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L'arte giapponese di vivere felice
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E-book239 pagine3 ore

L'arte giapponese di vivere felice

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Info su questo ebook

Una guida pratica all’ukeireru, il principio giapponese dell’accettazione, per eliminare lo stress

Èpossibile trovare maggiore pace e soddisfazione nella vita? Il concetto giapponese di ukeireru, o accettazione, è la chiave per capire come ridurre l’ansia e lo stress e aumentare il benessere. Imparando e praticando l’ukeireru si possono migliorare le relazioni, con una maggiore predisposizione all’ascolto e alla ricerca di punti in comune con l’altro. Si può trovare la calma nel ritualizzare piccoli gesti, come fare il caffè, bere il tè o assaporare un cocktail, e riscoprire l’importanza di bagni rilassanti e sonnellini ristoratori. Si può praticare il rispetto per sé stessi e per gli altri, con un effetto calmante su chi ci circonda, per riuscire ad ascoltare più di quanto si parli. Si può riordinare la vita riducendo al minimo le esperienze e le relazioni che provocano più stress che sollievo. Ancora, si possono coltivare modi pratici per affrontare la rabbia, la paura e le discussioni. Praticando l’accettazione, insomma, è possibile fare una pausa dallo stress e dalle situazioni che ci mettono a disagio, così da prendere in mano la nostra vita.

Il primo passo per il cambiamento è l’accettazione della realtà. La chiave per la felicità è tutta qui.

«Un’affascinante e suggestiva riflessione sul concetto di felicità, attraverso lo studio degli elementi base che caratterizzano i concetti di “accettazione” ed “empatia” in Giappone.»
Merry White, docente di antropologia presso la Boston University

«Scott Haas ha scritto un libro prezioso, utilissimo per integrare l’approccio occidentale alle pratiche giapponesi per la riduzione dello stress.»
Robert B. Saper, direttore del Dipartimento di medicina integrata a Boston
Scott Haas
è uno scrittore e psicologo clinico. Vincitore del premio James Beard per le sue trasmissioni in onda su emittenti televisive americane, ha conseguito un dottorato di ricerca presso l’Università di Detroit e ha svolto il suo tirocinio di dottorato presso il Massachusetts Mental Health Center, un ospedale universitario della Harvard Medical School. Visita spesso il Giappone per motivi di lavoro. Vive a Cambridge.
LinguaItaliano
Data di uscita29 set 2020
ISBN9788822746139
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    L'arte giapponese di vivere felice - Scott Haas

    CAPITOLO UNO

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    Il mondo

    Aspetta, come hai detto? Il Giappone? E cosa dovrebbe insegnarci il Giappone sulla felicità?

    Tantissimo, anche se ci ho messo anni a capirlo, e ho ancora qualche perplessità nel definire la risposta. Alcune questioni fondamentali mi hanno allontanato dal modo in cui sono stato educato a pensare alla felicità.

    In Giappone la felicità non è un’esperienza privata. E il vero scopo non è la felicità. Lo scopo è l’accettazione.

    *

    Ciò che il Giappone sa fare molto bene, e che possiamo imparare dalla sua cultura, è come allontanare il dolore insito nell’essere soli al mondo. Accettare la realtà, passata e presente, e apprezzare tutto ciò che non dura sono concetti fondamentali per la vita giapponese. Trascorrere del tempo in Giappone, studiarne la cultura e sforzarmi di capire come le persone affrontano la pianificazione e l’organizzazione, come vedono l’amore, sé stessi e la natura, hanno cambiato il modo in cui considero e vivo lo stress.

    Non tutti riescono a far parte dei tantissimi gruppi esistenti nel Paese, e l’isolamento è un problema noto, come lo è in Occidente per gli anziani, le persone relegate ai margini e chi è affetto da disturbi mentali cronici.

