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Closer: Edizione italiana
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E-book301 pagine4 ore

Closer: Edizione italiana

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Info su questo ebook

Gabriella Mason è danneggiata.
Teller Reddy è distrutto.
La tristezza ama la compagnia, ed è proprio quello che Ella ottiene nel pomeriggio in cui incrocia Teller: lo studente di medicina incompreso che diventa subito la sua àncora di salvezza quando lei si trasferisce a Los Angeles nel tentativo di scappare da un passato che l’ha lasciata con il cuore spezzato.

All’inizio, Solitario e Diffidente si completano a vicenda, ma alla fine la loro relazione è come un bicchiere rotto… tagliente e frastagliato.
Chiudendo la loro storia prima di uccidersi a vicenda, Ella e Teller decidono di “restare solamente amici” nonostante l’intensità che li unisce. È una base fragile sconvolta dalla tragedia, che in effetti distrugge l’illusione che hanno costruito con cura.
Incapaci di negare ancora quello che c’è tra di loro, ecco che cosa succede quando qualcosa di danneggiato e si scontra con qualcosa di distrutto e andarci vicino non è ancora abbastanza vicino.
LinguaItaliano
Data di uscita27 ott 2022
ISBN9791220704366
Closer: Edizione italiana
Autore

Mary Elizabeth

Mary Elizabeth is an up and coming author who finds words in chaos, writing stories about the skeletons hanging in your closets. Known as The Realist, Mary was born and raised in Southern California. She is a wife, mother of four beautiful children, and dog tamer to one enthusiastic Pit Bull and a prissy Chihuahua. She's a hairstylist by day but contemporary fiction, new adult author by night. Mary can often be found finger twirling her hair and chewing on a stick of licorice while writing and rewriting a sentence over and over until it's perfect. She discovered her talent for tale-telling accidentally, but literature is in her chokehold. And she's not letting go until every story is told. "The heart is deceitful above all things and beyond cure."--Jeremiah 17:9

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    Anteprima del libro

    Closer - Mary Elizabeth

    1

    ELLA

    Il fumo denso e bianco gli fuoriesce dalle labbra, allungandosi verso il cielo in sbuffi nebbiosi. L’odore pungente del tabacco mi fa bruciare le narici e mi arriva in gola, ma il disagio che provo è minimo rispetto al peso che sento sullo stomaco. Mi trovo accanto a questa scultura umana che fuma, tenendo una sigaretta tra le dita, attenta a non sfiorarne la punta rossa. Ci fissiamo per un istante negli occhi e poi lui lancia il mozzicone a circa dieci metri da noi e torna a fissare in avanti.

    «È il primo anno anche per te?» domando.

    «Il terzo.» Avvicina un’altra sigaretta alle labbra. Tiene una mano tatuata a coppa, dà un’occhiata alla fiamma arancione e l’accende. «Sono terrorizzato, cazzo.»

    Scoppio a ridere. «Siamo in due.»

    Seguo il suo sguardo verso la struttura, simile a un castello, fatta di mattoni rossi e anime di universitari, e all’improvviso sento il bisogno di riempire i polmoni di agenti chimici cancerogeni. Il fumatore incallito mi legge nel pensiero perché mi passa le Marlboro, rilasciando un’altra nube di fumo.

    «Aiuta a rilassarsi,» dice.

    Con quel movimento le nostre dita si sfiorano appena. Una frenesia gelida si scontra con un nervosismo ustionante, ma mi trema ancora la mano quando avvicino il concentrato di nicotina alla bocca e inspiro. Sento un cambiamento immediato in testa… diventa confusa e mi chiedo come supererò i prossimi quattro anni.

    Mi bruciano i polmoni che si comprimono per l’intrusione del fumo. Lo trattengo più a lungo che posso, percorrendo la mostruosità che è l'UCLA verso il mio prevedibile futuro, terrorizzata all'idea di compiere da sola il prossimo passo della mia vita.

    Le scale di cemento che conducono all’imponente edificio diventano sfocate quando mi si inumidiscono gli occhi e, sentendo la risata del fumatore al mio fianco, comincio a tossire quel veleno, scacciandolo dai polmoni. Lui espira scie di fumo aggraziate e belle; io sputo esausta, soffocando in modo sgradevole.

    «Vacci piano,» mi avverte il mio compagno, che ridacchia e mi dà una pacca sulla schiena. «Non morire il tuo primo giorno di college.»

    «Sarebbe una benedizione,» dico in preda a un attacco di tosse, piegandomi senza vergogna nonostante il suono sordo mentre mi colpisce la schiena.

