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Codice Fenice Saga
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E-book771 pagine9 ore

Codice Fenice Saga

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Info su questo ebook

La settima profezia - Il settimo enigma - Il settimo oracolo
3 romanzi in 1

Autore del bestseller La cospirazione degli Illuminati

Per l’ispettore Nigel Sforza niente è come sembra, quando si tratta di portare a termine le indagini. 
A bordo di un lussuoso transatlantico, viene rinvenuto il cadavere dell’archeologo Leonardo Domianello. All’aeroporto di Mosca, il jet di Dominique De Lestes esplode sulla pista. A New York il palazzo delle Nazioni Unite è attaccato da un commando di terroristi. Cosa lega tre eventi così distanti? A cercare di scoprirlo saranno l’ispettore Nigel Sforza dell’Interpol e Zeno Veneziani, un esperto pubblico ministero romano. Gli indizi, che conducono prima in Vaticano e poi a una multinazionale con sede a Ginevra, portano a una conclusione che ha dell’incredibile: quanto sta accadendo è solo la punta dell’iceberg di un disegno molto più grande. L’obiettivo è diffondere una terribile pandemia in grado di decimare il genere umano in poche settimane. Chi progetta un piano così folle e diabolico e come è possibile fermarlo? Per comprendere l’enigma, l’unica via d’uscita è la fantomatica Settima profezia e un misterioso, ancestrale vaticinio, il Settimo oracolo, che sembra stia tirando le fila dell’intera vicenda…

Un autore bestseller tradotto in Inghilterra, Spagna e Portogallo

«Dove c’è mistero, complotto, scienza e teologia ben amalgamati e conditi come solo Barone sa fare, non si rimane mai delusi e, anzi, si resta sempre piacevolmente soddisfatti!» 

«Un libro che non lascia un secondo di respiro. Bello l’intreccio e il tema sullo sfondo fa riflettere: il rapporto tra i vaccini e le multinazionali.» 

«Un capolavoro made in Italy, in cui tensione e intrighi si mescolano, per dare vita a un thriller mozzafiato.» 

«Un nuovo magistrale romanzo in cui l’autore ha delineato come l’attualità può convergere con il narrato… Un libro che consiglio vivamente.» 

«Notevole la sequenza dei fatti che coinvolge il lettore: non si riesce a staccarsi per scoprire quanto viene in seguito.»
G. L. Barone
È nato a Varese nel 1974 e si è laureato in Giurisprudenza. Con la Newton Compton ha pubblicato La cospirazione degli Illuminati, Il sigillo dei tredici massoni, La chiave di Dante, I  manoscritti perduti degli Illuminati, la Codice Fenice saga, L’alchimista di Venezia e La pergamena dei segreti. È anche autore del serial ebook Il tesoro perduto dei templari e dell’ebook Reichland. L’aquila delle dodici stelle. I suoi libri sono tradotti nei Paesi di lingua anglosassone, portoghese e spagnola.
LinguaItaliano
Data di uscita25 gen 2021
ISBN9788822754981
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    Anteprima del libro

    Codice Fenice Saga - G. L. Barone

    La settima profezia

    Temete Dio e dategli gloria,

    perché è giunta l’ora del suo giudizio.

    APOCALISSE 14:7

    Documento d’archivio pubblicato il 5 maggio 1912.

    Copyright © The New York Telegraph.

    Prologo

    Contea di Walworth, Wisconsin, 8 maggio 1912.

    La carrozza, trainata da due robusti mustang, affrontò l’ultimo tratto di discesa sotto un cielo plumbeo. Non pioveva ancora ma un vento gelido faceva ondeggiare le cime delle betulle che costellavano la campagna verde. In fondo al sentiero – poco più di un insieme di solchi lasciati da zoccoli e ruote – svettava la guglia malandata di una chiesetta.

    Padre Charles O’Reilly, l’unico passeggero, scostò la tendina e sbirciò oltre il vetro. Da un campo di mais percosso da violente folate si sollevò uno stormo di uccelli neri. Oltre, il lago Delevan appariva come una lastra piatta e informe, che sembrava unirsi con le nuvole all’orizzonte.

    «Facciamo in fretta», urlò all’indirizzo del cocchiere. «Non sappiamo se il luogo è sicuro. Dobbiamo essere a destinazione prima che arrivi il temporale».

    Non ottenne risposta, né un cenno. L’uomo, intabarrato in un pastrano nero, si limitò invece a grugnire nell’aria gelida. Poi strattonò le redini e spronò i cavalli, che nitrirono a loro volta.

    Mentre la carrozza aumentava l’andatura, il religioso si assestò sulla panca e sospirò. Figlio di immigrati irlandesi, aveva da poco superato i trent’anni e faceva parte dell’ordine dei Gesuiti da cinque. Per uno come lui, minuto di corporatura e poco avvezzo alla vita di campagna, quel viaggio era stato tutt’altro che agevole: partito in grande fretta da Chicago, aveva attraversato la regione dei laghi in piena notte. Non aveva potuto fermarsi né a dormire né a rifocillarsi, con le ruote del carro che sobbalzavano senza posa su stradine fangose. L’unica sosta era stata fatta nella contea di McHenry, in una baracca di tronchi non scortecciati, dove il conducente aveva sostituito i cavalli con due più freschi.

    Facendosi il segno della croce, padre O’Reilly ripensò alle parole del vescovo, l’uomo che considerava il suo mentore. «Si tratta di un incarico di vitale importanza», gli aveva confidato, con quella sua voce grave e il tono sussurrato. «Devi fare tutto ciò che ti è possibile per far calare il silenzio sulla questione. Non dimenticare che sono contadini… non sanno minimamente con cosa hanno a che fare. Questi dovrebbero fare al caso tuo». Mentre pronunciava quelle parole, il vescovo aveva allungato un borsone sulla panca della chiesa su cui erano seduti. O’Reilly aveva semplicemente lanciato un’occhiata e poi aveva annuito.

    E così, un giorno e mezzo più tardi, si trovava su quella carrozza, infreddolito ed esausto. Il complesso abitato che emergeva dalla nebbia non era altro che una manciata di casupole di legno cinte da alberi di un verde così scuro da apparire quasi nero. Il silenzio dell’alba era totale, rotto solo dal clangore delle ruote di ferro sulla strada.

    Improvvisamente, dopo che il carro si fu inerpicato per un breve tratto di salita, si aprì di fronte a loro una zolla erbosa addossata a un pietraio. Era delimitata da un recinto in legno, interrotto solo da due grossi silos, che sembravano messi a guardia della fattoria.

    «Il posto è questo», borbottò il cocchiere a padre O’Reilly. I cavalli rallentarono, incespicarono e poi agitarono la coda appena si fu fermato.

    Il gesuita si sistemò i guanti neri, che nascondevano una piccola menomazione alle mani, e scese dalla scaletta. Fece qualche passo, sprofondando nel fango, e si diresse verso il giardino antistante all’edificio principale. Lì il terreno era più duro e coperto di muschio ghiacciato, che scricchiolò sotto i suoi stivali. Si fermò accanto a un carretto senza una ruota.

