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Non c’è due… senza il kilt
Non c’è due… senza il kilt
Non c’è due… senza il kilt
E-book335 pagine4 ore

Non c’è due… senza il kilt

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Info su questo ebook

Theresa “Mac” MacLeod ha imparato che nella vita i guai la seguono ovunque vada e che fare l’archeologa non è solo una professione per lei, è una ragione di vita. Mac è disposta a tutto pur di salvare la sua ultima scoperta dalle avide mani dei trafficanti. Quello che le serve è solo una buona dose di scaltrezza e qualcuno che le regga il gioco al Museo Nazionale di Scozia.
Sin dal primo sguardo, Sean Campbell intuisce che Theresa porta con sé una buona dose di grattacapi e anche qualche probabile sciagura. Quando poi capisce che sta tramando qualcosa con la famigerata Amalia Rossetti, non ha più alcun dubbio: il karma sta preparando per lui una piccola apocalisse personale.
Tra teste mummificate, tesori nascosti, tombe antichissime e inconvenienti del mestiere, il direttore dell’equipe di restauro riuscirà a resistere al desiderio sempre più ardente che prova nei confronti dell’avventurosa archeologa?
LinguaItaliano
Data di uscita19 dic 2022
ISBN9791220704656
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    Anteprima del libro

    Non c’è due… senza il kilt - Giuditta Ross

    1

    «Molto bene, come posso esserle utile, dottoressa MacLeod?»

    Mac fece qualche passo all’interno dell’ufficio, scostò una poltrona di fronte alla scrivania e si sedette accavallando le gambe. Gli stivali di pelle scricchiolarono e lei guardò con soddisfazione un po’ di fango secco staccarsi dalla suola per depositarsi sull’immacolato tappeto dai tenui arabeschi grigio perla. Gli occhi incredibilmente verdi di Campbell non tradirono alcuna emozione mentre la osservavano da dietro gli occhiali dalla montatura nera. Mac dovette riconoscere, almeno con se stessa, che il capo del dipartimento di conservazione non era esattamente come se lo era immaginato.

    Aveva sentito parlare spesso di lui come di un vanesio pallone gonfiato, abbastanza bello da stare sulle copertine delle riviste di moda oltre a quelle scientifiche. Per non parlare di tutte le malelingue che lo volevano in quella posizione privilegiata grazie alle sue doti di eccezionale fascino, non certo per la preparazione scientifica. Tuttavia, il suo sguardo era troppo scaltro, gli occhi troppo intelligenti per sottovalutarlo o crederlo un semplice bamboccio. Lei aveva a che fare continuamente con bambocci senza cervello e Campbell non sembrava per niente uno di loro. Dopotutto, se c’era una cosa che Mac non faceva mai era sottovalutare il nemico.

    «Come potrà verificare dando un’occhiata alla sua casella di posta elettronica, sono giorni che cerco di mettermi in contatto con il suo dipartimento.»

    Campbell sollevò le belle sopracciglia rossicce, di un colore appena più scuro del ciuffo che gli cadeva artisticamente sulla fronte. Aveva capelli biondo dorato ma le radici erano di un bel castano tendente al fulvo e lei si chiese se li tingesse o decolorasse o qualunque cosa facesse un uomo come lui per apparire tanto perfetto.

    «Abbiamo avuto un periodo piuttosto impegnativo, sono certo che la mia segretaria abbia visionato le richieste e le abbia inserite in lista secondo l’urgenza, come siamo soliti procedere.»

    Mac lanciò un’occhiata alla donna di mezza età che la osservava con riprovazione dall’altra parte della stanza, la notò stringere le labbra sottili e annuire solerte all’avvenente capo.

    «Vede, dottor Campbell, purtroppo si tratta di un’emergenza. L’inadeguatezza dei vecchi sistemi di conservazione di cui disponiamo al campo potrebbe compromettere seriamente lo stato di alcuni dei reperti più delicati,» replicò Mac, irritata dall’espressione condiscendente con cui lui la stava fissando. Campbell doveva capire l’importanza della cosa. Il suo dipartimento doveva prendersi carico della testa di mummia, poi al resto avrebbe pensato lei.

