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Bugie, bugie, bugie: Un thriller psicologico da brivido, tradotto in 27 lingue, al primo posto nella classifica del «Sunday Times»
Bugie, bugie, bugie: Un thriller psicologico da brivido, tradotto in 27 lingue, al primo posto nella classifica del «Sunday Times»
Bugie, bugie, bugie: Un thriller psicologico da brivido, tradotto in 27 lingue, al primo posto nella classifica del «Sunday Times»
E-book424 pagine6 ore

Bugie, bugie, bugie: Un thriller psicologico da brivido, tradotto in 27 lingue, al primo posto nella classifica del «Sunday Times»

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Info su questo ebook

Il matrimonio di Daisy e Si­mon è fantastico, non è vero? Daisy è un’insegnante e Simon un designer di interni. Sem­brano proprio perfetti l’uno per l’altra e la loro intesa fa invidia a tutti gli amici e ai conoscenti.
Dopo anni passati felicemente in­sieme, l’arrivo della piccola Millie ha coronato i loro sogni. Sembra difficile immaginare una felicità più perfetta: una splendida famiglia di tre persone. Tutto considerato, il fatto che Simon beva un po’ trop­po non è poi così importante. Daisy ci è abituata, sa che succede solo quando ha bisogno di rilassarsi dopo una giornata pesante. Finché una sera, a una festa, le cose van­no terribilmente fuori controllo. Da quel momento la felice famigliola non sarà mai più la stessa...

Un’autrice bestseller da oltre 3,8 milioni di copie
Tradotta in 27 lingue

A volte il passato torna per ferire ancora

«Il ritratto avvincente e viscerale della disintegrazione di un matrimonio, che porta il genere verso nuove vette.»
Heat

«Intricato, avvincente… ma anche estremamente profondo. Un trionfo.»
Lucy Foley, autrice del bestseller Morte nelle Highlands

«Scritto in modo superbo.»
Ruth Jones, autrice del bestseller Ancora noi

«Geniale, commovente e indimenticabile: Adele Parks è una regina nel raccontare il lato oscuro della vita domestica.»
Veronica Henry, autrice del bestseller Quando l’amore nasce in libreria

«Ho divorato questo libro, la scrittura è fenomenale.»
Sally Hepworth, autrice del bestseller La madre sbagliata
Adele Parks
È una delle scrittrici di narrativa più amate e vendute nel Regno Unito. Ha venduto oltre 3,8 milioni di libri e le sue opere sono state tradotte in 27 lingue. Ha vissuto in Italia, Botswana e a Londra. Ora vive nel Surrey, con il marito, il figlio adole­scente e il loro gatto.
LinguaItaliano
Data di uscita30 ott 2020
ISBN9788822746092
Bugie, bugie, bugie: Un thriller psicologico da brivido, tradotto in 27 lingue, al primo posto nella classifica del «Sunday Times»

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    Anteprima del libro

    Bugie, bugie, bugie - Adele Parks

    EN.jpg

    Indice

    Prologo

    2016

    1. Daisy

    2. Simon

    3. Daisy

    4. Simon

    5. Daisy

    6. Simon

    7. Daisy

    8. Simon

    9. Daisy

    10. Simon

    11. Daisy

    12. Simon

    13. Daisy

    14. Simon

    15. Daisy

    16. Simon

    17. Daisy

    18. Simon

    19. Daisy

    20. Simon

    21. Daisy

    22. Simon

    23. Daisy

    24. Simon

    2019

    25. Daisy

    26. Simon

    27. Daisy

    28. Simon

    29. Daisy

    30. Simon

    31. Daisy

    32. Simon

    33. Daisy

    34. Daisy

    35 .Simon

    36. Daisy

    37. Simon

    38. Daisy

    39. Simon

    40. Daisy

    41. Simon

    42 .Daisy

    43. Daisy

    44. Simon

    45. Daisy

    46. Simon

    47. Daisy

    48 .Simon

    49. Daisy

    50. Simon

    51. Daisy

    52 .Simon

    53. Simon

    54 .Daisy

    55 .Simon

    56. Daisy

    57. Simon

    58. Daisy

    59. Simon

    Epilogo

    Daisy

    Ringraziamenti

    narrativa_fmt.png

    2794

    Copertina © Sebastiano Barcaroli

    Originally published in the English language

    by HarperCollins Publishers Ltd.

    under the title Lies Lies Lies © Adele Parks 2019

    Adele Parks asserts the moral right to be identified

    as the author of this work.

    All rights reserved

    Traduzione dalla lingua inglese di Lorena Marrocco

    Prima edizione ebook: novembre 2020

    © 2020 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-4609-2

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Adele Parks

    Bugie, bugie, bugie

    OMINO.jpg

    Newton Compton editori

    Alle mie care amiche Marguerite Weatherseed e Louise Gibbons.

