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Verità e bugie
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E-book422 pagine6 ore

Verità e bugie

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Info su questo ebook

Autrice del bestseller Una mamma silenziosa
Un grande thriller

Il pericolo è in casa tua. Ed è qualcuno che conosci.

La detective Amy Winter sogna di ripercorrere le orme del padre, un pluridecorato agente di polizia. Ha dimostrato più volte la sua determinazione e al distretto non c’è nessuno più motivato di lei. 
Ma la sua vita viene improvvisamente sconvolta da una lettera della pluriomicida Lillian Grimes. Responsabile di una serie di efferati omicidi risalenti a decenni prima, è il male incarnato. Con il marito formava la coppia di serial killer ribattezzata “Le Bestie di Brentwood”. 
E Lillian è la madre biologica di Amy. 
Adesso è pronta a rivelare dove ha sepolto tre delle sue vittime, ma solo se Amy sarà disposta a seguire le sue regole. Per evitare un nuovo spaventoso omicidio, Amy accetta di partecipare a quel gioco malato, mentre cerca di venire a patti con i fantasmi del passato che si fanno sempre più minacciosi. 
Ma è possibile che, da dietro le sbarre, Grimes abbia ordito una trama ancora più crudele di quanto Amy possa immaginare?

Un’autrice da 1 milione di copie 
Bestseller internazionale 
N°1 nelle classifiche di New York Times, USA Today e Washington Post 

«Questo libro ha tutto quello che serve: un’eccellente indagine ad alta tensione, una trama coi fiocchi e uno straordinario approfondimento psicologico. Mi ha catturata sin dalla prima pagina.» 
Angela Marsons 

«Appassionante, avvincente e… da brivido. Una narrazione eccellente, altamente raccomandata.» 
Patricia Gibney 

«Con la sua esperienza in polizia, Caroline Mitchell è una scrittrice in grado di creare trame e personaggi sensazionali.» 
My Weekly
Caroline Mitchell
È una detective della polizia che ha deciso di dedicarsi a tempo pieno alla scrittura, diventando in breve tempo un’autrice bestseller di «USA Today». Lavorando a stretto contatto con le vittime di crimini violenti, ha sempre trovato di ispirazione la loro tenacia. Nata in Irlanda, vive nell’Essex con il marito e i tre figli. Con la Newton Compton ha pubblicato La vittima silenziosa, Una mamma silenziosa e Verità e bugie.
LinguaItaliano
Data di uscita15 gen 2021
ISBN9788822750310
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    Anteprima del libro

    Verità e bugie - Caroline Mitchell

    Capitolo uno

    1986

    Fu quel rumore a portare Poppy laggiù, in quel posto in cui non aveva il permesso di andare. Un suono strano, come di qualcuno che grattava. Arricciò il naso quando i piedi nudi si posarono sui gradini. Quanto le sarebbe piaciuto poter cancellare quella puzza nauseante. Non voleva pensare al ragno che aveva intessuto le gigantesche tele tra le travi dello scantinato. Si guardò intorno. Vernice scrostata alle pareti, scatoloni di cartone impilati in alte torri contro le mura. «Hammy», sussurrò, con il cuore che le svolazzava nel petto come una farfalla impazzita. Aveva messo via la sua bibita speciale della buonanotte, perché le faceva venire gli incubi, e quelli non li voleva proprio. Prima, distesa a letto, non era riuscita a chiudere occhio, e soprattutto non era riuscita a togliersi dalla testa il suo animaletto, tutto solo e sperduto nel buio. «Hammy», sussurrò una seconda volta. Il pavimento del seminterrato era freddo sotto i suoi piedi.

    Sbirciò nella penombra, superò il vecchio materasso che giaceva a terra. Senza fare rumore. Non sapeva perché mai il suo papà tenesse un letto nella stanza in cui lavorava, ma quelle macchie rosse la spaventavano. Rialzò lo sguardo, fissò i gradini del seminterrato. Possibile che il criceto avesse fatto tutta quella strada da solo? E poi di nuovo quel rumore. Qualcosa che grattava… e grattava… e grattava ancora. Proveniva da un grosso cassettone di legno nell’angolo, ma era troppo forte, impossibile che un animale così piccolo facesse tanta confusione. Poppy si irrigidì. Se Hammy non c’entrava niente, chi era che grattava?