    La osservò con attenzione e in silenzio per più tempo di quanto avrebbe dovuto essere accettabile durante una conversazione di lavoro. Se la sua era una tattica per tenerla sulle spine, non avrebbe funzionato. Mac fece un cenno verso i suoi collaboratori che si disposero ai lati della scrivania per rimuovere quella sua incredibile scoperta.

    Aveva fatto recapitare il grottesco ritrovamento sulla scrivania dell’uomo per sollecitarne l’attenzione. Il cranio leggermente schiacciato e deforme era un reperto straordinario, almeno in Scozia dove non era mai stato rinvenuto nulla del genere. Di certo aveva suscitato il suo interesse e, a giudicare dall’espressione tesa della sua segretaria, anche un certo disappunto.

    La testa era stata esposta all’aria fin troppo a lungo, ma ne era valsa la pena. Mac adesso aveva l’attenzione del capo dell’equipe di restauro e questo era un bene. O almeno lo sperava. Si sporse verso la scrivania mentre la testa recisa della mummia veniva chiusa nel suo involucro protettivo e posizionata sul carrello che Barty si stava preparando a spingere fuori dall’immacolato ufficio. Il tutto senza che Campbell facesse il più piccolo commento o che spostasse lo sguardo dal suo. La segretaria aveva seguito con soddisfazione la rimozione della testa mozzata dal piano lindo e ordinato della scrivania, tanto che la sentì emettere un sospiro di sollievo quando la postazione tornò perfettamente in ordine, e priva di inquietanti pezzi di corpi mummificati.

    «Come saprà, dottoressa MacLeod, la mia equipe si occupa di restauro e conservazione di opere d’arte, oggetti di legno, stoffa, dipinti…» Campbell fece una piccola pausa e un’espressione eloquente, come a invitarla a trarre da sola le evidenti conclusioni.

    Mac sorrise cercando di non soccombere al desiderio di rovinare almeno un po’ quel naso perfettamente diritto. «Il mese scorso un membro del suo team ha pubblicato un articolo molto interessante su una nota rivista scientifica, trattava di un innovativo sistema di conservazione per i reperti umani.»

    Campbell annuì, poi si sporse per appoggiare i gomiti sul tavolo e congiungere le mani davanti al volto, quasi in segno di preghiera. Aveva mani eleganti, osservò tra sé Mac, perfettamente curate, come ogni parte di lui. Dovette reprimere il bisogno di nascondere le unghie corte e macchiate. C’erano volte in cui neppure spazzolandole riusciva a farle tornare perfettamente pulite. Ma il suo lavoro era scavare la terra ed era quello per cui viveva. Non le era mai importato un accidente di apparire sciatta e di sicuro non avrebbe cominciato in quel momento. Non era sicuramente con le sue dubbie doti di fascino che avrebbe convinto Campbell a collaborare.

    L’uomo annuì. «Ha ragione, Amalia ha fatto qualche interessante studio ma questo non ci mette nella posizione di occuparci dei suoi reperti. Inoltre, abbiamo una mostra molto importante da allestire. Sarebbe un impegno troppo gravoso in questo momento.»

    Mac ci aveva provato davvero a fare le cose per bene, a seguire le regole, però la situazione stava degenerando in fretta e a casi estremi, estremi rimedi. Appoggiò a terra la gamba che teneva accavallata e si sporse a sua volta per emulare la posizione del suo interlocutore.

    «Se lei non vuole aiutarmi, mi vedrò costretta a rivolgermi direttamente alla dottoressa Rossetti,» disse cercando di mantenere un’espressione vacua all’evidente scintilla risentita nelle iridi verde chiaro dell’uomo. «Che, guarda caso, è la fidanzata di mio fratello. Pensa davvero che potrebbe liquidare su due piedi la mia disperata richiesta?»

    Campbell sollevò un sopracciglio, poi un sorriso appena accennato tirò le labbra troppo perfette e piene per essere quelle di un uomo. «Sono quasi sicuro che Amalia non potrà resistere alla sua richiesta, dottoressa, ma non per i motivi che immagina lei.» L’uomo fece una piccola pausa per sondare la sua reazione, dopo affilò lo sguardo e continuò: «Non cerchi di forzarmi la mano, dottoressa MacLeod. Non ho simpatia per i bulli.»