    «Non abbiamo altro da dire!», tuonò dalla veranda un anziano con un grosso fucile Krag .30-40 tra le mani. Teneva le gambe larghe, anche se la postura non sembrava molto minacciosa. «Ne ho avuto abbastanza di giornalisti impiccioni. Parlate con lo sceriffo e i suoi scagnozzi».

    «Vengo da Chicago. Non sono un giornalista», dichiarò il religioso, carezzandosi l’abito talare che evidentemente l’altro non aveva notato. «Non è mia intenzione disturbarvi… Sono qui per proporvi un affare».

    L’uomo aggrottò la fronte e spalancò le labbra, rivelando una grossa fessura tra i denti. «Che tipo di affare?», si informò. Scese i due gradini di legno e andò incontro a padre O’Reilly con passo marziale.

    Il religioso lo studiò meglio: poteva avere tra i cinquanta e i sessant’anni, calvo, gli occhi verdi e il viso nascosto in parte da una folta barba rossiccia striata d’argento. Indossava calzoni frusti con bretelle e un vistoso fazzoletto rosso al collo.

    «Se fosse possibile vorrei vedere ciò che avete trovato». Il gesuita, che stringeva in grembo la borsa datagli dal vescovo, ne aprì un lembo. «Se le cose sono interessanti come ho sentito, questi sono per voi».

    Dondolandosi sulle gambe, l’anziano si lasciò scappare un sorriso e poi urlò: «

    T.J

    ., Josh. Abbiamo ospiti!».

    Pochi minuti più tardi Mr Phillips, liberatosi del fucile, stava accompagnando padre Charles O’Reilly verso la stalla. Assieme a loro c’erano due giovanotti, forse i figli dell’uomo o i suoi nipoti, dalla fronte bassa, abbigliati con camicia da lavoro e pantaloni troppo corti a causa della veloce crescita tipica dell’adolescenza.

    L’edificio dove erano diretti era un complesso fatiscente, a forma di capanna e con una banderuola che si protendeva verso il cielo. Una volta doveva essere stato dipinto di rosso, ma ora la vernice delle travi, sbiadita dal tempo, aveva più il colore della ruggine.

    «Li abbiamo trovati in una fossa là dietro, tre giorni fa», spiegò T.J., uno dei due ragazzi. Più alto del fratello e con gli stessi capelli color carota, sembrava istruito. «Mio zio doveva fare posto a un nuovo capanno e abbiamo scavato per piantare le fondamenta».

    «A che profondità erano… i resti?», indagò O’Reilly, mentre lo sguardo spaziava in una zona scura a ridosso del lato nord della proprietà.

    «Poco. Cinque o sei piedi al massimo. Quando abbiamo trovato il primo abbiamo scavato con cura lì attorno».

    «Quanti sono in tutto?»

    «Ne abbiamo dissotterrati diciotto, tutti maschi. Li abbiamo spostati nella stalla per proteggerli dalla pioggia».

    «Vi siete limitati a portarli al coperto? Non li avete danneggiati o manomessi?»

    «Naturalmente no», si intromise Mr Phillips, quasi volesse evitare che il ragazzo parlasse troppo. Ma, oltre a non essere un bravo bugiardo, non sembrò neppure troppo convinto. Di riflesso, Josh cercò di nascondere con le dita il pendolo che aveva al collo: una specie di artiglio di colore giallastro.

    «Si dice che questi teschi abbiano denti molto aguzzi». Il religioso distolse lo sguardo da Josh e tornò a osservare il fattore. Dopotutto, se si erano limitati a prendere qualche dente per ricordo, non era un grosso problema.

    «Le mandibole sono grandi come quelle di un cavallo!». Mentre pronunciava quelle parole, l’anziano spalancò il portone della stalla. I cardini cigolarono e ne uscì un odore intenso di fieno e bestiame. «Ma guardi lei stesso».

    L’interno era in penombra, con una luce fioca che penetrava da una mezza dozzina di finestre poste in alto. In quell’istante l’aria fu squarciata da un fulmine che rischiarò la scena.

    Il religioso si sentì mancare il fiato. Si fece il segno della croce e serrò gli occhi: davanti a lui, adagiati sul pavimento coperto di paglia, c’era una fila di scheletri color avorio. Erano allineati ordinatamente, uno accanto all’altro, come vacche dopo il macello. Le dimensioni dei resti, come aveva letto, erano notevolmente superiori a quelle di un uomo: sembravano alti quasi il doppio, le sole gambe lunghe quanto uno dei due ragazzi. Anche i teschi, di una forma anomala e allungata, erano di dimensioni eccezionali, così come le orbite, quasi sproporzionate.

    «In un primo momento abbiamo pensato fossero animali…», chiosò ancora

    T.J

    ., socchiudendo gli occhi. «Forse scimmie, o primati di qualche tipo… ma avevano le braccia incrociate, come in una sepoltura rituale. Sembrava una fossa comune».

    O’Reilly deglutì, incapace di distogliere lo sguardo. «C’erano sulla terra i giganti a quei tempi, quando i figli di Dio si univano alle figlie degli uomini», mormorò un passo della Genesi senza quasi rendersene conto. Riuscì a scuotersi soltanto grazie a un tuono, che con uno schianto assordante fece vibrare una rastrelliera in fondo al locale. Il religioso sorrise, ma con aria contrita, cercando di apparire più sicuro di quanto realmente era. «Cinquecento dollari», disse. «Per tutto. Nella carrozza ci sono dei sacchi».

    L’anziano Mr Phillips si fece scappare un sorriso sdentato. Non si sarebbe mai aspettato un’offerta simile per un mucchio di ossa. Giornalisti a parte, in paese avevano perfino cominciato a malignare sul fatto che quel ritrovamento avrebbe portato sventure. Se ne sarebbe liberato e ci avrebbe anche guadagnato. «Forza, ragazzi. Raccogliete i resti dei nostri amici e caricateli sulla carrozza del signore».

    Nel frattempo, fuori, aveva iniziato a piovere e l’aria si era fatta pesante a causa del fumo di alcuni focolai: degli agricoltori, poco lontano, dovevano aver potato le piante e ne stavano bruciando gli scarti. Nonostante ciò, l’operazione di carico durò un po’ più di un paio d’ore. I due giovani faticarono non poco per sistemare i teschi in parte sul tetto, in parte sul pianale posteriore della carrozza. Su indicazione del gesuita, avevano scarabocchiato con dei gessetti alcuni numeri su tutte le ossa, in maniera che gli scheletri potessero essere poi riassemblati. Il lavoro era andato avanti senza sosta e si erano fermati solo quando uno dei due ragazzi aveva avuto una piccola epistassi.

    A metà mattina il religioso era pronto per ripartire alla volta di Chicago. Consegnò la borsa con il denaro e fu allora che accadde un evento del tutto inspiegabile. Quasi contemporaneamente,

    T.J

    . e Josh cominciarono a tossire, vomitando sangue e muco verdastro. Mr Phillips cercò di sorreggerli ma gli toccò la stessa sorte.