    «Che ci fai quaggiù?», le chiese Sally-Ann all’improvviso. Poppy fece un salto e si girò a guardare la ragazzina, in cima alle scale. Era più una madre che una sorella per lei. Quando mamma e papà erano fuori casa, era Sally-Ann a badare a loro. Ma quel giorno aveva gli occhi spalancati, grandi come piattini da tè, e poi era così pallida. Ogni traccia di colore era svanita dal suo viso.

    Poppy si morse il labbro. Aveva infranto le regole, e adesso era nei guai. Guai grossi. «Hammy è scappato», sussurrò, indicando l’angolo della stanza. «È laggiù». Ma il rumore graffiante era cessato, e adesso era stato rimpiazzato da un gemito basso. Poppy afferrò le maniche della camicia da notte dei Mini Pony, stringendo il tessuto e strattonandolo fino a coprirsi le dita strette a pugno. Moriva dalla voglia di ficcarsi il pollice in bocca, ma sapeva che se l’avesse fatto si sarebbe beccata un’altra terribile sgridata, e la situazione era già parecchio brutta.

    I piedi di Sally-Ann volavano leggeri sugli scalini. La raggiunse. «Quello non è Hammy», le sussurrò, alzando lo sguardo verso la lama di luce che giungeva dall’alto. Poi fissò di nuovo la sorella dritto negli occhi. «E tu non dovresti essere qui». La sua voce si tramutò in uno squittio quando una porta sbatté al piano di sopra. «È papà. Accidenti, se ci becca siamo fritte». La prese per il braccio, la trascinò via, cercando di fuggire da dove erano arrivate. Ma era troppo tardi.

    Passi pesanti, sempre più rumorosi, riecheggiavano lungo il corridoio.

    Le dita di Poppy si conficcarono nella carne mentre stringeva ancora più forte i pugni. Se il papà le avesse trovate laggiù, le avrebbe frustate con la cintura.

    «Nasconditi, presto», sibilò Sally-Ann, con le piccole dita che pizzicavano la pelle della sorella mentre la spingeva via.

    «Mi fai male», strillò lei, con le lacrime che già le inumidivano gli occhi. Quello che avrebbe voluto dire in realtà era che aveva paura, anzi, che non aveva mai avuto così tanta paura in tutta la sua vita. Il terrore che vide negli occhi di sua sorella le disse che rischiavano qualcosa di peggio di una semplice frustata. Sapeva che Sally-Ann aveva visto delle cose, cose segrete che non poteva raccontare a nessuno. I passi erano sempre più vicini. Pochi secondi, non di più, e poi il padre le avrebbe prese. «Nasconditi là dentro», annaspò Sally-Ann, infilandole le mani sotto le ascelle per sollevarla da terra. «E non piangere. Non devi fare rumore, hai capito? Nemmeno un fiato. Qualunque cosa succeda, tieni la bocca chiusa. Mi hai sentito? Qualsiasi cosa succeda. Oppure è finita anche per te!».

    Poppy si ritrovò ficcata a forza in un cesto dei panni sporchi pieno per metà di lenzuola macchiate. Le chiazze erano dello stesso colore di quelle che insozzavano il materasso: un rosso pieno, scuro. Il cuore le saltò in gola quando si strizzò in quello spazio ristretto, soffocante. Un pensiero terribile – troppo terribile per la mente di una bambina di quattro anni – le fece capire che quella sostanza secca e piena di croste era sangue. Soffocò un gemito quando Sally-Ann la coprì con un lenzuolo e rimise il coperchio al cesto. Cacciando indietro le lacrime, si dimenò nel cotone che la avvolgeva, la imprigionava. Un buco nel cesto le permise di sbirciare il padre che scendeva le scale barcollando. Alto, imponente, sembrava più un gigante che un uomo mentre si portava la bottiglia alla bocca. I suoi lineamenti si contorsero per la rabbia mentre si guardava intorno, e Poppy pregò che sua sorella avesse fatto in tempo a trovare un nascondiglio. Non poteva permettersi di pensare al sangue che macchiava le lenzuola. E neppure al motivo per cui suo padre stava trascinando il cassettone che prima era addossato contro l’angolo del muro. Un sorriso si affacciò sul volto del papà. Ma era un sorriso cattivo. Poppy risucchiò un sospiro tra le labbra, le tremava il mento. Quanto le sarebbe piaciuto tornare nel suo letto.