    Smette di provare a salvarmi la vita quando, alla fine, faccio un respiro profondo e mi alzo, asciugando il mascara sbavato sotto gli occhi. La colpa del mio quasi decesso pende dall’angolo della sua bocca, incorniciata dal sorrisino più arrogante che abbia mai visto e che appartiene al viso più compiaciuto su cui abbia mai posato gli occhi. Le pozze verdi, nonostante siano nascoste dalla visiera del berretto, luccicano come gioielli… come smeraldi.

    È carino e lo sa.

    «Teller Reddy. Studio medicina,» si presenta. La sigaretta tra le labbra sobbalza a ogni sillaba e il suo sorriso diventa, in qualche modo, più soddisfatto.

    Ricambio la stretta di mano. «Gabriella Mason, ma tutti mi chiamano Ella. E non so ancora che cosa studierò.»

    La paura, temporaneamente accantonata dalla tosse e dalla mancanza d’ossigeno, torna a innervosirmi. Il colore mi abbandona il viso quando il cuore impazzito risucchia ogni goccia di sangue dal resto del corpo. Un altro tiro di nicotina non è fuori questione. Come ho detto, la morte sarebbe una benedizione.

    Il futuro dottore in medicina, Teller Reddy, fa un ultimo tiro prima di schiacciare la sigaretta sotto la scarpa. Il sorriso si addolcisce insieme all’espressione degli occhi mentre assiste al mio tormento. Mi stringe le mani – le mie, quelle di una sconosciuta sul punto di avere un attacco di panico – e mi massaggia le nocche con i pollici prima di scuotermi con delicatezza i polsi.

    «Da dove vieni, Ella?» domanda senza smettere di guardarmi negli occhi.

    «St. Helena. Nord California,» rispondo.

    «Che cosa ti ha portato qui?» Le dita forti mi massaggiano le braccia, alleviando la tensione meglio del tabacco.

    «Mio padre è morto due anni fa, quindi ho ottenuto i soldi per il college. Ho fatto domanda in diverse università, ma questo posto sembrava fico. Così ci siamo trasferiti qui.»

    Teller ride e domanda: «A chi ti riferisci con ci siamo

    «Mio fratello Emerson e io. Mi ha cresciuta dopo che papà è morto, e la mamma…» Non c’è bisogno di raccontare tutta la triste storia. Allontano le mani dalle sue e mi passo le dita tra i capelli lunghi. «Io… non ho mai fatto niente da sola.»

    «Almeno tu vuoi stare qui,» ribatte.

    «Studi medicina? Spero per te che desideri davvero stare qui, se hai fatto una scelta simile.» Sbuffo, abbassando timidamente gli occhi sul cemento sotto i nostri piedi.

    I tatuaggi che gli ricoprono le mani arrivano fino alle braccia, tutti nei toni del nero, grigio e rosso. Accenni di altri sbucano da sotto il colletto della camicia, e immagino che ne abbia anche su petto e schiena. È alto, slanciato e magro, del tutto diverso da qualsiasi altro medico abbia mai visto.

    «Già, be’, mio padre è ancora vivo, ma è un coglione,» ribatte Teller, toccandosi le tasche, forse alla ricerca del pacchetto di sigarette. Ne porta un’altra alle labbra, ma non l’accende. «Questo è il suo sogno, non il mio.»

    «Puoi fare altro?»

    «No,» si affretta a rispondere.

    «Ti piace almeno un po’?» domando.

    Abbassa l’accendino senza accendere la sigaretta e sorride. «Forse un po’, ma non dirlo al vecchio. Ho bisogno che continui a credere che mi abbia rovinato la vita.»

    Scoppio a ridere, inclinando la testa indietro. I raggi del sole mi colpiscono gli occhi e vedo tutto rosso dietro le palpebre chiuse. Per la prima volta da quando Emerson mi ha lasciato sul bordo del marciapiede in balia di me stessa, sento il sole di metà settembre che mi riscalda il viso e le braccia scoperte, e una scintilla di speranza si accende dentro di me.

    C’è diversità ovunque. Gente di tutti i fisici e colori, impaurita quanto me, qui per la prima volta per le mie stesse ragioni. Ragazze dai capelli rosa, ragazzi che mostrano già i primi segni di calvizie… bassi, alti, magri, grassi, afroamericani, bianchi, di tutti i colori.

    Futuri dottori pieni di tatuaggi che fumano.