    Tutto avvenne in un attimo: i tre uomini, sotto lo sguardo impotente del gesuita, si accasciarono al suolo, contorcendosi e dimenandosi. Del liquido vermiglio sgorgava copioso dal naso e dalla bocca, come se la carotide fosse stata troncata di netto.

    E a quel punto anche il cocchiere, che era già in posizione sulla sua panca pronto per il viaggio di ritorno, iniziò a tossire con insistenza. I cavalli sbuffarono. Il tizio si alzò in piedi, barcollando, gli occhi iniettati di rosso. Fece solo qualche passo e poi cadde rovinosamente nel fango, portandosi dietro le redini.

    I mustang nitrirono e uno dei due si impennò sulle zampe, posando subito dopo gli zoccoli sul selciato.

    Nel tempo di un respiro tutti i rumori cessarono. I tre contadini smisero di dimenarsi e rimasero senza vita riversi sul terreno. Poco lontano anche il conducente sembrava non respirare più, le palpebre spalancate a fissare il cielo grigio.

    Padre Charles O’Reilly girò su se stesso come un ubriaco. Era incredulo e spaventato al tempo stesso. Non sapeva cosa pensare. Si limitava a passarsi la lingua sulle labbra screpolate dal freddo e a fregarsi nervosamente le mani. Senza sapere come, la mente gli andò ancora ai giganti della Bibbia: la malvagità dei Nephilim e le angherie verso gli uomini erano cosa risaputa. Ciò che era successo aveva a che fare con quei teschi? E se era così, come era possibile? E poi… perché a lui non era accaduto nulla?

    Scosse il capo. Lo sguardo gli scivolò lontano dai corpi, sulla vallata. I focolai, probabilmente alimentati a carbone, turbinavano ancora verso il cielo nonostante la pioggia. Sembravano del tutto abbandonati, come un campo di battaglia lasciato da un esercito in ritirata.

    E così fece anche lui. Accompagnato da scrosci di pioggia e dall’ululato lontano di un coyote, salì al posto del cocchiere e tirò le redini. Aveva una missione da portare a termine. Si guardò indietro un’ultima volta e spronò i cavalli.

    «E l’Eterno disse: io sterminerò dalla faccia della terra l’uomo che ho creato», balbettò tra sé, mentre si allontanava.

    1

    Al largo delle isole Baleari, oggi.

    Ora locale 05:55.

    Il cadavere galleggiava prono nella vasca idromassaggio. Aveva braccia e gambe larghe, come in una macabra raffigurazione dell’uomo vitruviano, e ondeggiava lentamente. Una macchia di sangue si stava allargando nell’acqua, ai lati della testa.

    Incredulo sulla porta del bagno, "Doppia

    N

    " si sforzò di inquadrare meglio gli abiti: alla luce proveniente dalla cabina si riconoscevano i soliti jeans sdruciti e la camicia bianca arrotolata sugli avambracci. Anche se di schiena, non c’erano dubbi: era lui.

    «Cristo santo», gemette, portandosi le mani sul volto, come per sciacquarsi il viso paonazzo. Rimase fermo per alcuni istanti, incapace di muoversi. Poi si scosse: fece un passo indietro e spalancò la portafinestra della cabina per prendere una boccata d’aria. Sul terrazzino, una folata fresca e umida lo investì in pieno.

    Senza rifletterci fece cadere lo sguardo sullo scafo candido della Princess of the Oceans, l’immensa nave da crociera che solcava il Mediterraneo. L’alveare di balconi in vetro e acciaio, sviluppato sui quindici ponti di quella città galleggiante, era immerso nell’oscurità.

    Si appoggiò al parapetto. Sotto di lui gli schizzi d’acqua smossi dalla nave scorrevano sulla murata come torrenti spumeggianti. All’orizzonte il mare era invece nero, fatta eccezione per i riflessi della luna sulle onde increspate.

    «Ok, ok. Sta’ calmo. Ragiona». Doppia

    N

    si voltò verso l’interno: la luce proveniente dalla

    TV

    da cinquanta pollici danzava nella penombra, riflettendosi sugli eleganti mobili minimal. La lampada a collo di cigno, l’unica accesa, era coperta da un indumento intimo e illuminava il letto vuoto e le lenzuola arruffate. Poco distante, accovacciato sul tavolino di cristallo, c’era un uomo.

    Mentre rientrava nella cabina, per un istante gli balenò davanti agli occhi una scena della sera precedente. La melodia di The Final Countdown degli Europe risuonava tagliente nell’aria e le ragazze ballavano tra loro. Il Pezza e Muso cantavano a squarciagola in piedi sul divano di pelle, dondolando la testa e dandosi pacche sulle spalle.

    L’idea di quella rimpatriata su una nave da crociera era stata proprio del Pezza. «Ho fatto sei mesi d’astinenza», aveva confidato l’archeologo al telefono, la settimana precedente. «Perché non ci vediamo? Sono stato in Amazzonia e ho voglia di una delle nostre serate».

    E le loro serate, fin dai tempi della scuola, erano un misto inscindibile di ragazze, birra e quando andava bene cocaina. Vedendoli quella sera, seduti a un tavolo del Casinò Royal sul ponte 5, nessuno avrebbe potuto immaginare che si trattava di un noto avvocato romano, di un ambasciatore dell’

    ONU

    e di un archeologo. Ciò che invece erano.

    «Guardate chi ho trovato», aveva esordito il Pezza, con due signore di mezz’età sottobraccio. L’archeologo era il simpatico del gruppo e di solito era lui che avvicinava le ragazze. Dopo alcuni cocktail se n’era aggiunta una terza: una russa prosperosa avvolta in un tubino rosso e che aveva detto di aver da poco divorziato. Incredibilmente, aveva cominciato a parlare proprio con Muso, quello che a causa della calvizie e dei chili di troppo era sempre stato il meno avvenente dei tre.

    In seguito, la combriccola si era diretta prima al Jazz Bar e poi al Central Park, il parco florovivaistico al centro della nave. Doppia N, che era considerato il più elegante del trio, aveva tenuto banco. Quarantenne come il Pezza e Muso, l’ambasciatore portava decisamente bene la sua età: aveva uno sguardo penetrante, lineamenti aggraziati messi in risalto da un viso ben rasato, e spalle larghe fasciate da un’attillata giacca in solaro. Soprattutto, sapeva essere molto loquace, qualità che era servita in quel frangente per convincere le ragazze a seguirli nella sua suite. L’ultima tappa era stata proprio nella cabina, dove la serata, tra musica, droga e sesso, si era conclusa esattamente come gli amici avevano programmato.

    E adesso, uno di loro galleggiava morto nella vasca da bagno della junior suite sul ponte 11.

    «Hey, svegliati». Niccolò Nobile, soprannominato Doppia

    N

    proprio per le iniziali del suo nome, strattonò Muso per il colletto della camicia. La vista del corpo sembrava aver cancellato all’istante gli effetti del dopo sbornia. «Valvano, svegliati. C’è un grosso problema».

    L’avvocato, accovacciato sul tavolo di cristallo, si mise seduto, lasciandosi cadere sullo schienale della poltroncina di pelle. Aveva gli occhi gonfi e il riporto spettinato. Non disse nulla.

