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Non uccidere domani
Non uccidere domani
Non uccidere domani
E-book382 pagine4 ore

Non uccidere domani

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Info su questo ebook

Dall’autrice del bestseller Il matrimonio dei segreti
Un grande thriller

«Tra L’amore bugiardo e Dexter.»
C.J. Tudor

«Oscuro. Scioccante. Ingegnoso.»
HEAT

Beth, Portia e Eddie Mor­gan non si frequentano da anni. C’è da dire che hanno ottimi motivi per non farlo. 

Eppure, quando il loro ricchissimo nonno muore, lasciando un criptico messaggio con le condizioni per ricevere un’eredità da capogiro, nessuno se la sente di rifiutare. E così i tre fratelli e i rispettivi partner intraprendono un viaggio per assecondare le ultime volontà del nonno e, cosa ben più importante, incassare i soldi. Ma si sa, il tempo passato in famiglia… può trasformarsi in un incubo. Soprattutto perché ognuno di loro nasconde dei segreti. E le complicazioni non tardano ad arrivare: una sorella scomparsa da tempo, una vendetta che attende di essere consumata, un inquietante pick-up nero che ha cominciato a seguirli… E, infine, tra di loro si nasconde un assassino.
Fin dove sono disposti a spingersi in nome dei soldi?

Dall’autrice di Il matrimonio dei segreti
Bestseller negli Stati Uniti e in Inghilterra

Un tranquillo viaggio di famiglia si trasforma in un vero e proprio incubo

Hanno scritto dei suoi libri:

«Così avvincente da non riuscire a fermarsi.»
la Repubblica

«Originale. Geniale. Ipnotico.»
Lisa Gardner, autrice bestseller del New York Times

«Allacciate le cinture e mettetevi comodi per un viaggio diabolicamente divertente.»
Kirkus Reviews

«Astuto, incalzante, deliziosamente macabro e avvincente. Uno dei migliori thriller che abbia letto da tanto tempo.»
Ali Land, autrice del bestseller Una ragazza bugiarda
Samantha Downing
Vive a New Orleans, dove si dedica alla scrittura a tempo pieno. Il matrimonio dei segreti è il suo straordinario esordio. I suoi libri sono pubblicati in 23 Paesi.
LinguaItaliano
Data di uscita5 ott 2020
ISBN9788822748256
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    Anteprima del libro

    Non uccidere domani - Samantha Downing

    PARTE PRIMA

    MENO 14 GIORNI

    Quella che cerchi è un’eroina. Una persona per cui tifare, con cui identificarti. Tuttavia, non deve essere perfetta, altrimenti ti sentiresti sminuito. Un’eroina con dei difetti, dunque. Una persona che potrebbe infrangere le regole per proteggere la sua famiglia, ma che non ucciderebbe nessuno, se non per autodifesa. Non un’assassina, almeno non del tipo a sangue freddo. Questo è il primo elemento fondamentale.

    Il secondo è il tradimento. Gli uomini possono mettere le corna e restare eroi, ma una donna fedifraga è imperdonabile.

    Ciò significa che non posso essere la tua eroina.

    Ma ho comunque una storia da raccontare.

    Comincia dentro un’automobile. Per l’esattezza, un SUV. Siamo seduti in base al rango. Il più anziano al volante. È Eddie. Accanto a lui, sua moglie, ma di lei parlerò più tardi.

    Nella fila centrale c’è la figlia mediana, che sono io. Beth. Non è il diminutivo di Elizabeth, mi chiamo semplicemente Beth. Ho due anni meno di Eddie e lui non perde mai l’occasione di ricordarmelo. Sono passabile, anche se non più tanto giovane e magra. Accanto a me è seduto mio marito. Parlerò più tardi anche di lui, perché i nostri coniugi non avrebbero dovuto accompagnarci.

    La fila di sedili rimasta, quella in fondo, è occupata da Portia. La figlia non cercata. Ha sei anni meno di me e a volte sembrano cento. Non essendo sposata né fidanzata, ha tutti i sedili per sé.

    Per ultimi, i nostri bagagli. Stipati uno accanto all’altro, perché era l’unico modo per farli entrare. Io l’ho detto subito a Eddie. I bagagli a mano e le borse per i computer vanno sopra i trolley. Non serve essere un assistente di volo per capirlo.