    Due delle persone migliori che abbia la fortuna di conoscere.

    Siete semplicemente adorabili.

    Prologo

    Maggio 1976

    Quando assaggiò la sua prima birra, Simon aveva sei anni.

    Si era lavato e aveva indossato il soffice pigiama, pronto ad andare a letto, anche se fuori era ancora chiaro. Ancora presto. Gli altri bambini erano in strada a giocare con le biciclette e il pallone. Li sentiva dalle finestre aperte, anche se non riusciva a vederli perché le tende erano tirate. A suo padre dava fastidio il riflesso della luce serale sullo schermo della TV, a sua madre non piaceva che i vicini guardassero dentro. Oscurare la stanza era una decisione su cui si trovavano d’accordo.

    A sua madre non piacevano molte cose: il cibo sprecato, le camere da letto in disordine, che il papà guidasse troppo veloce, che sua sorella facesse i capricci in pubblico. A sua madre piaceva avere degli standard. Simon non capiva esattamente cosa significasse standard. I Cubs, la squadra di baseball, avevano un ragazzone il cui compito era sventolare uno stendardo in testa alla parata. Sua madre, però, non aveva stendardi, quindi tutto diventava confuso. Quel che era chiaro è che non voleva rimanesse in mezzo alla strada dopo le sei. Lo considerava volgare. Simon non capiva bene neanche cosa significasse volgare, forse aveva a che fare con il divertimento. Sua madre lo lavava subito dopo il tè e gli metteva il pigiama, così che non potesse sgattaiolare fuori.

    Non sapeva cosa non piacesse a suo padre; quel che gli piaceva, però, sì: aveva sempre sete e amava bere. Quando aveva sete era irascibile, quando beveva rideva moltissimo. Era un contabile e gli piaceva contare in molti modi: uno al volo, uno freddo e uno per la strada. A volte Simon credeva che suo padre mentisse quando diceva di essere un contabile, sembrava più un pirata o un mago. Diceva alla gente: «Scegli il veleno», che suonava come qualcosa che può dire un pirata e nei fine settimana, al mattino, gli piaceva bere un canarino, che era chiaramente una frase magica. Simon una volta lo aveva detto a sua madre, ma lei aveva risposto di smettere di fare lo sciocco e di non dire mai quelle stupidaggini ad altri.

    Stava giocando con la lavagna magica ricevuta in regalo per il compleanno solo due mesi prima. Dopo aver visto la pubblicità in TV, Simon aveva supplicato e pregato per averla, ma era stata una delusione. Due semplici pulsanti che tracciavano righe su e giù, da sinistra a destra. Limitato. Noioso. Tutto il mobilio della stanza era disposto in modo tale che si potesse vedere la TV accesa, ma non trasmettevano nulla di interessante. Il telegiornale. Ai suoi genitori piaceva guardare il telegiornale, a lui no. Suo padre stava bevendo una lattina di una bibita per adulti che a Simon era proibita. Una bibita che profumava come nessun’altra, fruttata e oscura e tentatrice.

    «Posso fare un sorso?», aveva chiesto.

    «Non essere sciocco, Simon», era intervenuta sua madre. «Sei troppo piccolo. La birra è per i padri». A Simon sembrava di aver sentito padri, ma sua madre poteva anche aver detto ladri.

    Suo padre si era portato la lattina alle labbra e guardato sua madre con freddezza. Uno sguardo che significava zitta, donna, è roba da uomini. Sua madre era arrossita e si era voltata come se non ce la facesse a guardare, ma si era zittita. Forse aveva creduto che il sapore amaro non gli sarebbe piaciuto, che un sorso lo avrebbe scoraggiato. E infatti a Simon non piacque ciò che sentì, ma la complicità. All’epoca non conosceva quella parola, ma d’istinto ne aveva percepito il brivido. Lui e il suo vecchio che bevevano roba da adulti! Suo padre era sembrato soddisfatto quando, buttato giù il primo sorso, ne aveva chiesto un altro. Quasi orgoglioso. Simon aveva percepito il sapore dell’alluminio, le bolle pungenti e amare. Si era accesa una scintilla.

    Da allora, la mattina, a volte si alzava presto, con la mamma e il papà e anche la sorellina ancora addormentati, e si dava da fare in casa prima della scuola. Riordinava. Apriva le tende, svuotava i posacenere, buttava le lattine abbandonate. Sua madre andava sempre a letto prima del padre. Forse non voleva rimanere a guardarlo bere ogni notte fino allo stordimento, forse sperava che la mancanza di pubblico lo avrebbe privato di parte del divertimento, del bisogno. Non vedeva mai lo stato in cui era ridotta la casa quando suo padre, barcollando, saliva di sopra. Simon sapeva che era importante che lei non vedesse quel particolare tipo di disordine.