    Avevo bisogno di una via di fuga dalla cittadina da cui provengo, lontano dai fantasmi dei miei genitori e dallo strazio che vivo da quando sono scomparsi. Un nuovo inizio è proprio quello che ho chiesto ed è quello che mi è stato concesso.

    Un modo per ricominciare da zero in un posto nuovo sarà la risposta a tutti i miei problemi.

    È così che va la vita.

    «Non si fuma nel campus, stronzo,» borbotta un tipo con capelli neri e unti, vestito tutto di nero, che di sicuro è diretto a lezione.

    Teller solleva le mani con la sigaretta che pende tra le labbra. «Non è accesa.»

    «Vaffanculo.» Quel tipo con l’eyeliner si gira e ci alza il dito medio prima di proseguire per la sua strada.

    Teller posiziona la sigaretta dietro l’orecchio, conservandola per dopo, stringe la presa sulla cinghia dello zaino nero sulla spalla e si gira verso di me. «Dove sei diretta?»

    «Biologia,» rispondo, tirando fuori la scheda con gli orari delle lezioni dalla tasca posteriore e gliela porgo.

    «È di strada. Ti accompagno.» Mi ripassa il programma e paziente aspetta con un sorrisino mentre mi preparo.

    Sistemo i capelli e inspiro profondamente prima di avanzare, e faccio il grande passo.

    Dopo la lezione, lo trovo appoggiato alla parete con le mani in tasca, il viso nascosto dal capello e con la stessa sigaretta dietro l’orecchio. Esito sulla soglia della porta, temendo che non aspetti me, ma sono l’ultima a uscire perché ho fatto cadere il portacolori dal banco e cinquanta matite gialle HB non temperate si sono sparpagliate dappertutto.

    Ne ho recuperate solo quarantatré.

    «Va tutto bene?» mi domanda Teller, raddrizzandosi quando mi posiziono davanti a lui.

    «Alla fine ci prenderò la mano.» Sono ancora rossa per l’imbarazzo.

    «Adesso dove sei diretta?» chiede con un sorriso. Non quello compiaciuto di prima, ma un sorriso vero che gli illumina il viso e anima gli occhi già splendenti.

    «Economia.» Soffio per scostare il ciuffo dal viso.

    Il mio chaperon si fa da parte e mi permette di passare per prima, chinando il capo. Dopo aver completato ufficialmente la prima lezione del mio primo anno di college, l’ansia che mi attanaglia da quando mio fratello e io ci siamo trasferiti sei settimane fa, si placa un po’. Faccio un respiro profondo nel momento in cui Teller mi appoggia una mano sulla parte bassa della schiena, guidandomi in mezzo al mare di studenti. Il suo profumo è un caleidoscopio di odori: nicotina, sapone Irish Spring e zenzero… una scia così confortevole che l’ansia diventa un ricordo lontano.

    Con il cuore che palpita, inspiro ancora una volta e chiedo: «Non hai amici?»

    Ride appena, spostandosi al mio fianco mentre il vialetto si libera e con un tono scherzoso risponde: «Ne ho così tanti.»

    «Mi chiedevo solo perché stai con me e non con i tuoi amici.»

    «Mia sorella e il suo ragazzo oggi non hanno lezione, e non mi importa di nessun altro così tanto da tenere conto dei loro spostamenti.» Teller toglie il berretto, rivelando i capelli appiattiti prima di indossarlo di nuovo. «E poi sei stata tu ad avvicinarti a me per prima.»

    Gli do una spinta scherzosa e lui barcolla sul prato. «Idiota.»

    «Inoltre,» dice, accelerando il passo per raggiungermi, «adesso siamo amici.»

    «Non ci conosciamo nemmeno,» ribatto. Non so dove sto andando, ma seguo il marciapiede, mentre ondeggio i fianchi e tengo la testa alta per non sembrare un’idiota che si è smarrita. Il campus è più grande della città in cui sono cresciuta.

    «Certo che sì.»

    «Quanti anni ho?» chiedo.

    «Diciannove,» risponde subito.

    «Sbagliato,» lo correggo «Diciotto.»

    «Io ne ho venti, quindi abbiamo quasi la stessa età.» Enfatizza quel punto scrollando la spalla con un movimento svogliato.

    «E se non volessi essere tua amica?» Gli lancio un’occhiata attraverso i capelli che mi coprono il viso. «Mi hai scelto tu! Mi stavo facendo gli affari miei quando ti sei intromesso mentre riflettevo sulle mie insicurezze. Hai bisogno tu di me. Sono la tua unica amica.» Poi con un tono sicuro ammetto: «Tutti al corso di biologia volevano conoscermi.» Non è del tutto vero, però. Ero solo un’altra faccia in quell’aula. Il professore non mi ha nemmeno degnata di uno guardo.

