si sarebbe scomodato per lei. Convocò le comari invidiose e si lanciò dal torrione davanti ai loro occhi, ma nessun angelo accorse per avallare un peccato di superbia e la poveretta si sfracellò al suolo. Quando i valligiani accorsero sotto il dirupo si avvidero che di lei era rimasto ben poco: ël toc pi gros – conclude la leggenda, riferita in piemontese – a l’era l’ouria (il pezzo più grosso era l’orecchio).

    Strettamente connessa alla Sacra e soprattutto alla sua dedica al celebre arcangelo, c’è poi la storia della Linea di san Michele, che si estende dall’Irlanda a Israele passando per Gran Bretagna, Francia, Piemonte, Puglia e Grecia, dove si trovano sette luoghi sacri a lui intitolati. Si tratta di una linea energetica il cui compito sarebbe quello di difendere l’umanità dagli attacchi del Male e di favorire la sua evoluzione in senso cosmico.

    Un altro mitico monte a guardia della Valsusa è il Musinè, intorno al quale le leggende – antiche e moderne – si sprecano. Sembra che il celebre episodio raccontato da Eusebio di Cesarea che nel 312 d.C. vide protagonista Costantino ebbe luogo proprio alle sue pendici e non nei pressi di Roma. Quella di ponte Milvio, infatti, non fu l’unica battaglia combattuta dal futuro imperatore contro l’esercito del rivale Massenzio, ve ne furono altre, tra le quali una particolarmente significativa alle porte di Augusta Taurinorum. Fu nella notte precedente quello scontro che si verificò il prodigio riportato da tutti i libri di storia, quando Costantino vide in cielo una grande croce luminosa recante la scritta «In hoc signo vinces» e – impressionato – ordinò che fosse riprodotta sulle insegne del proprio schieramento. La personalità del divulgatore di quella che è niente più di una leggenda dovrebbe raccontarla lunga sulla sua veridicità: Eusebio di Cesarea – che pubblicò la Vita Constantini pochi mesi dopo la morte dell’imperatore, così da non correre il rischio di essere sbugiardato – fu un abile intrallazzatore e falsario per sua stessa ammissione; nella sua Historia ecclesiastica (8,2), infatti, dichiarò candidamente: «In questa storia presenteremo in generale solo quegli eventi che possono risultare utili prima a noi stessi e poi ai posteri» e nella sua seconda più importante opera, Preparazione evangelica (12,32), rincarò la dose: «Può essere lecito e opportuno utilizzare la falsità come medicina, per il beneficio di coloro che vogliono essere ingannati». Ma in questa vicenda di pura fantasia, a un certo punto entrarono a gamba tesa i sostenitori di un’altra ipotesi: ciò che Costantino vide nel cielo sopra il Musinè, cui la Chiesa del iv secolo aggiunse la propria didascalia, così come gli angeli e i globi di fuoco che agirono intorno alla Sacra di San Michele secoli più tardi sarebbero veicoli spaziali, che da sempre avrebbero una loro base nelle viscere del monte.

    Abbandonando le leggende e approdando alla Storia, vediamo che anche in questo ambito la Valsusa non teme confronti.

    Fu, per esempio, il prestigioso portone d’ingresso attraverso il quale i Savoia giunsero a Torino.

    Il primo ad accorgersi di come i valichi alpini che la circondavano rappresentassero eccellenti fonti di guadagno su un percorso tanto strategico fu Umberto di Moriana, che le cronache indicano come il capostipite della dinastia con il nome di Umberto Biancamano. Le notizie certe intorno a questo personaggio sono poche, nonostante gli sforzi compiuti dai suoi discendenti per illuminare le tante ombre che lo circondano. Nel leggere la sua striminzita biografia si evince che rincorse a lungo un riscatto sociale dovuto, forse, a umili o incerti natali e si ingegnò con tanta ostinazione che il successo gli arrise: infatti fu un abile maneggione e uno spregiudicato uomo d’affari tanto che, grazie a continui cambiamenti di fronte alla ricerca dell’alleanza più conveniente, riuscì a ottenere da Corrado ii il Salico non solo le contee di Moriana, di Belley, d’Aosta e il Chiablese, ma anche, particolare ben più importante, il controllo esclusivo sui valichi alpini del Moncenisio (oltre che del Piccolo San Bernardo). Ciò gli consentì di poter imporre pedaggi per il transito di mercanti e pellegrini, ma gli donò anche la facoltà di favorire il passaggio solo agli eserciti disposti a concedere favori al proprietario o ai suoi alleati. In tal modo, i Savoia iniziarono ad accumulare ricchezze e impararono a diventare disinvolti maestri nell’arte della diplomazia e del tornaconto personale. Il colpo grosso, tuttavia, quello che dal 1563 consentì al ducato di Savoia di entrare a pieno titolo nel Gotha delle potenze europee nonostante le sue esigue dimensioni territoriali, fu messo a segno da Oddone, figlio di Umberto, che nel 1045 convolò a nozze con Adelaide di Susa, erede della marca di Torino, che portò in dote allo sposo un territorio molto più vasto di quanto il nome potrebbe far supporre e comprendeva, oltre al territorio comitale del futuro capoluogo piemontese, anche le contee di Alba, Albenga, Asti e Ventimiglia.

    Ma dopo aver detto che nel 1214 dalla Valle di Susa transitò Francesco d’Assisi diretto oltralpe attraverso la via francigena del Moncenisio, fu ospitato (forse) da Beatrice, consorte di Tommaso i di Savoia, fondò il convento segusino dei frati minori e lasciò alla duchessa una manica del proprio saio, non si può concludere un capitolo dedicato alla zona senza introdurre un pizzico di esoterismo spicciolo.

    Spostiamoci, per questo, ad Avigliana, in bassa valle, dove troviamo intriganti leggende di fantasmi.

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    Avigliana in un’incisione del 1725. 

    Oggi la cittadina è celebre per i suoi laghi (quello grande e quello piccolo), ma un tempo era sovrastata da un castello, di cui attualmente restano solo più i ruderi, fatto costruire nel 942 da Arduino Glabrione, marchese di Torino. A causa della sua posizione, tale imponente edificio fu per secoli un importante punto strategico della Valsusa e per questo motivo divenne, nel tempo, oggetto di rimaneggiamenti, che lo trasformarono da maniero feudale in vera e propria fortezza provvista di mura merlate, bastioni e ponti levatoi, ma fu anche bersaglio di assedi, saccheggi e distruzioni. Il colpo fatale che decretò la sua fine gli venne inferto nel 1691 dalle truppe francesi del maresciallo Catinat. Tra le sue mura – racconta una leggenda – si manifestano numerosi fantasmi, il più intrigante dei quali fa la spola tra il castello e il lago grande di Avigliana: è quello di un guerriero accompagnato da un gruppo di soldati; la tradizione popolare afferma che si tratti di Filippo ii d’Acaja, condannato da Amedeo vi a morire per annegamento nel lago. La storia di questo ramo cadetto dei Savoia è densa di racconti poco noti, il più interessante dei quali è quello che vide lo scontro tra Giacomo d’Acaja e il cugino Conte Verde; il primo, infatti, cercò di svincolarsi dalla fastidiosa sudditanza al ramo principale della dinastia e brigò per ottenere un’investitura privilegiata da Carlo iv, imperatore del Sacro Romano Impero, entrando in conflitto con Amedeo vi di Savoia, che in breve tempo lo riportò a più miti consigli, facendolo imprigionare: la libertà costò al principe 160.000 fiorini d’oro e l’obbligo di porre fine

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