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Fingergate
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E-book391 pagine4 ore

Fingergate

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Info su questo ebook

La vita di Kate Swift non è di certo tra le più tranquille. Dopo la morte di suo marito Yusuf, un infiltrato nella pericolosa rete di Al-Qaeda per conto del governo americano, a lei e a sua figlia Suzie non è rimasto altro che fuggire, e tutto questo mentre un segugio come Lucien Benway, ex agente della Cia, continua a braccarle. Perché Lucien ha un conto in sospeso con Kate: è lei che l’ha rovinato e che gli ha fatto perdere il lavoro e ora lui non vede l’ora di fargliela pagare. A Kate, dunque, non resta che lasciare gli Stati Uniti e volare fino in Thailandia. Qui c’è Harry Hook, un uomo a pezzi, dedito soltanto al vizio dell’alcol. Hook sa che c’è un solo modo per salvare Kate dalle grinfie di Benway: farla scomparire inscenando la sua morte e lasciando di lei una sola traccia, quel dito che darà inizio allo scandalo che i media americani chiameranno Fingergate. In un crescendo di adrenalina e con una sottile analisi psicologica, James Rayburn costruisce una perfetta alchimia narrativa: azione, suspense, amore, gelosia, vendetta. Una avvincente spy story, popolata da personaggi coraggiosi in cerca di riscatto, nella splendida ambientazione esotica di Bangkok.
LinguaItaliano
Data di uscita23 gen 2020
ISBN9788863939361
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    Anteprima del libro

    Fingergate - James Rayburn

    MISTERIA

    fr_fingergate_02

    James Rayburn

    Fingergate

    ISBN 978-88-6393-936-1

    © 2020 Leone Editore, Milano

    Titolo originale: The Truth Itself

    © James Rayburn, 2018

    Traduzione: Giada Fattoretto

    www.leoneeditore.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    1

    Seduta sulla sua vecchia Jeep, vedendo i due ragazzi che superavano il filare di betulle spoglie lungo il perimetro della scuola elementare, Kate Swift si rese conto che era finita.

    Il vento che soffiava tagliente dal Canada faceva svolazzare le code dei loro impermeabili neri, perfettamente uguali, e Kate li osservava arrancare nella neve fresca verso il basso edificio di mattoni. Fu allora che capì tutto: la fitta rete di mezze verità architettate ad arte e tutte quelle bugie calibrate con meticolosa attenzione, che erano state parte della sua vita negli ultimi due anni, stavano per essere spazzate via come una ragnatela.

    «Eccolo» disse a se stessa. «Eccolo, Kate.»

    Nel momento in cui pronunciò il suo nome, il suo vero nome, non quello dietro cui si era trincerata in quella cittadina del Vermont settentrionale, spostò velocemente lo sguardo dai ragazzi al gruppo dei primi studenti che sfrecciavano verso la scuola, scorgendo i lunghi capelli scuri di sua figlia e lo zainetto rosa di Hello Kitty prima che scomparissero attraverso le porte di vetro aperte.

    Nessun poliziotto era andato a bussare alla sua porta a mezzanotte e nessun cecchino le aveva sparato dal bosco. Era quello che aveva sempre temuto ma non era successo. Eppure, guardando i ragazzini dirigersi verso la scuola, Kate avvertì il freddo respiro del karma alla base del collo e mentre apriva la portiera della Jeep e scendeva, gli stivali in pelle che affondavano nella neve, avvertì una familiare scarica di adrenalina scorrerle lungo il corpo e il sangue pomparle nelle orecchie.

    Soffocò un grido, consapevole che la figlia non l’avrebbe sentita ma loro sì. I ragazzi, ora liberatisi dalla neve, marciavano come modelle in passerella lungo l’angusta striscia d’asfalto spalata davanti al portone della scuola, dove si accalcavano tutti quei ragazzini che non vedevano l’ora di ripararsi dal freddo.

    Quando Kate aveva aperto gli occhi quella mattina, stesa al buio della sua camera da letto sotto al pesante piumone, aveva fatto quello che si era esercitata a fare ogni giorno negli ultimi due anni: ripercorrere in silenzio la sua storia.

    Lei era Holly Brenner. Ventotto anni. Madre single di Suzie, sei anni.

