Negli occhi delle donne: Vita sentimentale di Cartesio
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… Serve o locandiere, regine o ammaliatrici “professioniste”: ogni donna porta con sé un segreto che è all’origine del suo fascino peculiare, ma le cui implicazioni vanno ben al di là dell’attrazione fisica.
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Cartesio non solo lo sapeva, ma di questo segreto aveva anche scoperto la sede: per l’appunto, gli occhi. Occhi di velluto, occhi di ladra, occhi di gatta, occhi di nostalgia.
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Sono molti gli occhi femminili su cui si concentra l’attenzione di Cartesio, e ogni paio d’occhi sembra scandire una stagione della sua vita.
In questo romanzo storico-biografico ripercorriamo in parallelo le sue “avventure filosofiche” e quelle amorose, le dotte discussioni con Keplero e i pericolosi convegni notturni con la belle Odille, la rivelazione davanti allo specchio del Cogito ergo sum e il rapporto speciale tra l’anziano Descartes e la giovane “regina filosofa” Cristina di Svezia.
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Ne emerge un quadro assolutamente coerente del fondatore del pensiero moderno; un uomo la cui brama di conoscenza, che si declina nei modi più diversi, è sempre e comunque amore per la vita in ogni sua forma.
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Spesso si tende a identificare Cartesio con il matematico e filosofo freddo e algido, una figura da relegare al mondo libresco della pura speculazione; ma se così non fosse? Se Cartesio, l’uomo della res cogitans e res extensa, ossia della suddivisione netta tra corpo e anima, avesse percepito nello sguardo femminile la sintesi perfetta di corpo e anima? Dell’Amore con la “A” maiuscola?
Questo romanzo ti racconterà esattamente questo Cartesio, un Cartesio sì filosofo, ma anche grande amatore.
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Anteprima del libro
Negli occhi delle donne - Fausto Bertolini
innamorare
NIENTE SALASSI
Il malato aprì un occhio.
Scorse la metà della stanza. Gli venne spontaneo pensare, effetto della visione ortogonale. Oltre a essere un grande filosofo e un valente matematico, nel corso dei suoi quasi cinquantaquattro anni di vita – a tanto ammontava la sua età in quel giorno di febbraio – si era anche interessato di ottica e di scienze naturali.
Neanche lui seppe quanta precisione scientifica avesse quella sua considerazione. Del resto, in quel momento, non gliene importava molto. Gli interessava solo che l’uomo che gli stava di fronte non gli praticasse qualche maledetto salasso. Odiava i salassi. Due anni prima, Marin Mersenne, il suo migliore amico, era crepato in seguito a un disgraziato salasso. Gli aveva procurato un’infezione e Marin se n’era andato al Creatore come un qualsiasi mortale del cavolo. Lui, che aveva una testa fina e una mente ecumenica.
Al ricordo dell’amico morto, il malato sbuffò. Liberò una lieve flatulenza che poteva sembrare una specie di imprecazione, invece era solo il rumorino di un diverticolo intestinale. Poi aprì anche l’altro occhio. Allora mise a fuoco la stanza per intero.
Vide l’uomo che gli stava di fronte. Si trattava di quel salassatore di Wuelles, il secondo medico della regina Cristina di Svezia. Il malato non lo stimava molto. Anzi, lo considerava un praticone. Il medico, dal canto suo, ricambiava cordialmente la disistima del malato con una manifesta antipatia per il suo pensiero filosofico. Per la sua confessione religiosa: la cattolica, apostolica, romana. Per la sua faccia dalle fattezze disarmoniche. Con quel naso pronunciato, le labbra sottili, le ciglia lunghe e folte, i bulbi oculari sporgenti. Era difficile pensare che quei tratti somatici da burattino potessero corrispondere all’animo di un genio del pensiero umano e della più sofisticata ricerca matematica. Roba d’alta quota. Infatti il medico non lo pensava neanche di sfuggita. Quello che pensava era come togliersi dai piedi un malato che la regina gli aveva comandato di guarire in assenza del più illustre collega, Du Ryer, il protomedico di corte.
Wuelles si chinò appena verso il volto del malato senza nascondere un moto di deontologica insofferenza: «Allora, posso praticare?».
«Niente salassi» bisbigliò il malato. «Il salasso abbrevia la vita.»
Recuperò il respiro che si accorciava minuto dopo minuto e aggiunse: «Signore, risparmiate il sangue francese».
Il medico abbozzò una smorfia e si allontanò.
Il malato fece un sogghigno. Richiuse gli occhi e iniziò a vederli.
IL PALO DELL’ASCISSA
Un’orchestrina rusticana suonava una giga festaiola. Note scavezzacollo, burlone, febbrili. Da qualche parte della stanza. Da qualche parte imprecisata della stanza fermentava un’aria di sagra paesana.
Il malato si scosse dal torpore. Spalancò le palpebre.
«Dove sono?» mormorò con un filo di voce.
