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E poi sei capitata tu
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E-book432 pagine8 ore

E poi sei capitata tu

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Info su questo ebook

Jack Sutton era l’uomo di cui non volevo avere bisogno.
Il suo atteggiamento da so-tutto-io. I suoi irritanti suggerimenti. La sua visione della vita.
Era deciso ad aiutarmi, mentre io ero intenzionata a risolvere tutto da sola.
Ma mi ha insegnato cose che avevo dimenticato.
Come fidarmi. Come credere in me stessa. Chi ero.
Il problema?
Che ho finito per innamorarmi di lui.

***

Tatum Knox era il disastro da cui sarei dovuto fuggire.
La sua reputazione rovinata. La sua attività in fallimento. La sua vita caotica.
Mi ha odiato a prima vista, eppure mi ha intrigato allo stesso tempo.
Avrei dovuto restare sei mesi.
Avrei dovuto utilizzare quel tempo per fare ammenda per gli sbagli che avevo compiuto.
Invece mi sono innamorato di lei.



Dicono sia meglio aver amato e perduto che non aver amato affatto.
Ma è vero anche quando l’amore si basa su una bugia?
LinguaItaliano
Data di uscita28 feb 2022
ISBN9791220702409
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    Anteprima del libro

    E poi sei capitata tu - K. Bromberg

    1

    JACK

    SEI ANNI DOPO

    È abbastanza bello.

    Questo è il primo pensiero che mi sfiora mentre me ne sto all’imbocco del viale ghiaioso e fisso il ranch che si estende davanti a me. La staccionata si allunga più lontano di quanto riesca a scorgere, su entrambi i lati. La casa principale ha una facciata di mattoni consunti, il tetto spiovente e una veranda coperta che corre lungo la parte anteriore. I pascoli sono verdi, e le stalle grandi a sufficienza, ma l’abitazione ha un aspetto logoro e intorno c’è un’atmosfera di trascuratezza.

    Avvia la macchina, Sutton. Fa’ quello che devi. Mantieni la promessa e poi vattene da Dodge con la coscienza pulita e magari qualche mese di vacanza alle spalle, prima di dover assumere un ruolo che non ti saresti mai aspettato di dover assumere.

    Rivolgo un’occhiata all’entrata, osservo l’insegna appesa all’arco di legno che dice Ranch Knox e noto il cardine rotto del cancello aperto di fronte a me. Posizionate su ciascun lato della struttura ci sono due telecamere con i cavi sfilacciati e le lenti incrinate che decisamente devono aver visto giorni migliori.

    Lo stesso vale anche per il posto.

    Sollevo il piede dal freno e mi dirigo verso la casa ridacchiando incredulo, cavalcando la brezza che soffia attraverso il finestrino abbassato.

    Oltre la staccionata, una prateria dorata e rigogliosa corre in mezzo agli alberi ondeggianti. C’è giusto qualche cavallo che gironzola all’interno degli steccati, ma nessun mandriano al lavoro, nessun altro veicolo a occupare spazio nel viale, nessuno seduto all’ombra a cercare riparo dal caldo.

    Scendo senza fretta dal pick-up e percorro il sentiero, e intanto attendo di sentire qualcosa.

    Qualsiasi cosa.

    Ma non percepisco altro che impazienza, risentimento e la consapevolezza di dover mantenere una promessa che non avrei mai dovuto fare.

    «Chi è lei?»

    Sento la sua voce prima ancora di vederla. È tinta di un disprezzo che riflette come ultimamente mi sento la maggior parte del tempo.

    Dovrebbe essere un avvertimento ad andarmene. Perché la parola data non vale tutto questo maledetto disturbo. Perché la mia intuizione su che genere di persona sia lei era perfettamente accurata.

    Ma da quando in qua io ascolto gli avvertimenti?

    «Sono qua per il lavoro.»

    Non so come mi aspettassi Tatum Knox, ma quando appare sulla soglia di casa è diversa da come la immaginavo: piccolina, diffidente… e splendida, cavolo.

    Raddrizza la schiena in modo da ergersi orgogliosa in tutto il suo metro e cinquantacinque, mentre gli occhi, quegli occhi grigio chiaro, si stringono a squadrarmi. E mi dicono va’ all’inferno.