    Quando suo padre tirò fuori dal cassettone il corpo nudo e insanguinato, Poppy si mise una mano sulla bocca, e poi anche l’altra, per impedirsi di urlare. Ma Sally-Ann era più brava a dare consigli che a seguirli. Poppy rabbrividì quando la sentì distintamente trattenere il fiato. La reazione del padre fu rapida, fulminea. Si avvicinò a grandi passi agli scatoloni, strinse forte le trecce di Sally-Ann, la trascinò fuori, poi raccolse la bottiglia che aveva lasciato a terra. Sbuffando infuriato, le tirò i capelli mentre alzava la bottiglia.

    Poppy chiuse forte forte gli occhi e si infilò le dita nelle orecchie per bloccare il rumore. Non stava succedendo davvero. Non era possibile. Un caldo fiotto di urina le scendeva lungo le cosce, la paura la mordeva, la soffocava.

    Poppy sapeva che era tutto troppo reale. Gli occhi si spalancarono, come mossi da volontà propria. Vide sua madre che scendeva le scale.

    «Ma che hai fatto?». Lillian era orripilata, senza fiato.

    Poppy ingoiò le lacrime e seguì lo sguardo della mamma. Stava fissando Sally-Ann, immobile, abbandonata sul pavimento del seminterrato.

    Capitolo due

    Il ticchettio della pioggia sugli ombrelli neri – un rumore come di dita che tamburellavano – non riusciva a coprire i singhiozzi della folla in lutto. Amy invidiava le loro lacrime. Piegò la testa in segno di rispetto. Il padre sarebbe stato orgoglioso dei colleghi del MET (e quindi anche suoi). Sporgendosi in avanti, afferrò una manciata di terra umida e la gettò sulla bara. Qualcuno lanciò delle rose, e per Amy fu un conforto ammirare il muro compatto di uniformi screziate di pioggia che si riunivano per tributare l’ultimo omaggio.

    Cercò – invano – di non irrigidirsi quando suo fratello, Craig, le mise un braccio sulla spalla. Le diede una stretta rapida, poi si tirò indietro di scatto, e lei gli rispose con un mezzo sorriso di scuse. Che razza di donna era? Incapace di piangere al funerale di suo padre, adesso incapace addirittura di accogliere un abbraccio colmo di affetto. Togliendosi i guanti, se li ficcò nella tasca della giacca, sfiorando i bordi duri del portachiavi di 007 che il padre le aveva dato sei mesi prima. Si schiarì la gola, sentendo che si serrava mentre mandava giù il dolore e il lutto. Chi avrebbe visto i film di Bond insieme a lei adesso?

    Appena ventiquattr’ore dopo il funerale, Amy si ritrovò parcheggiata su una poltrona di pelle nel bungalow di Dougie Griffith. Lo stesso posto in cui suo padre si era accomodato durante le visite al suo ex partner di lavoro, una volta a settimana per tutti gli ultimi otto anni.

    Gli occhi grigi di Amy danzarono tra le foto che ingentilivano la mensola del camino. C’era la storia di tutta la vita di Dougie, lì in bella mostra: uno scatto mosso dei genitori, emigrati dalla Giamaica per inseguire il sogno di una vita migliore; l’appartamento di East London in cui Dougie era cresciuto; un primo piano del primo giorno di scuola. La foto successiva strappò un sorriso ad Amy: un Dougie sbarbatello, in uniforme, il primo giorno di lavoro, i capelli afro infilati a forza sotto il casco, il petto gonfio di orgoglio. Aveva conosciuto il padre di Amy nel corpo di polizia dell’Essex, si erano trasferiti al MET insieme. Ma il loro rapporto professionale era stato bruscamente interrotto quando Dougie era rimasto vittima di un incidente che l’aveva costretto sulla sedia a rotelle. Gli occhi di Amy caddero sull’ultima foto: Dougie e suo padre in un pub, i calici alzati per celebrare l’ultimo successo, l’ultimo criminale sbattuto al fresco. Com’era possibile che un cuore che aveva battuto con tanto impeto, animato da una così fervente sete di giustizia, si fosse fermato senza preavviso, derubando tutti loro dell’opportunità di dirgli addio? Amy sospirò. Uno spirito così forte non poteva spegnersi. Doveva pur essere rimasto qualcosa di lui da qualche parte. Qualcosa che la aiutasse a stringere i denti e andare avanti.