«Nella piazza di La Haye» gli rispose qualcuno.
Il malato girò appena gli occhi per vedere chi fosse. Ma non scorse nessuno nei paraggi del letto. L’unica cosa che riusciva a vedere era quella pertica. Davanti a lui. S’inerpicava dritta verso l’alto. Fino al cielo. Lo bucava.
«Cos’è?» biascicò di nuovo il malato, mentre indicava la pertica con un dito tremolante. La febbre, si capisce.
«Il palo della cuccagna» gli rispose sempre quel qualcuno che lui non riusciva a vedere.
Il malato accennò un sorriso. Quel palo aveva qualcosa di famigliare. Come fosse un vecchio compagno di giochi scomparso nei labirinti dell’esistenza umana. Ma non era tempo di ricordi. Era il momento di arrampicarsi sulla pertica conficcata nel centro della piazza. Una forza ignota lo spingeva a salire. Una specie di strano impulso. Più tenace e prepotente della febbre che lo sfiancava.
Il malato si sputò sulle mani. L’aveva visto fare da bambino dai giovanottoni che si predisponevano a salire sul palo per arraffare la fiasca o il prosciutto appesi alla ruota sulla sommità.
Grondava sudore. Un liquame salino e appiccicaticcio sulla fronte. Fino dentro agli occhi. Il malato li stringeva per evitare quel fastidioso bruciore. Non poteva staccare le mani dal palo. Si inerpicava lungo il suo tracciato.
Si chiamava ascissa . Era il nome che gli aveva dato proprio lui. Là in alto, dove l’ascissa terminava nella ruota della conquista, non penzolavano prosciutti o cosciotti di vitello e neanche fiaschi di vino del Poitou. C’era appesa la radice quadrata di due. Oscillava nel vento. Il Pi greco. Brillava nel sole. I numeri primi. Sfuggenti e scanzonati. Sembravano farfalle dal volo sghembo. Variopinte. Irraggiungibili. Il malato sbirciava tra le gocce di sudore che gli annebbiavano la vista. Doveva arrivare almeno a toccare qualcuno di quegli elementi matematici che per tutta la vita lo avevano sedotto.
Come le donne.
Gli occhi delle donne più di ogni altra parte del corpo. Gli occhi avevano fatto pulsare di passione il suo cuore. E non solo il cuore.
A un certo punto l’ascissa si piegò come uno stelo d’erba smidollato. Il malato precipitò sull’ordinata sottostante. Allora si svegliò di soprassalto.
Aveva avuto un incubo. Uno squinternato incubo da delirio cartesiano. Nemesi del suo celebre cognome.
L’ASSIOMA
«Sto per caso tirando gli ultimi?» chiese il malato alla propria coscienza che resisteva al parossismo della febbre, nonostante il suo corpo fosse percorso da un brivido discontinuo.
Il malato si chiamava René Descartes e ci teneva alla coscienza. Eccome se ci teneva. Sulla coscienza di se stesso aveva fondato tutta l’argomentazione del proprio pensiero per preservare l’esistenza umana dal dubbio e dall’illusione nel precario e fragile dramma recitato dagli uomini sulla scena del gran teatro del mondo terreno. Così da affrancare la vita dal timore e dallo sconcerto di disperdersi nella minaccia del nulla. Meglio, del nonsenso. Nulla e nonsenso. Sempre in agguato come faine pronte a penetrare nel pollaio della vita per dissanguare le galline della fattoria. Aveva concentrato tutta la sua filosofia nella sintesi geniale di un assioma che doveva diventare il principio fondante del pensiero a venire. Cogito, ergo sum . Penso, dunque sono.
A dire la verità, ciò che garantisce un senso alla vita degli uomini e alla realtà delle cose, pur nel loro stato di esistenziale precarietà, non è tanto il fatto che la coscienza umana si pensi capace di non dubitare di se stessa, quanto il fatto che esiste, oltre a essa e alla sua operazione di autocritica e di autodefinizione, un Essere trascendente senza il quale la coscienza razionale dell’uomo sarebbe la fiammella di una candela destinata a spegnersi al primo soffio di vento. Come succede. Oppure la scintilla di un fiammifero capace di attizzare incendi devastanti nel pagliaio della storia. Come è successo. René come poteva non saperlo? Un pensatore come lui.
Era consapevole di tutte le implicazioni e le conseguenze che il suo assioma avrebbe potuto comportare nel prosieguo dell’itinerario speculativo e scientifico degli uomini?
Comunque fosse, quell’assioma era troppo elegante, troppo ben formulato per non scriverlo. La sua capacità di sintesi era assolutamente sorprendente. La vanità del genio, si capisce. Per rispetto all’autorità della Chiesa di Roma, nella cui dottrina era stato cresciuto e nutrito, come tutti prima e dopo di lui, del resto, aveva già dovuto rinunciare a dare alle stampe il suo saggio sulla composizione del cosmo che prospettava la struttura eliocentrica dell’universo. Il grande Galileo era stato costretto ad abiurarla di fronte ai cardinali del Sant’Uffizio romano. Che i pensatori futuri ci riflettessero pure sopra come volevano, sul suo assioma. Per trarne le conseguenze che ritenevano più adatte ai loro progetti ideologici e al loro modo di concepire il mondo.