    «In un posto del genere non dureresti una settimana. Grazie, ma anche no.»

    È una bugia. Lo sa. E lo so anch’io. I calli sulle mie mani e il curriculum più che notevole dimostrano che sono un gran lavoratore e so quello che faccio. Ma col cazzo che glielo faccio notare, dato che in realtà non me ne frega niente.

    Sono qua per dare seguito alla telefonata impulsiva scaturita da qualche birra di troppo e per poter dire di aver fatto uno sforzo.

    E anche perché ero curioso di sapere che persona lei fosse.

    «Tatum Know, presumo.»

    «A quanto pare.»

    Faccio una risata priva di allergia. Dalla coda le sono sfuggiti alcuni ciuffi color caramello che si muovono nella brezza intorno al viso. I suoi zigomi alti, il naso a patata e la bocca a cuore sono delicati, ma gli occhi gridano diffidenza e avversione.

    Pare dunque che abbiamo qualcosa in comune.

    «Mi chiamo Jack Sutton.»

    «Lo so.»

    «Allora perché ha chiesto chi sono?» Sbuffo sprezzante. «Suppongo si ricordi che mi ha chiesto lei di venire, giusto?»

    Lei se la prende comoda, sposta le mani sulla vita e sporge il fianco contro lo stipite della porta, che la fa apparire minuscola. I suoi occhi si puntano su di me, mi giudicano e mi scartano.

    «Sì, be’, diciamo che è stato un raro momento di debolezza. Non lascerò che accada ancora.» I suoi abiti – jeans e flanella – potranno farla sembrare adatta al ruolo in Texas, ma la postura e la traccia di accento del New England gridano opulenza.

    Così come il modo in cui mi squadra dall’alto in basso, come se non fossi degno di respirare la sua stessa aria. Non dovrei esserne sorpreso.

    «Nessun problema.» Faccio un passo indietro, irritato con me stesso per essermi aspettato qualcosa in più e aver pensato che presentarmi al ranch avrebbe sistemato il casino nella mia testa. In realtà mi è bastato darle una sola occhiata per incazzarmi e rendere più pesante la busta ripiegata che ho in tasca. «A giudicare dall’aspetto del suo ranch, pare che quel che ho sentito sia vero e che lei non abbia niente.»

    «E poi si chiede perché le ho detto di andarsene?» praticamente urla mentre fa un passo verso di me, l’ira ad accenderle i lineamenti. «Non assumo gente che fa andare la bocca tra i pettegoli di Lone Star. È in città da… quanto? Ben tre giorni, e già l’hanno coinvolta. Grazie, ma no. Mi piace che per me lavori gente di cui mi posso fidare.»

    «Non sono io quello la cui integrità è in dubbio,» rispondo. Lei sussulta, facendomi capire che la frecciata ha colto nel segno e fornendomi il motivo della sua ostilità: sa quello che la gente in città dice di lei e non le piace.

    Non piacerebbe neanche a me, perché nessuno di quei pettegolezzi è lusinghiero, a dire poco.

    Eppure, dopo aver sentito fino all’ultima, succosa storia, oggi mi sono presentato comunque. Ed eccomi qua mentre cerco di trovare una sorta di redenzione personale, quando sono sicuro che non ne esista alcuna.

    Per un brevissimo attimo mi sento in colpa per essermi comportato da stronzo sfogando la mia rabbia su di lei quando non c’entra niente.

    Ma d’altronde, nemmeno lei è tutta sorrisi e raggi di sole.

    Cazzo.

    Con un sospiro, accantonando impazienza e irascibilità, scuoto la testa. Riproviamo.

    «A giudicare dall’aspetto del suo ranch, ha bisogno di me.»

    «Non ho bisogno di nessuno.» Un mezzo sorriso le solleva gli angoli delle labbra.

    Le tue parole e il tuo sguardo non esprimono la stessa cosa, tesoro.

    «E per la cronaca, è il ranch di mio marito, non il mio.»

    «Lui è morto, quindi tecnicamente è suo.» Se lei non vuole andarci giù leggera, allora non lo farò neanche io.