    «È stato prima o dopo che facessi cadere la tua roba e tutti rubassero le tue matite?» Scoppia a ridere.

    «Lo hai visto?» Divento paonazza e sento le punte delle orecchie che mi bruciano.

    «Già.» Mi circonda le spalle con un braccio, lasciando abbastanza spazio tra di noi per non mettermi a disagio, e ci fa girare verso la direzione da cui siamo venuti.

    «Non ti hanno insegnato il concetto di spazio personale, da bambino?» domando, riconoscente che sembri sapere dove siamo diretti.

    «No.»

    «Non verrò a letto con te,» dico, girando la testa verso di lui con lo scopo di inebriarmi del suo profumo delizioso. Mi addolcisce il cuore e mi fa desiderare di averlo nella mia vita. Tutto di Teller Reddy – la curva delle labbra, il luccichio degli occhi, il rombo della risata che gli riecheggia nel petto – mi rilassa.

    «Saresti così fortunata, ragazza nuova.»

    Il ragazzo è un ammaliatore e, per il resto della giornata, mi aspetta dopo le lezioni, accogliendomi con il suo sorriso malizioso e la promessa di accompagnarmi finché non saprò orientarmi. Il giorno seguente mi porta dei regali: una mappa del campus, matite e nuovi amici.

    «Ella, ti presento mia sorella Maby e il suo ragazzo, Husher.» Teller mi presenta una biondina minuta con occhi dello stesso colore dei suoi e un tipo timido, che si rivolge a me con una scrollata di spalle e un cenno della mano. L’ammaliatore a quel punto indica una ragazza davvero stupenda, con i capelli biondi e la carnagione abbronzata, che si trova dietro Maby. «E lei è Nicolette, ma ignorala. È una stronza.»

    «Fottiti, Tell.» Nicolette supera Teller e si posiziona davanti a me prima di proseguire. «Fa’ un favore a te stessa e scappa il più lontano possibile da lui. Ti divorerà viva.»

    «Avanti, Nic. Non spaventare la poverina,» la supplica Maby, passandoci accanto. «Lui non voleva.»

    «Con il cazzo che non volevo,» protesta Teller con aria di sufficienza, così vicino da avvolgermi con il calore del corpo. «È solo furiosa perché non divoro lei.»

    «Sei pazzo.» Sua sorella sbuffa e Husher ridacchia.

    Nicolette continua a camminare e non la rivedo fino al giorno dopo, quando mio fratello passa a prendermi. Una spanna più alto e con una decina di chili in più del mio accompagnatore tatuato, Emerson ha occhi solo per lei e sembra preoccupato per Teller. Ho avvisato il futuro medico Reddy dell’atteggiamento protettivo di mio fratello, ma rimane calmo sotto lo scrutinio cinico e paterno di Em.

    Eppure, sembra che Nicolette non sia l’unica capace di ammaliare Em. Dopo che lui e Teller si scambiano uno sguardo d'intesa, con tanto di sopracciglia inarcate, cenni del capo bruschi e scontro di pugni, la conversazione si sposta sulla Fastback rossa del 1965 che mio fratello ha ereditato dopo la morte di nostro padre.

    «Ha bisogno di qualche ritocco, ma cammina che è una meraviglia,» dice Emerson, sollevando il cofano traballante. La ruggine ricopre il motore con uno strato di polvere rossastra.

    «Conosco un tipo che può proporti un buon affare,» dice Teller, conquistando ufficialmente Emerson. Alla fine della discussione si scambiano il numero di telefono e organizzano un incontro durante il fine settimana per bere qualche birra e parlare di auto.

    Ed ecco come, il sabato, Teller finisce nel nostro appartamento con una confezione di birra e Nicolette. Apro la porta con la scodella di cereali che ho appena versato, il latte freddo che gocciola dai bordi, quando indietreggio, sorpresa, dall’arrivo dei nostri ospiti. Ho raccolto i capelli che non lavo da tre giorni in una crocchia in cima alla testa, hanno un bisogno urgente di uno shampoo e sono pieni di nodi. Per il bene di mio fratello, indosso un reggiseno e la maglietta di una vecchia band, consumata e dallo scollo allargato.