    Sotto le valige c’è uno scomparto. Da un lato c’è la ruota di scorta. Dall’altro una scatola di legno chiusa a chiave e decorata con raccordi in ottone. Questa scatoletta speciale, nel suo posticino speciale, sola soletta, senza nient’altro intorno, contiene nostro nonno. È stato cremato.

    In macchina non parliamo di lui. A dire il vero, non parliamo affatto. Un raggio di sole entra dal finestrino e si posa sulla mia gamba: scotta. L’aria condizionata mi secca gli occhi. Eddie ha messo su della musica jazz strumentale.

    Mi giro a guardare Portia. Ha gli occhi chiusi e le cuffie alle orecchie, probabilmente la musica che ascolta non è né strumentale né jazz. Ha i capelli lunghi e neri, la frangia le copre un occhio. Non è il suo colore naturale. Siamo tutti di carnagione molto chiara, biondi con gli occhi verdi o azzurri. I miei capelli sono ancora più diafani, perché faccio le mèches. Quelli di Eddie sono più scuri, perché non li tinge. Portia è un bel po’ che li porta neri. Abbina anche lo smalto. Ma non è una goth. Non più.

    La musica cambia all’improvviso. Non ho nemmeno visto la mossa di Krista. È la moglie di Eddie. L’unica con la pelle olivastra, i capelli scuri e gli occhi castani impreziositi da pagliuzze dorate. Mio fratello l’ha sposata quattro mesi dopo averla conosciuta. Lavorava come segretaria nel suo ufficio.

    Dalle casse si diffonde musica pop, un pezzo da discoteca di cinque anni fa. Era brutto già allora.

    «Il jazz mi stava facendo addormentare», dice.

    Mio marito alza brevemente gli occhi dal suo laptop. Probabilmente non si è accorto che è cambiata la musica, ma ha sentito la voce di Krista.

    Forse è lei l’eroina.

    «Non c’è problema», risponde Eddie. Dal tono di voce deduco che sta sorridendo.

    Continuo a guardare dal finestrino. Abbiamo superato Atlanta da un pezzo. Ma non siamo ancora in Georgia. Questa è l’Alabama del Nord, dopo Birmingham, dove la popolazione è scarsa e diffidente. Se avessimo cercato di correre, saremmo arrivati molto più lontano. La fretta non fa parte dell’equazione.

    «Mangiamo qualcosa?».

    È Portia, con la voce impastata dal sonno. Si raddrizza sul sedile, si toglie le cuffie e sgrana gli occhi come una bambina.

    È una vita che sfrutta il fatto di essere la piccola della famiglia.

    «Vuoi che ci fermiamo?», chiede Eddie, abbassando il volume.

    «Fermiamoci», dice Krista.

    Mio marito fa spallucce.

    «Sì», risponde Portia.

    Eddie mi guarda nello specchietto retrovisore, come se avessi voce in capitolo. Sono già in minoranza.

    «Ottimo», dico. «Si mangia».

    Ci fermiamo in un posto che si chiama Roundabout, la rotonda. È proprio come te lo immagini. È in finto stile rustico, con un lazo e una capra nell’insegna, ma i segni del tempo sono reali. Suo malgrado autentico, come la maggior parte di noi.

    Scendiamo tutti e Portia è la prima ad arrivare alla porta; Krista la raggiunge subito dopo. Eddie è il più lento. Rimane accanto alla macchina, con gli occhi sul cofano. Tentenna.

    È per il nonno. È la prima sosta del viaggio, quindi la prima volta che dobbiamo lasciarlo da solo.

    «Tutto a posto?», chiedo, toccandogli un braccio.

    Lui non mi guarda, non distoglie gli occhi dal bagagliaio dell’auto, perché le ceneri del nonno sono tutto per noi. Non per ragioni sentimentali.

    «Vuoi rimanere qui? Se vuoi ti porto il sacchetto degli avanzi». Trasudo sarcasmo.

    Eddie mi guarda con gli occhi sgranati. Scioccato. Come se gli avessi appena detto che voglio lasciare il partner di una vita per una persona incontrata due mesi fa.

    Ehi, un attimo, è quello che ha fatto lui. Mio fratello ha mollato la ragazza con cui conviveva per la segretaria.