    «Ti direi di tornartene a casa, ma immagino che sprecherei il fiato e basta». L’accento di East London di Dougie la strappò dai suoi pensieri.

    «Esatto», disse lei, sorseggiando il tè dolce e caldo con un sorriso scaltro. «Sai bene quanto papà amasse le sue tradizioni. Non ho nessuna intenzione di rompere questa proprio adesso».

    Dougie fece manovra e spinse la carrozzina al suo fianco, facendo bene attenzione a non versare neppure una goccia di tè. Aveva disposto le tazze su un vassoio che teneva in equilibrio sul grembo. Piccole, umili vittorie come questa gli erano costate sacrifici e tempo. C’era voluto l’aiuto costante e indispensabile di suo padre. La voce di Dougie era morbida, adesso, gli occhi marroni scintillanti di compassione.

    «Tesoro, hai appena perso tuo padre. Hai il diritto di soffrire per un po’. Non sentirti obbligata a mostrarti forte».

    «Mi sa che ti toccherà starmi accanto», disse Amy, cercando di tenere a freno le lacrime. «E non credere che sia stato il senso del dovere a portarmi qui. Nessuno fa un tè più buono del tuo».

    Dougie ridacchiò. «In tal caso, la mia porta è sempre aperta». Si prese un secondo per bere un sorso. «Come va con il tuo nuovo team? Ti stai inserendo bene? Ti hanno già affidato qualche caso importante?».

    Amy si rilassò sulla poltrona. Sì, meglio parlare di lavoro. «Mi trovo bene con il mio sergente. Lo conosci? Patrick Byrne. Un tempo era il mio tutor. Ha lavorato nella Firearms prima di essere trasferito alla crimini gravi. Capelli scuri, sui quarantacinque anni…». Non era insolito che un agente ricoprisse incarichi diversi nel corso della carriera.

    «Paddy Byrne? Sì, certo che lo conosco. Sarà un ottimo braccio destro, andrete alla grande insieme».

    Amy annuì. Patrick Paddy Byrne era il suo più fidato collega, anche se non poteva negare che formassero una coppia parecchio strana. Lui aveva dieci anni più di lei e la sovrastava di trenta centimetri buoni; con il suo metro e sessanta Amy pareva una nanerottola al suo fianco. Ma quello che le mancava in altezza lo compensava con il carattere, e insieme formavano un duo formidabile contro la criminalità. «Gli altri del team mi sono sembrati contenti di avermi al timone. Anche se devo ammettere che è merito più che altro della reputazione di papà».

    «Con il tempo dimostrerai il tuo valore», Dougie le scoccò un’occhiata consapevole. «Come sta Craig? Non sono riuscito a parlargli al funerale».

    Come lei, suo fratello era entrato in polizia il giorno del diciottesimo compleanno. Ma dato che Craig aveva cinque anni di più, era partito con un bel vantaggio. La competitività era una costante fonte di attrito tra loro; di recente Craig era stato promosso al rango di ispettore del Criminal Investigation Department. «Se n’è andato presto», disse lei. Preferiva non scendere nei dettagli. Gli voleva bene, e non si sarebbe certo messa a spettegolare alle sue spalle.

    Dougie si accorse che era a disagio e cambiò argomento. «Mi mancherà molto tuo padre. Non sarà la stessa cosa senza di lui».

    Amy mandò giù quel che restava del tè. Chiuse gli occhi e immaginò Dougie e Robert di fronte a un tavolo, intenti a scambiarsi aneddoti assolutamente esagerati e vecchie storie di guerra. E adesso non lo avrebbe rivisto mai più. Un’ombra le attraversò il viso a quel pensiero. «Lo renderò orgoglioso di me. Non lo deluderò».