    Ci sono, però, enormi differenze. In Giappone le opportunità di inclusione sono innumerevoli, dai bagni pubblici ai parchi che racchiudono grandi templi e luoghi sacri aperti a tutti. Ci sono inoltre molte mescolanze (a partire dall’era Taisho, 1912-26, ma non prima), in parte grazie all’occidentalizzazione che ha abbattuto barriere ed egemonie. Il gruppo ha un ruolo importante nella vita delle persone sin dalla più tenera età, con i bambini vestiti in uniforme e dotati della stessa identica scatola per il pranzo. Le aspettative sono talmente note e diffuse che non serve nemmeno parlarne: in Giappone si sa benissimo come ci si deve comportare a casa, a scuola, nei negozi, nei ristoranti e al lavoro; e tali aspettative non sono molto diverse tra le persone (anche se esistono differenze ben radicate e inibenti relative a genere, età e omogeneità). Soprattutto, la tua natura in quanto essere umano e la tua identità in Giappone sono definite tanto dalle tue affiliazioni a determinati gruppi quanto dai tuoi vezzi, opinioni, preferenze e antipatie.

    Chi cresce negli Stati Uniti aderirà alle credenze culturali prevalenti: lo spirito del posso farcela, il messaggio diffuso dal motto Yes, I can, l’apertura e la creatività straordinarie, la disponibilità a tentare nuove strade, un individualismo spinto al massimo.

    E qui entra in gioco il Giappone.

    Osservare, ascoltare, restare in silenzio, comprendere le cose, considerare i problemi come sfide, essere molto meno impulsivi e, soprattutto, praticare l’accettazione: tutto ciò è alla base di come ci si relaziona con sé stessi e con gli altri. Tali comportamenti esistono anche altrove, naturalmente, in quanto sono caratteristiche della specie umana; ma in Giappone sono i pilastri dello sviluppo istituzionale e sistemico.

    Sapere che ciò che sono è profondamente legato a come sono con gli altri è liberatorio. La via all’autoanalisi e all’autocompiacimento è infinita, ma, per ironia della sorte, anche limitante, e curiosamente tende a isolare dagli altri.

    Perché cercare il privilegio quando si può avere l’affiliazione?

    Nessun altro luogo mi ha dato maggiore equilibrio, calma, pazienza, rispetto per il silenzio e l’osservazione, e accettazione del fatto che la comunità e la natura sono più importanti dei bisogni individuali. L’individualismo, così apprezzato in Occidente, è sostituito qui dalla consapevolezza che i piaceri più belli della vita derivano dalla soddisfazione degli altri.

    *

    Quando gli altri soffrono e c’è empatia da parte nostra, stiamo ovviamente meno bene. In altre parole: quando siamo empatici, facciamo nostro il dolore degli altri. Da medico, ogni volta che ascolto storie dolorose di perdita, vergogna e isolamento, il mio benessere diminuisce. Ciò spiega, in gran parte, perché coloro che soffrono in modo evidente spesso vengono evitati, biasimati o temuti. Più si è empatici con il dolore degli altri, più si è in grado di riconoscere che quel dolore è parte della nostra identità.

    Provate a pensarci in termini pratici: se vostro figlio, il vostro partner, un genitore o un caro amico sta soffrendo, non state bene nemmeno voi, proprio perché vi sentite parte di loro, ed essi sono nel vostro cuore e nella vostra coscienza. Se mio figlio o mia figlia o mia moglie soffre, non posso nemmeno pensare di essere felice.

    Sono bravissimo a crearmi da solo lo stress, anzi, potrei dire che è la mia specialità, anche perché vengo da una famiglia in cui lo stress era un fatto normale e, da sempre, ho la tendenza a ripetere gli errori dei miei genitori.

    Ma non si tratta solo della sfera personale. Non è mai così: e come potrebbe esserlo? Tre mattine alla settimana faccio colloqui presso l’Istituto di assistenza transizionale in Dudley Square¹, a Roxbury, nel Massachusetts, in cui mi occupo di valutazione delle disabilità di persone povere, senza casa, vittime di violenze o detenute in carcere; quando poi torno nel mio quartiere elegante, a soli otto chilometri di distanza, noto con vero sollievo che il successo e la sicurezza hanno molto meno a che fare con la volontà personale che con l’etnia, il genere e la situazione economica.

    Ho trovato l’aiuto che mi serviva, ciò che mi mancava, integrando le esperienze fatte in Giappone con la mia vita qui, negli Stati Uniti.