    Mac si accigliò ed emise un piccolo sospiro. Campbell non solo era molto diverso da come se lo era immaginato, era anche un osso dannatamente duro e di certo non era l’idiota vanitoso che si diceva in giro. Peggio per lei.

    «Deve scusarmi, non era mia intenzione urtare la sua sensibilità. Voglio giocare a carte scoperte, Campbell,» dichiarò alzando le mani in segno di resa, poi sorrise, ben consapevole di mostrare tutt’altro che un sorriso da copertina. La coppia di incisivi superiori leggermente accavallati e un po’ troppo grandi era una delle cose che la tenevano lontana anni luce dalle bellezze patinate che di sicuro facevano colpo sul referente dello staff di conservazione. Tuttavia, Mac era sollevata, se voleva un dialogo diretto l’avrebbe accontentato. «È un mondo di squali il mio, cercare di mordere per prima si è rivelato utile in molte occasioni.»

    Sean annuì e poi si appoggiò allo schienale della poltrona, portando le mani in grembo per sottrarsi all’impulso folle di sfiorare le adorabili fossette apparse sulle guance abbronzate di Theresa MacLeod. Non era la prima e non sarebbe stata l’ultima a cercare di fare la voce grossa con lui, ma Sean non occupava quella sedia perché era uno che si potesse manovrare così facilmente. Nonostante ne fossero tutti, ovviamente, convinti.

    «Ne sono consapevole, mi creda,» replicò con voce atona.

    Per quanto si sforzasse, non riusciva a essere risentito per come stava cercando di manipolarlo. La donna spense quel sorriso abbagliante e annuì. Lo sguardo azzurro chiaro, così simile a quello del fratello, indugiò su di lui mentre il suo sorriso così aperto e apparentemente sincero si affievoliva. Sean si scoprì deluso dal fatto che si stesse di nuovo chiudendo in se stessa. I suoi occhi trasparenti e luminosi gli restarono piantati addosso decisi e, per un attimo, lui temette che potesse davvero guardargli dentro, oltre quell’apparenza che si affannava a tirare a lucido a beneficio del mondo.

    «Già. Mi lasci dire una cosa, Campbell, ho davvero bisogno del vostro aiuto. E sono decisa a ottenerlo in un modo o nell’altro.»

    Theresa MacLeod posò i palmi sul piano della scrivania, poi si alzò e si sporse verso di lui guardandolo ancora negli occhi. La punta della sua coda corvina seguì il movimento, descrivendo piccoli segni invisibili sulla superficie lucida. Sean si sorprese a esserne fin troppo affascinato e percorse suo malgrado i tratti di quel viso pulito: le labbra piene un po’ screpolate, la pelle dorata, spruzzata di lentiggini marroncine e la linea obliqua delle sopracciglia. Non erano disegnate né perfettamente definite, ma erano delicate, un tratteggio naturale che in quel momento gli sembrò incredibilmente sensuale. La vide assottigliare lo sguardo frangiato da ciglia nere come inchiostro, che nascosero, almeno in parte, quelle iridi cristalline.

    Sean si rese conto che Theresa MacLeod aveva il tipo di bellezza in grado di farlo vacillare. C’era qualcosa di irresistibile e pulito in lei. Era più pericolosa di quanto avesse immaginato. Non indossava trucchi o artifici e, a giudicare dal suo tentativo maldestro, non era neppure tanto brava a manipolare le persone. Sembrava schietta almeno quanto Amalia e, esattamente come lei, non dava l’idea di essere affatto colpita dal suo fascino. Per un attimo immaginò che potesse fare parte della sua vita. Aveva minacciato di rivolgersi ad Amalia pur di ottenere quello che voleva e fu colpito da un leggero malessere al pensiero di quelle due coalizzate contro di lui, con Iain MacLeod che ringhiava in sottofondo. Sperava che, se c’era una sola divinità ancora disposta ad ascoltare le sue preghiere, quello scenario non si sarebbe mai verificato.