    «Ah, l’adorabile macchina del pettegolezzo di Lone Star colpisce ancora? Chi è stato stavolta? Il tizio alla pompa di benzina? La cameriera del diner? Magari il tipo allo sportello della banca? Oh, un attimo, è stato Ginger? È un uomo intelligente e di solito resta neutrale, quindi se è lui si tratta di una novità.»

    La sua nonchalance riguardo alla quantità di gente in città a cui risulta simpatica non è inattesa, considerato quanto è parsa indifferente a tutto il resto fino adesso.

    «Nah. Lo ha detto al telefono la scorsa settimana, durante il nostro colloquio.» Prendo la pausa che mi offre, con labbra schiuse e occhi sgranati, e mi guardo intorno platealmente. L’avevo già sentito da lei, ma non vuol dire che non abbia appreso la storia da tutte le altre persone con cui ho parlato.

    Un marito dispotico che amava ostentare i soldi ma che sembrava incapace di far funzionare il ranch neanche se ne fosse andato della sua vita. Vita, che è stata tolta da un brutto incidente d’auto. E lei è la moglie altezzosa che si considera troppo superiore per la città in cui vivono e pare non riuscire a tenersi un solo dipendente.

    «Come dicevo, non mi serve nessuno,» ripete, interrompendo il silenzio che si allunga tra noi come un elastico pronto a spezzarsi. «Ho tutto sotto controllo.»

    «Stare per perdere il ranch non è esattamente quello che definirei avere tutto sotto controllo

    «Chiunque gliel’abbia detto racconta delle gran cazzate.»

    «Ne è sicura?» chiedo, notando l’incertezza balenarle sul viso; le labbra tirate, gli occhi sgranati e la mascella contratta. «Da quel che ho sentito…»

    «Non sto per perdere il ranch,» afferma. «Neanche lontanamente.»

    Mi passo una mano sulla mandibola, incerto se crederle o no. La schiena dritta mi dice che è sincera, ma la gente di questa città racconta tutt’altro.

    Magari gli altri vogliono che sia così.

    E magari lo voleva anche una piccola parte di me, finché non sono arrivato qua.

    «Non mi accompagno a chi mente,» rifletto appoggiato alla staccionata dietro di me.

    «E allora che diavolo ci fa al bar cittadino? Tutti lì mentono e lei gli dà retta, giusto?»

    Touché.

    «Perché mi ha detto di venire qua, Knox, se già sapeva che mi avrebbe licenziato nell’attimo in cui avessi messo piede sul suo portico?» chiedo, incuriosito da lei anche se non dovrebbe importarmi nulla.

    «Perché è andato in città e ha dato retta ai pettegolezzi, prima ancora di incontrare me? Non dovrebbe aver maggior rispetto per il suo capo?»

    «Non credo ai pettegolezzi, ma se sono veri non sono bugie.» Mi sposto sui piedi, facendo scricchiolare il legno del portico sotto di me. «E il rispetto va guadagnato, non preteso.»

    Che donna. Diavolo. Se il suo rancore non fosse così maledettamente frustrante potrebbe essere un minimo attraente.

    «Perché è ancora qua?» mi domanda.

    «Ottima domanda.» Mi chiedevo la stessa cosa. Le do le spalle e osservo i fiori morti e le erbacce che fuoriescono dai vasi posizionati intorno al porticato, poi lascio che il mio sguardo vaghi sulla vernice scrostata della staccionata della veranda.

    Ma so perché sono qui.

    So com’è quando il senso di colpa ti affossa così pesantemente che faresti qualsiasi cosa, persino affrontare una donna come Tatum Knox, per potertelo togliere dalle spalle.

    È uno stramaledetto braccio di ferro emotivo, e non sono del tutto sicuro di quale parte voglio che vinca.

    «Mi voleva assumere per portare più lavoro,» dico quando mi volto di nuovo. «Crede che dei potenziali clienti sarebbero ansiosi di comprare un cavallo se venissero qui e vedessero questo?» Indico la prima serie di vasi. «Come potrebbero essere sicuri che tiene in cavalli in buona salute quando non riesce neanche non far morire i fiori?» Scrollo lentamente la testa, con disappunto, provocandole una smorfia.

    «Se sta cercando di guadagnare dei punti sta sbagliando tutto.»