    Includere le abitudini giapponesi, in modo graduale o un pezzetto alla volta, ha cambiato alla radice il mio modo di affrontare e percepire lo stress, di evitarlo e di accettare il mondo mentre, allo stesso tempo, mi sforzo di cambiare la mia posizione al suo interno.

    Pushing the World Away (Allontanare il mondo) è il titolo di un album del sassofonista jazz Kenny Garrett, e poiché questo artista conosce il giapponese e ha trascorso moltissimo tempo laggiù, il titolo è un’indicazione di come lui e altri, tra cui il sottoscritto, vedono la cultura di quel Paese.

    Quando ho parlato con Garrett, mi ha detto: «Il Giappone è sempre stata la mia seconda casa». Sull’ispirazione che trae dalla cultura giapponese, ha precisato: «La mia musica ti tira dentro, continuamente. L’energia che usiamo per allontanare il mondo è energia che possiamo utilizzare in modi positivi».

    Questa è, in sintesi, l’accettazione giapponese. Allontanare da sé il mondo con convinzione, per creare esperienze significative che ci avvicinano gli uni agli altri e alla sensualità dell’essere vivi.

    Introducendo nella mia vita semplici attività quotidiane, come si fa in Giappone, percepisco minore stress derivante sia dalla mia storia sia dal mio lavoro con i disadattati, che hanno vicende profondamente disturbanti. È un processo in divenire, e alcuni giorni sono migliori di altri. Certamente ho molto su cui lavorare, attraverso l’osservazione, il silenzio e, soprattutto, l’accettazione nei suoi tanti risvolti. Ho più modi per comprendere e limitare il potere distruttivo dello stress.

    Non si tratta di segreti per raggiungere la felicità; questo non è un modo per sottrarsi alle sfide che ci troviamo di fronte come esseri umani che agiscono da cittadini responsabili. È un modo diverso di vedere le cose, per parafrasare John Berger, che accresce le nostre visioni². Questo modo di vedere offre delle possibilità.

    Tempo fa si diffuse il concetto di ikigai, che veniva proposto come un codice o un segreto che, una volta appreso, avrebbe consentito di raggiungere la felicità. Ma il Giappone non si preoccupa solo della felicità. Per meglio dire, la storia giapponese è fatta di forza d’animo, resilienza e senso della comunità³.

    Ciò che il Giappone offre sono maniere realmente e profondamente diverse di fare le cose, vedere noi stessi come parte della natura, creare ed essere utili alla comunità, e accettare il nostro tempo così breve sulla terra.

    Tanto per essere chiari: i giapponesi non hanno il monopolio dell’empatia, nel modo più assoluto. Nella quotidianità, la vita in Giappone è caratterizzata spesso dall’indifferenza: le persone non sembrano voler reagire davanti agli altri. E se dico o faccio la cosa sbagliata? E se sono invadente? Cosa penseranno di me?

    Allo stesso tempo, in generale (ma non sempre) vi sono una sicurezza pubblica e un senso civico straordinari, instaurati attraverso una fortissima coesione, per molti aspetti presente sin dall’antichità. Esistono strutture esterne che forniscono il necessario; l’individuo non deve occuparsi di molte cose in prima persona. Tutto è gestito.

    Tuttavia, quando si verifica una crisi e le strutture esterne non bastano a risolvere i problemi, cosa ci si aspetta da parte dell’individuo? Condizionato com’è a guardare al gruppo per interpretare la realtà, può essere difficile per lui sapere come comportarsi e cosa fare.

    Il mio esempio preferito tratto dall’arte è nel film del 1963 Anatomia di un rapimento di Akira Kurosawa, in cui un ricco imprenditore è costretto a scegliere tra accettare la rovina negli affari e salvare la vita del figlio del suo autista. Mettendo da parte l’egoismo, che avrebbe acquisito in seguito all’influenza americana nel dopoguerra, come suggerisce la trama, il protagonista Kingo Gondo (interpretato da Toshirō Mifune) dimostra che l’empatia ha la meglio sul profitto.

