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In ginocchio
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E-book483 pagine6 ore

In ginocchio

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Info su questo ebook

Sky

Pensate di conoscermi. È quello che voglio.
Farvi sentire come se fossi un amico di cui vi potete fidare. È forse la parte più importante del mio lavoro. Non guasta che io sia anche attraente e ricco. Aiuta la mia nobile causa.
Pensate di conoscermi, ma non è così.
Tutti hanno dei segreti. Il mio è nascosto meglio di altri, perché potrebbe costarmi tutto.
Per questo non ho mai lasciato avvicinare nessuno.
Fino a stanotte.
Vedete quell’uomo, quel ragazzo sulla prua del mio yacht, che ho appena salvato dall’oceano?
Ecco, lui è quello che mi costerà tutto.

Rayne

Per anni ho mantenuto il suo segreto.
L’ho seguito come un patetico stalker, come il resto dei suoi sedici milioni di follower. Sempre pronto a rispondere a ogni sua chiamata.
Poi ho cercato di dimenticarlo.
Ma lui non mi ha lasciato andare.
Sostiene di non volermi, ma sappiamo entrambi che non resisterà.
Quando la nostra storia sarà finita – perché è certo che finirà – lui si sarà preso tutto.

In ginocchio è la storia di un amore impossibile, ma pronto ad affrontare qualsiasi sfida.
LinguaItaliano
Data di uscita13 dic 2022
ISBN9788855315500
In ginocchio

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    Anteprima del libro

    In ginocchio - Ellis James

    In Ginocchio

    In Ginocchio

    On my knees Vol. 1 e Vol. 2

    Ellis James

    Hope Edizioni

    Titolo: In ginocchio

    Serie: On my knees Vol. 1 e Vol. 2

    Autore: Ellis James

    Copyright © 2022 Hope Edizioni


    Titolo originale primo libro: Worship

    Titolo originale secondo libro: Adore

    Copyright © 2019. Worship by Ella James

    Copyright © 2019. Adore by Ella James

    Published by arrangement with Bookcase Literary Agency and RF Literary.


    www.hopeedizioni.it

    info@hopeedizioni.it

    ISBN EBOOK: 9788855315500


    Progetto grafico di copertina a cura di Angelice Graphics

    Immagini su licenza Stock. Adobe.com

    Fotografi: theartofphoto; venera


    Traduttrice: Maria Rosaria Buonpane

    Revisione della traduzione: Monica Lombardi

    Editing: Done&Tail

    Riletture finali: Silvia Bortoli, Rosy Fotia

    Impaginazione digitale: FranLu


    Questo libro è concesso in uso esclusivamente per il vostro intrattenimento personale. Nessuna parte di questo libro può essere riprodotta in qualunque forma o con qualsiasi mezzo elettronico o meccanico, compresi i sistemi di memorizzazione e recupero delle informazioni, senza il permesso scritto dell’autore, tranne nel caso di brevi citazioni contenute in una recensione. Se state leggendo questo libro e non lo avete comprato, per favore, scoprite dove potete acquistarne una copia. Vi preghiamo di rispettare il lavoro dell’autore. Questo libro è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autore o sono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, vive o morte, avvenimenti o luoghi è puramente casuale.

    Tutti i diritti riservati.


    Prima edizione digitale dicembre 2022

    Indice

    Nota di Lettura

    Libro Primo

    Parte I

    Uno

    Due

    Tre

    Quattro

    Cinque

    Parte II

    Uno

    Due

    Tre

    Quattro

    Cinque

    Sei

    Sette

    Otto

    Parte III

    Uno

    Due

    Tre

    Quattro

    Cinque

    Sei

    Libro Secondo

    Parte I

    Uno

    Due

    Tre

    Quattro

    Cinque

    Sei

    Sette

    Otto

    Nove

    Dieci

    Undici

    Parte II

    Uno

    Due

    Tre

    Quattro

    Cinque

    Sei

    Sette

    Otto

    Nove

    Dieci

    Undici

    Parte III

    Uno

    Due

    Tre

    Quattro

    Cinque

    Sei

    Sette

    Otto

    Nove

    Dieci

    Undici

    Dodici

    Tredici

    Epilogo

    Hope Edizioni

    Nota di Lettura

    I libri della serie On My Knees trattano l’incontro tra la fede e le tematiche LGBTQ+.

    Il modo in cui sono stati affrontati questi argomenti potrebbe non essere gradito a tutti.

    Se pensi di essere sensibile a questi temi, probabilmente questa serie non fa per te.

    Baci, Ellis

    Libro Primo

    Parte I

    Uno

    Marzo 2016

    Vance


    «Tutto bene?»

    Lei alza lo sguardo dal bikini che si sta riallacciando, sorridendo con i denti premuti contro il labbro. «Sì.» La parola è un dolce sussurro. Gli occhi sono ancora lucidi mentre mi osservano da capo a piedi. «Allora…» Mi rivolge un sorriso con tanto di fossette. «Posso avere il tuo numero?»