    Scacciò la paura e il timore che la accompagnavano a ogni risveglio, certa che quel giorno sarebbe stato l’ultimo.

    Il giorno in cui l’avrebbero smascherata.

    Il giorno in cui Lucien Benway si sarebbe preso la sua rivincita.

    Per placare l’ansia aveva allungato una mano – i morbidi peli del braccio che si rizzavano per il freddo dell’alba, l’indice che toccava un gelido rettangolo di plastica – e aveva spento la sveglia che indicava le sei del mattino.

    Aveva percorso in silenzio il corridoio al piano di sopra fino alla camera della figlia e l’aveva baciata sulla fronte.

    «’Giorno, piccola» aveva detto.

    La bambina aveva aperto gli occhi, sorridendo. «’Giorno, mami.»

    «Chi sei tu, piccolina?» le aveva chiesto, come ogni mattina.

    «Sono Suzie, mami.»

    «Suzie chi?»

    «Suzie Brenner.»

    Quando erano fuggite, due anni prima, Kate aveva deciso di rischiare e mantenere il nome della figlia – il nome che Suzie, avendo imparato a parlare tardi, aveva impiegato molto a pronunciare – per non confonderla se gliene avesse fatto imparare uno nuovo.

    L’aveva baciata di nuovo. «Brava bambina. Adesso preparati.»

    Era scesa dabbasso e aveva preparato la colazione, cercando di non mostrarsi troppo irritata quando Suzie ci aveva messo un sacco a vestirsi e aveva perso lo scuolabus, che se ne era andato arrancando lungo la strada al seguito di uno spazzaneve.

    E così ora Kate era seduta nella sua Jeep davanti alla scuola a guardare la sorte che la prendeva alla sprovvista, perseguitata dalla paura che tormentava ogni genitore dopo la sparatoria alla scuola elementare di Sandy Hook.

    Scacciando la superstiziosa idea che fosse già scritto, che dovesse trovarsi lì, Kate lasciò la Jeep e corse verso i due ragazzi che si avvicinavano all’entrata, presidiata da Pops, l’addetto alla sicurezza della scuola, nella sua divisa da guardia giurata. Con i capelli bianchi mossi dal vento, Pops sollevò una mano in modo amichevole.

    «Ciao, ragazzi, dove state andando?»

    Il suo saluto le giunse attraverso una folata d’aria. I giovani continuarono a camminare scambiandosi qualche sorrisetto.

    Poi si avvicinarono a Pops, che fece un passo indietro e disse: «Aspettate un attimo, che ci fate qui?».

    Kate sperava di sbagliarsi e che quei ragazzi fossero mimi, acrobati o praticanti del parkour arrivati per far divertire i bambini; sperava anche che i giubbotti avessero quelle forme strane per via degli strumenti necessari a esercitare le loro arti bizzarre. Ma il ragazzo biondo spalancò il cappotto e, dopo aver estratto un fucile d’assalto AR-15, sparò due volte alla guardia, che morì prima ancora di toccare terra. Kate si avvicinò e vide l’altro ragazzo che rideva e cercava di liberare l’arma impigliatasi nella fodera lacerata del cappotto.

    Il primo ragazzo sparò a raffica, con il rinculo che scaricava proiettili appena sopra le teste di un gruppo di bambini urlanti. Stava per premere di nuovo il grilletto aggiustando il tiro quando Kate, scrollandosi di dosso tutta la ruggine dovuta agli anni di inattività, colpì il ragazzo da dietro e lo fece cadere a terra. Mentre afferrava il fucile gli sferrò un calcio in faccia e sentì la cartilagine del naso che si rompeva. Puntò la canna verso l’altro ragazzo, liberatosi dell’arma e pronto a puntargliela contro. Kate fece fuoco e scattò di lato: i proiettili trafissero i mattoni sulla sua testa.

    Era sicura di averlo ferito alla spalla, ma il ragazzo corse all’interno dell’edificio, nascondendosi nell’aula più vicina al portone, proprio l’aula di Suzie. Prese di nuovo la mira ma sulla traiettoria c’erano dei bambini.

    Kate avvertì un rumore metallico e si voltò verso il ragazzo steso a terra che caricava una pistola semiautomatica. La distanza ravvicinata le impediva di usare il fucile, così prima lo colpì alla gola con il calcio della pistola, poi sparò fino a farlo fuori.