    Il film risale a un periodo in cui il Giappone era in forte ascesa economica, con le sempre più numerose industrie non soltanto impegnate a stare al passo con l’Occidente, ma sul punto di superarlo. Il messaggio di Kurosawa era che i valori fondamentali della cultura giapponese rischiavano di soccombere, travolti dall’idea occidentale di successo.

    Cos’è che si andava perdendo, si domandava?

    Il film suggerisce che l’empatia è l’essenza della cultura giapponese e non deve essere sacrificata adottando valori occidentali permeati di avidità ed egoismo. Aiutare gli altri, comprendere e accettare che siamo parte di una comunità: per Kurosawa, questo significa essere giapponesi. Nella sua visione, egoismo e avidità sono tentazioni imposte dagli americani che devono essere respinte.

    Certo, è un film nazionalista.

    Eppure, negli Stati Uniti l’altruismo e l’empatia si trovano in ogni dove. Per motivi religiosi, per i valori delle comunità, tramite famiglie attente e capaci di sostegno, o per una naturale inclinazione alla cura degli altri, gli americani ogni giorno pensano a vari modi per aiutare il prossimo.

    Nelle parole di Jackie Robinson: «Una vita non è importante, se non per l’impatto che ha su altre vite».

    La solitudine, la distanza che sperimentiamo dagli altri e dalla natura, l’egoismo che troppo spesso pervade la vita, sono temi difficili che in Giappone vengono affrontati sin dall’infanzia.

    In Giappone l’appartenenza alla famiglia, alla scuola, all’azienda e alla comunità viene rinforzata con una quantità di attività quotidiane, comportamenti e maniere di rapportarsi gli uni con gli altri, dall’osservazione all’ascolto, dal chiedere scusa (di continuo!) all’accettazione.

    Gli han (gruppi) delle scuole elementari, i bagni pubblici, le relazioni tacite e le buone maniere sono parte di questo impegno o consenso comune. Quando i giapponesi si trovano in queste situazioni, il loro individualismo è plasmato da coloro che hanno intorno. A scuola, gli studenti devono uniformarsi nell’abbigliamento e nel pranzo. Ai bagni pubblici, dove si è nudi tra estranei o tra persone note della comunità, non esiste privacy. Il silenzio tra la folla che si assiepa sui marciapiedi suggerisce una comunanza con gli altri (che lo si voglia o no). Tutte queste rappresentazioni culturali e comportamenti condivisi portano a un senso di responsabilità comune, evidente nei comportamenti relativi alla salute, a comunità altamente funzionali, a un’infrastruttura pubblica efficiente e a una lunga vita⁴.

    Non abbiamo garanzie assolute, ma di certo pensare di più agli altri e osservare ciò che ci circonda porta a una consapevolezza: non siamo soli e non siamo così importanti, il che dovrebbe già essere un sollievo. Il benessere deriva dall’aiutare gli altri e dal sentirsi integrati.

    L’ideale di comunità rimane un pilastro e una funzione degli imperativi culturali del Giappone. I suoi obiettivi sono racchiusi nella convinzione che essere parte di un gruppo è più importante che affermare la propria individualità. Affermare sé stessi, ossia avere esigenze individuali che non sono espressione del gruppo, non è apprezzato nella cultura giapponese.

    La mia fortuna è avere amici giapponesi che hanno pazienza con me e riescono a ridere dei miei tanti errori, e questo ha approfondito la mia consapevolezza. Il Giappone è sicuramente il Paese più incline alle relazioni sociali che io abbia mai visitato, un luogo dove le persone con cui lavori vedono sempre al di là delle norme contrattuali.

    Il Giappone è anche molto didattico. Gli amici mi correggono di continuo e si prendono il tempo per farmi vedere come vanno fatte le cose: per esempio, come porgere a qualcuno un biglietto da visita, cosa domandare all’inizio di un incontro con un nuovo collega o come comportarsi in treno; insomma, mi hanno insegnato come integrarmi al meglio.

    Sono tantissime le esperienze che testimoniano l’aiuto che ho ricevuto, sin dai miei primi viaggi di lavoro in Giappone.