    «Lui è sempre stato orgoglioso di te. Pensa a tutte le cose che sei riuscita a ottenere. Tutti i tuoi successi». Il suo vecchio amico scosse la testa. «La tua vita non è iniziata nel migliore dei modi. Non sei nata con la camicia, questo è sicuro».

    Posando la tazza vuota sul tavolo, Amy lo fissò con un misto di curiosità e sorpresa. «Che vuoi dire?».

    Dougie si mosse sulla carrozzina, in difficoltà, la testa bassa per evitare il suo sguardo. «Che vergogna, mi sono messo a fare il sentimentale. Dai, facciamoci un goccio come si deve. Un brindisi a tuo padre».

    Amy sapeva che sarebbe stato indelicato offrirgli una mano per recuperare la bottiglia di rum giamaicano dalla credenza della cucina. Un brivido gelido le scese lungo la spina dorsale mentre Dougie recuperava i bicchieri e il ghiaccio. Ficcò i pugni chiusi sotto le maniche del maglione di lana che si era messa giusto un’ora prima. Non riusciva a dare un nome alla paura improvvisa che come un fiume scorreva adesso nelle sue vene. Non era abituata a combattere contro l’ansia, quindi quell’assalto inaspettato la lasciò senza fiato. Aprì la mano, accettò il tumbler colmo di rum e ghiaccio che Dougie le offriva, si impose di piegare le labbra in un sorriso.

    «A tuo padre». Dougie alzò gli occhi al soffitto insieme al bicchiere. «E al tuo futuro».

    I due bicchieri si toccarono mentre Amy ripeteva l’augurio. Ma quel brivido aveva evocato una strana sensazione. Sapeva che il passato non aveva ancora finito con lei.

    Capitolo tre

    Le sbarre della prigione erano fredde contro le guance di Lillian. Erano passati cinquantotto minuti da quando aveva visto il sole. Viveva solo per quei brevi momenti nel cortile degli esercizi, quando poteva riempirsi i polmoni di aria fresca e pulita. Percepiva ancora l’odore di pioggia che indugiava nelle sue narici, anche se, ormai, non osava chiudere gli occhi e trarre un respiro come si deve. L’ultima volta che ci aveva provato si era beccata un pugno nello stomaco e una bella sfilza di calci alla spina dorsale appena era crollata a terra. Si toccò la nuca nel punto che era rimasto calvo, sfregò le dita sui capelli che cominciavano solo adesso a ricrescere. Un’altra ferita. L’ennesima di quella settimana. I secondini la tenevano d’occhio, ma con i tagli al personale non era mica facile stare dietro a tutto.

    La cosa era nata con il funerale di quello sbirro. Ah, e poi quella stupida stronza che aveva spifferato tutto alla stampa. Gladys Thompson la conosceva appena, eppure i giornalisti le si erano fiondati addosso come mosche sul miele. E come si erano bevuti le sue storielle sulla malattia terminale e sul desiderio straziante di donare alla figlioletta una sepoltura degna di questo nome. Lillian sbuffò. Se era una mammina così fantastica, come mai a dodici anni la figlia vagava per le strade tutta sola, quel giorno? Erano passati decenni dagli omicidi, eppure l’opinione pubblica ancora non mollava la presa.

    I pestaggi in carcere, gli articoli, il fiume ininterrotto di lettere grondanti d’odio: tutto la costringeva a tenere la testa fissa su quella storia. Perché Jack era morto, lasciandola nella merda da sola? Era tutta colpa dello stress dell’arresto, e proprio quando stava per vuotare il sacco! Gli era venuta una crisi di coscienza, o forse aveva intenzione di proporre una specie di baratto – io vi dico dove sono sepolti i corpi, voi mi garantite delle condizioni migliori. Be’, in ogni caso il silenzio in cui Lillian si era trincerata era il suo personale guanto di sfida. Perché mai avrebbe dovuto aiutare la polizia dopo tutto quello che le avevano fatto? Era così che la pensava lei… almeno fino a quel momento. Avrebbe accontentato quella Gladys, ma solo perché tornava comodo anche a lei. Si voltò verso il tavolino instabile, lisciando la lettera che aveva scritto un’ora prima. L’aveva lasciata lì a riposare, dando il tempo all’inchiostro di parlarle, di sussurrarle le parole che scorrevano nella sua testa, ancora e ancora, senza sosta.