    «Guadagnare dei punti è l’ultima delle mie preoccupazioni.» Incrocio la braccia sul petto e mi limito a sostenere il suo sguardo torvo. «Si dimentica che sono capace di procurare stalloni di qualità per la riproduzione. E chissenefrega se posso assicurare al ranch nuovi clienti con contratti a lungo termine. Quello che le serve davvero è un manager che valga qualcosa.»

    «Ah, davvero?»

    «Già.» Annuisco. «Da quel che vedo, il suo non gestisce un cazzo. I suoi aiutanti non fanno ciò che devono. Il mangime non viene conservato in modo appropriato. Alcune staccionate sembrano rotte da tempo. E ancora non ho menzionato i cavalli. Per un ranch che sopravvive vendendo puledri, non sembra che abbia cavalle gravide a sufficienza, cosa che ha menzionato durante il nostro colloquio telefonico.»

    Quei suoi occhi grigi si stringono.

    Ho toccato un nervo scoperto, eh?

    «Non mi ero resa conto di aver chiesto la sua opinione.»

    «Non è necessario. Fornisco opinioni gratuitamente.» Sorrido, ma solo per farla incazzare.

    La verità fa male, vero, tesoro?

    Richiamo alla mente i commenti sentiti in città.

    «Quella Tatum qui non c’entra niente.»

    «In teoria lavora al ranch, ma andiamo, quale ranchero ha l’estetista che va regolarmente a fargli capelli e unghie? Ci deve essere una ragione se fa scappare tutti i dipendenti. Probabilmente sarà preoccupata che si diffonda la voce che non sa che cacchio sta facendo.»

    «Lo sceriffo va da lei ogni settimana. Ci sono lamentele continue sul modo scadente in cui tiene i cavalli. Nessuno in città osa acquistarne uno. Temono non siano in buona salute.»

    «Non merita la terra di cui è proprietaria. Non c’è da stupirsi se i gemelli Destin siano furiosi e la rivogliono. Lei e suo marito non hanno fatto altro che sprecare la loro opportunità con quel ranch.»

    «Devo chiamare lo sceriffo per farla sloggiare?»

    «Ho sentito che voi due siete ottimi amici, viste le sue visite regolari e tutto il resto.» I tendini del suo collo si tirano mentre tenta di mantenere la calma. Sto cercando di testare i limiti in modo da potermene andare da questo posto ripetendomi la menzogna che pur avendoci davvero provato ho fallito.

    «Siamo in Texas, signor Sutton. Nessuno ci farà molto caso se le sparo per violazione della proprietà.» Sorride dolcemente. «Ci piace proteggere quel che è nostro e sappiamo che non ci saranno domande in caso accadesse.»

    «Ah, ma lei non è del Texas, no?» domando, incerto sul motivo per cui sento il bisogno di continuare con le chiacchiere. «Da quel che ho sentito, i cittadini di Lone Star non la considerano davvero una di loro.»

    Sono uno stronzo per aver sottolineato l’ovvio, visto che probabilmente sono accettato più di lei in questa città, ma non riesco a capire come faccia a vivere qui, a essersi costruita una vita qui, senza farsi conoscere realmente da nessuno.

    Magari è proprio questa sua ritrosia che le ha tirato addosso tanto vetriolo.

    Ma d’altronde, le è bastato aprire bocca per avere la conferma di quello che pensano.

    «Non mi importa ciò che pensa di me la gente in città, per non dire di chiunque altro, per la verità.» Un altro sorriso teso. Alzò il pollice per indicare oltre la spalla. «Devo dimostrarle che ho il fucile carico e sempre pronto… giusto in caso?»

    «Sei brava a parlare, Knox, ma sai perfettamente che, se me ne vado io, nessun altro verrà ad aiutarti. Non credo alle stronzate di città, ma altri ci crederanno. Nessuna paga può essere sufficiente a sopportare il tuo atteggiamento. Nessuna.»

    «Bene. Allora vattene.»

    Stavolta il suo tono di congedo mi fa scattare. Mi fornisce rabbia di cui alimentarmi, una ragione per incazzarmi e alzare i tacchi.

    «Grazie per esserti dimostrata esattamente come immaginavo.» Mi tocco il cappello a mo’ di saluto mentre lei stringe gli occhi confusa. «Divertiti quando dovrai cedere il ranch alla banca.»