    Sono perso nei miei pensieri, così tanto che non mi accorgo che mi ha fatto una domanda fino a quando le sue guance lentigginose non arrossiscono. «Solo mentre siamo in crociera, se vuoi, ma…» Fa quella piccola risatina, quella strana che fanno le donne quando sono insicure.

    «Ma vuoi il mio numero.» Inarco le sopracciglia.

    Un’altra risatina. «Direi di sì.»

    «Quanti anni hai, dolcezza?»

    Raddrizza le spalle, spingendo in fuori il seno piccolo. «Quanti me ne dai?» La voce le è diventata di nuovo tutta sexy e roca, ma non riesce a mantenere il ruolo da seduttrice esperta. Sorride, e le guance rosa e i codini biondi la fanno sembrare al massimo una diciottenne. «Ventidue» aggiunge poi. «Sono una responsabile d’ufficio dell’Indiana, in crociera con la mia squadra.» Si avvicina, dandomi l’impressione che la capanna sull’isola diventi più piccola. Un dito scorre sui miei pettorali. «E tu cosa fai, cowboy?»

    Eh? Oh, giusto. Indossavo un cappello di paglia sul catamarano, prima che il nostro gruppetto andasse a fare snorkeling.

    Passo una mano sulla soffice curva del suo seno e strizzo con delicatezza un capezzolo fra le dita. «Mi faccio te.»

    Le rivolgo un sorriso stordito e ubriaco. Lei ride, una risatina acuta del tipo tu sei pazzo, mentre i suoi occhi castani vagano ancora su di me. Raccoglie i codini in una mano, li solleva dalle spalle baciate dal sole. Poi si inginocchia davanti a me sul pavimento di sabbia battuta.

    Alza il mento, e penso: è carina. È vero. Però, il pensiero è come un discorsetto di incoraggiamento. Scopatela, Van. Scopatela e basta, cazzo, e falla finita.

    Afferro la bottiglia di tequila dal tavolino di legno consumato, la sollevo e bevo un lungo sorso.


    Scopatela e basta…

    Il pensiero riecheggia ai bordi della mia coscienza. Provo a raggiungerlo, a dargli un senso, ma mi sta scoppiando la testa, dannazione.

    Merda.

    Schiudo le palpebre, strizzo gli occhi alla macchia nera e grigia che si muove su di me. Ondeggia. O sono io a farlo.

    Uno sciame di rumori mi invade le orecchie. Il suono dell’oceano. Mi volto un pochino. Che male. I miei occhi annebbiati pizzicano quando abbasso lo sguardo su di me. Ho il costume. Mi muovo appena sull’amaca, e la tela mi punge la schiena bruciata dal sole.

    Cazzo. Sono… sono ancora su quell’isoletta. Quella dove siamo andati per l’escursione di snorkeling. Perché è buio?

    Provo a deglutire mentre mi guardo intorno, ma ho la bocca secca. Davvero secca. Mi metto seduto sull’amaca e mi gira la testa. È notte.

    Cos’è successo?

    Sull’oceano nero e piatto c’è il riflesso del chiaro di luna. Luccica sulle onde che si infrangono sulla riva.

    Scendo dall’amaca su gambe barcollanti, sentendo che forse potrei vomitare. Il tallone mi finisce su qualcosa di freddo e duro. È una bottiglia di tequila, vuota e per metà sepolta nella sabbia. I miei occhi pulsano. Me li sfrego con una mano sudata.

    «Scopami, cowboy. Scopami!»

    Abbiamo fatto sesso sull’amaca. Adesso me lo ricordo. Codini. Mi trovo sul lato opposto dell’isola, appena una briciola di sabbia su cui siamo venuti per l’escursione in catamarano della domenica pomeriggio, durante la crociera. Io e lei – come si chiamava? – abbiamo preso una bottiglia di tequila dall’open bar e abbiamo attraversato le basse dune di sabbia al centro dell’isola, fino alla riva orientale, dove abbiamo trovato le capanne. Il mio sguardo si sposta su quella in cui mi ha fatto un pompino; sono dei piccoli, rotondi affari di legno con tetti di paglia, sparsi tra le palme.

    Merda. Devo tornare dall’altro lato dell’isola, in fretta. Sono sorpreso che lo snorkeling sia durato così a lungo. Forse dopo hanno organizzato una specie di falò pacchiano.

    Devo essermi addormentato secco se Tette Sode mi ha lasciato qui. Cos’era… una specie di amministratrice? Responsabile di qualcosa. Una ragazza così non li avrebbe lasciati andar via senza di me.

    Ignoro la posizione della luna nel cielo mentre estraggo le infradito dalla sabbia e ci infilo i piedi ustionati, poi mi avvio verso il centro dell’isola. Un graffio profondo sulla caviglia grazie a un cespuglio, e torno verso la spiaggia. È troppo buio per attraversare le dune, ma devo fare in fretta.