    «Il Pezza…», insistette Nobile, agitando le braccia. «Leonardo… in bagno… vieni a vedere!». Era la prima volta che Doppia

    N

    usava i veri nomi e non i nomignoli dei tempi della scuola.

    «Cosa ha fatto Domianello?». L’avvocato si alzò appoggiandosi al tavolo, con il risultato di far cadere sulla moquette due bottiglie di birra vuote. Raggiunta la porta, la scostò di quel tanto da riuscire a guardare dentro. «Cazzo», si limitò a bofonchiare con voce querula. Si coprì la bocca con il palmo della mano.

    Il corpo di Leonardo Domianello, adesso, illuminato da una lama di luce, era scivolato lungo il bordo della vasca: un innaturale punto interrogativo di arti contorti. Galleggiava circondato da una sbiadita macchia rossa, ed emergeva solo la nuca castana. Il viso, rivolto verso il basso, era completamente immerso.

    «Deve essere successo da poco. Un attimo fa il sangue in acqua mi sembrava di meno». Mentre lo diceva, il funzionario dell’

    ONU

    si appoggiò con la mano allo stipite. Ma la ritrasse di colpo. «C’è sangue anche qui!».

    L’avvocato rimase impassibile per un solo istante. «Questo è un cazzo di problema», sbottò, girando su se stesso. «Forse voleva semplicemente fare un bagno. Magari è inciampato».

    Nobile studiò l’amico: anche sul suo avambraccio c’era una macchia scura. Poteva essere sangue? Per terra, vicino alla portafinestra, si notava un vaso rovesciato. «Tu cosa hai visto, esattamente

    «Io? Nulla. Ero con una delle bruttone. Devo essermi addormentato. Quando sono venuto a fare rifornimento…», indicò uno specchietto sul tavolo, sporco di polvere bianca, «il Pezza non c’era».

    L’ambasciatore si passò una mano sui capelli corvini, perfettamente pettinati nonostante l’ora. «Anch’io non ho visto niente. Sono stato sul letto fino a tre minuti fa». Si bloccò di colpo, gli occhi neri puntati sul copriletto damascato. «Un momento: le due amiche se ne sono andate verso le due… questo me lo ricordo. Quando sono uscite il Pezza le ha salutate dal divano».

    «Lui era con la russa», osservò l’avvocato, mordicchiandosi un’unghia. Subito dopo sbiancò, deglutendo a fatica.

    «E dov’è adesso? L’hai abbordata tu, com’è che si chiama?»

    «Ylenia. Ylenia qualcosa».

    «Se ne sarà tornata nella sua cabina. Qual è il numero?»

    «E che cavolo ne so, ci ho parlato a malapena cinque minuti. Dopo che le ho presentato il Pezza si è appiccicata a lui per tutta la sera».

    «Ok, ok. Non importa». Nobile agitò le mani, come per placare l’amico. «Ragioniamo con calma: c’è sangue sulla porta e la ragazza è sparita. Magari Leo voleva semplicemente farsi bello e si è buttato nella vasca. Deve aver sbattuto la testa, la ragazza si è spaventata ed è scappata».

    «Niccolò, tappati la bocca!», inveì il legale di getto. Solo in quel frangente sembrò comprendere realmente quanto doveva essere successo. «Forse non l’hai capito ma siamo nella merda! Comunque la si guardi, siamo coinvolti anche noi».

    «Ma Fausto, non abbiamo fatto nulla. È sicuramente stato un incidente».

    L’avvocato si avvicinò di un passo, abbassando il tono di voce, per evitare di svegliare gli occupanti delle cabine vicine. «Ne sei davvero certo? Io non mi ricordo un cazzo, una puttana è sparita ed entrambi abbiamo macchie di sangue addosso».

    Il funzionario dell’

    ONU

    si guardò i polpastrelli. Era vero, ma lui si era sporcato semplicemente appoggiandosi all’ingresso del bagno. «Dobbiamo chiamare il comandante, basta dire la verità».

    «E qual è la verità?». Valvano digrignò i denti come un animale rabbioso. «Cosa gli raccontiamo, che eravamo strafatti e non sappiamo cosa è successo? Gli spieghi tu dove abbiamo preso la coca?».

    Per un istante, Nobile vide la sua carriera di ambasciatore all’

    ONU

    passargli davanti agli occhi. Un’ascesa fulminea nel corpo diplomatico – grazie soprattutto alla sua amicizia con il presidente del Consiglio italiano – e una fine altrettanto repentina. "Festino a base di droga e prostitute, arrestato funzionario

    ONU

    ". Non era fantasia, era ciò che sarebbe successo se quell’incidente fosse stato accostato al suo nome.

    «Niccolò, c’è un cadavere nella vasca da bagno della tua cabina e ci sono le nostre impronte dappertutto». Valvano addolcì la voce. «E per non farci mancare nulla, mia moglie crede che io sia a un congresso a Barcellona!».

    L’ambasciatore sospirò. Odiava doverlo ammettere, ma Muso aveva ragione: l’ennesimo scherzo del Pezza questa volta rischiava di rovinare le loro vite. E la cosa più incredibile era che a nessuno dei due sembrava importare nulla dell’amico morto. Per adesso, l’unica priorità era uscire puliti da quella situazione.

    «Dobbiamo portare il cadavere nella sua stanza e ripulire tutto». Mentre Fausto pronunciava quelle parole, una luce si accese nel balcone della cabina a fianco. «È solo questione di minuti, qualcuno potrebbe avere sentito dei rumori».

    «Non possiamo attraversare la nave con un cadavere sulle spalle».

    Era vero. E cosa più grave, in quell’istante qualcuno, dall’interno, spalancò la porta della suite.

    2

    Mosca, 14 agosto. Nello stesso momento.

    Ora locale 07:05.

    La berlina scura si destreggiò nel traffico mattutino di Mosca e svoltò su Leninsky Avenue. L’arrivo all’aeroporto Vnukovo, a sud-ovest della capitale, era ormai prossimo.

    Monsignor Dominique De Lestes si sistemò sul sedile posteriore e sbirciò fuori dal finestrino: pioveva e il cielo era una lavagna grigia e uniforme, punteggiata dalle luci ancora accese sui grattacieli dello skyline.

    Estrasse alcuni documenti dalla sua ventiquattrore e cominciò a leggere. Era molto soddisfatto per l’esito di quel viaggio che l’aveva portato al monastero di Nuova Gerusalemme, nei pressi dell’isolata cittadina di Istra. Ma era tempo di tornare a San Marino.

    Nonostante i numerosi acciacchi e i settantun anni appena compiuti, riteneva di avere ancora molti incarichi da portare a termine. La Gregor Mendel Foundation, la fondazione vaticana che dirigeva da un lustro, aveva decine di progetti aperti e lui sapeva di essere indispensabile.

    «Ha chiamato?», ruggì all’indirizzo di padre Mari, il suo segretario che occupava il sedile anteriore, accanto all’autista.

    L’uomo estrasse per l’ennesima volta lo smartphone dal taschino del clergyman e scosse il capo.