    «Sto bene», dice. «Non c’è bisogno che fai la stronza».

    Ebbene sì. Quella cattiva sono io.

    Dentro al locale c’è un solo tavolo semicircolare. È grande il doppio del necessario. Le sedie sono in similpelle color vinaccia. Krista e Portia si spostano al centro, lasciando Felix seduto da solo a un lato del tavolo. Felix è mio marito: pallido, mascellone, capelli biondo platino, stesso colore di ciglia e sopracciglia. Sotto una certa luce, scompare.

    «No», dice Portia. «Non hanno niente di vegano».

    Non è vegana, ma controlla lo stesso. Verifica anche che ci sia l’accesso facilitato per i disabili e se manca, non entra, perché la giustizia sociale è importante.

    «Ce ne dobbiamo andare?», chiedo.

    Nessuna risposta. Mi siedo.

    Gli hamburger sono alla brace, le patatine croccanti e la pancetta unta al punto giusto. Ci è andata bene, se vuoi la mia opinione. L’unica cosa che manca è un caffè decente, ma bevo la loro brodaglia amara senza lamentarmi. Posso essere comprensiva.

    «Forse dovremmo sistemare alcuni punti in sospeso», dice Eddie. Sembra nostro padre. «Sarà un lungo viaggio. Dovremo spendere parecchio in benzina, cibo e camere d’albergo. Propongo di fare a turno per coprire le spese. E soprattutto, cerchiamo di non litigare su questo. L’ultima cosa di cui abbiamo bisogno è accapigliarci per uno scontrino».

    Prima che io possa aprire bocca, interviene Felix.

    «Mi sembra logico», dice. «Io e Beth pagheremo la nostra parte».

    Solo un marito può tradirti in questo modo. O un fratello.

    L’accordo non include Portia. Non sarebbe giusto, dato che non ha un vero lavoro.

    Ironia della sorte.

    Lei sbadiglia. Annuisce. Nella sua lingua, significa che per ora è d’accordo, ma si riserva il diritto di dissentire in futuro.

    «Ottimo», conclude Eddie. «Stavolta pago io».

    Porta un assegno alla cassa, perché siamo in uno di quei posti in cui è meglio pagare così. Felix va in bagno e Portia esce per fare una telefonata. Rimaniamo io e Krista a finire gli ultimi sorsi di caffè tiepido.

    «So che per voi è un brutto momento», dice, mettendo una mano sulla mia. «Ma spero che possiamo comunque divertirci un po’ insieme. Sono sicura che è quello che avrebbe voluto vostro nonno».

    Ha detto una cosa abbastanza gentile, anche se un po’ generica. Date le circostanze, non mi aspettavo né più né meno.

    Eppure, se le cose precipitassero e cominciassimo a ucciderci l’un l’altro, lei sarebbe la prima.

    Forse pensi che l’abbia detto per impressionarti. Ti sbagli.

    No, non sono una psicopatica. D’altronde, quella è sempre una scusa comoda. Una persona priva di empatia che deve simulare le emozioni umane. Perché fanno cose brutte? Scrollata di spalle. Chi lo sa? Questo è uno psicopatico per te. O la parola giusta è sociopatico? Ci siamo capiti.

    Non è quel genere di storia. È una storia sulla famiglia. Amo mio fratello e mia sorella. Sul serio. Ma li odio anche. È così che va: amore, odio, amore, odio, avanti e indietro, come su un’altalena.

    È questo il problema delle famiglie. Checché ne dicano, non si tratta di un gruppo unito con un obiettivo comune. Quello che non ci dicono mai è che, nella maggior parte dei casi, ciascun membro di una famiglia segue i propri scopi. Vale per me, almeno.

    ALABAMA

    Motto dello Stato: Osiamo difendere i nostri diritti

    Non è la prima volta che facciamo questo viaggio in macchina. Vent’anni fa lo organizzò nostro nonno per noi, i suoi nipoti, perché i nostri genitori non stavano più bene insieme. Urla, porte sbattute, troppi silenzi a tavola. Papà dormiva sul divano, ma ce lo nascondeva, e mamma fingeva di non essere arrabbiata. Non le riusciva bene, visto che sbatteva sempre porte, ante e qualunque cosa si trovasse davanti.