    Deglutisco ancora nonostante la gola secca mentre fisso il mare. Che ore sono? Un attimo – il mio telefono! Dov’è il mio cazzo di telefono? Mi rigiro verso le capanne, tastandomi le tasche.

    L’ho lasciato su quella barca. Sul catamarano. Avevano delle piccole borse per tenere le cose asciutte e…

    «Oh, cazzo

    La luna, quasi piena mentre riflette luce bianca dal centro del cielo, sta dicendo: «Ehi, coglione, è mezzanotte.»

    Forse le cose sono diverse alle Cayman. Il cielo cambia a seconda della latitudine, giusto? Comunque, inizio a correre lungo la striscia dura di sabbia umida accanto all’acqua, e i talloni che schizzano la schiuma delle onde dietro di me mi fanno pensare a Beep Beep quando scappa via da Willy il Coyote.

    E se il falò fosse quasi finito? E se quella dannata barca mi avesse lasciato lì? Mi dico che non importa. Mica non tornerà mai più nessuno. Torneranno domani. Un altro giorno, un altro gruppo di turisti idioti.

    La testa mi pulsa mentre procedo a lunghe falcate sulla sabbia. La riva pallida fa una curva, e aumento il passo.

    Fai che sia lì. Fai che sia ancora lì, cazzo. Per favore!

    Non possono avermi abbandonato. Conteggi dei presenti. Cause legali. Nah, impossibile.

    Finalmente… il momento della verità. Il sudore mi scorre lungo la schiena mentre giro intorno a un boschetto di palme. Subito dopo, ho una visione diretta della grande capanna dove c’era l’open bar.

    La distesa di spiaggia è deserta e, al di là di quella, l’acqua luccicante è vuota. Niente barca. Mi guardo intorno. Porca miseria, il catamarano non c’è.

    Mi hanno lasciato qui!

    Cazzo, sono stato lasciato qui!

    Penso a Lana, nel suo salotto tutto bianco a Tribeca, che ha alzato lo sguardo dalla tazza di tè verde che teneva in mano la notte in cui mi ha lasciato andare.

    «Fa’ il viaggio da solo, Van. Devi incontrare un cliente. Divertiti. Mi farebbe piacere.»

    E scoppio a ridere.

    Luke


    È passato troppo tempo dall’ultima volta che mi sono goduto il mio scotch preferito. Il buon vecchio Bunnahabhain 25. Troppo costoso da bere in pubblico, il che funziona benissimo, visto che il pubblico non sa che bevo.

    Mi scolo un sorso direttamente dalla bottiglia e piego un braccio dietro la testa. Sono steso sulla schiena su un asciugamano. Potrei rilassarmi al posto del capitano, o poltrire sui divanetti nella cabina dello yatch, ma stasera ho scelto il ponte anteriore, non so bene il motivo. Forse perché non voglio stare comodo. Li voglio far combaciare: mente infelice, corpo infelice.

    Comunque, da qui a prua, posso vedere tutto, l’intero cielo. Bevo un altro sorso e cerco la costellazione del Capricorno. Secondo la responsabile del mio ufficio, essendo un Capricorno, sono l’ambizioso maniaco del controllo dello zodiaco. Ma stasera, la costellazione è introvabile.

    Lascio andare un sospiro e mi sfrego gli occhi. L’idea era di andar via. Questo è il mio segreto preferito: Sea-3PO. È uno yatch di venti metri. Mi piace tenerlo qui alle Cayman. Non mi riconoscono in tanti, di solito.

    Un altro sorso, e la mia testa inizia quasi a ondeggiare con la marea. Sento gli occhi pesanti. È quello di cui ho bisogno, giusto? Un po’ di pausa e di relax, così da essere pronto e riposato, al rientro. Un po’ di tempo da solo per fare qualche passo avanti con il mio nuovo libro. Ho dodici settimane prima di doverlo consegnare al mio editore.

    Di solito ho qualcosa dentro, qualcosa che posso quasi spremere e che uso per costruire pensieri e idee. Libri. Film. Negli ultimi tempi non sono me stesso… e so perché.

    Sollevo il telefono da dove se ne sta a faccia in giù sui miei addominali e mi connetto a un sito Internet. Sono già duro quando allungo una mano nei pantaloncini per afferrarmi l’uccello. Chiudo gli occhi e mi tocco dalla punta alla base. Poi stringo più forte e torno su.

    Qualcosa si muove – lo yatch dondola – ma mi gira la testa. Sarà solo un colpo di vento. Respiro profondamente, mi concentro sulle immagini sullo schermo del cellulare. Ne ho bisogno, moltissimo. Un po’ di sollievo mentre sono qui, usando un indirizzo ip anonimo.

    Mi perdo per diverso tempo – nelle fantasie, nel piacere. Dovevo averne più bisogno di quello che pensavo. Sto ansimando, prossimo all’orgasmo, quando una goccia d’acqua mi colpisce un piede. Alzo lo sguardo, e il cuore si ferma. C’è qualcuno in piedi davanti a me. Spaventato, salto su. Lui indietreggia verso la ringhiera, i passi fanno dondolare lo yatch.

