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L'ultimo segreto di Galileo
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E-book354 pagine5 ore

L'ultimo segreto di Galileo

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Info su questo ebook

La microbiologa Rebecca De Cardinale viene coinvolta dal professor Spinelli e dal suo assistente Alessandro Vinci nella ricerca dell'ultimo libro scomparso di Galileo, nel quale si dice che l'illustre astronomo teorizzasse un legame tra le epidemie e i movimenti dei meteoriti. Gli indizi per trovare il manoscritto sono contenuti in tre lettere di Galileo ritrovate da Spinelli, ma quando il professore scompare Rebecca e Alessandro si incaricano della ricerca, in una incalzante lotta contro il tempo per evitare che una catastrofica epidemia colpisca l'intera umanità.
LinguaItaliano
Data di uscita18 set 2017
ISBN9788863937435
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    Anteprima del libro

    L'ultimo segreto di Galileo - Aristide Bergamasco

    MISTÉRIA

    frontespizio

    Aristide Bergamasco

    L’ultimo segreto di Galileo

    ISBN 978-88-6393-743-5

    © 2014 Leone Editore, Milano

    www.leoneeditore.it

    Questa è un’opera di fantasia. Nomi, personaggi, luoghi ed eventi narrati sono il frutto della fantasia dell’autore o sono usati in modo fittizio. Qualsiasi somiglianza con persone reali, viventi o defunte, eventi o luoghi esistenti è da ritenersi puramente casuale.

    A Simona, mia moglie

    e alle mie figlie

    Sara e Marta

    Pisa, 1631

    Le urla strazianti della donna ancora gli risuonavano nelle orecchie, anche se erano passate ormai più di sei ore. Il medico Cristofano Galotti aveva appoggiato la maschera a forma di lungo becco sulla specchiera, mentre le erbe profumate che ne riempivano le narici di cartapesta cadevano sparse sul mobile. L’uomo pregava che quelle sostanze lo avessero protetto dal contagio anche per quella giornata, ma ne dubitava sempre di più. Sospirò, scosso, appoggiandosi con le mani sul ripiano di legno. La donna lo incolpava della morte dei suoi due figli, straziati da bubboni violacei e purulenti che lui non aveva saputo guarire, nonostante tutte le sue medicine, i suoi salassi, le sue purghe, nonostante la «triaca», a base di oppio e veleno di vipera che veniva da Venezia e gli era costata due settimane di preparazione. Mentre la donna inveiva contro di lui e lo colpiva con le mani quasi scheletriche, facendogli cadere la maschera, dalle narici e dalla bocca iniziava a colarle il sangue scuro. Era morta due ore dopo, maledicendolo con il suo ultimo respiro. Senza sapere perché, il pensiero del medico tornò alla nave che camminando nel porto aveva visto andare alla deriva, carica di malati cui era stato vietato l’approdo. Cristofano sentiva che anche la sua città era così: una grande nave, colma di morti e di quei pochi che ancora non si rassegnavano all’ineluttabile, persa nel mare della disperazione.

    Per ritornare a casa aveva dovuto scacciare con il bastone un branco di cani selvatici che si stavano cibando della carne di un cadavere. I seppellitori, forzati strappati alle galere appositamente per rimuovere i morti e gettarli nelle fosse comuni, non erano ancora passati per quella via. O forse erano già passati e la Grande Mietitrice aveva continuato il suo mestiere alle loro spalle, indifferente. Si sentiva debole. Cristofano lo implicò al fatto di non aver messo in bocca nulla per tutta la giornata: in città il cibo scarseggiava perché le messi seccavano nei campi e gli animali morivano dentro le stalle o vagabondavano nei boschi, senza nessuno che se ne prendesse cura.

    Una goccia violacea gli cadde sulla mano stanca appoggiata alla specchiera. Il medico guardò la sua immagine riflessa e impallidì: rivoli di umore scuro colavano dal suo naso, mentre con un improvviso colpo di tosse spruzzò di sangue lo specchio metallico.

    Era la peste.