    La prima volta andai a Niigata, una prefettura a nord-ovest di Tokyo, sul Mar del Giappone, intorno al 2005. Avevo detto a Rocky Aoki, ex lottatore olimpico e fondatore di un’attività di ristoranti giapponesi in franchising di grandissimo successo, Benihana, che ero diretto laggiù e gli avevo chiesto cosa dovessi aspettarmi. Ridendo, lui la definì l’Oklahoma del Giappone. La nostra conversazione aveva luogo nel sofisticato appartamento di Rocky sulla Quinta Avenue a Manhattan, affacciato sulla cattedrale di San Patrizio, e dal suo punto di vista Niigata era la provincia estrema.

    «Non c’è da preoccuparsi», mi tranquillizzò. «È piena di contadini!»

    Era tutt’altro, invece. Sofisticata, interamente ricostruita dopo la guerra, era un luogo senza fronzoli, molto simile a una grande città industriale degli Stati Uniti.

    Per fortuna, il mio amico Takeshi Endo, colui che mi aveva invitato in città, mi seguiva passo passo per assicurarsi che mi comportassi in modo adeguato. Ero consulente per l’associazione dei produttori di sakè della prefettura, molti dei quali conosciuti da Takeshi tramite la sua azienda alimentare, per un progetto di esportazione della bevanda negli Stati Uniti. Il sakè di Niigata, nel caso ve lo stiate domandando, è considerato tra i migliori di tutto il Giappone, perché viene prodotto con acqua purissima derivata dallo scioglimento delle abbondanti nevi che cadono ogni inverno⁵.

    Comunque… Takeshi rimase letteralmente incollato a me per suggerirmi come porgere il mio meishi (biglietto da visita), come prendere quello della persona che mi veniva presentata, come guardare il biglietto, cosa dire dopo averlo ricevuto e dove riporlo alla fine.

    «Digli che gli sei grato per l’invito», mi sussurrò all’orecchio. «Descrivigli l’hotel con molti elogi per il luogo. Aggiungi che apprezzi la sua fiducia».

    Alcuni dei suoi suggerimenti non erano tipici solo del Giappone, ma la differenza essenziale era la precisione e la tempistica delle fasi. E la chiara implicazione che non esistevano alternative: c’era una sola maniera giusta per fare le cose. Mi piacque molto la chiarezza, fu un vero sollievo. Era come avere un’impalcatura a cui appoggiarsi.

    Dovetti guardare il biglietto e leggere a voce alta nome e qualifica della persona, guardandola brevemente negli occhi. Poi aggiungevo un’osservazione su quanto fossi colpito dalla qualifica. E l’interlocutore faceva lo stesso con il mio biglietto. Fatto ciò, ciascun biglietto andava preso tra due dita per uno degli angoli inferiori, allineato perfettamente contro il bordo del tavolo e posto di fronte alla persona che lo riceveva, con il nome e la qualifica in vista. Avevo lungamente discusso in precedenza con Takeshi delle pause tra le domande e le affermazioni; e poi su dove sedersi a una riunione di lavoro, dove mettersi in ascensore, se inchinarsi, quanto profondo doveva essere l’inchino, se stringere o non stringere la mano.

    I miei amici sapevano tutte queste cose allo stesso modo in cui io sapevo come allacciarmi le scarpe; davano struttura e ritmo alla giornata. A Tokyo, Yuko mi spiegò come ordinare i noodle in un locale: dove dovevo mettermi, come fare la fila, dove infilare le monete in una macchina all’ingresso e ritirare i buoni per ciascuna selezione, da consegnare poi al capocameriere o cameriera, che li portava ai cuochi. Shinji mi insegnò le frasi da dire per ringraziare uno chef dopo un buon pasto. Yumi mi mostrò come comportarmi uscendo da un ristorante, mentre il personale attende schierato sul marciapiede per salutare con inchini finché i clienti non scompaiono alla vista. Jiro mi indicò dove sedermi in automobile e quali complimenti fare a un contadino che ci mostrava le anatre mentre beccavano i parassiti che gli stavano distruggendo la risaia.

    Una volta, mentre uscivo con Jiro da una sala da tè irlandese, in mezzo al nulla della prefettura di Ishikawa, un

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