    Qualche volta in una delle lattine rimaneva un dito di birra. Simon la ingurgitava in un unico sorso rumoroso. Aveva scoperto che quel sapore sgasato e proibito gli piaceva tanto quanto quello frizzante della birra fresca. Spalancava la finestra così che il fumo di sigaretta sparisse insieme ai segreti. Quando sua madre scendeva, gli sorrideva e lo ringraziava per aver riordinato.

    «Sei un bravo bambino, Simon», diceva con sollievo.

    Quando non c’erano fondi da ingurgitare, qualche volta Simon apriva una lattina e ne buttava giù metà prima della colazione. Suo padre non teneva mai il conto.

    Alcuni affermano che il loro profumo preferito sia quello del pane fresco, altri quello del caffè o del camino. Fin da quando Simon era piccolo, pochi odori stimolavano il suo sistema nervoso come quello della birra.

    Era come una promessa.

    2016

    1

    Daisy

    9 giugno 2016, giovedì

    Non credo sia una buona idea portare Millie in clinica. L’avrò detto a Simon una decina di volte. Oltre al fatto che salterà il corso di danza dopo la scuola e si annoierà a morte, non è un luogo adatto ai bambini. Per prima cosa c’è il problema della sensibilità degli altri pazienti. Si tende a ritenere che chi ne vuole uno, adori ogni bambino che incontra. Non sempre è così, a volte non sopporta i piccini, neanche quelli adorabili come Millie. Fa troppo male. In sala d’attesa, la vocina squillante di Millie potrebbe risultare irritante, fastidiosa. Sembra eccessivo, ma l’infertilità è un argomento crudele, doloroso. Inoltre, sono preoccupata di come comportarmi con lei quando entreremo in sala visite per parlare con il medico. Questa è solo una chiacchierata. Siamo d’accordo entrambi. Eppure, non riesco a parlare davanti a lei di sperma e ovulazione, della possibilità (perché non è una probabilità) che abbia un fratellino o una sorellina, ma non mi piace neanche l’idea di lasciarla con la receptionist. Ha solo sei anni.

    Non avevamo programmato di portarla con noi, ma all’ultimo momento la baby-sitter ha avuto un contrattempo, come accade sempre con le baby-sitter. C’era poco da fare. Io volevo rimandare l’appuntamento. Per sempre, a dire il vero, ma Simon era impaziente di parlare delle nostre alternative e aveva detto che posticipare era fuori questione. Sarebbe venuta con noi.

    «Prima scopriamo il problema, prima lo risolviamo», aveva detto con ottimismo e un sorriso luminoso.

    «Non c’è nessun problema, siamo solo vecchi», avevo sottolineato.

    «Più vecchi. Non vecchi. Non troppo vecchi. Molte donne fanno figli a quarantacinque anni», aveva insistito. «Magari anche il primo. Il fatto che abbiamo già Millie ti dà un vantaggio rispetto a loro».

    Il fatto che avessimo già Millie, per me, significava che avremmo dovuto lasciar perdere. Accontentarci di un figlio. Sono convinta che nella vita accontentarsi sia molto sottovalutato. Simon non ha mezze misure. O è estremamente felice o è disperato. Non lo ammetterebbe mai, ma stiamo insieme da diciassette anni e lo conosco meglio di quanto lui conosca sé stesso. La mia impressione è che, durante il matrimonio, abbiamo passato troppo tempo in cliniche simili a questa. Luoghi fatti di pareti beige e aspettative modeste, luoghi che si prendono soldi e speranze senza garantire niente in cambio. Quando abbiamo avuto Millie – il nostro miracolo! – ho creduto che tutti gli affanni, la frustrazione e l’insoddisfazione fossero acqua passata. Un figlio mi basta. Avevo creduto e sperato che bastasse anche a Simon.

    Millie è perfetta.

    Non dovremmo sfidare la sorte. Sono sempre stata della scuola ringrazia per quello che hai. Non desidero una ricchezza spropositata, preferisco avere il necessario. Su questo Simon e io non la pensiamo allo stesso modo. Certo, concorda che Millie sia perfetta, ma è proprio quella perfezione che lo spinge a desiderare altri figli.

    Negli ultimi due anni, più o meno da quando lei ha iniziato la scuola materna, ha cominciato a dire che avremmo dovuto riprovare. Annuivo, sorridevo, accoglievo la sua proposta senza mai affrontarla davvero. Voglio dire, in un certo senso ci stiamo provando, o almeno non evitiamo che possa accadere, non usiamo contraccettivi. Alla nostra età, però, con la nostra storia clinica, non basta. Ci serve aiuto se vogliamo un secondo figlio. Lo so.