    Ancona, qualche mese prima

    Omicidio sul fiume.

    Vittima trovata impiccata a un ponte, ma i medici escludono il suicidio.

    Secondo gli inquirenti è avvenuta per omicidio la morte di Antonio Martone, muratore alcolista di 45 anni il cui cadavere è stato rinvenuto impiccato a un ponte sul fiume Esino, in provincia di Ancona. La posizione del cadavere aveva inizialmente fatto pensare a un suicidio, ma il medico giunto sul posto ha subito negato quell’ipotesi, facendo scattare le indagini. L’uomo lavorava saltuariamente presso la ditta di costruzioni F.lli Terenzi ed era già noto alle forze dell’ordine per precedenti di alcol e furti. Rimane tuttavia ancora incerto il movente e gli inquirenti non tralasciano nessuna ipotesi.

    1

    Padova, oggi

    La dottoressa Rebecca De Cardinale guardò soddisfatta il monitor del proprio computer al centro della scrivania del suo studio, al secondo piano dell’Istituto zooprofilattico delle Venezie, a Legnaro, in provincia di Padova. Sorseggiando un tè caldo, si accertò che le correzioni che aveva richiesto sul suo profilo personale fossero state rispettate. Da quando un ministro aveva obbligato a pubblicare online i curriculum di tutti i dipendenti pubblici e i loro stipendi, aveva dovuto perdere molto tempo lavorativo per compilare noiosissimi questionari che poi la segreteria aveva rilasciato sulla rete: sbagliati. Lei era nata a Padova e ne era orgogliosa; sul suo profilo, invece, dopo una settimana si leggeva che la sua città natale era Cittadella. Carina, ma non la sua Padova. Non appena l’aveva letto, aveva telefonato furiosa in segreteria, seppellendo l’anziana responsabile di male parole e domandando l’immediata modifica. «Immediata» non era esattamente il termine più adatto per descrivere la velocità con cui il dato incriminato era stato cambiato, ma ai primi di marzo, dopo un solo mese, il suo profilo risultava finalmente corretto. Tuttavia, anche se ormai erano passati tre mesi dalla precisazione, periodicamente tornava a controllare sul sito, per accertarsi che il suo profilo fosse in ordine. Profilo di cui, peraltro, non le importava molto, così com’era sicura che nessuno sarebbe andato a leggerlo.

    Terminata la sua pausa, indossò il camice, sistemandosi i lunghi riccioli ramati e si diresse verso il laboratorio. Maneggiando la capsula di Petri sotto la cappa di aspirazione e indossando i guanti per proteggersi dal contatto, non poteva fare a meno di considerare l’esagerazione di quell’allarme: si erano verificati, in Germania e in Francia, alcuni casi di contaminazione da Escherichia coli, un batterio residente nell’intestino che in passato solo di rado era stato associato a qualche forma di malattia: nella maggior parte dei casi banali cistiti. I casi tedeschi e francesi di quell’estate, invece, erano stati provocati da un ceppo di tale batterio fino a quel momento sconosciuto, capace di causare la morte dei globuli rossi e l’insufficienza renale e, in qualche decina di casi, si era rivelato fatale. Il batterio si era dimostrato resistente alla maggior parte degli antibiotici noti. A lei era stato dunque affidato il compito, importantissimo, di scoprire a quale associazione di antibiotici fosse sensibile il superbatterio inviato dai laboratori tedeschi. Da qualunque parte giungesse una soluzione alla modesta epidemia, che aveva già causato ingenti danni all’industria agroalimentare europea, era la benvenuta e il direttore aveva incaricato lei di trovarla: la più brillante fra tutti i microbiologi al suo servizio.