    «Va’ al diavolo. Io non…»

    «Mi sembra sia proprio quello che hai intenzione di fare in ogni caso.»

    «Bene. Vattene.»

    «Certo.»

    Furia, rancore e senso di fallimento mi scorrono nelle vene mentre le giro le spalle e mi avvio verso i gradini, e mi costringo ad allontanarmi dalla donna con le nuvole temporalesche negli occhi e la sfida nella voce.

    Sono a tre metri dal mio pick-up quando la sento.

    «Jack

    Pronuncia il mio nome come farebbe una donna che vuole tenere insieme i pezzi e contemporaneamente teme di non esserne capace. Quella singola sillaba è piena di spregio e paura, confusione e determinazione.

    C’è qualcosa in lei che non riesco a inquadrare.

    Qualcosa che mi attrae, forte quanto la promessa che ho fatto e il bisogno di tenere fede alla mia parola.

    Mi odio per il desiderio che provo di esplorarlo.

    Mi giro verso il punto dove se ne sta in piedi in cima alle scale, a fissarmi in lontananza con una mano sul fianco e l’altra a schermarsi gli occhi. La sua espressione è stoica, non riflette la sfumatura di disperazione che le ho appena sentito nella voce.

    Eppure il mio nome sembrava un ramoscello d’ulivo offerto in una zona di guerra. Uno che viene porto per pochi secondi prima di venire strappato via.

    Vattene, Jack.

    Vattene finché puoi, cazzo.

    Invece mi avvicino di un passo, storco le labbra e mi guardo in giro, chiedendomi perché non approfitto della via di fuga finché posso.

    Perché ho fatto delle promesse, ecco perché. Senso del dovere e desiderio di sfida combattono dentro di me.

    Faccio un altro passo nella sua direzione.

    «Non ti puoi aspettare che promuova il tuo brand e questo posto quando ha quest’aria trascurata.» Lei comincia a rispondere ma io continuo a parlare. «Quante persone hai nello staff?»

    «Una.»

    «Una?» Scoppio a ridere. «Hai quaranta cavalli. Quante persone, a parte quell’unico manager?»

    «Se non conti il buon vecchio Sylvester di ottantun anni, che si ferma ad aiutare ogni tanto, solo una.»

    «Sylvester?» ripeto. «Devo presupporre sia grazie a lui che sai che sono in città da qualche giorno.» Lei annuisce e storce le labbra, mentre io cerco di raccapezzarmi su come se la cavi con un solo aiutante. Come riesca a gestire tutto. Ma d’altronde non è che sia un cazzo di raggio di sole. Posso solo immaginare quanto sia piacevole lavorare con lei e per lei. «Be’, licenzia quell’unico. Non sta facendo il suo lavoro. Digli che è stato rimpiazzato.»

    «Rimpiazzato?» Fa una risatina bassa carica di condiscendenza. «Da chi?»

    «Da me

    La risata adesso risuona più forte, è lunga e piena, ed è seguita da uno scrollare enfatico della testa. «Ho già licenziato chiunque si potesse licenziare. Ma grazie per avermi fatto sapere come gestire il mio ranch.»

    «Tuo il ranch, tuo il problema,» ribatto, notando come qualche momento fa era il ranch di suo marito, ma ora che lo sta difendendo è il suo. «Hai detto che avevi bisogno di vendere altri cavalli quest’anno. Di ricostruire e rilanciare l’attività grazie alla vendita di nuovi puledri. Di scegliere dei clienti chiave che potrebbero comprare di nuovo in futuro. Magari persino vendere un campione da rodeo o due,» dico. «Incrementare i profitti in generale, giusto?»

    Tatum si limita a fissarmi e intanto l’indecisione lotta per impossessarsi della sua espressione. Il bisogno di aiuto contro il desiderio di non cedere.

    «Non credo di aver capito male, o no?» continuo. «Sentiti libera di affrontare tutto da sola, ma da quel che mi hai detto ti serve una mano per generare profitto e restare a galla. E io ti posso aiutare. Oppure puoi dirmi di andarmene, portando via con me tutta l’esperienza e le conoscenze del caso, e tu puoi continuare a fare quel che stai facendo.»

    Orgoglio testardo o successo garantito.

    Spetta a te scegliere, principessa.