    Negli ultimi tempi, Simon ha alzato il livello di insistenza. Sembra che non riesca a godersi quel che abbiamo.

    Le vacanze di metà trimestre ne sono un buon esempio. Avevamo affittato un cottage nel Devon, cosa che le famiglie inglesi fanno da sempre. Noi, a quanto pare, non abbiamo abbastanza fantasia da andare in controtendenza. Quest’anno ne avevamo avuto l’opportunità, scegliendo una parte del Devon mai visitata prima. Il cottage era datato, ma ben tenuto e, nonostante la pressione dell’acqua rendesse fare la doccia un processo lungo e fastidioso, c’erano il camino, una cucina Aga e uno scaffale di puzzle e giochi da tavola. Ci sembrò perfetto. Il giardino finiva su un sentiero che conduceva direttamente alla spiaggia. Le spiagge mi sorprendono sempre. Non sono mai tranquille o ideali per la contemplazione come le immagino. Il lido inglese è rumoroso: l’infrangersi delle onde, le grida dei gabbiani, il vento che trascina la sabbia e i bambini che ridono, piangono e strillano. È meglio rassegnarsi, farsene una ragione. Vogliamo che Millie possa vivere un’infanzia degna di un romanzo per bambini di Enid Blyton, così a volte anche con il tempo incerto, facevamo lunghe passeggiate e sopportavamo ventosi picnic senza ammettere che facesse freddo. Cercavamo i granchi e setacciavamo le pozze tra gli scogli alla ricerca dei minuscoli esserini che Millie adorava. Eravamo poco distanti da una fattoria didattica e da un piccolo paese pieno di edifici color pastello dove i negozi vendevano fish & chips. Perfetto, proprio così.

    Ma non era certo isolato. Era un luogo troppo caratteristico per rimanere segreto. Infatti, noi lo avevamo scoperto su una rivista patinata allegata al quotidiano la domenica. Eppure, nonostante le famiglie con i vestiti comprati per corrispondenza, i secchielli e le palette, riuscimmo a ritagliarci un po’ di privacy, del tempo per noi. Ignorammo la folla e le file, tracciando intorno a noi un cerchio magico. Naturalmente, Millie fece amicizia con dei bambini sulla spiaggia. È sicura di sé, aperta e gentile, proprio il tipo con cui i bambini vogliono fare amicizia, ma se i genitori ci invitavano a prendere un dolce in caffetteria o a un barbecue, declinavamo la proposta. Inventavamo scuse, piccole bugie su cose già organizzate e impegni. Io non sono per niente come Millie, non mi trovo a mio agio a fare nuove amicizie, non ho mai avuto quel tipo di sicurezza. Non sono mai stata quella che gli altri considerano una ragazza carina. Non è la cosa peggiore che possa capitare, anche se alcuni ne sono convintissimi. Da bambina mi impegnavo a essere gentile, divertente e informata, e aspiravo a essere sufficientemente intelligente. Mi bastava. Me la sono cavata. Adesso ho degli amici stretti, ma non mi piace molto stingere legami casuali e passeggeri durante le vacanze. A che pro? Inoltre, stiamo così bene, solo noi tre, non vogliamo né abbiamo bisogno di nessun altro. Tre è il numero perfetto. I pitagorici lo ritenevano il primo numero reale. Il primo a formare una figura geometrica, il triangolo. È il numero dell’armonia, della saggezza e della comprensione. Ho sempre ritenuto che il tre sia particolarmente significativo dato che è il numero che più spesso è associato al tempo: passato, presente e futuro; inizio, metà, fine; nascita, vita, morte.

    Sospiro, guardandomi intorno nella reception della clinica. Proprio non credo che ci sia bisogno di stare qui, di volere un altro figlio. È come se sfidassimo la sorte. Come se fossimo ingordi. In cerca di guai. Siamo felici così.

    Simon mi stringe la mano. Penso all’ultima notte al cottage. Millie era esausta dopo una settimana di aria fresca e lunghe camminate, seduta in cucina con la testa che quasi ciondolava sulla zuppa. La mettemmo a letto alle sette e si addormentò non appena ebbe posato la testa sul cuscino. Simon propose un bicchiere di vino nel giardino sul retro, per approfittare della nostra ultima notte lì e della privacy del nostro cottage. C’era una stufa a gas, una di quelle dannose per l’ambiente, obiettai, ma Simon mi convinse: «Per una volta. Dai».