    Rebecca allestì il campione nella capsula, la richiuse sterilmente e la ripose seguendo scrupolosamente il protocollo nell’armadio a temperatura controllata che era stato dedicato proprio all’indagine di quel tipo di reperto. Richiuse la pesante porta in vetro temprato dell’armadio trattenendo il fiato e si liberò rapidamente del doppio paio di guanti sterili che aveva impiegato, gettandoli in un apposito contenitore a chiusura ermetica. Se la preoccupazione per il batterio aveva contagiato anche lei, che era un’addetta ai lavori, non si stupiva che la fobia della contaminazione stesse facendo presa sulla popolazione: già sui giornali si dedicavano pagine e pagine alle stime dei danni economici causati dalla tossinfezione e dalla paranoia che essa stava causando in tutto il vecchio continente. A volte la globalizzazione e l’immediata disponibilità di notizie potevano essere deleteri, rifletté. La dottoressa lasciò il laboratorio e fece ritorno alla sua postazione informatica, con l’intento di riprendere la raccolta dati iniziata quella mattina, quando l’interfono sulla scrivania la fece sobbalzare. Rebecca rispose automaticamente: «De Cardinale?».

    «Rebecca, il professore ti vuole subito nel suo studio» disse la voce della segretaria. La dottoressa riagganciò, incuriosita. Il tono della donna era ben diverso dalla solita apatia; avrebbe potuto definirlo quasi… eccitato. Si alzò dalla scrivania e percorse il lungo corridoio che la separava dallo studio del professor Benatti.

    Il professore era un attempato docente dell’Università di Padova, forse uno dei più anziani. Pur avendo dovuto rinunciare alla titolarità dell’Istituto di microbiologia a causa dell’età avanzata, era riuscito ad assumere la direzione di quello zooprofilattico. Il suo era un ampio studio con una sedia in pelle vera e una scrivania in radica preceduto da una piccola anticamera la cui padrona incontrastata era la signorina Carli. Quando Rebecca le passò davanti, lei si stava meticolosamente colorando le labbra di un rosso scarlatto ormai fuori moda. Altra stranezza, pensò fra sé la dottoressa. Quando aprì la porta comprese il motivo di tanta eccitazione. Il professor Benatti la accolse con un sorriso, indicando le altre due persone presenti nel suo studio: «Rebecca, ti presento il professor Spinelli e il dottor Vinci».

    Il professore era un uomo sulla cinquantina, dai capelli folti e grigi, come Richard Gere in Shall We Dance?. Rebecca fu quasi subito affascinata dal suo portamento signorile e allo stesso tempo rilassato, senza alcuna traccia di affettazione. Il vero motivo del rossetto della signorina Carli, però, era il suo assistente, il dottor Vinci: trentacinque anni circa, un metro e novanta, capelli scuri tagliati corti, mascella perfettamente scolpita. Non quanto il suo torace però, a stento celato dalla larga camicia scura, quasi informe. Ora le sorrideva cordialmente, ma alla dottoressa non era sfuggito lo sguardo con cui l’aveva squadrata, al suo ingresso nella stanza. In una frazione di secondo i suoi occhi scuri l’avevano soppesata e denudata; una sensazione glaciale che l’aveva quasi inchiodata sulla porta.

    Sulla scrivania era posata una lussuosa cartella di pelle, il cui contenuto, a giudicare dagli sguardi di tutti i presenti, doveva essere delicato o prezioso o entrambe le cose. Il professor Benatti stava maneggiando una pagina ingiallita, sollevando appena i bordi della cornice di vetro in cui era protetta, mentre lo sguardo apprensivo dell’altro docente seguiva attento i suoi movimenti.

    «Il professore e il suo assistente sono della facoltà di Lettere e Filosofia» spiegò il microbiologo, aggiustando la vista per sforzarsi di leggere le parole manoscritte sul foglio. «Vogliono sapere da noi se un altro professore di questa università ha avuto un’intuizione che potrebbe letteralmente cambiare la nostra conoscenza della storia o ha solamente anticipato i deliri di innumerevoli scrittori di fantascienza.» Fu a quel punto che intervenne Spinelli: la sua voce era sicura e calda, piacevolmente intonata al suo aspetto.

    «Sono certo che ne avrà sentito parlare: fu un famoso docente di matematica…» Attese che sul viso della dottoressa si dipingesse l’espressione incuriosita che attendeva. «Parlo di Galileo Galilei.»