    «Questa mattina c’è l’ispezione della Sunrise

    X

    International».

    «Deve considerare che in Sierra Leone adesso è ancora notte fonda».

    Il monsignore annuì, socchiudendo gli occhi. «Gli ho detto di avvisarci quando se ne andranno. Ma potremmo essere già in volo». La telefonata che stava aspettando era molto importante, qualcuno l’avrebbe perfino definita vitale. Ma per adesso poteva solo attendere. Per distrarsi tornò al fascicolo che aveva di fronte, assumendo la tipica posizione di quando rifletteva: mani giunte sotto il naso, sguardo fisso. Il titolo del documento – The Wardenclyffe tower – era seguito da un lungo sottotitolo in cirillico. Appena cominciò a leggerlo sembrò rasserenarsi: almeno quel progetto stava andando per il verso giusto.

    Dopo poco, l’auto si immise nella

    E

    101, un’arteria a sei corsie che correva in direzione sud-ovest, e in meno di dieci minuti fu a destinazione. Il terminal, che si stagliava sotto un cielo plumbeo, era un complesso imponente rivestito di vetri a specchio. Sulla facciata campeggiava la scritta

    аэропорт

    внуково

    e davanti all’ingresso una colonna d’auto e furgoni sostava con i motori accesi.

    «Dòbrij dèn’. Buongiorno». Un giovane addetto ai voli privati, un grosso ombrello nero in mano, attendeva la limousine sul marciapiede. «Da questa parte, prego. Il Falcon è pronto».

    Monsignor De Lestes e padre Mari lo seguirono in silenzio fino a una piccola sala d’aspetto. Oltre le vetrate si vedevano diversi velivoli battuti dal vento e dagli scrosci d’acqua. Il loro aereo era fermo sulla pista, a poca distanza, una luce che lampeggiava sotto la carlinga.

    «Controlla ancora, per favore», ripeté il monsignore al segretario, mentre saliva incerto la scaletta.

    L’assistente, che conosceva bene la ragione di tanta ansia, verificò nuovamente. «Nulla, purtroppo».

    I due passeggeri si accomodarono sui sedili in pelle della cabina e in pochi minuti il Falcon 50 raggiunse la zona di decollo, in attesa dell’autorizzazione. A causa del maltempo che imperversava su Mosca, quella mattina molti voli erano stati dirottati su Vnukovo, ragione per la quale la torre di controllo tardò a dare l’ok. Quel ritardo fu determinante, perché quando finalmente l’aereo poté muoversi, sulla runway strip, la parte di sicurezza sul bordo pista, un mezzo di terra si mise in moto.

    Tutto accadde molto velocemente, tanto che nessuno degli occupanti se ne rese conto fino all’ultimo istante. Mentre il Falcon prendeva velocità, l’autoarticolato compì una manovra maldestra – risultò poi che l’autista era ubriaco – finendo con il retro treno sulla pista.

    Il carrello del Falcon si era appena staccato dal suolo quando con gli pneumatici urtò il camion. Il velivolo piegò vertiginosamente a destra e l’ala strisciò sull’asfalto bagnato. Uno dei motori cominciò a emettere un profluvio di scintille ma ciò nonostante il pilota riuscì a far staccare il velivolo dal suolo. L’illusione che il decollo fosse andato per il meglio durò però solo una frazione di secondo: una fiammata risalì l’ala e raggiunse il serbatoio di carburante. Il Jet rollò, inclinandosi di quarantacinque gradi. L’esplosione fece divampare un bagliore accecante, seguito da un boato rapido e violento che squarciò l’aria come un tuono.

    Pochi istanti più tardi, una delle celle

    LTE

    che servivano l’aeroporto provò a instradare una telefonata sul numero di cellulare di monsignor De Lestes. Il telefono era irraggiungibile.

    3

    Al largo delle isole Baleari. Cinque minuti dopo.

    Ora locale 06:10.

    Niccolò Nobile scattò come se fosse stato morso da un serpente. Dal punto della suite in cui si era fermato a parlare con Muso non poteva vedere il vano d’ingresso, protetto da una credenza a specchio. Era lì che doveva essersi nascosto.

    L’intruso.

    Mentre a grandi falcate raggiungeva la porta, non aveva dubbi: l’intruso era l’avvenente donna russa.

    Tese i muscoli e appoggiandosi alla maniglia della porta si catapultò fuori, sul ballatoio che dava verso l’interno della nave. Tutte le cabine di quella sezione avevano il terrazzo vista mare da un lato e l’entrata dall’altro, affacciata sul giardino botanico, otto ponti più in basso. Di fronte, le balconate di cristallo che davano accesso alle suite di dritta salivano per altri sei piani. In fondo si vedeva la poppa, con il teatro acquatico che luccicava nella notte.

    Nobile voltò a sinistra e, nel punto in cui la balconata formava una

    L

    , individuò una figura in movimento. La vide solo per una frazione di secondo perché la donna si infilò in un lungo corridoio. Ma era certamente lei, scalza e con l’abito rosso che sfavillava nella semioscurità.

    Senza rifletterci troppo, il funzionario dell’

    ONU

    si mise a correre. Era un tipo sportivo, il fisico asciutto scolpito dall’allenamento quotidiano, e quindi era certo che l’avrebbe raggiunta.

    Appena svoltò l’angolo, Nobile si trovò in un androne dal pavimento lucente e una fila di porte smaltate. Alcuni quadri raffiguranti velieri erano appesi alle pareti e piante ornamentali delimitavano un vano più ampio. In fondo si vedeva un portellone doppio, con due oblò a vista, che dava sulla balconata esterna.

    E fu in quel momento che dal vano ascensori, venti metri davanti a lui, sbucarono due uomini in uniforme bianca. Erano agenti del corpo di sicurezza della nave. Nobile rallentò l’andatura e quando li incrociò tirò il fiato. I due si limitarono ad accennare un sorriso e ad annuire con la testa per salutarlo. Lui fece lo stesso e subito dopo lanciò un’occhiata fuori: la ragazza non c’era più.

    Prese un respiro profondo, spinse la pesante porta e un refolo di vento lo scosse. La lunga balconata esterna, che si estendeva fino alla prua sulla fiancata della nave, era completamente deserta. Dalla sua posizione riusciva a distinguere le sagome delle scialuppe di salvataggio agganciate allo scafo e una serie di salvagenti ancorati alle paratie. Più sotto, sulla linea di galleggiamento, il mare spumeggiava. Non c’erano altre imbarcazioni e il buio era totale.

    Se non l’avesse creduto impossibile avrebbe giurato che la donna era saltata fuoribordo. Ma, ovviamente, era impossibile: doveva essersi nascosta da qualche parte e forse c’era un modo per trovarla.

    Muso fece un ultimo sforzo e, con i pantaloni completamente inzuppati, tirò il corpo fuori dalla vasca. Era sovrappeso e fuori forma ma nonostante la fatica riuscì a sistemarlo a pancia sotto sul pavimento. Quando ebbe finito si appoggiò al muro per rifiatare.