    Cara Amy,

    so che questa lettera sarà uno shock per te. Dubito che la tua famiglia ti abbia rivelato la verità sul tuo passato. Forse non ti hanno nemmeno detto che sei stata adottata. Non voglio finire i miei giorni in questa cella senza rivederti un’ultima volta. Sono la tua madre biologica. La donna che ti ha donato la vita.

    Avevi solo pochi anni quando ti hanno strappato dalle mie braccia. E guardati adesso. So che non appena avrai letto queste mie frasi, vorrai sbarazzarti di questa lettera, cancellare ciò che ti ho scritto. Forse ti sentirai disgustata, o magari la tua prima reazione sarà negare tutto, chiudere gli occhi di fronte alla realtà. È più facile andare incontro al futuro con la ferma convinzione che nelle tue vene non scorra neanche una goccia di sangue impuro. Ma tu non sei mai stata una di quelle che scelgono la via più facile, non è vero? La mia Poppy. Mia figlia.

    Nel profondo del tuo cuore, non puoi negare me, per quanto la verità faccia male. È il mio sangue quello che ti scorre nelle vene. Non so quali bugie ti possano aver raccontato i tuoi genitori adottivi, ma ti abbiamo amato moltissimo. Tutti e due.

    So che ti rifiuterai di venire a trovarmi, perciò ho intenzione di portarti qui nell’unico modo che conosco. Ci sono altri tre corpi sepolti. Altre tre famiglie a cui puoi donare la pace. Ti aiuterò a trovare i cadaveri. Ma non farmi aspettare. Rispondimi entro una settimana, o mi porterò i miei segreti nella tomba.

    Per sempre tua,

    Lillian

    Capitolo quattro

    Il sole del mattino gettò una lama di luce in mezzo alle file di tapis roulant disposti in perfetto ordine, a intervalli regolari, nella palestra. Attrezzatura ed equipaggiamento erano nuovi. A incitare i clienti ci pensava Britney Spears, con la sua Work Bitch che pompava il beat dagli altoparlanti. Amy afferrò un asciugamano riscaldato dalla pila attentamente posizionata accanto al distributore dell’acqua. La Five Star Gym era un bel passo in avanti rispetto allo scantinato di casa dei suoi, dove aveva ammucchiato qualche attrezzo, stando ben attenta a non disturbare i ragni in agguato dietro ogni angolo buio.

    «Non mi aspettavo di vederti oggi». Era il suo ispettore capo, Hazel Pike. Aveva una voce un po’ roca per via delle sigarette, anche se ci aveva dato un taglio da quando era stato introdotto il divieto di fumare all’interno dei luoghi pubblici.

    «Perché? È giovedì. Ci alleniamo sempre il giovedì», disse Amy, tenendosi alla larga dal vero motivo per cui Pike era così preoccupata. Negli ultimi due mesi aveva colto spesso l’opportunità di utilizzare la palestra fuori orario. Il proprietario era il figlio di Pike, e quel lusso – accesso libero a qualsiasi ora senza sovrapprezzo – non lo concedeva certo al primo che passava. Amy adorava il senso di cameratismo che si creava in quelle sessioni. E adorava anche la possibilità di racimolare informazioni fresche direttamente dalla bocca dell’ispettore capo.

    «Sai a cosa mi riferisco», disse Pike, gli occhi dello stesso colore del suo nome: Hazel, ovvero nocciola. I morbidi capelli castani erano lunghi sul davanti, più corti sulle tempie e sulla nuca, il fisico tonico ma con tutte le curve al posto giusto. Amy non l’aveva mai sentita chiamare nessuno con il nome di battesimo. Usava solo il cognome, e si aspettava che gli altri facessero lo stesso con lei. Per Amy non era un problema, per quanto Pike non fosse il vocabolo più melodioso del mondo.

    «Papà vorrebbe che tenessi duro. Che non mollassi». Era vero. Il lavoro, le scadenze e la routine le davano forza. Finché avesse continuato a tenere fede ai suoi impegni, sarebbe rimasta in piedi.

    «Be’, se è questo ciò che vuoi». Pike alzò gli occhi al cielo mentre le casse presero a sparare un pezzo movimentato di will.i.am. «Non so proprio perché dobbiamo ascoltare questa robaccia. Cos’ha che non va George Michael? Io mi ci faccio sempre delle belle sudate».