    Il professore di Lettere si alzò in piedi: era più alto di lei di quasi tutta la testa, poco meno del suo sinistro assistente e indossava una giacca elegante, tagliata su misura. Delicatamente prese il documento dalle mani di Benatti e lo sottopose all’attenzione della dottoressa. Ciò che Rebecca vide fu un foglio ingiallito diligentemente sigillato in una cornice di legno e vetro trasparente, che ne rendeva leggibili sia il fronte che il retro.

    «Questo documento che è giunto in mio possesso da poco» spiegò il cattedratico senza staccare gli occhi di dosso all’interlocutrice «è una lettera autografa di Galileo.»

    «Affascinante» rispose lei, sincera e incuriosita, rimanendo in attesa del seguito e strabuzzando gli occhi per cercare di comprendere, fra quelle parole vergate centinaia di anni prima con inchiostro sbiadito e grafia incomprensibile, l’importanza della missiva. Il professor Spinelli sorrise, imitato dal suo assistente, poi si decise a muoversi in aiuto degli altri due presenti.

    «Per venire incontro ai vostri occhi profani» li derise affabilmente «ho preparato una stesura della lettera in Arial» concluse facendo cenno al suo assistente che, con pochi gesti delle dita sulla tastiera del proprio portatile, provvide a inviarlo all’indirizzo di posta elettronica del professor Benatti. Evidentemente si erano accordati per questa scenetta prima di partire, pensò Rebecca osservando il movimento elegante con cui Spinelli era passato dall’altra parte della scrivania per aiutare il suo anziano collega nell’apertura del documento elettronico e nel comandare la stampa. Fu il padrone di casa a estrarre il primo foglio dalla stampante, mentre Rebecca dovette gerarchicamente attendere la seconda copia.

    «Sei certo della sua autenticità?» domandò serio il direttore dell’istituto. Il professor Benatti era stato un ricercatore acuto, i cui riflessi si erano un po’ appannati con l’età, ma ora la sua attenzione si era focalizzata sul documento e gli anni parevano non essere mai trascorsi.

    «Te la posso garantire» confermò Spinelli, impaziente.

    Rebecca, smarrita nella remota sintassi, non aveva ancora terminato la lettura, ma si interruppe per seguire il dialogo fra i due docenti. Nel sollevare lo sguardo incrociò quello dell’assistente di Spinelli e, in quel preciso istante, seppe cosa prova una preda quando i suoi occhi incrociano quelli del predatore, un attimo prima che l’attacco fatale la colga inesorabile. Rimase come paralizzata, incapace di pensare, ma i lineamenti dell’uomo si distesero immediatamente, assumendo un’espressione serena e rilassata; l’esatto contrario di quella di prima.

    «Quindi stai dicendo che Galileo Galilei era convinto che la peste fosse stata provocata da… una stella cadente?» domandò Benatti.

    «Un meteorite» intervenne il dottor Vinci, prendendo la parola per la prima volta. La sua voce era chiara e sicura, il tono secco e preciso. Quasi militare, pensò Rebecca. Spinelli continuò: «Nella lettera Galileo parla di un libro: Stella Novissima». I due microbiologi annuirono, cercando con gli occhi le parole appena citate nel testo che ancora stringevano fra le dita, come se il fatto di scovarle rendesse più chiaro il punto del loro interlocutore; lui, comprendendo il loro sconcerto, proseguì: «È un libro mitologico al pari del Cardenio di William Shakespeare o alla maggior parte delle tragedie di Eschilo…» gli occhi di Spinelli brillavano di eccitazione.

    Il letterato sospirò, guardando verso il suo assistente, che ricambiò lo sguardo di commiserazione e intervenne in suo aiuto: «Sono tutti libri il cui titolo è stato tramandato dalla storia, ma per noi perduti; ne sopravvivono alcune citazioni, quando siamo fortunati alcuni brani riportati da altri autori. Il sacro Graal della letteratura. Stella Novissima fa parte dei più ricercati…».