    «Chi sei?»

    Quando fa per avvicinarsi, reagisco d’istinto, afferrando la bottiglia di scotch e lanciandola. Osservo con orrore e malata soddisfazione mentre gli colpisce la fronte, e lo fa barcollare. Lui si tiene alla ringhiera della barca, poi armeggia con uno spesso gancio d’acciaio appeso lì.

    Prima che possa liberarlo e lanciarmelo, lo aggredisco, colpendogli il petto con la testa così forte da farlo cadere oltre la ringhiera. Finisce in mare con un grande splash, e l’osservo riemergere, annaspando.

    «AIUTO!» Sembra soffocare, e spruzza acqua tutt’intorno. «Ci sono dei cazzo di squali!»

    Che cosa?!

    Si dimena come uno che non sa nuotare. «Sono stato abbandonato! Da una nave da crociera!»

    Sposto lo sguardo verso l’isoletta sabbiosa a una sessantina di metri da noi. Ho calato l’ancora lì perché mi riparasse dal vento.

    «Ho bisogno d’acqua. Ti prego!» Gli si incrina la voce. C’è un salvagente affisso allo schienale di un sedile lì accanto. Lo prendo, mi avvicino alla ringhiera e glielo lancio. L’uomo nuota un po’ per raggiungerlo, ci avvolge un braccio intorno. Abbassa per un secondo la testa prima di rialzarla verso di me. «Fammi risalire. Ti prego, amico!»

    Do uno sguardo all’acqua scura, poi all’isola. Sembra non esserci niente che non vada, ma perché dovrei fidarmi di quell’uomo?

    Mi appoggio alla ringhiera. «Come hanno fatto ad abbandonarti?»

    Mi pare di sentire una risata vuota, ma si perde nella melodia dell’acqua che lambisce lo scafo della barca. Rialza la testa verso di me. «Mi sono addormentato.»

    «Che nave era? Che crociera?»

    «La Sierra of the Seas.» Sembra frustrato. Stanco.

    «Loro non si avvicinano a isole come quella.»

    «Sono andato a fare un’escursione di snorkeling.»

    Potrebbe essere vero, suppongo. «E ti sei addormentato? Avevi bevuto?»

    «Sono un fottuto idiota, va bene? Fammi salire, ti prego. È notte e sto sanguinando, cazzo.»

    Mi passo una mano tra i capelli. Ovvio che lo farò salire, soprattutto visto che è colpa mia se sta sanguinando. Solo che non lo farò subito.

    Incrocio le braccia e lo guardo, provando a valutare la sua corporatura e l’età dal poco di spalle che riesco a intravedere. Dal ponte, pare ben proporzionato. Mi sembra più giovane di me, ma forse è per via delle parolacce e del fatto che mi ha raccontato di essersi addormentato.

    «Viaggiavi da solo? In crociera?»

    Questa volta la sua risata roca è inconfondibile. «Avevo prenotato il viaggio con la mia fidanzata.»

    «Lei dov’è?»

    «A New York.»

    Aspetto per un attimo che dica di più. Quando non succede, chiedo: «Come ti chiami?»

    «Giusto… hai Internet? Cercami su Google, amico. Vance Rayne.»

    Mi ci vuole un secondo per trovare il telefono, a faccia in giù dove l’ho fatto cadere sul ponte. Chiudo la finestra del video porno, mi prendo un attimo per cancellare la cronologia, e cerco il nome che mi ha dato. La prima cosa che appare è un articolo di Page Six in cui è fotografato su un red carpet accanto a una bionda alta e magra in abito blu zaffiro.

    Ne osservo il viso familiare – è una degli Ellison, credo – poi passo all’uomo in smoking. Un caldo formicolio mi pervade mentre noto i capelli castani spettinati; le sopracciglia scure, curate; e una fossetta da canaglia abbinata a un sorriso metà malizioso e metà rilassato. La giacca si tende sulle spalle larghe, quindi è muscoloso… ma sembra anche magro.

    Scorro velocemente l’articolo, che conferma che era fidanzato ufficialmente con Lana Ellison, un’esponente dell’alta società di Manhattan, fino alla data del pezzo, che annuncia la loro rottura. L’articolo lo descrive come un artista. Clicco su quel link.

    «Ehi, amico…»

    «Dammi un secondo.»

    Osservo un murale che ritrae una donna dai capelli blu con il viso inclinato verso delle nuvole rosa. Sembra copra la facciata di un edificio di mattoni. Interessante.

    Infilo il telefono in tasca e cerco il mio Bunnahabhain sul ponte. Lo trovo accanto al parapetto e lo recupero. Sono ancora caldo e annebbiato per lo scotch, quindi mi spruzzo sul viso dell’acqua da una bottiglietta di Evian prima di tornare al parapetto.