    Si irrigidisce tutta e digrigna i denti. «Ci sono altre persone che posso assumere. Tranquillo.»

    «La domanda è: loro lavorerebbero per te?» Faccio una risatina nasale. «La prossima volta che si presenta qualcuno ti conviene anticipare che li aspetta un percorso in salita per cercare di promuovere un ranch di queste dimensioni senza alcun aiuto.»

    «Gestire il ranch è una mia responsabilità. La tua sarebbe vendere i puledri.»

    «Quindi la macchina dei pettegolezzi ha ragione. Non accetti aiuto qualificato neanche quando ce l’hai sul portico di casa.»

    «Qualificato non vuol dire di qualità

    Alzo un sopracciglio e sorrido appena della frecciata. «Dimmi una cosa. Hai licenziato tu gli aiutanti o se ne sono andati loro?» La domanda le cancella quell’espressione dal viso. «Venti dollari che se ne sono andati. Sono qua da meno di dieci minuti e mi hai insultato così tante volte che ho perso il conto. Ho sentito che sei una persona difficile con cui lavorare. Criticare il modo in cui la gente fa qualcosa quando tu stessa non sai farlo non ti fa esattamente guadagnare rispetto. Hai la lingua pronta e una cattiva reputazione. Essere di bell’aspetto e aver studiato in un’università prestigiosa non vuol dire un cazzo in una cittadina come questa… specialmente quando te ne vanti e disprezzi quelli che hanno meno di te.»

    E come se stesse rispondendo a qualche segnale, un nitrito si leva in lontananza. Un suono familiare e amichevole in cui posso identificarmi in questo ambiente ostile.

    «Pensavo avessi detto che non ascolti i pettegolezzi.»

    «Infatti, ma la tua piacevole personalità non sta facendo molto per smentirli.»

    «Allora perché sei ancora qua?» chiede.

    Che cavolo ne so.

    Mi odio ancora prima di pronunciare queste parole: «Allora, quando comincio?»

    Lei scuote la testa. «Mi insulti. Mi critichi. Mi dici che credi alle bugie e poi pensi sul serio che ti assumerò? Sei fuori di testa.»

    «Mi insulti. Mi critichi. Mi dici che mi odi dopo che ho guidato per centinaia di chilometri per accettare l’offerta di lavoro. Ti ricorda niente?» I nostri sguardi torvi si incrociano e all’improvviso mi si illumina la lampadina. «Ah, capisco. È difficile licenziare il personale quando ci vai a letto? Non è più il tuo ragazzo a gestire il ranch, eh?»

    Stringe le mani a pugno, le spalle tese. «Non che sia affar tuo con chi vado a letto, ma non ho una relazione sessuale con il ranch manager. Non ne ho uno. Sono io a gestire il ranch. Sono io l’unica dipendente!»

    Sbatto le palpebre per qualche secondo cercando di elaborare le sue parole. Parole impossibili da credere.

    Eppure, ci credo.

    Perché quando la guardo di nuovo, tutto quel che vedo è fuoco.

    Il fuoco e la tenacia e la determinazione di una persona abituata a cavarsela da sola, che sente di avere il mondo contro.

    Bellezza.

    Quando ho deciso di mantenere la mia promessa non mi ha neanche sfiorato la mente che la voce aspra e l’atteggiamento altezzoso percepiti al telefono potessero appartenere a una donna che mi avrebbe tolto il respiro appena uscita sulla soglia di casa.

    Dolore.

    Quella era decisamente una cosa che non mi ero aspettato di vedere, dopo avere sentito tutti i commenti meschini dei residenti di Lone Star su di lei.

    Ma conosco quel genere di pettegolezzi.

    Non avrei dovuto crederci.

    Ma il dolore e il risentimento che provo me lo hanno reso molto più facile.

    Merda.

    Adesso l’idea di vedere con i miei occhi per poi andarmene è svanita.

    Cazzo.

    E poi, quasi come se si fosse appena resa conto di quello che ha ammesso, ovvero che è lei la dipendente manchevole, la rabbia le si accende negli occhi, indica oltre e sputa: «Puoi raggiungere l’uscita da solo.»

    «Vivi qua senza nessun altro?» domando, e faccio un fischio. «Si è molto soli, a vivere così lontani dalla città.»