    «Si reputa che Galileo ne sia l’autore» intervenne Spinelli, riprendendo il controllo della situazione. «Anche se ovviamente non poteva stamparlo in Italia.»

    «Come mai?» domandò Rebecca.

    «Altrimenti sarebbe stato bruciato sul rogo!» la fulminò Spinelli con uno sguardo malevolo. Rebecca rimase in silenzio, intimidita: non era certo colpa sua il trattamento subito dallo scienziato quattrocento anni prima.

    Il dottor Vinci riprese la parola, come a stemperare l’aspro commento: «Galileo era già stato processato e condannato dall’Inquisizione per i suoi scritti astronomici e aveva evitato la pena di morte solamente abiurando le proprie tesi. Ovviamente gli era stato proibito di scrivere, insegnare, persino di pensare al di là della diffusa teoria geocentrica».

    «Già» ricordò il professor Benatti. «Ma Galileo sostenne, a ragione, la teoria eliocentrica di Copernico, che collocava il Sole quasi al suo giusto posto, al centro del nostro sistema. Si dice che, costretto ad abiurare, abbia mormorato la famosa frase Eppur si muove, riferendosi alla Terra.»

    «Questo fa parte appunto della leggenda» lo corresse Spinelli. «Galileo non ha mai pronunciato quelle parole. Costretto dal tribunale dell’Inquisizione, trascorse breve tempo a Roma, confinato nella residenza dell’ambasciatore della signoria di Firenze, fino a che gli fu concesso di fare ritorno alla sua città, sempre agli arresti domiciliari, condizione in cui trascorse gli ultimi anni della sua esistenza. Stella Novissima sarebbe la dimostrazione che non solo lo scienziato non osservò il divieto dell’Inquisizione, ma che fece delle scoperte ulteriori e cercò di renderle pubbliche.»

    «Bene» concluse Benatti, stanco della digressione ed evidentemente risentito per il fatto di essere trattato dal suo collega come uno studente che si fosse presentato impreparato a un esame. «In cosa due microbiologi possono aiutare la facoltà di Lettere? Di certo non a stabilire la paternità del libro scomparso, né tantomeno a ritrovarlo…»

    L’espressione di Spinelli si raddolcì: «Temo che questo sia al di là persino delle nostre possibilità» ammise «ma ho intenzione di pubblicare il più completo lavoro scientifico su questo argomento e ti posso assicurare che solleverà molto rumore; e il tuo apporto sarà fondamentale» lo blandì. «Ti chiedo di valutare la consistenza scientifica della teoria di Galilei…»

    «Cioè se una malattia infettiva può essere trasportata da un meteorite?» ribadì incredulo Benatti. «Inverosimile!» fu il suo giudizio immediato.

    «Veramente esistono studi che sostengono di aver dimostrato la presenza di alcuni archeobatteri su meteoriti» lo contraddisse la dottoressa De Cardinale.

    Benatti sbuffò nuovamente e poi sorrise, soddisfatto nel vedere sul viso dei due letterati la sua stessa espressione perplessa di poco prima, quando si discuteva di letteratura: «Gli archeobatteri sono forme di vita estremamente primitive e antiche: risalgono a più di 3,5 miliardi di anni fa» spiegò loro. Poi, rivolgendosi verso la sua assistente: «La loro presenza su corpi meteorici è quantomeno controversa: secondo i più potrebbero essere semplicemente batteri terrestri che hanno contaminato i meteoriti dopo il loro ingresso nell’atmosfera…». Quindi tacque, rendendosi conto di aver appena escogitato la maniera di accontentare senza sforzo da parte sua la richiesta dell’illustre collega: «Caro Spinelli, credo che tu abbia trovato una collaboratrice per la tua ricerca» concluse malizioso, senza darle il tempo di replicare.