Nel frattempo quello su cui René rifletteva era come scaldarsi i piedi. Li sentiva gelati. Dislocati.
IL COGITO E LA MORTE
A ciascuno il proprio destino filosofico, pensava René, mentre tentava di strofinarsi i piedi. Intanto rifletteva anche sul fatto che aver evitato un salasso non gli avrebbe evitato la morte. Già, la morte. Il problema dei problemi. Non la si può fuggire.
E adesso, si interrogò René con un sospiro, chi mi garantisce una qualche realtà dopo che sarò spirato? Una qualche consistenza individuale dopo che la morte mi avrà segato il respiro? Non mi va proprio di disperdermi nel vuoto del nulla. Nella polvere. Va bene la memoria dei posteri. La fama imperitura che mi daranno le mie opere. Ma io, proprio io, con questa faccia e questo carattere, dove andrò a finire? Dentro quattro assi in pasto ai vermi che mi ridurranno una sagoma di ossa scheletrite? Chi potrà garantirmi la persistenza della mia anima? Forse il mio Cogito ? Proviamoci.
Allora fece appello al Cogito che aveva escogitato. Lo esaminò. Lo studiò con impazienza febbrile. Gli restava poco da vivere e da pensare. Concluse che il Cogito non funzionava sulle coordinate ultraterrene.
Il Cogito , sospirò René, in questo caso può funzionare soltanto se lo si mette in connessione con qualcuno che è risorto dalla morte. De facto . Uno che ha saputo trasformare la morte in un passaggio per una vita immarcescibile. Sapeva solamente di uno che aveva realizzato quel tipo di fenomeno. Anche se non l’aveva conosciuto di persona. Gesù di Nazareth. Alternative razionalmente possibili e praticabili? In tutta onestà intellettuale, si disse, o l’assurdità del nulla o il Cristo. L’unica cosa che mi resta da fare, stabilì René, è affidarmi alla sua divina umanità. Al suo sconcertante e sublime mistero. Alla sua azione salvifica. D’accordo, farfugliò, ma, per carità, niente salassi…
Wuelles alla fine era riuscito a praticargliene uno contro la sua volontà. Poi gli aveva fatto ingurgitare un beverone scuro e amaro. Gli era rimasto in bocca un sapore acido di orina. René si alzò a fatica dal letto con l’aiuto di Schluter, il valletto. Voleva sdraiarsi accanto al fuoco del camino. Il tepore delle fiamme lo rincuorava un poco. Si sentiva spossato.
«Ah, mio caro Schluter,» bisbigliò a occhi socchiusi «è arrivato il momento di andarmene.»
Poi aggiunse: «Quando è successo che ho incominciato a sentire l’odore della morte?».
Era accaduto tanti anni prima, al tempo di Hélena. La donna dagli occhi a mandorla. Da odalisca. René si sforzò di ricordare. Prima di morire voleva rivedere gli occhi delle donne che aveva amato. Almeno con la memoria.
SOLO FRAMMENTI
«Il cervello umano assomiglia quasi al gheriglio di una noce. Le fessure, i cunicoli… non ci hai mai fatto caso?» René si era rivolto al valletto.
Schluter si strinse nelle spalle. Non ci aveva mai fatto caso. Lui era solo il cameriere di un genio che faceva caso a tutto. Jean Gillot, il valletto di René al tempo di Hélena, quando al suo padrone erano piombate addosso tutte quelle disgrazie, era diverso. Era un ugonotto, ma a René questo non importava. Quello che gli importava era che avesse il pallino per la scienza dei numeri. Jean, sotto la guida attenta di Cartesio, era diventato un ottimo matematico, tanto da essere promosso, in seguito, al rango di matematico ufficiale del re del Portogallo. Cartesio lo considerava il solo discepolo che avesse mai avuto.
«La memoria è un profondo mistero» seguitò René. «Un tempo ho frequentato le botteghe dei macellai di Leida. Mi era venuto l’estro di sezionare i cadaveri degli animali. Polli, vacche, oche, vitelli… Volevo studiare la loro anatomia, scoprire il segreto dei meccanismi fisiologici. Leonardo Da Vinci lo faceva coi cadaveri umani. Io mi accontentavo di carcasse di animali. Ebbene, ho notato che il cervello animale, regno al quale apparteniamo per il versante esclusivamente fisiologico, assomiglia a un gheriglio di noce. Il meccanismo della memoria dovrebbe essere situato, più o meno, nell’ipotalamo. Ma come funzioni e perché funzioni non saprei dirlo. Forse lo si saprà in futuro, anche se dubito che la scienza sia capace di svelare appieno