    Io e Eddie eravamo quasi coetanei e ne parlavamo spesso, preparandoci a un divorzio inevitabile. Avevamo anche scelto una data: la vigilia di Capodanno. Eddie l’aveva segnata sul suo calendario dei Nine Inch Nails, riempiendo il 31 dicembre con una grande X. Scommettemmo che entro il nuovo anno i nostri genitori si sarebbero separati.

    Accadde in estate, quando i litigi facevano sembrare le giornate afose ancora più lunghe. Allora vivevamo tutti ad Atlanta, incluso il nonno. Si era presentato a casa nostra ad agosto, era rimasto solo. La nonna era morta sei mesi prima.

    Il nonno ci radunò in salotto, ci fece sedere sul divano e disse: «I vostri genitori hanno bisogno di passare un po’ di tempo da soli. Devono discutere di cose da adulti».

    «Stanno divorziando?», domandò Eddie.

    «No. Hanno solo bisogno di stare da soli, quindi partiremo per un’avventura».

    «Di che tipo?», chiesi.

    «Un’avventura fantastica», declamò con entusiasmo, sforzandosi di essere convincente.

    A me andava bene qualsiasi cosa, pur di non passare un altro giorno in casa. Era stata un’estate lunga, calda e triste. Quando il nonno disse che un’avventura avrebbe migliorato il rapporto dei nostri genitori, ero già fuori dalla porta.

    Il nonno guidava una monovolume. Non l’ha mai cambiata, da quel che ricordo, la tipica monovolume grigio-verde. I genitori dei miei amici ce l’avevano quasi tutti, identica, e ci sono stata dentro un milione di volte. Il vantaggio era che avevamo un sacco di spazio per muoverci, se volevamo. C’era posto per almeno sei persone, così salimmo tutti a bordo e partimmo.

    Prima sosta: Tuscumbia, Alabama. A nord di tutto, quasi in Tennessee. Nel 1880, vi nacque Helen Keller, in una casa che si chiama Ivy Green, poi divenuta un sito turistico. Fu il primo posto che ci fece visitare il nonno.

    Era una casa abbastanza modesta, un semplice edificio bianco, a un solo piano. Facemmo la visita guidata e imparammo tutto sul mondo silenzioso e buio di Helen, e su come Anne Sullivan l’aveva salvata. C’era ancora la pompa del pozzo dove Helen aveva compreso per la prima volta la parola acqua e aveva cominciato la lunga scalata per uscire dall’abisso.

    Alla fine della visita, facemmo una passeggiata per i campi. Il nonno non la smetteva più di parlare di quanto fosse straordinaria Helen Keller. Non ricordo se sapessi già chi era prima di quel viaggio. Mi sembra plausibile, ma forse è solo la vana speranza che all’epoca fossi una bambina più istruita.

    Un altro episodio che mi è rimasto impresso avvenne alla fine, mentre tornavamo alla macchina. Eddie camminava su un muretto basso lungo la strada. Portia correva da un lato all’altro del marciapiede, alla ricerca del fiore più profumato. Io la seguivo, dando la mia opinione non richiesta.

    Il nonno si fermò e ci guardò uno alla volta. Scosse la testa. «Siete fortunati ad avere tutti i sensi».

    «Ma hai sentito la guida», obiettai. «Helen diventò cieca e sorda dopo una malattia. Potremmo prendercela anche noi».

    «Sì», disse Eddie. «È stata curata».

    Il nonno scosse di nuovo la testa, come se le nostre risposte l’avessero deluso. «Molto fortunati», ribadì. «Magari un giorno facciamo una prova. Vi copro gli occhi e le orecchie e vediamo cosa fate».

    Io risi perché stava facendo lo scemo. Non era il solo: eravamo tutti esaltati dall’epica e avventurosa traversata degli Stati Uniti. La nostra meta, aveva annunciato il nonno, era la California, dove avremmo visto l’oceano Pacifico per la prima volta.

    Oggi abbiamo visitato di nuovo la casa di Helen Keller, solo che stavolta conoscevamo già la storia. Abbiamo visto tutti Anna dei miracoli e abbiamo letto di lei a scuola. L’unica sorpresa sono le dimensioni dell’abitazione, insieme al piccolo cottage dove Helen viveva con Anne Sullivan. Sembrava molto più grande quando ero piccola.