    Rientrata nel proprio ufficio, Rebecca gettò malamente sul tavolo gli appunti appena ricevuti sul libro di Galileo. Un ennesimo articolo scientifico da preparare: proprio quello che le ci voleva, con tutte le ferie arretrate che le spettavano! Per di più, sapeva di stare ancora lavorando per altri, uno dei motivi per cui aveva lasciato il dipartimento universitario di microbiologia. Rebecca sapeva per esperienza che anche in questo caso, nonostante il grosso del lavoro fosse capitato sulle sue spalle, il credito sarebbe giunto ai due professori; se fosse stata fortunata il suo nome sarebbe stato citato per terzo, quindi oltre il punto in cui, secondo le nuove norme, avrebbe potuto citare il lavoro nel suo curriculum. Sempre che il sinistro dottor Vinci non la superasse; cosa molto probabile, dal momento che l’argomento era più letterario che scientifico.

    Come materializzatosi dai suoi pensieri, Vinci si affacciò al suo studio. Rebecca si sollevò dalla sedia, immediatamente sulla difensiva. Dal momento che la porta era aperta, non poteva neanche rimproverarlo per non aver bussato. La microbiologa cercò immediatamente con lo sguardo Valentina, la tecnica chimica che stava lavorando nello studio affianco, al di là della parete a vetri che delimitava le rispettive postazioni. Nonostante sembrasse impegnata, Rebecca si accorse che non la perdeva d’occhio; più probabilmente, non perdeva d’occhio la schiena muscolosa del suo ospite non invitato. La dottoressa si rilassò un poco. Guardò l’uomo con aria interrogativa e cercò di non apparire troppo contrariata per la sua intrusione. Dopotutto, avrebbero dovuto collaborare per chissà quanto tempo, che le sarebbe parso comunque troppo.

    «Il professore vuole che tu abbia anche queste» disse lui in tono cordiale. I suoi occhi neri erano incorniciati da ciglia lunghe e folte sopracciglia: era sicura che l’espressione che ora le stava riservando avesse fatto breccia in molti cuori femminili, o quantomeno nei loro slip. Questa consapevolezza la indispettì.

    «Grazie» rispose laconica, sperando che lui non avesse notato il modo in cui aveva maltrattato il resto della documentazione affidatale; ma gli occhi dell’uomo si erano invece fissati proprio sui fogli sparsi sull’angolo opposto del tavolo.

    «Hai già il mio numero?» le domandò lui, estraendo un biglietto da visita dal taschino. «Potrebbe tornarci utile… Per il lavoro» si affrettò a precisare, indicando con un dito i fogli appena consegnati.

    «È un’idea» replicò lei, ma il suo tono voleva invece trasmettere: Se pensi che ti dia il mio numero puoi aspettare che Galileo ti dia il suo

    Ciò non parve turbare il dottorando, che tornò all’attacco: «Sembri molto presa dal tuo lavoro» affermò, in tono sincero.

    «Già» ammise lei soddisfatta, convinta che le fosse stata appena servita su un piatto d’argento l’opportunità di liberarsi della sua presenza.

    Invece lui la stupì: «Mi piacerebbe farti delle fotografie» sparò. Di fronte alla sua reazione, fra il sorpreso e lo scandalizzato, lui corresse il tiro: «Al lavoro, intendo. Mi è piaciuta molto la tua espressione intenta, mentre leggevi la lettera, poco fa».

    «Senta, dottor Vinci…» iniziò Rebecca, con i brividi che le percorrevano la schiena mentre ripensava al suo sguardo su di sé, poco prima.

    «Alessandro.»

    «Dottor Vinci» ribadì lei, come se non avesse sentito. «Credo che i nostri rapporti debbano mantenersi sul piano più professionale possibile…» disse lasciando cadere sulla scrivania il biglietto da visita che ancora stringeva fra le dita. Quindi si voltò verso il computer, paonazza di rabbia, sperando che lui avesse capito l’antifona e la liberasse della sua presenza. Osservò sullo schermo la schiena riflessa del dottorando mentre il suo desiderio veniva esaudito e, finalmente, tirò un sospiro di sollievo. Non appena lui se ne fu andato, Valentina piombò nel suo studio.