    Trovò un altro caricatore nel cappotto del ragazzo morto e lo inserì nell’AR-15 correndo verso l’aula lungo un lato dell’edificio.

    Sapeva che le finestre avevano vetri spessi il triplo – aveva contribuito alla raccolta fondi per migliorare l’isolamento delle aule durante i lunghi mesi invernali – e stava già calcolando che effetto avrebbe avuto il vetro temperato all’impatto con un colpo di pistola.

    Si fermò e diede uno sguardo veloce alla stanza. Il secondo ragazzo aveva la schiena appoggiata alla porta chiusa a chiave. Il braccio sinistro era floscio, e c’era del sangue sulla giacca e sul collo.

    Agitò la pistola con la mano destra verso i bambini che piangevano. L’insegnante gli si avvicinò con le mani sollevate: era una giovane sposina che si chiamava Marie Benet. Il ragazzo le sparò in quello stesso istante e lei cadde subito riversa a terra. Ma il rinculo lo fece arretrare contro la porta e altre pallottole colpirono il soffitto, distruggendo tutte le luci a led e causando una pioggia di vetri.

    Urla più acute. Kate osservò i bambini accovacciati, in cerca di Suzie. Non riusciva a vederla.

    Si avvicinò alla finestra, sapendo di dover sparare nonostante la deviazione e la mancanza di precisione, poi vide il viso della figlia vicino al vetro. Vide la sua piccola mano armeggiare con la maniglia e pregò mentre le minuscole dita tremanti e infreddolite scuotevano il catenaccio, che cedette all’istante. Kate afferrò la finestra, la aprì verso l’interno e sollevò l’AR-15 in un unico movimento, proprio mentre il ragazzo guardava verso di lei. Allora gli sparò tre volte, due al petto e una alla testa, sangue e pezzi di cervello che chiazzavano di rosso la porta bianca. L’arma che teneva in mano cadde al suolo prima di lui.

    Kate lasciò cadere il fucile e raggiunse Suzie, trascinandola fuori dalla finestra e tenendola stretta mentre attraversava veloce la neve, facendo forza sulle gambe, sollevando le ginocchia e sentendo il freddo bruciarle i polmoni. Corse verso la macchina, inseguita dalle sirene, conscia di avere a disposizione solo un minuto per raggiungere la Jeep e fuggire.

    2

    Kate affrontò la curva a velocità troppo sostenuta e le ruote trovarono un pezzo di fondo ghiacciato, così all’improvviso la Jeep sembrò una macchina leviga ghiaccio fuori controllo in testacoda. Gli alberi, il cielo color peltro e le graziose casette da catalogo vorticavano e intanto Suzie non la smetteva di piangere e di urlare a squarciagola.

    I ricordi dell’addestramento erano ancora freschi nella mente di Kate: sterzò, piedi sui pedali e mano destra che si muove con rapidità sul cambio. Tutti movimenti diventati automatismi grazie alla memoria muscolare.

    Quando la Jeep si fermò vicino a un albero fino quasi a sfiorarlo, vide l’auto di pattuglia dello sceriffo che puntava dritta verso di loro, la sirena a tutto spiano, la barra luminosa che abbagliava. Decise di svoltare verso la scuola, scomparendo alla vista con una lieve sbandata: quegli yankee sapevano come guidare in una bufera di neve.

    Guardò Suzie. Se ne stava silenziosa, ma il viso era rosso e rigato dalle lacrime, la bocca aperta e bagnata di saliva, i grandi occhi scuri fissi su di lei.

    Si allungò ad abbracciarla.

    «Chi erano quegli uomini, mami?»

    «Non lo so, piccola.»

    «Uccidevano le persone.»

    «Sì.»

    «Per colpa nostra, mami?»

    «No, piccola, non per colpa nostra.»

    Baciò la bambina sulla fronte, inserì la marcia e si diresse verso casa, guidando veloce ma in modo prudente, i secondi di libertà che scivolavano via come sabbia in una clessidra.

    «Adesso ho bisogno che tu faccia una cosa per me, piccola Suzie, una cosa difficilissima, ma devi farla. Okay?»