    Mentre usciamo, Felix batte le mani. «Che pezzo di storia straordinario».

    «Vero, eh?», fa eco Krista. «Adoro le storie edificanti. Vorrei che ci fosse un canale televisivo dedicato solo ai film e ai programmi che sono di ispirazione per le persone».

    «Le emittenti religiose esistono già», dice Portia. Con sarcasmo.

    «Oh, non intendo questo. Come Helen Keller», spiega Krista.

    «Quindi un canale sui bambini che superano disabilità fisiche?».

    Krista si arrende e si allontana da Portia, capendo che la sta prendendo in giro.

    Risaliamo tutti in macchina e nessuno dice più una parola su Helen Keller. Il viaggio prosegue su una strada deserta, che non si dirige né a nord né a sud. A un certo punto, dopo il tramonto, Eddie si ferma davanti a un motel lungo la strada di nome Stardust.

    «Che ve ne pare?», chiede.

    Sembra un posto di merda con il Wi-Fi e la TV via cavo. Perfetto.

    «È ancora presto», dice Portia. Il suo tono ha un leggero accento infantile. «Posso guidare io se sei stanco».

    «Me lo ricorderò», risponde Eddie. Prosegue fino alla reception e scende dalla macchina.

    Non mi sorprende che Eddie pretenda di stare alla guida e di scegliere i motel, perché so come è fatto. È sempre stato così. Sembra che non sia un problema per Krista: seduta davanti, sorride e dondola la testa a ritmo di musica. Portia alza gli occhi al cielo e si sdraia sui sedili in fondo.

    Io sospiro e prendo il telefono, per controllare su Instagram cosa combinano amici e colleghi. In particolare, per controllare lui.

    Stanotte, Portia starà con Eddie e Krista. Condividerà la stanza con una delle due coppie ogni notte per risparmiare sui motel. Non può avere una camera tutta per sé, perché è single, quindi ha tutto il tempo che vuole a casa per stare da sola. Ecco come la mette Krista. Penso che sia una vendetta per come Portia l’ha presa in giro alla casa-museo di Helen Keller.

    Appena entriamo nella nostra camera, io e Felix spruzziamo un disinfettante antibatterico a rapida asciugatura sulle lenzuola, sugli asciugamani e sulle superfici dei mobili. Anche sugli attaccapanni. Ce ne sono due.

    Non siamo germofobici, ma chi non lo farebbe in un motel? Sarebbe come non pulire il vassoio a scomparsa con una salvietta antibatterica quando sei in aereo.

    Quando abbiamo finito, mi butto su uno dei letti.

    «Faccio la doccia per primo», annuncia Felix.

    «Va bene».

    Lo guardo entrare in bagno e mi domando, non per la prima volta, se i nostri figli avrebbero preso i suoi capelli biondi. Siamo sposati da sei anni, stiamo insieme da nove, e ancora non ho deciso che aspetto avrebbero i nostri figli. D’altronde, non sono mai rimasta incinta.

    Ci siamo conosciuti all’ultimo anno di college. Giornata della carriera. Lui stava in fila per la Global Com, Inc., mentre io per la Williams Kane Ltd. Erano due conglomerati internazionali con posizioni vacanti per ogni facoltà immaginabile. Io e Felix finimmo uno accanto all’altra mentre aspettavamo. Sembrava maleducazione non fare conoscenza, così ci scambiammo consigli su dove candidarsi e avvertimenti su chi era meglio evitare. Fu una conversazione assolutamente normale. Era un momento della mia vita in cui avevo bisogno di normalità.

    A un certo punto lui disse: «Siamo stati fortunati a nascere in questo momento storico».

    «Perché?»

    «Non siamo costretti a restare per sempre nella stessa azienda. Cinque anni al massimo. Se è un posto davvero pessimo, è assolutamente accettabile andarsene dopo due anni. Se te ne vai prima…». Scrollò le spalle, come a dire che sei fottuto. Se non riesci a tenerti un lavoro per almeno due anni, può voler dire che sei inaffidabile. O che porti guai.

    «È vero», dissi. «Siamo fortunati».

    Nessuno dei due ottenne un lavoro quel giorno. Invece, finimmo entrambi nel conglomerato più grande di tutti, l’International United, ma in dipartimenti diversi, naturalmente. Nessuna società permetterebbe alle coppie sposate di lavorare fianco a fianco, se vuole rimanere in affari.