    Lo ammetto, il vino (non un bicchiere, due bottiglie alla fine), il suono delle onde sulla riva, la novità di trascorrere del tempo insieme senza altra gente o Netflix sortirono il loro effetto. Facemmo l’amore sotto le stelle. Fu eccitante, audace. Era passato così tanto tempo dall’ultima volta che avevamo fatto qualcosa di così rischioso che non ricordavo neanche esattamente quando. Anni e anni prima. Rimanemmo abbracciati sotto il telo da picnic, un po’ ruvido, stretti l’uno all’altra per scaldarci, a concederci di rilassarci, di essere soddisfatti, appagati. Fu incantevole. Fino a quando Simon mi baciò sulla testa e disse: «Sai qual è l’unica cosa che potrebbe rendere questo momento perfetto?»

    «Una sigaretta post-coito?», scherzai. Io non avevo mai fumato e Simon aveva smesso quando avevamo iniziato a frequentarci. Sapevo che gli mancava, ancora dopo tutto quel tempo sentiva il desiderio della nicotina. A Simon piacciono le cose forti. A me per niente. Non sono il tipo di persona che preferisce lo sballo alla salute.

    «Be’, non sarebbe male, ma no. Pensavo a un bambino che dorme nell’altra stanza».

    «Abbiamo già una bambina che dorme nell’altra stanza».

    «Abbiamo una signorina che dorme nell’altra stanza», rispose con gentilezza, non in modo brusco.

    «Be’, non possono rimanere piccoli per sempre».

    «Non è questo il punto».

    Sentivo il calore del suo corpo contro il mio, eppure tremavo. «Dici sul serio?»

    «Amo molto Millie. E te», aggiunse subito. «Non sopporto l’idea di non poterle dare il massimo».

    «Le diamo tutto quel che possiamo», sottolineai.

    «Tranne un fratellino», ribatté.

    «Sì, ma non è che glielo stiamo negando. Solo, non è successo. Verosimilmente non capiterà perché nessuno di noi due tornerà giovane». E non siamo mai stati bravi a concepire, ma non lo dissi. Non parliamo degli orrori passati per avere Millie. È risaputo che il dolore del parto si dimentica nel momento in cui hai tuo figlio tra le braccia. Nel mio caso anche il dolore di anni di tentativi.

    «Dovremmo fare in modo che accada. Millie è così socievole e adorabile. Non sopporto l’idea che sia figlia unica».

    «Avere fratelli non sempre è un vantaggio», controbattei. «Tu non hai alcun rapporto con tua sorella».

    «No, ma tu adori la tua. Voglio che Millie abbia quel che condividete tu e Rose». Si voltò verso di me e nei suoi occhi vidi un fuoco. Avrei dovuto capire allora che non avrebbe lasciato cadere la cosa. È un uomo molto determinato, quando vuole.

    Testardo, direbbe mia madre.

    2

    Simon

    In sala d’attesa faceva freddo. L’aria condizionata appena troppo alta. Fuori c’era il sole e la gente aveva azzardato magliette e prendisole, ma non Daisy che aveva sempre freddo e quindi sedeva avvolta nella giacca. Sembrava pronta a scappare da un momento all’altro. Una sorta di protesta. Simon sapeva che Daisy non voleva essere lì. Capiva. Ricordava la tristezza collegata a posti come quello, certo che lo ricordava. E Daisy aveva ragione, erano già perfettamente felici, ma il punto era che avrebbero potuto esserlo ancora di più. Perché no? Perché fermarsi?

    Quando era annoiato, nervoso o stressato, Simon aveva l’abitudine di battere ritmicamente il tallone sul pavimento, il che gli faceva vibrare con forza la gamba senza che se ne rendesse conto, fino a quando Daisy non gli posava una mano sulla coscia per calmarlo e chiedergli tacitamente di smettere. Proprio come in quel momento. Lui si fermò, prese un quotidiano e diede una rapida sfogliata. Non trovò nulla che catturasse la sua attenzione. Solo articoli sulla crisi finanziaria e politici beccati con le braghe calate, niente di nuovo. Lo posò e iniziò a fischiettare senza accorgersene fino a quando Millie, ridacchiando, non iniziò a ballare sulla melodia, salvandolo da un probabile e severo rimprovero da parte di Daisy. Se la sua irrequietezza e stravaganza divertivano Millie, Daisy le perdonava sempre. Nonostante l’aria condizionata brutale, Simon si sentiva appiccicoso. Il sudore gli pizzicava sotto le ascelle. Dio, ci sarebbe stato bene qualcosa da bere.