    Appena Nobile era corso fuori dalla suite lui si era messo in movimento. Dopotutto, aveva pensato, il Pezza ormai non poteva più essere in disaccordo…

    Aveva cominciato ad armeggiare nello zainetto del defunto. Era pieno di cianfrusaglie e quaderni scritti a mano. In una tasca c’erano alcune fotografie e la chiave magnetica della sua cabina, sul ponte 10. Quello che stava cercando, però, non c’era; l’amico archeologo, subito dopo aver vinto una ricca mano a poker, era salito nella sua camera. Forse era lì che aveva lasciato le sue cose.

    Appena terminata quella prima ispezione, Muso si era spostato nel bagno e adesso era seduto accanto al corpo del compagno di scuola, riverso bocconi sul pavimento. Il cuore gli martellava fino in gola. Si mise in ginocchio e cominciò a tastare le tasche posteriori dei jeans del cadavere. Niente neppure lì.

    C’era solo un altro posto dove poteva guardare, i taschini della camicia. Fino a quel momento non aveva avuto il coraggio di guardare l’amico in volto. Era quella la ragione per la quale, tirandolo fuori dalla vasca, si era limitato a adagiarlo nella stessa posizione in cui era in acqua.

    Mentre una pozza dal lieve colore porpora si allargava sul pavimento, lo girò. Ebbe un conato di vomito nel vedere gli occhi sbarrati del defunto. Non avevano l’aspetto di quelli di un morto: sembrava invece che il Pezza stesse dicendo qualcosa con lo sguardo: Perché lo stai facendo?.

    Muso trattenne il fiato come per cacciare in gola un singulto. Poi si fece coraggio, cominciò a palpeggiare la stoffa zuppa e alzò lo sguardo. E in quel momento capì.

    Il campanello risuonò nel silenzio della reception, un grande spazio alto tre ponti, rivestito di marmi, legni a vista e pareti di cristallo.

    Il servizio di accoglienza era, in teoria, in funzione ventiquattro ore su ventiquattro, ma in quel momento sembrava non esserci nessuno.

    Nobile si appoggiò al bancone di radica e suonò nuovamente. Dopo pochi istanti una porta scorrevole si aprì e fece capolino una receptionist bionda e sorridente. Nonostante fossero le sei di mattina, era impeccabile nel suo corsetto e sembrava sorprendentemente attiva.

    «Cosa posso fare per lei?».

    Nobile si schiarì la voce. «Sono un po’ imbarazzato», si schermì. «Ieri sera ho conosciuto una ragazza, su al casinò… mi ha detto di raggiungerla nella sua cabina ma non ricordo il numero».

    La giovane rimase impassibile. «Purtroppo, come immaginerà, non posso fornirle il numero di cabina di un altro ospite». Il tono fu molto cordiale ma al tempo stesso risoluto. «Posso però farle recapitare un messaggio, se lo desidera». Allungò sul bancone un blocco di carta intestata e gli porse delicatamente una penna.

    Nobile si mordicchiò il labbro inferiore. «Ok».

    «Nel frattempo mi dica come si chiama la signora».

    «Anche questo è un problema…». Il funzionario dell’

    ONU

    cercò di sfoderare il suo miglior sorriso. Si finse a disagio. «Conosco solo il nome di battesimo».

    La ragazza lo fissò. Non parve particolarmente sorpresa. «Magari è sufficiente».

    «Si chiama Ylenia. È alta più o meno così». Nobile posizionò il palmo della mano all’altezza della sua spalla. «Mora, occhi verdi. È russa!».

    La giovane digitò qualcosa sulla tastiera e si fermò subito dopo. «È sicuro del nome?».

    Niccolò allargò le braccia, cercando di sbirciare lo schermo del computer. Ma dalla sua posizione non riusciva a vederlo. «È quello che mi ha detto…».

    La receptionist rimase impassibile e ricominciò a digitare. Un istante dopo scosse il capo e con un’espressione di rammarico comunicò: «Mi spiace, ma temo che a bordo non ci sia nessuna Ylenia».

    Cinque minuti dopo Nobile risalì sul ponte 11 e attraversò il ballatoio. Oltre la poppa della nave il cielo cominciava a colorarsi di carminio. Albeggiava.

    Mentre inseriva la chiave nella serratura magnetica rifletté sul fatto che con tremila passeggeri a bordo sarebbe stato davvero difficile riuscire a rintracciare la donna.

    Cercò di riordinare le idee, ma proprio non riusciva a spiegarsi la ragione per la quale era rimasta nascosta nella suite fino a poco prima.

    «Niente da fare», esordì entrando di gran carriera nella suite. «La russa ci ha dato un nome falso».

    «Vieni a vedere!». La voce di Muso, cupa e baritonale, proveniva dal bagno.

    Nobile si avvicinò e provò a spalancare la porta, che si aprì solo per metà: si bloccò sul corpo del Pezza adagiato al centro della stanza.

    «Ma che cazz…». Il funzionario dell’

    ONU

    digrignò i denti nel vedere Muso seduto per terra. Aveva l’abito inzuppato e macchiato di sangue. Il corpo dell’amico era steso sul pavimento accanto a lui.

    «Siamo nella merda!», bofonchiò l’avvocato, le rughe agli angoli degli occhi e la mandibola serrata.

    «Perché l’hai tirato fuori dalla vasca? Cosa ti è saltato in mente?»

    «Dobbiamo occultare il cadavere». Le parole di Valvano risuonarono in modo sinistro. Non sembrava stesse scherzando. «Potremmo buttarlo in mare».

    «Fausto, ma sei serio?»

    «Serissimo». L’avvocato si alzò in piedi. Dalla giacca e dai pantaloni grondava ancora acqua. In modo del tutto improbabile, cercò di pulirsi con le dita. «L’hai detto anche tu: non possiamo attraversare la nave con un cadavere sulle spalle e quindi riportarlo nella sua cabina è fuori discussione».

    «Sì, ma buttarlo in mare… Ragioniamo con calma. Ci deve essere un’altra soluzione!».

    «Niccolò, guarda, cazzo!».

    Nobile non capì immediatamente a cosa l’amico si stesse riferendo. Poi fece cadere lo sguardo sul corpo di Leonardo e il sangue gli gelò nelle vene. Per un secondo smise di respirare incapace di distogliere le pupille dalla testa del cadavere, riversa all’indietro. Sul collo, da orecchio a orecchio, si estendeva un taglio netto dal colore bruno.

    «Non è stato un incidente, non ha sbattuto la testa», sottolineò Muso, asciutto. «L’hanno sgozzato: è stato ucciso!».

    4

    Ospedale da campo Paradise City, Sierra Leone. Nello stesso istante.

    Ora locale 04:21.

    Il professor Christopher Kundé si grattò la testa glabra scrutando fuori dalla finestra del laboratorio: era buio pesto e la radura era avvolta nel silenzio.

    Ne era certo, ciò che l’aveva svegliato era il clangore lontano delle pale di un elicottero: dopo gli anni passati in Somalia aveva imparato a riconoscerlo alla perfezione.