    Felix emerge dal bagno già asciutto, con indosso i boxer e una maglietta dei Miami Dolphins. Non siamo fissati col football, ma nemmeno lo odiamo.

    «Tocca a te», dice.

    Non è rimasta molta acqua calda, sempre che ce ne fosse in partenza. Quando esco dal bagno, trovo Felix spaparanzato su uno dei letti. Non su quello dove ero sdraiata io.

    «Mi fanno male le gambe per essere rimasto in macchina tutto il giorno», dice. «Ti dispiace se dormiamo in letti separati?»

    «Nessun problema. Tanto sono troppo piccoli».

    «Sì, paragonati ai nostri».

    Mi siedo sul mio letto e attivo la sveglia del telefono. «Facciamo una passeggiata domattina?», propongo.

    «Sì, ci vuole proprio».

    Fisso la sveglia alle sette.

    «Come ti senti?», mi chiede Felix.

    «Bene».

    «Intendo dopo aver rivisto Eddie e Portia. È passato un po’ di tempo».

    Già. Non viviamo nella stessa zona. Eddie e Krista abitano a Dauphin Island, in Alabama, poco a sud di Mobile, dall’altra parte dello Stato rispetto a dove siamo adesso. Io e Felix viviamo a Woodview, in Florida, mentre Portia si è trasferita a Tulane, a New Orleans, e vive ancora lì. Nessuno di noi vive ad Atlanta, ma ci siamo cresciuti. Da lì è partito il nostro ultimo viaggio.

    Per i fratelli Morgan, la separazione è la miglior forma di unione.

    L’ultima volta che siamo stati tutti assieme è stato qualche anno fa, quando Portia si è laureata. Due giorni nella stessa città e abbiamo trascorso circa otto ore insieme, sbronzandoci dall’inizio alla fine. Portia ha insistito che provassimo tutti l’Hurricane, il Mint Julep e il Pimm’s Cup. Pericolosi da soli, letali insieme.

    Il nonno non c’era. Non lo vedevamo da anni.

    All’epoca Eddie stava ancora con Tracy, la ragazza con cui conviveva. Non aveva ancora conosciuto Krista. Tracy mi stava simpatica. Era più intelligente di mio fratello e glielo ripetevo spesso. Sembrava che piacesse anche a lui.

    Ricordo che eravamo in un locale in centro, vicino all’università, la sera prima della laurea. Faceva un caldo infernale e indossavo un top e una gonna stampata. Tracy indossava un bel prendisole che le lasciava le braccia scoperte. Erano incredibilmente toniche.

    «Sai qual è il problema di tuo fratello?», disse. Biascicava un po’, ma manteneva un contegno. «Può essere uno stronzo, ma è uno stronzo adorabile, capisci cosa intendo?».

    Lo capivo. Conosci il tipo, ti sarà capitato di incontrarlo. Quello che a scuola la faceva sempre franca grazie a una bella parlantina, quello che riusciva a convincere gli insegnanti a fargli recuperare un voto, quello che tutti volevano come amico anche quando faceva cazzate. Soprattutto quando faceva cazzate.

    Eddie è così.

    Non ho mai avuto l’occasione di chiedere a Tracy cosa pensava della ragazza con cui Eddie usciva appena finita l’università. Scommetto che lei non l’avrebbe definito adorabile. Diceva che Eddie la picchiava e una volta l’ha pure denunciato, ma non ci furono conseguenze. Eddie diceva che era una pazza e che lui non l’aveva mai neppure sfiorata.

    Gli credevo. Credevo anche a lei. Avanti e indietro, avanti e indietro, come sull’altalena. Non ho ancora deciso chi ha ragione, se è uno stronzo adorabile, o solo uno stronzo.

    Penso a questo nel letto, al motel Stardust, quando Felix mi chiede come mi sento. Cerco di mantenere il mio equilibrio.

    «Bene», rispondo. «Me la cavo».

    «Mi fa piacere. Buonanotte».

    «Buonanotte».

    Aspetto di sentire il suo respiro che rallenta. Non ci vuole molto. Felix riesce sempre a addormentarsi all’istante, ovunque si trovi.

    Mi alzo, mi vesto ed esco.