    «Campbell,» lo richiamò la donna, ovviamente seccata dalla lunga e sfacciata analisi.

    «Non vedo come io o la mia equipe potremmo esserle utili,» le disse finalmente, accorgendosi di avere la voce appena arrochita. Era decisamente troppo stanco. Erano mesi che non si concedeva una pausa. Forse era arrivato il momento di tirare un po’ il fiato. Doveva essere quello il motivo per cui non riusciva a essere lucido come voleva, aveva bisogno di prendersi una vacanza. Ecco tutto.

    Se solo avesse potuto contare su uno staff un po’ meno… esplosivo.

    Forse se Rowan avesse accettato la sua proposta avrebbe potuto mollare le redini per un po’ e scaricare su di lei il lavoro da babysitter. Sembrava cavarsela bene con Amalia.

    Theresa MacLeod si mordicchiò una pellicina sul labbro inferiore, osservandolo con un’espressione ostinata; i denti bianchissimi, anche se un poco storti, affondarono nella carne naturalmente rossa e lui trovò quel gesto abbastanza sexy da doversi sistemare il cavallo dei pantaloni. Che fosse maledetto se ricordava l’ultima volta in cui una donna l’aveva attratto senza che prima avesse buttato giù mezza bottiglia di whisky. Sean si schiarì la gola e si fece indietro appoggiandosi allo schienale, aveva voglia di premerle un dito sul labbro e liberarlo da quella stretta. L’avrebbe accarezzato per lenire il dolore e poi…

    «Campbell!»

    La voce della donna lo colse di nuovo di sorpresa. Sean si passò una mano sugli occhi per liberarli dalla visione intrigante di quel bel volto rabbuiato; il malumore le donava, accidenti a lei.

    «Non rinuncerò, deve prendere in considerazione la mia richiesta o…»

    «O cosa? Mi farà recapitare altre teste o arti recisi come in un pessimo film sulla mafia?» domandò con un sospiro stanco.

    L’archeologa trattenne un sorriso, poi si alzò facendo tintinnare un mazzo di chiavi che teneva appese alla cintura con un moschettone.

    «Lasci che la dottoressa Rossetti dia un’occhiata ai miei reperti e io farò qualcosa per lei, Campbell.» La donna appoggiò i palmi delle mani sulla scrivania e si sporse verso di lui, i suoi occhi splendettero come zaffiri e nella sua mente si vide accettare qualunque cosa in cambio di un semplice bacio. Chissà che sapore avevano quelle labbra fresche. Sean si diede immediatamente dello stupido. Una volta tanto non c’era neppure l’accenno di un interesse sessuale nello sguardo della donna.

    E poi quel genere di donna si sarebbe mai potuta interessare a uno come lui?

    Theresa MacLeod non gli si stava proponendo per una notte di follia tra le lenzuola, era semplicemente troppo stanco e disperato. Doveva farsi preparare da Amalia una teglia di lasagne e buttarla giù con mezza bottiglia di Macallan, poi tutto sarebbe tornato a posto. Almeno per un po’.

    Ammesso che Amalia avesse tempo per lui, doverla dividere con MacLeod non era stato nei suoi piani quando l’aveva chiamata a Edimburgo. Mai avrebbe immaginato che…

    «Un tesoro, Campbell,» disse la donna richiamando nuovamente la sua attenzione, quella volta senza che la nota spiccatamente roca della sua pronuncia lo distraesse. «Abbastanza oro da riportare il museo in carreggiata. Abbastanza da consentirle di allestire la mostra del secolo.»

    «Su cosa sta lavorando, MacLeod?» chiese allora, incapace di sganciarsi da quello sguardo. L’aveva preso all’amo e lo sapeva.

    «Mi aiuti e condividerò con lei la mia scoperta.»

    «Perché?» Sean si alzò in piedi, sovrastandola di appena una quindicina di centimetri. Con un bel sandalo tacco dodici sarebbero stati praticamente alti uguali. Scacciò il pensiero insidioso di Theresa MacLeod vestita di seta e si concentrò su quegli occhi carichi di promesse.