    «Dimmi che ti ha dato il suo numero» implorò la giovane chimica, mentre un’altra collega le raggiungeva.

    «No» mentì Rebecca, temendo che il loro interesse potesse procurarle un motivo ulteriore per avere nuovamente contatti con lui e gettando nel cestino il biglietto da visita che le aveva dato. «Voleva… fotografarmi» confessò poi, ancora turbata dalla sua proposta.

    «E tu hai accettato, vero?» domandò Rita, la nuova venuta.

    «Certo che no!» replicò lei, ancora più offesa. «Ma che razza di approccio è?» domandò ad alta voce.

    «Hai visto che spalle?»

    «Le spalle?» replicò Nicoletta affacciandosi alla porta. La riccioluta e magrissima inserviente era famosa in tutto il dipartimento per la sua frivolezza e la sua simpatia, entrambe debordanti. «Ma non hai sentito? È un fotografo! Dio, quanto vorrei vedere il suo teleobiettivo!» Una salva di risa accolse le parole dell’inserviente che, ringalluzzita, continuò: «Dimmi che la signorina Rottermeier ha registrato il suo indirizzo…» chiese alludendo all’arcigna signorina Carli.

    «Magari» la deluse Valentina. Poi il suo viso si illuminò. «Però credo che Rebecca potrebbe procurarcelo…»

    La dottoressa la fulminò con un’occhiata, ma Rita le diede manforte: «Certo! Ce l’hai ancora la password?».

    Rebecca si tornò a maledire per il giorno in cui si era lasciata scappare di essere ancora in possesso delle credenziali di accesso dell’area riservata ai dipendenti dell’università. Quando l’aveva lasciata di certo non avrebbe mai pensato che nessuno si sarebbe preso la briga di revocargliele, così tuttora disponeva di un accesso privilegiato a informazioni riservate sul mondo accademico. Le tre donne insistettero sino a che lei capitolò: digitò rapidamente sulla sua tastiera e trovò il nome che cercavano. Dietro le sue spalle, tre paia di occhi famelici la facevano sentire in colpa per quella invasione della privacy, anche se la vittima inconsapevole era quell’antipatico del dottor Vinci. Sulla pagina del sito la sua foto appariva quasi scialba, di certo non gli rendeva giustizia. Rebecca pensò che era strano: si sarebbe invece attesa da quell’evidente esibizionista che persino il suo profilo ufficiale dicesse «guardate come sono bello e muscoloso». Si perse nei suoi dettagli anagrafici.

    «È anche duro di comprendonio!» commentò dopo poco, sommersa dalle critiche delle altre donne. «Guardate qua: nonostante sembri mio coetaneo si è laureato ben dopo di me, e la facoltà di Lettere dura meno di quella di Medicina, anche senza contare gli anni di specializzazione. Non mi sorprende che stia ancora completando il dottorato…»

    «Magari ha fatto qualcos’altro, prima di iscriversi all’università» lo difese Rita.

    Rebecca fece per cercare la data della sua immatricolazione ma fu interrotta da Nicoletta, fremente: «Cerca l’indirizzo, ci penso io a dargli delle ripetizioni…».

    In quel momento fece capolino una sua collega, inserviente anche lei. Si affacciò allo studio e con fare complice la avvisò: «C’è Ceccottin nel corridoio!».

    Nicoletta, a quelle parole, riprese il suo carrello delle pulizie e rapidamente uscì dalla stanza fingendo di svuotare la paletta della scopa. Ceccottin era il suo supervisore e non la vedeva di buon occhio: se l’avesse nuovamente sorpresa a perdere tempo in orario di servizio le avrebbe certamente fatto passare un guaio. Una volta Rebecca l’aveva letteralmente nascosta sotto la sua scrivania: quel giorno il supervisore aveva un diavolo per capello e se l’avesse beccata ancora a chiacchierare con loro invece di lavorare, l’avrebbe sicuramente licenziata. Scampato il pericolo, Nicoletta le aveva promesso che si sarebbe sempre ricordata della sua gentilezza che le aveva salvato il lavoro.