    Si spostò alla luce della scrivania, la pelle d’ebano che risaltava sul camice bianco sbottonato, e decise di andare a verificare di persona. Uscì dal suo alloggio, attiguo al prefabbricato che utilizzavano per gli esami ematologici. L’aria della notte era appesantita dall’afa e l’erba umida scintillava alla luce della luna. Ma non c’era nessuno.

    Cominciò a camminare e raggiunse la costruzione principale del campo: una tensostruttura bianca su cui troneggiava il sole stilizzato, il logo della SunriseX International.

    Senza le opportune protezioni non sarebbe potuto entrare, lo sapeva bene. Un semplice sguardo attraverso le aperture in vetro temperato gli consentì però di verificare che non ci fossero problemi: all’interno era tutto tranquillo, con tre file di letti occupate da pazienti ancora sedati.

    Kundé si domandò se non stesse esagerando. Dopotutto l’ispezione prevista di lì a poche ore era normale amministrazione. Non c’era motivo di preoccuparsi, era stato estremamente attento.

    Mentre tornava verso i prefabbricati di legno adibiti ad alloggi, rifletté se andare nella camera oscura che utilizzava per sviluppare le sue pellicole. Era poco distante, in uno degli edifici ancora in costruzione in fondo al campo, e di solito armeggiare con i solventi e le emulsioni fotografiche lo rilassava. Decise di no: comunque fossero andate le cose, l’indomani sarebbe stata una giornata importante. Aveva bisogno di dormire.

    Accompagnato dal gracidio delle rane nello stagno, che nel frattempo avevano preso a rumoreggiare, si incamminò verso il laboratorio. In direzione della recinzione uno dei due agenti della sicurezza era rintanato nella guardiola. Sembrava assonnato, o più probabilmente era intento a masticare foglie di khat, una droga abbastanza diffusa tra la popolazione locale. La guardia non lo notò neppure e solo Munyika, il pastore tedesco accucciato sul selciato, alzò la testa al suo passaggio. E poi lo udì di nuovo.

    Si voltò di scatto e scrutò una luce fissa, poco sopra l’orizzonte. Era un elicottero, non c’erano dubbi, e anche la guardia doveva averlo sentito perché lo vide scattare sull’attenti. Subito dopo, da oltre un crinale comparve un altro fascio bianco e un altro ancora: tre velivoli.

    Non aveva affatto esagerato.

    A testa bassa, Kundé si mosse in direzione del suo studio, una stanzetta ricavata in un vano del laboratorio. Doveva provare nuovamente a chiamare monsignor De Lestes.

    Mentre il frastuono dei rotori si faceva sempre più insistente, raggiunse la sua scrivania sommersa di carte e provette, e afferrò il satellitare.

    «Rispondi», mormorò, l’ansia crescente. Ma le sue speranze furono subito spezzate: una voce femminile comunicò qualcosa in russo e subito dopo la linea cadde.

    Il campione, si disse, cercando a tentoni la videocamera sulla scrivania. I suoi esami erano ormai completi, ma c’era ancora speranza: il campione principale, quello che la fondazione Mendel gli aveva promesso, doveva essere ancora testato.

    Indeciso sul da farsi, mosse il mouse del computer. Era possibile che gli elicotteri fossero stati inviati da De Lestes? Improbabile, anche se se lo augurò. In caso contrario, quella visita a notte fonda non aveva l’aria di una normale ispezione.

    Trovati gli occhiali li inforcò e sfogliò i file crittografati sul desktop. Individuò quello che conteneva la rubrica. Lo aprì e compose un numero sul satellitare, spostandosi vicino alla finestra per avere maggior copertura.

    Libero.

    Per fortuna.

    Se gli elicotteri erano della fondazione Mendel, glielo avrebbero confermato.

    Due squilli. Tre squilli. Cinque squilli.

    Mentre attendeva accese la videocamera e cancellò manualmente l’hard disk che conteneva l’ultimo file ripreso. Dopo dieci secondi di attesa al telefono, una voce preregistrata blaterò una frase incomprensibile. Non ebbe bisogno di altre conferme perché in quell’istante una scarica di mitra echeggiò dalla radura.

    Era finita. Christopher Kundé, in preda al panico, tornò al computer e individuò un file identico a quello appena cancellato. Pesava poco meno di un gigabyte e calcolò che lo avrebbe caricato abbastanza velocemente.

    Un altro colpo di mitra, questa volta seguito dall’abbaiare di Munyika.

    Il terzo elicottero

    NHI NH

    90 volava basso su una distesa arida dalla quale emergevano cespugli, terreni incolti e spuntoni di rocce. Poco più a nord, la catena dei monti Loma si erigeva maestosa sotto il cielo stellato. In lontananza, illuminato dalle fotoelettriche, si cominciava a vedere l’assembramento di costruzioni e tende di Paradise City.

    L’ospedale da campo sorgeva in una zona pianeggiante a metà strada tra la riserva forestale di Kangari Hills e il fiume Seli. Circondato da un’area di sicurezza di tre chilometri, era stato interamente finanziato dalla SunriseX International, una multinazionale attiva nel campo delle biotecnologie.

    «Squadra blu a terra», gridò Dragan Sauer, attraverso la ricetrasmittente del casco. Era un armadio di muscoli in tuta mimetica. Aveva i capelli color ruggine tagliati a spazzola, la barba incolta e gli occhi del colore del ghiaccio, simili a quelli di un husky. La missione per la quale era stato ingaggiato era la sua preferita: fare pulizia. «Squadra rossa in posizione».

    Il pilota, occhiali da sole Aviator nonostante l’oscurità, tirò a sé la cloche e le turbine urlarono come sirene. L’elicottero raggiunse la zona centrale della struttura medica e si mantenne in hovering – fisso su un punto – a distanza di sicurezza. Dalla sua posizione si riuscivano a distinguere con facilità i due gruppi di paramilitari: uno era atterrato appena dentro il cancello nord, l’altro nei pressi di una dispensa di lamiera coperta da una tenda. Gli uomini, dodici in tutto, avanzavano a tenaglia dalle rispettive posizioni. Indossavano tute hazmat blu, dotate di maschere e caschi, e correvano a testa bassa con gli

    AK

    -

    47

    spianati.

    Le prime scariche di mitra avevano appena cominciato a echeggiare nella notte, che dal cancello principale si mosse una jeep. Gli ordini erano chiari, restare a distanza di sicurezza dalla tensostruttura sterile – alla quale avrebbero semplicemente tolto il supporto vitale – e ripulire tutto. E così fecero i paramilitari.

    «Squadra rossa, abbiamo compagnia». La voce, netta come se provenisse dal vano di carico posteriore, fu interrotta da alcuni colpi di pistola. Seguirono diverse deflagrazioni indirizzate agli agenti incaricati della sicurezza del campo. Oltre al professor Kundé e ai pazienti, i due locali erano gli unici occupanti dell’ospedale. Pur non essendo preparati a un agguato di quel tipo avevano cominciato a scaricare i caricatori delle semiautomatiche sugli intrusi arrivati in elicottero. Ma era una lotta impari.

    Trascorsero pochi attimi concitati, poi il militare, con l’abbaiare di un cane in sottofondo, tornò a parlare a beneficio del capo. «Nemico abbattuto».