    «Ho i cavalli a farmi compagnia.»

    «Esseri umani. Non hai altri umani da queste parti con cui interagire?»

    «A quanto pare non ne ho bisogno,» ribatte, ma per un secondo brevissimo vedo delle emozioni passarle nello sguardo. Tristezza? Senso di solitudine? È già qualcosa, ma prima che mi permetta di capire cos’è è svanito.

    «Tutti hanno bisogno degli esseri umani.»

    «Una volta lo pensavo anch’io, ma trovo che gli animali mi diano più di quanto abbia mai fatto la gente.»

    La cruda onestà nella sua voce roca mi dice che ne ha passate abbastanza da giustificare la sua rabbia contro il mondo e i pettegolezzi cittadini.

    È un sentimento a cui nella vita ho dato voce più volte di quante riesca a contare – una scusa per non spiegare un cazzo a nessuno – e annuisco.

    Ci sono passato anch’io.

    Ancora non ne sono fuori.

    Ma c’è qualcosa nella tristezza dei suoi occhi che mi fa venire voglia di spazzarla via. Che mi fa venire voglia di spingere i pulsanti giusti per riaccendere quel fuoco, perché la rabbia la so gestire.

    La rabbia almeno mi dà qualcosa contro cui battermi.

    Scaccio tutte le altre emozioni.

    «A me sembra che un ranch manager sia quello che ti serve. Lo posso fare io, riportare a regime questo posto e poi lavorare sui contratti. In questo modo potresti tornare a fare» – agito la mano con fare indifferente – «le cose che facevi prima.»

    «Che cosa facevo prima?» chiede con voce che si alza di tono. «Cose tipo mangiare caviale e farmi fare la pedicure, giusto? Dovevi per forza rimettermi al mio posto.»

    «Quello che fai nel tuo tempo libero è affare tuo.» Alzo le mani in segno di resa: la battaglia è finita. Il mio tentativo è stato fatto.

    Il silenzio si dilata tra noi insieme al cinguettio degli uccelli e al nitrire dei cavalli.

    «Ah, certo.»

    «È stato un piacere, signora Knox,» dico, e mi tocco per scherzo il cappello.

    «Non posso dire lo stesso.»

    «Non lasciare che l’orgoglio ti impedisca di assumere qualcuno che potrebbe riportare in vita questo posto.»

    «E tu non lasciare che l’ego ti impedisca di beccarti una pallottola,» dice, e io rido, non sapendo bene se rispettare la sua grinta o esserne irritato. «Questo posto è pieno di vita, grazie tante.»

    Sollevo un sopracciglio con fare interrogativo. «Quindi è tutto? Mi chiedi di venire, mi butti fuori dopo che ho viaggiato per centinaia di chilometri, poi mi richiami come ne andasse della tua vita solo per renderti conto di averlo fatto senza una vera intenzione?» Scuoto rapidamente la testa. «Credi stia tentando di fare dei giochi di potere? Io credo sia il contrario.» Alzo il cappello e mi gratto la testa prima di rimetterlo giù. «Capisco l’indecisione, Knox. Comprendo il timore di non sapere se si sta facendo o no la cosa giusta… ma sono stronzate. Proprio stronzate. Vuoi aiuto, bene. Non vuoi aiuto, bene. Ma devi capire cosa vuoi, e alla svelta, oppure perderai questo ranch. Semplice e chiaro.»

    «Addio, Jack.» Ha la voce tesa ma l’espressione dura. Sembra una donna che vuole aiuto ma ha troppa paura per ammetterlo.

    Fuoco. Bellezza. Dolore.

    Ripenso a queste tre cose che mi hanno impedito di allontanarmi, alcuni momenti fa.

    Te lo prometto, papà.

    Queste sono state le ultime parole dette a mio padre prima che morisse. Questa è la promessa che sono venuto a onorare.

    Facendo un passo di ritirata, le rivolgo una strizzata d’occhi e un sorrisetto giusto per farla incazzare. «Sono in città fino a venerdì, se dovessi ritrovare il buonsenso e decidere di assumermi.»

    Senza dire un’altra parola giro i tacchi e ripercorro il vialetto di ghiaia fino al pick-up, chiedendomi intanto perché cazzo ho lasciato l’offerta aperta in questo modo.