    Aveva convinto Daisy a venire in clinica a patto che si trattasse solo di una chiacchierata con il dottor Martell, uno dei migliori medici della fertilità o, per usare il nome corretto, endocrinologo riproduttivo. Gli avrebbero chiesto quali erano le loro alternative, valutato le possibilità. Così le aveva detto. Ma aveva mentito. Dieci giorni prima, Simon era già stato dal dottor Martell per un controllo generale e un’analisi della qualità e delle condizioni del suo sperma. Voleva guadagnare tempo. Molti anni prima, gli avevano detto che il suo sperma aveva una bassa motilità, ma alla fine non era stato un problema. Era stato come con la lepre e la tartaruga e Millie ne era la prova. Comunque Daisy aveva ragione: sapeva bene di essere sette anni più vecchio di quando avevano concepito Millie. Lo erano entrambi, ovviamente. Questo però non significava che fossero per forza fuori dai giochi, no? Simon voleva sapere se da allora c’era stato qualche progresso scientifico, qualcosa che potesse dare ai suoi ragazzi un vantaggio, se è chiaro il concetto… o almeno qualcosa che potesse riportarli a una condizione di parità. Leggeva in continuazione articoli che parlavano di donne diventate madri in tarda età. Era convinto che prendere l’iniziativa e sottoporsi per primo alle analisi avrebbe incoraggiato Daisy. Sapeva di chiedere molto. Le analisi e gli eventuali trattamenti successivi a cui si sarebbe dovuta sottoporre erano molto più duri di qualsiasi cosa dovesse sopportare lui. La FIVET era stata faticosa, ma ne sarebbe valsa la pena.

    Simon smise di fischiettare, ma Millie andò avanti a ballare. Era in un mondo tutto suo, la musica continuava nella sua testa. Forse sentiva una vera e propria orchestra. Forse era sul palco del teatro dell’Opera di Parigi. Millie era una meraviglia! Aveva un talento incredibile, eccezionale. Danzava in modo incantevole. Era il tipo di bambina che per indole trascorreva la giornata saltellando, volteggiando e svolazzando. Daisy spesso si diceva meravigliata da sua figlia perché a lei non era mai stato suggerito di prendere lezioni di danza: da bambina il suo soprannome – a casa la chiamavano così – era Graziosa Elefantina. Saltellava e si muoveva in modo piuttosto goffo. Anche Simon da bambino non aveva studiato danza, la sua famiglia era troppo tradizionale per una cosa del genere, ma a lui piaceva pensare di essere piuttosto bravo a dimenarsi in pista (frase che diceva con autoironia). Senza dubbio era bravo negli sport in generale. Aveva sempre pensato che Millie avesse ereditato la sua innata bravura nel ballo dalla sua famiglia: sua sorella era stata una grande ginnasta e da bambina se la cavava piuttosto bene con il tip tap. Di certo era brava a prendere il volo, pensò Simon con un sospiro. Aveva annunciato il trasferimento in Canada un mese dopo che alla madre era stato diagnosticato l’Alzheimer. Simon continuava a ripetersi che fosse una coincidenza, ma non ne era certo. Che fosse stata una seccatura, invece, ne era sicuro.

    Millie adorava tutto ciò che era frivolo, carino, leggero e volteggiante. Daisy l’aveva iscritta a danza prima che compisse tre anni. Non che fosse una madre particolarmente pressante o ambiziosa, è solo che Millie aveva bisogno di incanalare da qualche parte l’energia e il desiderio di volteggi e piroette. Si scoprì che era molto brava, quasi straordinaria. La sua insegnante diceva che in diciannove anni di esperienza non aveva mai visto tanta concentrazione e grinta in un’allieva così piccola. Daisy insegnava – non danza, in quinta elementare – e comprendeva bene l’importanza di quell’affermazione. Con entusiasmo aveva spiegato a Simon che i maestri devono stare molto attenti a quel che dicono ai genitori perché tutti tendono a farsi trasportare. Tutti credevano di aver dato la vita a uno spettacolare, piccolo miracolo quando invece la maggior parte dei bambini era nella media.

    Però, evidentemente, Millie era uno spettacolare, piccolo miracolo.

    Simon la seguì con lo sguardo nella sala d’attesa: correva qua e là sulle punte, con le braccia alzate, come nastri, e il mento sollevato con eleganza. Un adorabile connubio di infantile abbandono e seria concentrazione. Nella sala la guardavano tutti con un trasporto simile al suo, era impossibile non farlo. Suscitava varie emozioni: divertimento, piacere, delizia. Daisy sembrava divisa tra la felicità e l’imbarazzo. Aveva detto che portare una bambina in una clinica della fertilità era una mancanza di tatto, che dava l’impressione che volessero vantarsene.