    Amy sorrise, controllando l’ora. «Che ne dici di una veloce sessione sul tapis roulant prima di darci da fare un po’ con i guantoni?».

    Molte delle loro chiacchierate iniziavano e finivano mentre correvano fianco a fianco, con Pike che parlava senza alcuno sforzo e Amy che sbuffava nel tentativo di reggere il suo passo fluido e le sue ampie falcate. Senza perdere tempo, impostò il tapis roulant alla solita velocità. Quel giorno aveva voglia di correre in silenzio, ma una decina di minuti più tardi Pike iniziò a chiacchierare. Amy non sapeva cosa dire. Le pareva che fosse passato troppo poco tempo dalla morte del padre per mettersi a fare conversazione.

    «Come sta tua madre?», le chiese Pike, dopo averla ragguagliata sulle ultime novità della sua vita familiare.

    Povera mamma, pensò Amy. «Tiene duro». Distolse lo sguardo, sforzandosi di camuffare la sua bugia. La notte precedente, camminando in punta di piedi in corridoio, l’aveva sentita singhiozzare in camera sua. «E il lavoro?», chiese, cercando una scusa per cambiare argomento. Un piccolo segno di rispetto verso la madre.

    «Lo vuoi sapere davvero?». I piedi di Hazel picchiavano con forza sul tapis roulant, eppure sudava appena. Di ispettori capo ne rimanevano pochi all’interno delle forze di polizia, il rango veniva lentamente soppiantato. Pike era stata fortunata a mantenere il suo status, svolgendo la funzione di crime manager del dipartimento. Anche se ciò significava che passava più tempo a sbrogliare questioni di amministrazione che a supervisionare le indagini.

    Amy ansimava, picchiando sul pulsante per alzare la velocità di un’altra tacca. «Le cose vanno male?»

    «Ti copre Gladwell. Lo sai com’è fatto. Non gli piace dire di no».

    L’ispettore Andrew Gladwell era ancora fresco di accademia, e bruciava dalla voglia di dare una mano. Cosa che a volte faceva più male che bene al team. La squadra di Amy era stata formata sei mesi prima proprio allo scopo di gestire i casi più delicati, quelli che finivano sulle prime pagine dei giornali. Una mossa che era diventata necessaria dopo la recente ondata di cattiva pubblicità che aveva investito la polizia. Amy gemette al pensiero del suo dipartimento che cadeva in preda al caos. «La nostra funzione non è affatto quella di dare una mano a chi non ce la fa», disse, immaginando i colleghi sommersi da documenti che avrebbero dovuto essere smaltiti dal CID.

    «Se la caveranno», rispose Hazel, con respiri profondi, regolari. Ma la sua espressione contraddiceva le sue parole. Amy conosceva bene quella smorfia. Una piccola riga che si scavava tra le sopracciglia quando si sentiva sotto stress.

    «Rientro. Oggi». Amy mulinò le braccia mentre riversava la frustrazione nelle gambe sempre più stanche. Si asciugò il sudore che le irritava gli occhi prima di controllare come se la passava Hazel. L’istinto della competizione la spronava a stringere i denti e continuare.

    «È troppo presto», disse Hazel. «Ma magari fa’ un salto domani, se vuoi. Ci prendiamo una tazza di tè. Il command team ha chiesto report quotidiani». Si interruppe per riprendere fiato. «Ci stanno con il sul fiato sul collo. Siamo sotto pressione».

    Amy controllò il display – un bip le aveva appena comunicato che aveva raggiunto l’obiettivo dell’allenamento quotidiano. Il tapis roulant rallentò automaticamente. Adesso stavano camminando, non più correndo. Il bisogno di saperne di più la tormentava, le bruciava sulla pelle come uno sfogo cutaneo. Il tapis roulant si fermò, Amy prese l’asciugamano e si tamponò la fronte. «Dunque… a proposito del lavoro».

    «Non te l’avrei detto se avessi pensato che ti saresti preoccupata così tanto», disse Hazel, attraversando la stanza per prendere un paio di guantoni rossi da boxe.