    «Vediamoci a prua, Vance.»

    Saprà come salire. L’ha già fatto prima.

    Stavolta, gli calo la scaletta e lo guardo issarsi a bordo. Avevo ragione sulla sua corporatura. È snello, quasi magro, ma con troppi muscoli per essere definito così. La luce della luna si riflette su petto e spalle imponenti. Rivoletti d’acqua scorrono lungo le gambe ben definite, gocciolando da un costume che gli sta appiccicato come un guanto.

    Quando mette piede sul ponte, si tira via i capelli dal viso e noto che gli arrivano quasi alle spalle. Con discrezione, lo guardo dall’alto in basso. Il ragazzo si allena. Forse non ogni giorno, ma con una certa regolarità. Non saprei dire chi è più alto, se io o lui, ma penso di essere di sicuro più grosso. Io sono uno da tutti i giorni. Ho la palestra a casa.

    Vance Rayne, artista dai capelli lunghi, si passa una mano sul viso, e lo trovo attraente in modo classico. Sopracciglia scure e folte sovrastano gli occhi magnetici. Zigomi pronunciati, naso dritto… labbra né troppo piene, né troppo sottili. Gli do sui venticinque anni.

    I suoi occhi incontrano i miei.

    «Acqua. Per favore.» La sua voce è roca. Il volto, tutto labbra d’Adone e zigomi, sembra rarefatto sotto il chiaro di luna. È per metà ingoiato dal buio, non del tutto corporeo. Eppure la sua presenza sembra risuonarmi dentro.

    «Certo» riesco a dire.

    Gli indico i divanetti che corrono intorno al pozzetto, disposti a formare un quadrato incompleto. Lui però non si siede, mentre io recupero una bottiglietta d’acqua da una ghiacciaia.

    Noto una macchia scura sulla sua fronte. Serpeggia verso il sopracciglio, e lo stomaco mi finisce sottosopra.

    «Stai davvero sanguinando.»

    L’osservo mentre prosciuga la bottiglia d’acqua. Gliene passo un’altra, e qualcosa di oscuro cala sul mio cuore come un’ombra. È come se la notte si fosse cristallizzata intorno a noi. I secondi si trascinano surreali. Faccio un lungo, lento respiro e lui corruccia la fronte, ricordandomi che devo occuparmi della ferita.

    «Vado a prendere qualcosa per quel taglio» mormoro.

    Ritorno dalla cabina e lo trovo seduto su un divanetto, con i gomiti sulle ginocchia, una mano nei capelli arruffati. Accendo una luce, e il ponte si tinge d’ambra. Poi spingo la ghiacciaia davanti a lui e mi ci siedo sopra.

    Mentre apro il kit di pronto soccorso, la brezza salata fa arrivare fino a me un po’ del suo odore: crema solare e pelle calda, maschile. Quando alzo lo sguardo, mi accorgo che la mano che ha appoggiato sulla fronte sembra tremare.

    «Stai bene?»

    Abbassa il braccio. «Sì.» Ma il suo volto è teso. Le guance e la mascella sono coperte dalla crescita della barba, le labbra spaccate da un lato. Probabilmente ha passato una giornata terribile su quell’isola. Doveva essere davvero disperato per nuotare fino a una barca sconosciuta.

    Mi avvicino e socchiudo gli occhi per esaminare il taglio sopra il sopracciglio. È lungo un paio di centimetri, sanguina ancora un po’, ma non è troppo profondo. «Non sembra che io ti abbia colpito molto forte» sussurro. «Vedi doppio o cose simili?»

    «No» mormora lui. Alza gli occhi sui miei e gli riservo uno sguardo che spero dica scusa per la ferita alla testa.

    Lui ghigna. «Gran bel benvenuto.»

    «Soprattutto dopo l’elegante invito.»

    «Touché.»

    Sorrido, poi apro una garza imbevuta di Betadine. «Allora, non c’era molta acqua fresca su quell’isoletta?»

    «Zero» risponde.

    «Ne vuoi ancora?»

    Annuisce, e prendo un’altra bottiglia. Lo osservo mentre se ne scola un po’ e poi riavvita il tappo.

    «Un giorno è lungo, senz’acqua.»

    «Ho aperto un cocco.» Solleva le sopracciglia e curva le labbra piene in un sorriso. E il mio battito monta come un’onda nell’oceano.

    «Com’era?»

    «Pessimo.»

    «Che delusione.» Gli mostro la garza impregnata. «Non credo questa roba bruci, ma…»

    Lui chiude gli occhi e io mi avvicino – abbastanza da poter sentire il suo respiro sul mio viso. Trattengo il mio per non fargli avvertire l’odore di scotch.

    Finora, credo sia stato troppo distratto per guardarmi bene. È presto per capire se mi riconoscerà.

    Strofino la punta color ruggine sulla ferita, e lui si irrigidisce.

    «Fa male?»

    «È solo fredda.»