    «L’indirizzo!» mormorò nella direzione di Rebecca, lasciando lo studio.

    La dottoressa, fremendo per quell’infantile perdita di tempo, cedette e lo trascrisse su un foglietto adesivo che infilò poi nella borsetta, ripromettendosi di consegnarglielo a fine turno.

    Quel mattino Rebecca stava esaminando una mail contenente incoraggianti risultati da un ospedale tedesco che confermava l’efficacia dell’associazione di antibiotici che lei aveva sperimentato, quando venne interrotta dallo squillo del telefono.

    «De Cardinale» rispose, mentre lo sguardo seguitava a leggere i dati.

    «Dottoressa» disse una voce calda e forte, che riconobbe immediatamente e requisì tutta la sua attenzione. «Sono il professor Spinelli. Ha qualche minuto a disposizione per me?»

    Il cuore iniziò a batterle forte, e non solo a causa del senso di colpa: era trascorsa una settimana esatta da quando le era stato assegnato l’incarico e ancora non aveva iniziato la ricerca bibliografica per l’articolo scientifico cui avrebbe dovuto collaborare. «Io… io ho appena cominciato il lavoro…» balbettò per giustificarsi.

    Ma l’uomo la interruppe: «Certo, non deve preoccuparsi; ma c’è qualcosa di cui dovrei parlarle, ancora più importante di quell’articolo scientifico, anche se, diciamo, è strettamente legato a esso».

    «Certo» acconsentì lei. «Vuole che avverta il professor Benatti?»

    «No!» esclamò lui, in tono quasi allarmato. «Posso contare sulla sua discrezione?»

    Si incontrarono in un bar fuori mano, indicatole dal professor Spinelli mezz’ora prima. L’uomo era già seduto e indossava una polo firmata, stirata con cura, la cui tinta azzurro scuro si intonava perfettamente alla carnagione abbronzata dell’uomo e ai suoi occhi celesti. Un abbinamento che era senz’altro il frutto di una scelta accurata. Si alzò in piedi, in un gesto galante, quando lei si avvicinò.

    «Buongiorno, professore…» esordì la donna, stupendosi per aver adoperato lo stesso tono deferente di quando era una studentessa.

    «Dottoressa… Posso ordinarle qualcosa?» domandò, stringendo fra le dita il bicchiere pieno a metà di acqua tonica. Rebecca fissò le dita sottili e curate che lo stavano stringendo.

    «No, grazie, sono a posto» declinò, prendendo posto al suo tavolino appartato. Spinelli si guardò intorno con circospezione, come se i pensionati che trascorrevano già le prime ore del mattino ordinando le «ombre», i tradizionali piccoli calici di vino, fossero interessati a quello che un professore di Lettere doveva confidare a una microbiologa.

    «Non mi basta pubblicare un nuovo articolo su Stella Novissima» disse con aria complice e gli occhi azzurri ardenti. «Io voglio trovarlo!» Rebecca sentì un brivido correrle lungo la spina dorsale. Non sapeva se fosse a causa di quello sguardo o per ciò che pareva sottintendere.

    «Ma… il dottor Vinci?»

    Spinelli rise sardonicamente, appoggiandosi allo schienale della sedia. «Vinci? Come il buon Benatti è troppo cauto: non crede nell’esistenza del manoscritto, non crede nel suo autore. Io sono però convinto che Galilei ci abbia lasciato delle tracce per trovare il suo libro. E la prima…» l’uomo avvicinò furtivamente la sua cartella di pelle al tavolo e ne tirò fuori un foglio di carta manoscritto, del tutto simile a quello incorniciato che aveva esibito loro qualche giorno prima, nello studio del professor Benatti. Con delicatezza, lo porse a Rebecca.

    Due ore dopo, sul tavolo della segretaria dell’Istituto zooprofilattico comparve la richiesta di ferie arretrate della dottoressa De Cardinale.

    2

    L’Appennino tosco-emiliano si estendeva intorno a loro,

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