    Un vero peccato che non fossero il genere di promesse che il suo corpo auspicava.

    La risposta di lei fu un semplice sorriso luminoso. Era fottuto.

    2

    L’aria umida e salata che proveniva dalla costa aveva il potere di penetrare anche attraverso strati e strati di vestiti. Il problema di lavorare in quella parte del mondo erano proprio le condizioni atmosferiche. In quel periodo dell’anno in Scozia le temperature scendevano in picchiata e la pioggia non si faceva mai attendere. Mac rabbrividì, stringendosi nel cappotto impermeabile. Aggirò le tende che avevano allestito per raccogliere e imballare i reperti perché fossero poi spediti al museo. Si diresse verso le roulotte destinate a spogliatoio e controllò che lo scavo ben illuminato fosse deserto. A quell’ora doveva esserlo per forza, tuttavia, se i suoi sospetti fossero stati fondati, poteva non essere così. Frugò nelle tasche alla ricerca della chiave e trovò a tentoni il lucchetto del piccolo cancello che avevano montato insieme a una rete perimetrale a protezione del sito di Cove. Il metallo gelido mise a dura prova la sua destrezza, ma dopo qualche resistenza si aprì.

    Mac entrò nel perimetro dello scavo, tenendosi il più possibile nella zona d’ombra in prossimità delle roulotte. Controllò che i teloni messi a protezione delle sepolture fossero sistemati alla perfezione e si costrinse a respirare normalmente. Non era la prima volta che si metteva in situazioni al limite della legalità. A dirla tutta però, lei aveva ogni diritto di trovarsi lì. Certo, sarebbe stato imbarazzante dare spiegazioni nel caso in cui il suo collega Rossiter, ad esempio, l’avesse beccata a gironzolare nello scavo a sera inoltrata. Ma sarebbe stato vero anche il contrario. Rincuorata da quelle argomentazioni, camminò sulla striscia di prato che costeggiava la fanghiglia in cui stavano lavorando per riportare alla luce le antiche sepolture e procedette verso la prima tenda adibita a magazzino.

    All’interno, la luce dei fari posti lungo il perimetro rischiarava a malapena i lunghi tavoli ingombri di materiale e le vasche per la conservazione del legno intriso d’acqua che avevano estratto dalla zona paludosa. Tuttavia, non osò accendere la piccola torcia che teneva appesa alla cintura. L’odore dei composti chimici e del fango era penetrante ma familiare. Mac controllò il primo scaffale. Le cassette di legno piene di trucioli contenevano frammenti di diversi materiali. La prima e la seconda accoglievano vari cocci di vasellame e terracotta. Sul ripiano centrale erano conservate una punta metallica smussata, una sorta di fibula e quello che era certa fosse un monile fatto di metallo intrecciato. Forse un bracciale o un ornamento per capelli. Sui due piani superiori c’erano vassoi su cui erano adagiate scaglie di ossa, presumibilmente umane, in attesa di essere sottoposte agli antropologi. Quello scavo aveva già portato alla luce diverse sepolture con alcuni scheletri ben conservati, a differenza del luogo in cui aveva rinvenuto la testa di mummia. Nelle torbiere era difficile trovare ossa in buone condizioni, in quanto l’ambiente acido ne decomponeva velocemente il calcio. Tuttavia, la carenza di ossigeno manteneva molto bassa nell’ambiente la presenza di quei microorganismi atti alla decomposizione dei tessuti. Quel fattore faceva sì che la pelle, i capelli e gli organi interni si conservassero quasi perfettamente. Di alcune mummie rinvenute sul continente era stato possibile persino lo studio del contenuto dello stomaco.