    Vedo il suo pomo d’Adamo andare su e giù mentre gliela passo di nuovo sul taglio. Poi, con un po’ di sollievo, mi allontano.

    «Non penso sia così profondo da aver bisogno di punti. Un po’ di pomata antibiotica e un cerotto a farfalla, e dovresti essere a posto.»

    Annuisce, e osservo le sue ciglia lunghe e folte prima di spostare lo sguardo sulla cassetta del pronto soccorso.

    «Allora, qual è il tuo veleno?» chiedo.

    Alza gli occhi, e gli rivolgo quello che spero sia un sorriso amichevole-ma-non-troppo. Gentile – suppongo di dover puntare a quello. E gentile e professionale non è forse la mia specialità?

    Mi spiego meglio. «Cosa stavi bevendo quando la tua nave è salpata senza di te?»

    Trattenendo un sorriso scuote la testa, e fa subito una smorfia. «Tequila.» Mi piace la sua voce. È ricca e profonda, con giusto una traccia di Brooklyn.

    Penso all’articolo sul suo fidanzamento annullato. «Tequila, eh?» Indico la sua testa. «Ti ho colpito con una bottiglia del mio scotch preferito.»

    Le parole mi scivolano fuori di bocca, e subito mi stupisco di aver abbassato la guardia.

    «Bella mira» osserva lui.

    «Bello spavento.»

    «Ti chiedo scusa.» Sembra sincero. «Quando ti ho visto ancorato così vicino, sapevo di poterti raggiungere a nuoto in fretta. Avevo una cazzo di sete. Stavo morendo di sete. Non avevo idea di quando sarebbero tornati quelli del tour. Non volevo impormi così, ma ho sentito qualcosa, lì fuori, qualcosa in acqua mi ha sfiorato la gamba.»

    «E io ti ho rilanciato di nuovo dentro, eh?» Applico un cerotto a farfalla sul taglio, poi ne aggiungo un altro per sicurezza. «Due renderanno la cicatrice più piccola» spiego.

    Di nuovo, quell’accenno di sorriso. «E non vorremo mica rovinare questo capolavoro.» Ridacchia, e il mio sguardo torna su quelle lunghe ciglia, sulle labbra da principe. So che dovrei piantarla, ma non ci riesco. Dev’essere colpa dello scotch.

    Mi ritraggo. «Hai fame?»

    Fa spallucce.

    «Entriamo in cabina. C’è qualcosa da bere, in frigo. Potrei persino avere dell’acqua di cocco.»

    Fa un verso disgustato e io rido mentre faccio strada. Non appena metto piede nella zona giorno principale dello yacht, sposto una rivista in cima a una pila di libri con titoli che non voglio lui veda. Do un’occhiata in giro, cercando altro che potrebbe rivelare la mia identità. Poi mi volto verso di lui.

    Ha l’aspetto di quello che è: uno che è stato abbandonato su un’isola deserta. I capelli, di un castano con tonalità cannella, sono arruffati e pieni di nodi, ma immagino che, dopo uno shampoo, saranno folti e un po’ mossi. I suoi occhi sono grigio-azzurri, e hanno l’aspetto stanco tipico di chi ha passato tutta la giornata al sole. La pelle è molto abbronzata, anche se rossa e scottata nei punti sensibili su petto e collo. Lo sguardo mi cade sul suo petto. Qui alla luce sembra più scolpito.

    D’istinto abbasso gli occhi sui miei piedi, poi li rialzo sul suo viso. Sono sollevato nello scoprire che sta guardando il dipinto sopra gli scaffali, non me. Il suo sguardo si sposta sulla sirena di porcellana montata su una delle mensole, prima di soffermarsi sul piccolo veliero con le vele di pelle di montone custodito dietro a un vetro.

    «Carino.» È tutto quello che dice, ma capisco che ne è sorpreso, forse addirittura impressionato.

    «Da questa parte.»

    La zona giorno è maestosa, suppongo, ma a me non importa. Quando sono qui, l’ultima cosa a cui voglio pensare è quel genere di cose. Dopo aver comprato lo yacht, avevo pensato di ristrutturare tutto l’interno, per fare qualcosa di più minimalista rispetto ai gusti dell’ultimo proprietario, un commerciante d’arte. Non ne ho mai avuto il tempo, però, non dopo tutto quello che è successo nel 2014.

    Apro il frigorifero e lancio uno sguardo alle mie spalle. «Vuoi del Gatorade?»

    Lui si strofina il palmo destro sul braccio sinistro – si sta grattando o è un gesto dovuto all’imbarazzo? – e scuote la testa, un po’ distratto mentre getta un’altra occhiata alla stanza. «Non importa cosa.»

    Alza gli occhi sui miei, e trattengo il fiato. Ma non c’è traccia di riconoscimento nella sua espressione. Nemmeno lo sguardo da mi sembra di conoscerlo che mi capita spesso, negli ultimi tempi.

    «Hai un telefono con te?» Sembra improbabile, ma devo chiedere.