    La bambina annuì. «Okay.»

    «Piccola, mi dispiace, ma ti ricordi la cosa che ti avevo detto che un giorno sarebbe potuta accadere? Be’, ci siamo…»

    «Ci siamo?»

    «Sì. Dopo quello che è successo a scuola le persone verranno a cercarmi.»

    «Ma ci hai salvati, mami.»

    «Non importa. Capiranno chi sono e verranno a cercarmi. Quindi dobbiamo andarcene, capito?»

    «Dobbiamo lasciare la città?»

    «Sì.»

    «Devo lasciare i miei amici?»

    «Sì.»

    «Posso salutarli?»

    «No. Mi dispiace.»

    Suzie trattenne i singhiozzi. «Sei stata coraggiosa, mami.»

    «Anche tu.»

    «Adesso farò la coraggiosa.»

    «Ne ero sicura.»

    Kate fermò la Jeep nel viale di un piccolo cottage bianco in legno dal tetto spiovente con una coppia di abbaini identici, una casa che le era sembrata graziosa in modo stucchevole quando ci si erano trasferite due anni prima, ma che aveva imparato ad amare. Salì le scale fino in camera, arredata con quello che una volta aveva definito uno «stile super smielato», in netta antitesi con i suoi gusti austeri ed essenziali, con tende di pizzo, un piumino soffice e perfino un peluche sul letto.

    Spostò l’antico letto d’ottone e sollevò un tappetino e tre assi del pavimento in legno massiccio: era lì sotto che aveva nascosto uno zaino, pronto per una giornata come quella. Un rotolo di banconote. Vestiti anonimi da cui aveva rimosso le etichette. Documenti falsi. Un kit di pronto soccorso. Niente che potesse collegare lei e la figlia alle persone che avevano finto di essere negli ultimi anni.

    O a chi erano state un tempo.

    Kate prese lo zaino e corse sul pianerottolo a chiamare Suzie. La bambina uscì dalla camera, portando con sé tre delle sue bambole preferite.

    Kate scosse la testa. «Non puoi portarle, piccola. Mi spiace.»

    La bambina ricominciò a piangere, poi posò le bambole su un tavolo e le baciò a una a una per salutarle. Kate mise lo zaino nella Jeep, poi guidò lungo le strade sgombre verso il bosco scuro che cresceva folto attraverso l’invisibile linea che segnava il confine incustodito tra gli usa e il Canada.

    «Mami?»

    «Sì?»

    «Quando arriviamo dove dobbiamo andare…»

    «Sì?»

    «… posso avere un cucciolo?»

    «Sì, piccola, puoi avere un cucciolo.»

    Che differenza faceva una bugia in più?

    3

    Lucien Benway si trovava nell’oscurità del seminterrato senza finestre a guardare il suo tuttofare, Dudley Morse, un uomo alto e pallido che usava le pagine gialle della Giordania per colpire il giornalista americano legato alla sedia della cucina.

    Una lampadina incandescente pendeva dal soffitto chiazzato proprio sopra alla sedia, con il paralume cilindrico in alluminio a proiettare un potente fascio di luce verdastra sul reporter sanguinante.

    Quando Benway si schiarì la voce Morse abbassò l’elenco telefonico e si ritrasse. Aveva il respiro affannoso e la camicia bianca sporca di sangue e sudore.

    Benway fissò il reporter, che si accasciò in avanti, trattenuto da una corda di nylon. Con una voce così profonda che ricordava le paludi texane, Benway disse: «Pensi forse di assomigliare a George Clooney?».

    Nonostante il giornalista, con i suoi folti capelli brizzolati e il profilo fotogenico, ricordasse l’attore hollywoodiano, si voltò verso l’invisibile Benway, scosse la testa e disse: «No, non proprio».

    «Ma qualcuno te l’ha fatto notare, vero? Te lo dicono le donne, per caso?»

    «Forse. A volte.» Sputò un incisivo sul pavimento in mosaico sbrecciato.

    «Ma tu non sei George Clooney. Hai sentito quello che ti ho detto?»

    «Sì. Non sono George Clooney.»

    «E questo non è un film. Nessuno dirà stop. Lo capisci questo?»

    «Sì, lo capisco.»