    «Non abbiamo bisogno di sbatterglielo in faccia», aveva detto. Simon aveva trovato la scelta delle parole divertente, particolare. Credeva che la presenza di Millie in sala d’attesa sarebbe stata d’incoraggiamento. Non c’era dubbio che fosse speciale. Certo che dovevano tentare di avere un altro figlio. Millie sarebbe potuta diventare la prima ballerina del Royal Ballet, perché no? Chissà chi altro potevano creare: un astronauta, il nuovo Steve Jobs, la persona che avrebbe scoperto la cura per il cancro. O anche solo un uomo o una donna gradevole, cordiale con i vicini, fedele al proprio partner, un genitore premuroso. Era la vita. La vita! Cosa c’era di più importante? Si doveva provare, no? Si doveva.

    Millie danzava ogni giorno. Si arrabbiava se mancava a una lezione e anche durante le vacanze si ritagliava un paio di ore per allenarsi. Aveva solo sei anni, ma era molto dedita. Era sorprendente. Ambiziosa. La sua vita era un onnipresente tulle rosa. Quando aveva iniziato ad andare a scuola, aveva sofferto di crisi ogni giorno. Simon e Daisy si erano sentiti confusi e preoccupati. «Hai amici, Millie?», «La tua insegnante è gentile con te?», «Ti piace la mensa?», «Riesci a trovare il tuo posto sull’attaccapanni?», avevano chiesto, spremendosi le meningi per capire la possibile causa dell’irritazione e del fastidio.

    «Sì, sì, sì, sì», aveva sbottato Millie in lacrime.

    «Allora qual è il problema?», aveva chiesto Simon, esasperato e nervoso. Si era preso un giorno al lavoro per rimanere con Daisy a cercare di convincere la piccola a entrare in classe.

    «L’uniforme è orribile!», aveva urlato. «È verde. La voglio rosa». La spiegazione, detta tra i singhiozzi, lo aveva fatto ridere. Daisy alla fine aveva risolto la questione cucendo un fiocco rosa lungo l’orlo interno della gonna. Un gesto che Simon aveva sempre considerato una dimostrazione di pura intelligenza e dedizione.

    «Mi mette molto a disagio entrare con Millie in sala visite», bisbigliò Daisy. «Capisce abbastanza di quel che diciamo da prestare attenzione. Non voglio darle la speranza di un fratellino in arrivo». Dato che aveva appena ricordato la storia del fiocco rosa, Simon fu più incline ad accontentarla.

    «Okay, che ne dici se entro prima io, ascolto quello che ha da dirci e poi tu vai dopo di me?»

    «Non ci vorrà il doppio del tempo?», Daisy sembrava ansiosa. C’erano altre due coppie in sala, in attesa, forse, di vedere il dottor Martell. «Mi sentirei malissimo se sforassimo».

    «Lo paghiamo, quindi non preoccuparti».

    «È scortese». Per Daisy la cortesia era molto importante. Ciò a Simon a volte piaceva, altre lo trovava frustrante.

    «Be’, che suggerisci? Anche andarsene sarebbe scortese».

    Daisy annuì. «Immagino di sì».

    In quel momento, apparve un’infermiera ben vestita. Aveva un bloc-notes e dei modi sbrigativi. Emanava efficienza. «Il signore e la signora Barnes?».

    Simon si alzò, baciò Daisy sulla testa. «Non avere quell’aria preoccupata. È l’inizio di una meravigliosa avventura», le disse. «Ti amo».

    3

    Daisy

    Non appena Simon si alza, Millie si precipita a occupare il suo posto, ma senza per questo smettere di agitarsi. Invece, stende le gambe davanti a sé e inizia ad allungare e tirare le punte verso il soffitto. Amo la sua energia. È delicata e al tempo stesso forte, una combinazione vincente. Io ero una bambina robusta. A 14 anni avevo già raggiunto il metro e cinquantacinque, non ero un’aggraziata spilungona stile modella, ero grossa e sgraziata. Avevo le braccia larghe come la vita delle altre ragazze, il seno sembrava pendere sulla pancia come quello di una vecchia. Spero che con Millie la pubertà sia più gentile. Mi preoccupa che possa aver ereditato la mia altezza. Non è l’ideale per una ballerina, a meno che non vada in Russia, là sono tutte alte. Mi cruccio che incoraggiandola a ballare la stia praticamente spingendo verso la dismorfofobia. Millie però non è come me. Da ragazza avevo gli occhiali, i brufoli, i capelli rossi, le lentiggini e i vestiti sbagliati. E anche quelli giusti, su di me, sembravano sbagliati. Per alcune persone va così, non possiamo nascere tutti belli.

    Il buono di avere quarantacinque anni è l’essermi lasciata alle spalle tutta l’angoscia per il mio aspetto. Ho imparato ad accettarmi, a ricavare il meglio da me, che è ciò che le donne come me devono fare. A ogni modo, non smetterò mai di sbalordirmi per mia figlia. Dolce, eppure sicura. La guardo e so che ho fatto qualcosa di buono. Non importa cosa mi è costato.