    Lui scuote la testa.

    «C’è qualcuno che posso chiamare?»

    Si massaggia le tempie. «Forse la compagnia della crociera?»

    Mi ripete il nome della nave e faccio la chiamata, metto il vivavoce e lascio il cellulare sul ripiano, abbastanza lontano da lui per fargli capire che non voglio lo prenda.

    Mentre aspetta in linea taglio della frutta, guardando di sottecchi il mio ospite inatteso che si dondola da un piede all’altro e si massaggia la fronte, poi la spalla. Sì, credo proprio che faccia pesi almeno tre volte alla settimana.

    Metto la frutta da parte e gli verso il Gatorade. Poi mi appoggio al bancone e incrocio le braccia.

    Aspetto che i suoi occhi color dell’oceano ritornino su di me, ma non lo fanno. Non è minimamente interessato a me. E, per la prima volta nella mia vita, la cosa non mi piace.

    Due

    Vance


    Sento che mi sta guardando. Mi pulsano le tempie, ed è colpa sua. Prima ha provato a spaccarmi la testa con una bottiglia di scotch, poi, per riparare al danno fatto, si è avvicinato così tanto che il suo profumo mi ha invaso le maledette narici. Riesco ancora a sentirlo.

    Adesso sono in piedi nella sua cucina lussuosa, cerco di non pesare troppo sui piedi ustionati e mi tengo al lato del bancone perché mi gira un po’ la testa, e quel figlio di puttana non la smette di fissarmi.

    Sto pensando di dire qualcosa quando una donna risponde al telefono e devo ripetere il triste racconto della mia scomparsa. La donna mi segna come non disperso e mi spiega come raggiungere la nave allo scalo successivo. Alla fine della conversazione, il dolore alla testa è talmente forte da farmi digrignare i denti, e la gola è di nuovo secca come il deserto.

    Allungo una mano verso il telefono per chiudere la chiamata, ma lui si avvicina, lo prende e posa al suo posto un grosso bicchiere e tre compresse di ibuprofene.

    I suoi occhi intercettano i miei. «Dovresti bere ancora.»

    Non ho mai visto occhi così. Passano dal marrone attorno alla pupilla al nocciola per poi diventare di un verde bosco più scuro sul bordo esterno dell’iride. Per un attimo, guardandoli, avverto un’ondata di panico, come se venissi risucchiato dalla risacca.

    Butto giù le pastiglie, poi il Gatorade. Quando abbasso il bicchiere, lo ritrovo a fissarmi. Mi asciugo la bocca e inarco un sopracciglio, ma è quello ferito. Sussulto sorpreso, e il suo viso si contorce in una solidale smorfia di dolore.

    «Scusa ancora.»

    «Cazzo, non è sufficiente.» Sostengo il suo sguardo verde-marrone, cercando di non sorridere.

    Sorride anche lui, rivelando delle fossette. Diamine, è uno spettacolo per gli occhi. Sopracciglia folte e occhi felini, zigomi alti. Ha le labbra piene e una bella mascella marcata. Con quei capelli dorati che sembrano morbidi al tatto, mi ricorda le vecchie bambole di Ken che mia mamma teneva in un baule in soffitta. È bello in un modo tradizionale che dovrebbe essere noioso. Invece, mi affascina.

    Fa il giro del bancone, facendo un cenno verso l’elegante soggiorno. «Lasciami rimediare.» Lo seguo, camminiamo sopra un tappeto persiano, oltre un dipinto astratto di qualcuno che forse dovrei conoscere e una scultura di porcellana stupenda che credo sia fissata alla mensola.

    Quando mi precede lungo un corridoio in lucido legno, sento il sangue affluirmi alla testa. Si ferma dopo pochi passi, apre l’anta di un armadio e fa un cenno del capo verso… una scala a pioli?

    «La doccia interna è fuori uso, ma sali qui, apri il portello, e ti troverai in quella esterna, sul ponte. Il miglior panorama che tu abbia mai visto, da una doccia. Ti lascio dei vestiti qui sulla scala per quando hai finito.»

    «Okay. Grazie.»

    Mi fa l’occhiolino, e il mio uccello ha un fremito.

    Smettila. Solo perché sono uno stronzo arrapato, non significa che lo sia anche il mio ospite lanciatore di scotch. Anzi, c’è più o meno il novanta per cento di probabilità che sia etero fino al midollo.

    Faccio come ha detto: salgo la scaletta, apro il portello e mi ritrovo in una sorta di nicchia sul ponte. Mi metto in piedi piano, avvolto nell’ombra, e capisco di essere proprio accanto all’albero maestro. Al mio fianco c’è uno scarico sul ponte e, appeso a un palo spesso che fa chiaramente parte del sistema di navigazione, c’è un soffione. Un portasapone a rete gli penzola accanto.

    Apro l’acqua della doccia, puntando il soffione mobile verso lo scarico fin quando non diventa calda. Poi lascio cadere a terra il costume e sospiro quando un piacevole getto colpisce le mie parti intime. Cavolo, che bella sensazione lavarsi.