    «Squadra blu, procedete con il piano». Dragan Sauer strizzò gli occhi e dall’

    NH

    90 individuò i suoi agenti nei pressi di un prefabbricato con il tetto in lamiera. Dall’alto si notavano gli sfiati dei condizionatori e un comignolo che eruttava fumo bianco. Era il punto x.

    Un istante più tardi, un bagliore illuminò il campo, seguito dalla detonazione dell’esplosivo

    C4

    .

    «

    Missione compiuta: tra poco gli amici indigeni faranno un po’ fatica a respirare», fece divertito uno dei militari.

    Trascorsero altri trenta secondi, poi una nuova voce ruppe il momentaneo silenzio radio. «La zona è pulita».

    Sauer sorrise tra sé. Il blitz si era concluso in tre minuti e trenta secondi. Mancava solo un tassello, ma quello spettava a lui. Si infilò le protezioni e i guanti in kevlar e si calò sul viso la speciale maschera antigas. «Ok. Scendiamo. Troviamo il nostro amico».

    Upload file 77%.

    Mentre i colpi di arma da fuoco rimbombavano nella struttura, Christopher Kundé studiò lo schermo del computer. Odiava quell’affare e non era per nulla certo che comunicare in quel modo fosse davvero a prova di intercettazione.

    Una nuova raffica di mitra squarciò l’aria. Erano vicini.

    Upload file 79%.

    Si spostò di qualche passo e aprì la porta dello studio di un piccolo spiraglio. Il ronzio del condizionatore si bloccò di colpo. Spense le luci del laboratorio, sperando di rallentare in qualche modo gli aggressori, ma subito dopo si riaccesero quelle di emergenza. Chiuse a chiave e tornò al

    PC

    .

    Era finita, lo sapeva bene. Non ci sarebbe stata nessuna ispezione. O forse era proprio quella l’ispezione… Ma le cose potevano ancora essere sistemate.

    Fradicio di sudore, richiamò la bozza del documento che aveva già preparato e la copiò in una e-mail. Anche se aveva predisposto quel testo da diversi giorni, si era sempre augurato di non doverlo mai usare. Ricontrollò l’upload: era all’86%. Per un momento si sentì in colpa per non aver caricato il video precedentemente. Ma era stata una scelta obbligata: se da Ginevra monitoravano il suo traffico internet, come sospettava, tutti quei dati transitati sui server non sarebbero passati inosservati.

    In quell’istante, uno scalpiccio seguito dai cigolii del pavimento in legno gli diede la certezza che il tempo a disposizione era finito. Erano entrati nel laboratorio.

    Verificò un’ultima volta il computer: Upload file 93%.

    Non aveva altra scelta: copiò l’indirizzo del sito su cui stava caricando il file, lo incollò in una pagina web e subito dopo inviò un’e-mail. Con un po’ di fortuna, quando i destinatari avrebbero letto il messaggio, il file sarebbe stato già trasferito per intero.

    «Die Tür öffnen!», ordinò una voce roca in tedesco. «Apra la porta», ripeté subito in un inglese con forte accento. «Professor Kundé, sappiamo che è lì. Esca immediatamente».

    L’anziano scienziato spense lo schermo del computer. Appena il trasferimento fosse terminato, il video in locale si sarebbe automaticamente cancellato. Si fece avanti, la testa quasi nascosta tra le spalle. Aveva l’aspetto della pecorella delle favole, quella in attesa di essere sbranata dal lupo cattivo. Mentre le luci rosse di emergenza conferivano all’ambiente un’atmosfera quasi di festa, le parole dei militari furono tutt’altro che amichevoli.

    «Alzi le mani».

    5

    Al largo delle isole Baleari. Pochi minuti più tardi.

    Ora locale 06:26.

    I coniugi Zambon avevano scelto una vacanza in crociera per festeggiare il loro venticinquesimo anniversario. Lui, dieci anni più vecchio della moglie, era un fumatore accanito e quel giorno aveva cominciato molto presto: quando le prime luci rossastre avevano iniziato a colorare le nuvole basse sul mare, l’uomo si trovava già sul balconcino della cabina, sul ponte 7.

    Appoggiato coi gomiti alla balaustra, assaporò un’ultima boccata di sigaretta e gettò il mozzicone tra le onde. Stava per rientrare quando un vociare convulso attirò la sua attenzione. Si affacciò cercando di scrutare in alto, tre o quattro ponti sopra la sua posizione, ma nella semioscurità non riuscì a vedere esattamente da dove proveniva. Il vento e il rumore delle onde che si infrangevano sullo scafo non gli permisero di udire nitidamente neppure le parole. Però la scena che gli si presentò davanti non ebbe bisogno di particolari interpretazioni: improvvisamente qualcosa barcollò, si sporse e saltò giù senza il minimo ripensamento. La figura umana cadde a peso morto lungo la fiancata della Princess of the Oceans, pochi metri accanto alla sua balconata, e si inabissò tra le onde.

    «Isabella». Con voce tremante richiamò l’attenzione della moglie. «Isabella… credo che qualcuno si sia buttato in mare».

    Contemporaneamente, sul ponte 11, Fausto Valvano e Niccolò Nobile richiusero la porta del terrazzino.

    «Era la cosa giusta da fare», bofonchiò l’avvocato, il petto che faceva su e giù per la fatica.

    Negli ultimi dieci minuti, dopo un’accesa discussione, avevano ripulito tutto e trasportato il corpo accanto alla balconata. In due, buttarlo di sotto non era stato troppo difficile: l’avevano posizionato a cavalcioni sulla balaustra e poi l’avevano sollevato dalle gambe. Immaginando ci fossero telecamere di sorveglianza sulle fiancate della nave erano stati bene attenti a non sporgersi. E tutto era andato liscio, se così si poteva dire: Domianello era caduto come un sacco colmo di sassi ed era scomparso tra le onde rischiarate dai riflessi dell’alba.

    «Togliti quell’espressione da funerale». L’avvocato appoggiò una mano sulla spalla dell’amico, come per rincuorarlo.

    Nobile si scostò con un gesto d’ira. Mosse la mandibola più volte, ma non sembrò trovare le parole giuste. Il viso, normalmente rilassato e sorridente, era segnato dall’angoscia.

    «Questa è la tua cabina, non ti potevi permettere che rinvenissero il cadavere di un uomo assassinato».

    Per quanto Nobile trovasse deplorevole ciò che aveva appena dovuto fare, sapeva che Valvano aveva ragione. Il Pezza era stato ucciso, non sapeva perché ma forse conosceva il colpevole: la russa, sempre ammesso che provenisse davvero dalla terra degli zar. La mente gli andò a poco prima: la donna aveva atteso nella loro cabina che trovassero il corpo. Era possibile che non stesse solo aspettando, ma avesse intenzione di derubarli o addirittura di uccidere pure loro nel sonno? Anche se non ne immaginava la ragione, gli sembrò una spiegazione ragionevole per la quale prima si era nascosta e poi era fuggita. Forse lui si era solo svegliato al momento giusto per

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