    Mentre proseguo lungo il viale del ranch, so che lei è ancora in piedi sul portico con una mano sul fianco, che mi guarda con quelle iridi color fumo.

    La domanda è: perché diavolo l’idea mi provoca una leggerissima soddisfazione?

    2

    TATE

    Riportare in vita questo posto, un cazzo.

    Non so per quanto tempo sto a fissare la polvere sollevata dai suoi pneumatici danzare nel tramonto.

    Che ne diresti di smettere di ascoltare pettegolezzi da bar, eh? Di non credere alle bugie che ti raccontano ancor prima conoscermi? Di darmi una possibilità prima che avvelenino la tua idea di chi sono veramente?

    Quel sogghigno arrogante. Quegli occhi color cioccolato accesi di divertimento perché, sebbene gli abbia detto il contrario, aveva ragione… assolutamente ragione, sotto molti aspetti.

    Eppure, quella discussione è valsa ogni parola. Il suo sarcasmo, che ha toccato tutte le corde giuste nei momenti giusti, mi ha fatto l’effetto di unghie su una lavagna e di una martellata all’ego. La verità che ha sputato fuori era più accurata di quanto si possa anche solo immaginare, dato che faccio tutto ciò che posso per tenere segreti i miei problemi finanziari. Ho fatto ogni cosa in mio potere per impedire agli avvoltoi di girare in circolo mentre aspettano che mi accasci e muoia.

    Se i residenti sapessero la verità avrebbero un motivo in più per cacciarmi via, ed è l’ultima cosa che gli voglio dare: vittoria, soddisfazione.

    Ripenso a quel che ha detto, concentrandomi sulle emozioni che ha evocato e non su ciò che ho provato nell’avere un uomo sul mio portico che mi sfida. Il leggero sfarfallio nello stomaco quando sono comparse le fossette. Il battito accelerato nel vedere i suoi bicipiti flettersi sotto le maniche della camicia.

    Avrei dovuto odiarlo immediatamente.

    Gli avvertimenti di Sylvester, che le ultime sere lo aveva visto al bar di Ginger intento a parlare con i locali, mi sarebbero dovuti bastare per cacciarlo via subito.

    Peccato, perché avrei voluto assumerlo prima che Sylvester me lo raccontasse. L’ultima cosa che mi serve è un altro dipendente come quello precedente, che va a raccontare in città tutto quel che avviene al mio ranch.

    Ho imparato la lezione. Mai più.

    Avrei dovuto odiarlo immediatamente.

    Invece di odiarlo, però, l’ho osservato mentre stava seduto sul pick-up sul limite del viale. Mentre veniva verso la casa, guardando di qua e di là ed esaminando i pascoli. Quando è sceso dal pick-up è stato come se mi avessero dato un pugno nello stomaco.

    Quando i nostri sguardi si sono incrociati per la prima volta.

    Quando il suo corpo si è irrigidito, i suoi occhi si sono spalancati, attraversati da una lievissima traccia di desiderio durata più a lungo del normale, consentendomi di notarla.

    Il piano di esporre con calma le mie ragioni è svanito di colpo, perché anch’io ho sentito quella leggera scossa di desiderio. L’idea di spiegargli che dovevo fidarmi delle persone che assumevo, e che semplicemente questo non era il caso, si è persa in quella momentanea disattenzione.

    Nella mia testa avevo tutto pianificato. Mi sarei sfogata e lui avrebbe agitato una mano – magari persino alzato il medio – mentre se ne andava senza pensarci due volte. Mi avrebbe risparmiato il disturbo e il fastidio di affezionarmi a un nuovo manager per poi venire a sapere che in città parlava male di me raccontando a tutti i miei segreti.

    Nella mia mente l’intera scena sarebbe finita nel giro di minuti.

    Ma maledizione, se n’è rimasto lì con l’orgoglio stropicciato e il sorriso tronfio mentre io mi comportavo da stronza. E più parlavo più lui si impuntava, come se qualcosa lo trattenesse. Qualcosa che lo spingeva a lottare per un lavoro per cui era decisamente troppo qualificato.

    Avrei dovuto chiedermi perché, ma ero così determinata a odiarlo a vista che non l’ho fatto.

    E così l’ho affrontato. Sono

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