    Mac si allontanò dallo scaffale per controllare la cassa in cui erano posti in giacenza i pezzi più preziosi, sia dal punto di vista del valore commerciale che storico. Tuttavia, non era preoccupata di trovare degli ammanchi lì. Aveva supervisionato lei stessa i reperti e li aveva fatti catalogare immediatamente, guadagnandosi l’odio imperituro dei suoi studenti desiderosi, dopo una giornata nella fanghiglia gelata fino alle ginocchia, di tornare al caldo e all’asciutto. Ma almeno nessuno di quei pezzi avrebbe potuto sparire nel nulla. Non senza destare allarme. Inserì la piccola chiave e aprì il contenitore a tenuta stagna, del tutto simile a un grande congelatore. In attesa di pulitura e conservazione, c’erano un pugnale in ferro con un’impugnatura antropomorfa che presentava alcune incrostazioni di metalli preziosi. Argento per la maggior parte e forse oro sul pomolo. Inoltre c’erano diverse piastre in metallo battuto che probabilmente facevano parte di un’armatura. Poi esaminò l’ultimo reperto all’interno: un tondo di rame lavorato che faceva presumibilmente parte di uno scudo.

    Fece appena in tempo a chiudere la cassa che udì una voce dal marcato accento straniero, accompagnata dallo sfarfallio della luce di una torcia. Mac si acquattò mentre il fascio le passava sopra la testa. Procedette a quattro zampe, tenendosi nascosta dietro le casse di strumentazione e i tavoli, fino all’angolo vicino all’ingresso della tenda. Da quel punto riuscì a capire con chiarezza quello che avveniva. Gli uomini erano almeno due, ma solo uno stava parlando. Una cascata di vocali secche e sillabe masticate. «È la seconda. In questa non c’è nulla per noi,» lo sentì dire.

    I due passarono oltre e Mac attese qualche secondo prima di sporgersi per allargare l’apertura della tenda e sbirciare fuori.

    Aveva cominciato a piovere e la visibilità era parecchio ridotta. I fari che illuminavano il pozzo di scavo non arrivavano a lambire lo spazio erboso in cui erano state montate le tende. Mac vide solamente il fascio di luce della torcia, tenuto basso, baluginare attraverso il tessuto dell’altra tenda. Un fruscio, poi il rumore umido di passi veloci. Attese qualche minuto accucciata nel suo angolo con la rabbia che la sommergeva a ondate. Quei farabutti maledetti! Sentì lo stridio di ruote che slittavano sulla ghiaia bagnata e il rombo di un motore che si allontanava. Non avevano neppure avuto il buongusto di lasciare il loro veicolo lontano. Mac pensò alla sua povera motocicletta abbandonata sul fianco della scogliera a quasi un miglio di distanza.

    Uscì furtivamente dall’apertura della tenda per correre verso la seconda. All’interno tutto sembrava come lo avevano lasciato quel giorno. Su un tavolino da campeggio c’erano una macchina fotografica e un plico di fogli con i rilievi effettuati dopo l’asportazione del primo e del secondo strato di sedimenti. Il tamburellare della pioggia sul tetto di tessuto si fece più intenso e Mac sospirò al pensiero del viaggio di ritorno che l’aspettava sotto l’acqua battente. Andò verso la cassa chiusa. Tentò di aprirla con le chiavi che aveva in dotazione, ma nessuna faceva al caso suo. Si frugò nelle tasche e tirò fuori un involto in cui teneva alcuni attrezzi. Ne scelse uno dalla punta sottilissima e lo infilò nella serratura, poi si aiutò con uno stilo affilato. Sorrise quando sentì lo scatto del piccolo meccanismo. Sollevò velocemente il coperchio e guardò all’interno. C’erano diversi contenitori di polistirolo, al loro interno erano adagiati alcuni manufatti. C’era anche la lampada di terracotta perfettamente conservata di cui si era vantato tanto Rossiter quel pomeriggio. A sinistra uno dei contenitori era vuoto. All’interno c’erano però dei residui di terriccio riconducibili al luogo dello scavo. Ne raccolse un poco sul polpastrello per sentirne la grana, poi ne saggiò il sapore sulla lingua. Sembrava decisamente il terreno in cui avevano scavato quel giorno.