    «Ma allora perché continui a non dirmi niente?»

    «Perché non ho niente da dirti.»

    «Niente?»

    «Solo che sono innocente.»

    «Ah, sei innocente?»

    «Sì.»

    «Come fai a dirlo?»

    «Perché non ho avuto rapporti sotto copertura con lo Stato islamico, Al-Qaida, Khorasan, AQAP, Al-Nusra, gli Huthi o altre fazioni.»

    «Credi che c’entri con questo?»

    «Non è così?»

    «No.»

    «Allora di cosa si tratta?»

    Benway emerse dall’ombra, le mani infilate nelle tasche del completo a righe. Era alto appena un metro e cinquanta, con il corpo di un ragazzo in fase prepuberale e una testa enorme coperta da morbidi capelli chiari. La luce intensa evidenziò la trama di increspature che ricopriva la pelle rugosa del viso.

    Il giornalista trovò la forza per ridere. «Capisco.»

    «Davvero?»

    «Sì.»

    «E continui a dichiararti innocente?»

    «Non avevo idea di chi fosse quella donna.»

    «No?»

    «Be’, solo quando è stato troppo tardi.»

    «Credo che tu confonda l’ignoranza con l’innocenza.»

    Benway prese dalla tasca della giacca il pacchetto morbido di sigarette turche Samsun, le sue preferite, ne accese una con l’accendino Ronson sottratto al cadavere del primo uomo che aveva ucciso, annusando una folata di butano e poi il denso profumo del tabacco.

    «Cosa mi farai?» chiese il reporter.

    «Ti decapiterò e poi ti scaricherò oltre il confine siriano» rispose Benway, facendo emergere parallele colonne di fumo dalle narici.

    Il reporter scosse la testa, socchiuse l’occhio buono più che poté e disse: «Scaltro».

    Benway fece un cenno a Morse con la sigaretta. «Lasciaci soli.»

    L’uomo alto esitò.

    «Va’» disse Benway.

    Morse posò le pagine gialle sul tavolo pieghevole accanto alla sedia, poi si voltò e aprì una porta che dava su una stretta rampa di scale in legno, facendo entrare nella stanza il canto salmodiante di un muezzin. Chiuse la porta e nella stanza tornò il silenzio.

    Benway lasciò cadere la sigaretta sul pavimento e la spense con il tacco dei minuscoli mocassini confezionati a mano da un calzolaio di Washington, poi prese dal tavolo un coltello a lama lunga.

    Il giornalista fissò la lama scintillante mentre Benway entrava nel cerchio di luce.

    «Cosa? Cazzo, non mi filmi neanche?»

    Mentre gli rivolgeva quel suo sorriso alla Clooney, Benway capì molto bene cosa aveva spinto sua moglie a desiderare quell’uomo, perché solo lui tra la schiera dei suoi amanti l’aveva tentata a lasciare il marito dopo vent’anni.

    Benway tagliò la gola al giornalista, poi lo afferrò per i capelli e finì di decapitarlo.

    4

    Alla guida della sua Jeep lungo l’Autoroute 55 attraverso le pianure innevate del Québec meridionale, con Suzie addormentata al suo fianco, Kate era quasi convinta che quello fosse soltanto un altro dei suoi viaggi fin troppo frequenti verso Montréal.

    Oltrepassare il confine voleva dire correre un rischio enorme e di questo ne era consapevole. Ma era una ragazza di città, e aveva bisogno degli stimoli che un paesino del Vermont non poteva offrire. Quando aveva portato Suzie nel quartiere latino di Montréal si erano abbuffate di ciambelle e torte con pasta di zucchero e avevano passeggiato lungo le strade acciottolate della città antica. L’accento francese faceva parlare Suzie come l’ispettore Clouseau della Pantera Rosa e per questo si erano scompisciate dalle risate. Kate aveva fatto shopping nelle piccole boutique alla moda e aveva comprato chincaglierie tipiche da esporre nel suo negozio nel Vermont, dove vendeva ninnoli ai rari visitatori. Quella città non era mai davvero decollata come località turistica, motivo per cui l’aveva scelta, oltre al fatto che era vicina al confine.