    Prima che Millie arrivasse, abbiamo cercato un figlio per dieci anni. Molte coppie giovani e felicemente sposate aspettano un paio di anni prima di decidere di averne uno. Quando ho conosciuto Simon, mia sorella Rose era già madre di due adorabili bambini, gemelli! Mi sono resa conto che per avere una qualche influenza sui miei genitori, in termini di fornitura nipoti, avrei dovuto tentare e, idealmente, avere una femmina. Scherzo, non è stata l’innata competizione tra sorelle a spingermi a procreare, semplicemente adoro i bambini e desideravo essere madre. Da bambina giocavo solo con le bambole. Non mi interessavano il Didò, gli album da colorare o i Lego, per me tutto si riduceva a fare finta di essere una mamma. A dodici anni, ho iniziato a badare ai cuginetti e poi a quindici ai figli dei vicini. Sono un’insegnante di scuola elementare. Mi piacciono i bambini, quelli sfacciati, vivaci e birichini, quelli timidi, creativi o coccoloni. Tutti.

    Buttai la confezione della pillola la mattina del matrimonio. Fu una delle cose più emozionanti della giornata. Per i primi mesi, all’arrivo del ciclo, non mi preoccupai troppo. Ero impegnata a sistemare la nostra casa. Avevamo comprato un monolocale a nord di Londra, ero occupata ad appendere quadri, scegliere i mobili, far installare la lavatrice. Era tutto nuovo e inebriante. All’epoca ogni faccenda noiosa sembrava una deliziosa sorpresa. Essere adulti era una novità. Trovavo eccitante poter ciondolare in pigiama tutto il giorno nelle piovose domeniche invernali, poter usare l’espressione mio marito e, se lo desideravamo, andare insieme al supermercato alle nove di sera a comprare una vaschetta di gelato. Eravamo responsabili del nostro tempo e dei nostri soldi, eravamo una coppia. Una libertà così eccitante. Aspettavamo solo che iniziasse il livello successivo.

    Al nostro primo anniversario di matrimonio, iniziai ad avvertire un po’ di disagio. Avevo questa fantasticheria segreta su me che annunciavo la gravidanza quel giorno. Mancava un mese al mio trentesimo compleanno. Simon aveva trentadue anni, ancora giovane. Eppure. Prendemmo appuntamento dal medico di base. Rise. Ci disse che avevamo moltissimo tempo davanti a noi, ci disse di rilassarci. Incalzai: «C’è qualcosa che posso fare?». Il dottore si assicurò che non fumassi e mi suggerì di ridurre l’alcol. «Inizi a preparare il suo corpo, se lo desidera. Ma senza privazioni. Non sia sciocca. Si comporti semplicemente in modo sano. Come movimento, valuti lo yoga. Andrà tutto bene. Non avete nulla di cui preoccuparvi».

    Feci di tutto per velocizzare il processo. Presi l’acido folico, iniziai a meditare, smisi di bere. Tutto insieme. Simon compensava. Invece di dividerci una bottiglia durante il pasto, se ne scolava una da solo. Non mi importava, era divertente e rilassato da ubriaco. Non dico che di solito fosse teso, ma a suo modo è un uomo riservato. Più a suo agio nelle situazioni uno a uno.

    Al nostro secondo anniversario, suggerii che dovesse smettere di bere anche lui. Che forse saremmo dovuti tornare dal dottore e fare delle analisi. Concordò sull’ultimo punto.

    Controllarono me per prima. Non so per quale motivo, forse perché dal punto di vista medico il problema è più spesso delle donne, o magari è solo sessismo. Non mi sorpresi quando i risultati arrivarono e resero chiaro che fosse colpa mia. Avevo dei fibromi: nel mio utero crescevano tumori benigni, non cancerosi, estrogeno-dipendenti. Causavano dolore pelvico e flusso mestruale abbondante. Ma anche, forse, infertilità. Mi fu raccomandata una miomectomia per rimuoverli. La facemmo e passarono altri due anni, ancora nessuna gravidanza e così vedemmo un altro dottore. Una dottoressa, che prescrisse delle analisi anche a Simon. Non riuscivo a credere ai risultati. Anche lui aveva dei problemi. Sperma lento e di bassa qualità. Era colpa di entrambi.

    Fu un periodo molto difficile. Sembrava che ci vedessimo entrambi sotto una luce differente. Pur non volendo, mi ritrovavo a pensare che lui fosse un po’ meno perfetto, non così meraviglioso. Mi resi conto che probabilmente lui pensava lo stesso di me già da un po’.

    La mia storia, la nostra storia, non è speciale né insolita. Tutti conoscono qualcuno che ha

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