    «Mi fa piacere vederti in tiro per l’occasione.» L’intruso fa un mezzo sorriso, muove un passo verso di me e si avvicina ancora di più.

    È bello da impazzire e mi uccide quando mi passa accanto, sfiorandomi la guancia con le labbra bollenti. Sento la puzza di alcol nel suo alito, caldo e pungente, che si mischia al profumo inebriante di sapone e zenzero, un tratto naturale di Teller. Ha il viso paonazzo e gli occhi lucidi, ubriaco ma stabile sulle gambe e sicuro di sé.

    «Non temere,» mormora Nicolette, che mi supera, sbattendomi i capelli sulla faccia e, senza rendersene conto, facendoli finire nella ciotola. «Ho guidato io.»

    «Non ero preoccupata,» ribatto, e chiudo la porta con un calcio. «Non sono la sua mammina.»

    «Non ancora,» dice Teller, aprendo una birra che mi porge dopo che ho gettato i cereali sprecati nel lavello della cucina. Mi fa l’occhiolino e si allontana nel momento in cui gli faccio un cenno. «Vivi a Venice Beach, e sono solo le nove. Perché cazzo sei in pigiama?»

    «Viviamo a Venice perché l’affitto è economico.» Incrocio le braccia sul petto. Non perché sia arrabbiata, ma perché penso che la maglietta potrebbe essere trasparente.

    «L’affitto non è economico!» Teller scoppia a ridere, passandomi la birra. Le nostre dita si sfiorano di nuovo, e resto un’altra volta senza fiato.

    «Non è costoso come a Beverly Hills,» protesto con tono accusatorio. «Non tutti abbiamo genitori milionari che possono permettersi di vivere in residence accanto ad attori famosi e pop star.»

    «I miei genitori vivono a Beverly Hills. Io sto solo lì.» Stringe gli occhi, ma il sorriso che ha sulle labbra mostra quanto è arrogante.

    «Come ti pare.» Sbuffo, bevendo un sorso del liquido amaro e dorato. «Richie Rich.»

    Mentre Teller e io bisticciamo sugli affitti oltraggiosi di Los Angeles e sui soldi che non gli appartengono, ma che sono del padre, un pezzo grosso del settore farmaceutico, mio fratello esce dalla sua stanza, dato che è stato lui a invitare il mio tormento.

    Nicolette lo spinge di nuovo dentro e sbatte la porta di legno da quattro soldi, lasciandosi dietro solo una scia di profumo floreale e brillantini.

    «Quando è successo?» domando, puntando il collo della bottiglia verso la stanza di Emerson. «Si sono conosciuti due giorni fa.»

    «Che cazzo ne so, ma l’ho portata qui per questo.» Teller tira fuori una fiaschetta di whisky dalla tasca posteriore e la posa sul bancone tra di noi.

    Mi va la gola a fuoco solo a guardarla.

    «Vestiti,» dice il bellissimo riccone. «Voglio portati in un posto.»

    Venti minuti dopo, grazie a tutto lo shampoo secco che ho spruzzato sui capelli, riesco ad arricciarne le punte e a tenere il ciuffo lontano dagli occhi. Teller mi ferma prima che inizi a truccarmi.

    «Non hai bisogno di questa merda,» dice, appoggiandosi alla porta del bagno mentre tiene lungo il fianco una bottiglia di birra che stringe tra l’indice e il medio.

    «Saremo in pubblico. In mezzo ad altra gente,» spiego, riversando il contenuto della borsa dei trucchi sul piccolo bancone. Il correttore e i rossetti si scontrano con la superficie piastrellata.

    «È buio e sono tutti strafatti a Venice. Ti confonderai.»

    Respiro fiamme dopo ogni sorso che prendo da quella fiaschetta di liquore sputa fuoco. Mi si intorpidiscono le dita delle mani e mi pizzica la pelle in modo fantastico mentre il liquido caldo si accumula nello stomaco. Mi sento leggera ed euforica, incontrollabile, quando Teller mi conduce verso la spiaggia tenendomi per mano, superando ragazzi sulle tavole da surf, ragazze con tatuaggi temporanei e poliziotti in bicicletta.

    L’aria appiccicosa e salmastra puzza di marijuana e sigarette dozzinali. Una nube sottile di fumo aleggia sul lungomare illuminato da una luce arancione. Gli artisti di strada guadagnano banconote da un dollaro colpendo il fondo di secchi con le bacchette e destreggiandosi con il fuoco. Un altro uomo cammina sul vetro rotto e una ragazzina senza tetto suona la fisarmonica.