    Ma in quei giorni aveva ascoltato le vecchie canzoni di Leonard Cohen (quelle in cui diceva «so long» a Marianne o quelle su Suzanne che lo portava al fiume e gli offriva tè e arance) che l’avevano trasportata in un altro tempo e in un altro spazio, a differenza delle notizie dell’ultima ora della stazione WDEV-FM con sede a Waterbury, che davano aggiornamenti sulla sparatoria alla scuola di Suzie.

    Solo pochi dettagli: qualche bambino ferito ma non in modo grave. Erano stati uccisi due membri del personale scolastico, oltre ai due uomini armati non ancora identificati. A Kate non interessava chi fossero quegli stronzetti depravati, le importava solo di averli fermati prima che massacrassero i bambini. Il notiziario non parlava di lei.

    Non ancora.

    Ma sapeva che stavano analizzando le sue impronte e il suo Dna: avrebbero raccolto i capelli con delle pinzette dal tappeto accanto al letto e avrebbero estratto delle invisibili scaglie di pelle dall’interno dei jeans nel cesto della biancheria sporca e dalle scarpe da ginnastica in fondo all’armadio. E così molto presto qualcuno da qualche parte avrebbe scoperto chi era, e la pesante macchina dei servizi segreti si sarebbe messa in moto. Avrebbero gettato un’ampia rete, per intrappolarla. Se ci fossero riusciti, nella migliore delle ipotesi l’avrebbero processata sommariamente e condannata all’ergastolo, lasciando Suzie a cavarsela tra famiglie affidatarie e istituti sociali, marchiata a vita come «la figlia di quella stronza di una traditrice».

    Sempre che Lucien Benway e il suo scagnozzo, Morse, non le avessero scovate per primi, piantando a entrambe una pallottola nel cranio e gettando i loro corpi in tombe anonime.

    Kate scacciò quei pensieri e si concentrò sulla strada, rispettando i limiti di velocità e guardando gli specchietti per vedere se ci fosse traccia delle bianche Ford Taurus Interceptors utilizzate dalla polizia stradale del Québec.

    Si era fermata un momento nel bosco per rimuovere le targhe del Vermont, gettarle a mo’ di frisbee tra gli alberi e sostituirle con targhe del Québec, con i loro gigli e il motto Je me souviens.

    Le consentivano di mimetizzarsi nel traffico ma non avrebbero retto a un controllo telematico, e questo valeva anche per la patente canadese che aveva nel portafoglio.

    Ma due anni prima, quella patente a nome di Mary McCloud le aveva permesso di affittare un box alla periferia della piccola città di Magog. Il proprietario, originario del Québec, non parlava volentieri in inglese. Kate, aumentando un po’ i dittonghi prima delle consonanti in un’imitazione pressoché impeccabile di una donna dell’Ontario, gli aveva detto di essersi trasferita da «Tronno» anziché da Toronto e che aveva bisogno di uno spazio per un po’ di tempo. A lui questo non importava ma quando lei gli aveva pagato due anni d’affitto in contanti si era mostrato tutt’altro che indifferente.

    Prese l’uscita per Magog, attraversò il fiume, superò il tetro stabilimento tessile in mattoni che assomigliava a un ricovero per senzatetto alla Dickens e si diresse al box, un paio di file di bassi edifici acquattati nella neve grigia. Il deposito era circondato da una rete metallica sormontata da del filo spinato arrugginito.

    Non c’erano dipendenti al lavoro. Il proprietario gestiva il distributore della Shell sull’altro lato della tangenziale e lasciava il magazzino quasi del tutto incustodito.

    Kate si fermò con la Jeep fuori dal cancello: con gioia constatò che di recente uno spazzaneve aveva fatto il suo lavoro sulle strade che portavano ai box. Usò la chiave per aprire il cancello, lo superò in macchina e lo richiuse, diretta verso la seconda fila di fabbricati. Si fermò davanti all’ultimo box, accanto alla rete. Tra la rete e la tangenziale si allungava una striscia di terreno coperta di neve.

    Il brusio del traffico le giungeva da lontano.

    Parcheggiò la Jeep: Suzie era ancora lì che dormiva. Sollevò la basculante del deposito, al cui interno era parcheggiata una Hyundai argentata di cinque anni targata Québec, pagata in contanti a un commerciante a Montréal. L’aveva portata fin lì in modo tale da poterla usare proprio in un giorno come quello.