    Il mio uccello non riceve attenzioni da Codini. Suppongo non ci sia da sorprendersi se divento duro non appena il getto caldo lo colpisce, solleticandolo, per poi scivolare giù dalla punta.

    Cazzo. Lancio un’occhiata in giro, ma chi cavolo mi deve mai vedere? Ci sono solo io qui fuori, e una brezza tiepida, il suono dell’acqua che lambisce i fianchi della barca e una manciata di stelle intorno alla luna perlata. Con l’erezione che sporge davanti a me, mi lavo fino a sentirmi bello pulito, poi mi insapono di nuovo il palmo e mi accarezzo il membro rigido.

    Merda. Stringo la punta e muovo la mano verso la base, poi di nuovo su. Ho le ginocchia deboli, allora mi aggrappo con la mano libera a una delle corde che pendono dall’albero sopra di me. Chiudo gli occhi e mi tocco a un ritmo più veloce.

    Oh, cazzo. Non passa mai un giorno senza che io lo faccia. Sento le palle tese e piene, come se avessero accumulato il loro carico. Non posso farci niente quando è il suo viso che mi appare, quegli occhi dall’aspetto esotico, quella bocca da baciare. I suoi capelli biondi da figlio di papà e quel cazzo di corpo da semidio.

    Mentre mi tocco, immagino il suo uccello: lungo e spesso. Un uomo come quello dovrebbe essere ben dotato, magari con dei bei testicoli bassi. Lo immagino su una sedia, coi pantaloni abbassati, le gambe aperte, con me in ginocchio davanti a lui.

    Immagino la sua espressione se avvolgessi la bocca intorno alla sua punta e succhiassi, per poi circondarlo con la lingua e prenderlo più a fondo, con una mano stretta attorno alla base spessa, mentre con l’altra gli accarezzo le palle grosse. Mi piacerebbe vederlo con le labbra socchiuse, con il petto scolpito ansante mentre geme per me.

    Se fosse mio, vorrei il suo cazzo in bocca di continuo. Succhierei fino a far tremare quelle cosce muscolose, fino a fargli perdere il controllo e fargli iniziare a scoparmi la gola come un selvaggio. Lo stuzzicherei fino a farlo dimenare e gemere, dopodiché mi fermerei. Mi metterei a cavalcioni su di lui e struscerei il mio membro sofferente contro il suo.

    Oh, sì.

    Proverei ad avvolgere la mano intorno a entrambi ma, ovviamente, saremmo troppo grossi. Allora sfregherei il palmo sulle nostre punte, soprattutto sulla sua, e me lo lavorerei fino a farlo gocciolare.

    Con un tocco del pollice sulla mia, di punta, stringo i denti e vengo con forza nella mano. È in quel momento che apro gli occhi, e lo trovo dall’altro lato del ponte a fissarmi.

    Luke


    Torno dentro in fretta, attraverso il soggiorno e percorro il lungo corridoio fino ad arrivare alla suite padronale, dove mi chiudo la porta alle spalle prima di appoggiarmici contro.

    Cazzo.

    Il cuore batte forte e l’uccello gonfio pulsa allo stesso ritmo. Chiudo una mano intorno all’erezione e stringo forte, fino a farmi male, sfregando il pollice sul lato inferiore. Quando quel trucchetto non funziona, abbasso la mano sulle palle e strizzo finché macchie dorate non mi nuotano davanti agli occhi.

    Un gemito spezzato mi sfugge dal petto.

    Dio, salvami.

    L’ho appena guardato farsi la doccia sotto la luna. Ho visto ogni contorno del suo corpo snello e solido. L’ho appena guardato mentre si toccava fino a venire. Il modo in cui stringeva e si accarezzava, quel su e giù sicuro, come sfregava il pollice sulla punta, le palle che rimbalzavano sotto…

    Abbasso lo sguardo sul mio pugno chiuso, e pompo piano al ricordo. Ho bisogno di venire. Adesso.

    Mentre mi tocco, immagino di accarezzargli il membro duro fino a farlo venire in quel modo nella mia mano. Immagino Vance Rayne piegato davanti a me, per poter sfregare la mia punta gocciolante su e giù lungo il solco tra i suoi glutei sodi.

    Li aprirei, applicherei del lubrificante fino a scoparlo con la mano, poi mi spingerei dentro quel culo stretto. Sarebbe morbido come il velluto intorno a me, e io lo prenderei con spinte decise e grugniti soffocati. A quell’immagine, le palle fremono e il membro pulsa per l’orgasmo. Sto ansimando come un maratoneta, e mi accovaccio su me stesso.

    Mi ripulisco in fretta, infilo una maglietta, cambio i pantaloncini.

    Mi guardo allo specchio e batto le palpebre, impassibile. Potrei essere chiunque. Per lui, prego di esserlo.

    Solo in quel momento mi accorgo di non avergli

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