    Spostò le scatole per prendere mentalmente nota dei reperti contenuti nella cassa, poi chiuse il coperchio e assicurò il lucchetto. Fortunatamente era stata abbastanza brava da non lasciare tracce di manomissione. Mac ringraziò in silenzio José Fuente, l’affascinante madrileno che l’aveva ben istruita all’arte dello scasso e… di altre attività creative, durante gli anni selvaggi dell’università. Prese la macchina fotografica, rianimò il portatile sul bancone e la collegò. Il tempo che il computer impiegò ad accendersi le sembrò eterno. Impaziente, trasferì le fotografie di quel giorno e le inviò alla sua casella di posta elettronica personale. Poi cancellò le tracce del lavoro e abbassò lo schermo del pc. La sua natica destra ronzò quando ricevette la notifica di arrivo dell’e-mail. Fece attenzione che nulla fosse fuori posto e si preparò a uscire sotto la pioggia battente.

    Quando arrivò al palazzo dove aveva il suo piccolo appartamento in città, Mac era zuppa, infreddolita e furiosa. Il fatto che avesse visto degli intrusi avvalorava i suoi sospetti, inoltre quegli uomini avevano avuto le chiavi sia per entrare nel perimetro dello scavo che per accedere alle tende e alla cassa di sicurezza. Erano stati troppo veloci e precisi, non si erano mossi a tentoni come comuni topi da scavo o tombaroli. Sapevano esattamente cosa cercare e dove. Ancora non aveva idea di cosa avessero sottratto, ma era consapevole di come funzionava. In genere a sparire erano oggetti di medio valore, la cui mancanza raramente destava scalpore. Spesso veniva tacciata come una semplice svista, un reperto smarrito in fase di trasporto o di stoccaggio, in attesa del restauro.

    Mac scese dalla sua preziosa Honda Rebel nero opaco, si tolse il casco, lo appese al manubrio e rabbrividì nell’aria gelida del garage. Assestò una piccola pacca sul sellino della sua adorata motocicletta a mo’ di saluto, poi fece una smorfia sentendo il suono bagnato dei propri passi sul pavimento. Una volta nel corridoio, il suo umore peggiorò ulteriormente. Ad aspettarla, davanti alla porta di casa, come giganteschi gargoyles imbronciati, c’erano due dei suoi fratelloni.

    Reprimendo il desiderio di girare i tacchi e filarsela, Mac si appiccicò in faccia un sorriso il più convinto possibile e li raggiunse.

    «Caspita, non ricordavo di aver lasciato a casa due cani da guardia,» li salutò.

    Iain la osservò da capo a piedi con un’espressione abbastanza arcigna da far cagliare il latte. «Che diavolo hai fatto, Mac?» domandò.

    «C’è da sperare che non abbia fatto la lotta nel fango e lasciato un cadavere da qualche parte.» Callum si scostò dal muro per andarle accanto e sovrastarla con la sua stazza da orso. Tuttavia, il vero colosso era Iain, che fece lo stesso dall’altro lato. Non sentirsi soverchiata da quei due era un’impresa che solo una pratica decennale poteva garantire.

    Mac sbuffò e si frugò nella tasca dei jeans alla ricerca delle chiavi. «Non vi ho invitati a cena, vero? Perché se così fosse vi avrei detto di portare con voi del cibo tailandese. Il mio frigo è… boh. Non ricordo neppure che aspetto abbia.»

    «No, mummietta, ci siamo autoinvitati per vedere cosa stavi architettando.»

    La serratura scattò con un sonoro clic e Mac spalancò la porta d’ingresso. «Cosa sto architettando?» domandò, varcando la soglia e accendendo le luci di casa.

    Il suo appartamento divenne minuscolo non appena i due entrarono dietro di lei.

    «Sono rientrata da poco meno di due settimane dal mio ultimo viaggio e ho ripreso immediatamente a lavorare per il museo. Non avrei neppure avuto il tempo di mettermi nei guai, Call. Pensi sempre male, sei peggio di una vecchia comare inacidita.»

    «È l’anima dello sbirro,» scherzò Iain, ma l’occhiata che le rivolse diceva che la pensava esattamente come il fratello.

    Mac si tolse gli stivali infangati e li mise in un angolo, poi si levò il giaccone e lo appese all’attaccapanni già stracolmo. Diede un’occhiata allo specchio e constatò di

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