    Prima di lasciare la macchina, aveva fatto cambiare olio, antigelo, servosterzo, trasmissione e liquidi per i freni. Aveva fatto il pieno e aveva aggiunto un additivo per mantenere al meglio la benzina e rallentarne il deterioramento; infine aveva disconnesso i cavi della batteria nuova di zecca.

    Il cemento dello stabile era abbastanza piano da poter togliere il freno a mano, il che avrebbe evitato di rovinare il tamburo del freno. Aveva inserito il cambio manuale in folle.

    Erano tutte cose automatiche.

    Queste capacità, come molte altre, le martellavano dentro grazie agli allenamenti di molto tempo prima. L’ultima volta che era stata lì risaliva a quando aveva affittato quello spazio. Kate sollevò il cofano, ricollegò la batteria, si mise al volante e infine girò la chiave. Venne attanagliata dall’ansia. L’auto gemette e poi tossì: il motore funzionava senza problemi.

    Mentre la macchina girava al minimo, Kate aprì il bagagliaio, contente una borsa all’interno della quale c’erano passaporti canadesi a nome di Janet e Brett Brewster. Un’altra se stessa in versione occhialuta la fissava dal passaporto di Janet. Brett aveva quattro anni quand’era stata scattata la foto, ma se avesse tagliato i capelli a Suzie e l’avesse vestita con gli abiti da maschietto che aveva comprato da H&M a Montréal nessuno si sarebbe accorto di niente.

    Non la entusiasmava l’idea di far accettare a Suzie il cambio di stile.

    Portò fuori la macchina e la parcheggiò dietro alla Jeep, sempre con il motore al minimo. Suzie si era svegliata e la fissava.

    Kate aprì la portiera della Jeep e si sedette accanto a lei.

    «Tutto bene?»

    La bambina annuì.

    «Va’ ad aspettarmi nell’altra macchina, piccola.»

    Suzie ubbidì, e Kate mise la Jeep nel box, poi prese le borse. Chiuse la basculante a chiave. Dopo aver messo le borse nel bagagliaio della Hyundai si diresse verso l’uscita.

    «Dove andiamo, mami?»

    «Andiamo a fare un po’ di cose.»

    «Quali cose?»

    «Oh, cose da donne. Giochiamo a travestirci.»

    «Travestirci?»

    «Sì.»

    «E poi?»

    «E poi prendiamo l’aereo.»

    «E dove andiamo?»

    «Andiamo a cercare un uomo.»

    «Quale uomo?»

    «Un uomo che secondo me può aiutarci.»

    «Come si chiama?»

    «Si chiama Hook. Harry Hook.»

    «Che nome divertente.»

    «Be’, è un uomo divertente.»

    5

    Furono i postumi di una sbornia da urlo a salvare la vita di Harry Hook.

    Nonostante l’aria condizionata al massimo nell’ingresso del lussuoso Bangkok Phuket Hospital, Harry sudava copiosamente, perseguitato da un fetore di alcol stantio mentre trotterellava per entrare in ascensore. Un uomo basso e paonazzo con un completo elegante era in piedi accanto a quattro colossi che circondavano una bellissima donna dalla pelle ambrata, fasciata in un abito tradizionale musulmano. Harry li ignorò di proposito e lo stesso fece il un bambino pelle e ossa di circa otto anni con uno zucchetto lavorato a maglia che era con loro.

    La donna arricciò il naso delicato e sussurrò qualcosa a uno degli omaccioni che teneva aperta la porta con una mano enorme; poi, mantenendo un accento indefinito, disse a Hook: «Potrebbe prendere il prossimo ascensore, per cortesia?».

    Non era una domanda vera e propria, e Hook, accompagnato da tutto il suo fetore, si ritrasse proprio mentre le porte si chiudevano. Si ritrovò vicino a un thailandese paffutello in smoking che suonava I Will Always Love You con un violino elettrico, appollaiato su una piccola pedana. Quella canzone, che gli ricordava l’evento che aveva sancito la fine della sua carriera, e per poco anche della sua vita, portava con sé un terribile presentimento che lo fece quasi scattare verso l’uscita, ma il richiamo del denaro lo convinse

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