    «Dalle dei soldi,» dico, tirando Teller per la semplice maglietta bianca quando incrocio lo sguardo della musicista.

    Lui lancia qualche banconota nella custodia rivestita di velluto viola della ragazza e mi fa allontanare in fretta dagli altri artisti, prima che gli faccia sperperare la sua fortuna. Superiamo capolavori realizzati sui muri degli edifici che sorgono tra palme e giardini, e arriviamo sulla spiaggia, dove l’oceano canta una ninnananna rilassante mentre piccole creste spumose si scontrano con la costa. Teller toglie le scarpe e mi aiuta a fare lo stesso quando diventa chiaro che regge l’alcol meglio di me.

    «Sei ubriaca?» domanda, sollevandomi l’orlo dei jeans fino alle ginocchia.

    Vacillo all’indietro, reggendomi alle sue spalle per non finire con il sedere per terra. «No.»

    Scalzo e con la sabbia fredda fino alle caviglie, Teller apre la bottiglia di whisky e mi avvicina alle labbra il bordo di vetro liscio. I raggi lunari gli si riflettono negli occhi e non riesco a distogliere lo sguardo mentre il liquido dal sapore intenso mi si accumula in bocca. Non brucia quanto la prima, la seconda e la terza volta. Deglutisco senza battere ciglio, anche se una goccia mi scivola lungo il mento.

    Teller la lecca.

    Beve un sorso dalla bottiglia, mandandone giù più lui in una sola volta di quanto ne ho bevuto io da quando l’ha aperta. Con labbra umide per via del liquore e una sicurezza dovuta al coraggio liquido e alle cattive intenzioni, mi attira contro il suo corpo e abbassa il viso vicino al mio. Il profumo legnoso di malto dei nostri respiri che si uniscono mi fa girare la testa, e la consapevolezza dei cuori che battono così vicini fa sparire il resto del mondo.

    «Hai intenzione di baciarmi?» domando, spostando lo sguardo sulle sue labbra.

    «Sì,» sussurra.

    Abbasso le palpebre pesanti mentre lui si piega, facendo divampare un incendio nel mio corpo, mentre le dita intorpidite riprendono a sentire e le gambe tornano a reggersi.

    Tuttavia, la sensazione di torpore e instabilità ritorna con fervore quando Teller apre gli occhi all’improvviso, indietreggia e scalcia la sabbia; spaventa me e manda su tutte le furie il nostro ospite. La peste bianca e nera si muove tra i nostri piedi con la coda alta, emettendo già un odore nauseante di aglio e zolfo.

    «Non fare movimenti improvvisi,» dice Teller, facendo un passo cauto all’indietro. Ha le mani sollevate in segno di resa, come se a quella canaglia importasse un accidente del rispetto.

    «Da quando ci sono puzzole in spiaggia?» sibilo a denti stretti e la coda dell’animale mi sfiora la caviglia nuda.

    Sono una statua. Sono di marmo. Sono di titanio.

    Teller ridacchia, allontanandosi sempre di più da me. «Da sempre.»

    «Ecco perché non esco.» Il battito rallenta quando la bestia mi barcolla accanto. Non muovo un muscolo finché non è a qualche centimetro di distanza. «Questa sera volevo solo guardare un film e…»

    «Ella, ferma!» urla Teller, ma per me è troppo tardi.

    La puzzola mi spruzza e mando a rotoli la serata, tormentata da un senso di angoscia.

    «Solo… resta lì.» Teller si copre il naso con il braccio mentre resta fuori dalla porta del bagno.

    «Dovrei aprire il rubinetto?» domando al centro della vasca vuota. Lacrime mi lasciano il viso appiccicoso e mi ritrovo a sbattere i denti. «Va via, vero?»

    Teller fa del suo meglio per restare dritto, le mani sui fianchi, come se la puzza che mi impregna la pelle non gli bruciasse le narici. Osservo i suoi occhi verdi diventare lucidi e il viso paonazzo per la mancanza di ossigeno. Dato che non gli resta altra scelta che inspirare, perde il controllo e gli viene da vomitare, piegandosi in due.

    «No, abbiamo bisogno di qualcosa di più forte.» Tossisce, coprendosi il naso e la bocca prima di andare via. «Torno subito.»

    «Dove vai?» esclamo e la voce riecheggia tra le pareti della doccia.

    Lo sento aprire e chiudere le ante di mobili e cassetti in cucina mentre mi sbarazzo dei vestiti contaminati, lanciandoli sul pavimento,

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