    Appena uscita, mi guardo intorno tentando di cogliere un qualsiasi movimento, una qualsiasi forma di vita. Non sono nemmeno le dieci e mezza e so che Portia non è a letto ad ascoltare il respiro di Eddie e Krista. Le opzioni sono la tavola calda dall’altra parte della strada o il negozio di alcolici dietro il motel. Scelgo il secondo.

    Il parcheggio è abbastanza vuoto da farmi sentire il suono dei passi e credo che qualcuno mi stia seguendo. Mi fermo un paio di volte per controllare. Mi accovaccio per vedere se ci sono dei piedi dall’altra parte di un pick-up mezzo scassato. Questo posto è talmente deserto e silenzioso che sono convinta di non essere sola.

    Non vedo nessuno finché non arrivo al negozio di alcolici. Il parcheggio è pieno e c’è un bel po’ di gente allegra. Dan’s Drip-Drop Liquors è il posto più simile a un bar nel raggio di almeno un paio di chilometri.

    C’è anche Portia, in fila alla cassa. È una delle due donne presenti; l’altra è seduta in un’automobile a fumare una sigaretta. Nottataccia al Drip-Drop.

    Portia non mi vede finché non sono accanto a lei. «Ordina per due», dico.

    Lei sorride e alza una confezione da sei lattine di Coca-Cola e una bottiglia di rum. Annuisco. Sul bancone c’è una colonna di bicchieri di plastica. Il prezzo, cinque centesimi l’uno, è scritto col pennarello rosso sul retro di un biglietto della lotteria. Ne prendiamo due.

    «Torniamo alla macchina», suggerisce Portia. «Ho le chiavi di Eddie».

    Abbiamo sempre sottovalutato la sua intelligenza. Forse ci sono troppi anni di differenza tra noi.

    Pochi minuti dopo, siamo sul sedile posteriore della macchina e io sto bevendo il mio primo rum e coca da svariati anni. Forse dai tempi del college. Non abbiamo il ghiaccio, ma la Coca-Cola è fredda e ci accontentiamo, visto il posto in cui siamo. Il contesto è tutto.

    «È strano», dice Portia.

    «Cosa, di preciso?»

    «Sapevi del testamento?»

    «No. L’ho scoperto quando l’ha letto l’avvocato del nonno». Getto uno sguardo al bagagliaio, dove sono conservate le sue ceneri.

    «Eddie se le è portate in camera», mi informa Portia.

    «Oh. Avrei dovuto immaginarlo».

    Ingolliamo un altro po’ di rum e coca. Scende come l’olio dopo i primi sorsi.

    «Al lavoro lo beviamo sempre», dice. «Perché sembra una bibita gassata. È la norma tra noi cameriere».

    Bugia.

    Portia racconta in giro di fare la cameriera in un locale. È una spogliarellista e ha cominciato quando andava ancora al college. Sarà pur vero che non vedo i miei fratelli molto spesso, ma so cosa combinano.

    «Sarai stufa di lavorare con gente sempre sbronza», osservo.

    «Sì, è già da un pezzo che mi è venuto a noia. È solo che non si guadagna altrettanto bene con un lavoro normale, almeno all’inizio».

    «Questo è sicuro».

    «Insomma, non intendo farlo per sempre», dice, interrompendosi per finire il primo bicchiere. «Solo finché non troverò un buon lavoro».

    «Con i soldi del nonno potrai saldare il debito studentesco», dico.

    Portia annuisce. «Meno male».

    Siamo gli unici eredi rimasti. La nonna è morta prima di lui e i nostri genitori sono fuori dai giochi.

    «Che progetti hai?», le chiedo.

    Lei scrolla le spalle, si versa un altro bicchiere e colma il mio. «Mi piacerebbe lavorare in ambito sanitario. Magari come assistente medico. Forse un giorno mi iscriverò alla scuola per infermieri».

    «Ti ci vedo bene».

    Sorride. La luce nell’abitacolo basta a farmi vedere i suoi occhi. Azzurri, come quelli del nonno. I miei sono torbidi, come l’acqua scura, e quelli di Eddie sono blu come biglie di vetro.

    «Come pensi che andrà questo viaggio?».

    Buffo che me lo chieda adesso, quando siamo già partiti. È una domanda che avremmo dovuto

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