    «Non sono preoccupata», mentì lei, invidiando un po’ l’ispettore capo. Prima di quelle sessioni nella palestra privata, Amy era costretta ad accontentarsi di un vecchio sacco appeso al soffitto nella cantinetta deserta dei suoi. Il padre aveva tirato su una palestra artigianale, vecchiotta ma funzionale, ed era stata Amy a convincere la sua DCI a provare con la boxe. Sollevò i pad, piantò per bene i piedi a terra, le gambe appena divaricate, e si preparò a incassare i colpi in arrivo. Con i bicipiti in tensione, assorbì i pugni con una piccola scintilla di soddisfazione. Per quanto fosse in forma, il suo ispettore capo ancora non riusciva a picchiare forte e veloce come lei.

    «Il tuo ex faceva il giornalista, non è vero?», chiese Hazel, prendendosi una pausa per togliersi i guantoni. Era ora di darsi il cambio. «Ricordo bene quello che diceva tuo padre. Immagino che tu abbia avuto modo di farti un’idea approfondita di come lavora quella gente».

    «Puoi dirlo forte». Amy cercò di nascondere il suo disagio mentre Hazel parlava di suo padre. Per un mezzo secondo, si ripromise di rimproverarlo per il suo brutto vizio di aprirsi troppo. E poi si ricordò che era morto. Fece un profondo respiro, con la gamba sinistra in avanti, assestò una serie di jab e di diretti destri che costrinse Pike a indietreggiare di un paio di passi.

    «Ricordami sempre di non farti incazzare», le disse lei, prima di sollevare di nuovo i pad, con un rivolo di sudore che finalmente le rigava il volto.

    Amy sorrise prima di caricare il pugno e sferrare un gancio destro. A testa bassa, continuò a martellare: sinistro, destro, sinistro, destro, scaricando tutte le emozioni che aveva accumulato. Con una torsione del fianco e del piede d’appoggio, il suo corpo si spostò in modo armonioso, come le aveva insegnato suo padre. La potenza con cui il guanto impattava il pad. Amava quella sensazione. Un pezzo dance la spinse a bruciare ancora più energie. Amy avvertì il sentore del suo stesso sudore.

    «Passo verso le otto», disse, asciugandosi la fronte. La sessione era finita. «Voglio vedere come se la cava il team».

    «È troppo presto», ripeté Pike. «Va’ a casa, piangi, sfogati. Apriti una bottiglia di vino. Ce la caveremo anche senza di te per un po’».

    «Voi sì, ma io no», disse Amy, con una voce più severa di quanto avesse voluto. Si bloccò, offrendo al suo capo un sorriso tremante. «Non avevo mai perso una persona cara prima». Anche se dentro di sé quelle parole avevano il sapore della bugia. Ricordi, oscuri e rancidi, appestavano i recessi più profondi della sua mente. Negli ultimi tempi stava diventando sempre più difficile tenerli giù. Si fermò, respirò a fondo, con una morsa nel petto. «Non so come gestirlo. Il lutto… ti consuma. L’unica cosa che mi permette di mantenere la sanità mentale in questo momento è il lavoro».

    «Bene, allora, Winter, fa’ come ti pare», disse Pike. «Non è difficile capire da chi hai ripreso quella testa dura!».

    «Lo prendo come un complimento». Finse un sorriso. Sapeva che Hazel sentiva la mancanza di suo padre. Come tutti. Tornare al lavoro era l’unico modo che aveva per impedire che il dolore la divorasse viva.

    Capitolo cinque

    Amy sorrise mentre sua madre faceva scivolare un piatto colmo di cibo sul tavolo di fronte a lei. Salsicce, bacon, funghi e fagioli rilasciavano un aroma dolce che sapeva di casa.

    «Sei sicura di rientrare già al lavoro?», le chiese Flora, versando due tazze dalla teiera sul tavolo. «Sono passati solo pochi giorni».

    «È proprio quando ti senti più debole che devi essere più forte», disse Amy, citando suo padre. «E poi hanno bisogno di me. Papà vorrebbe che io facessi così». Riluttante, piegò le dita intorno al coltello e alla forchetta. Dopo l’allenamento, l’ultima cosa che desiderava era una colazione abbondante. Un suono umidiccio da sotto il tavolo le disse che Dotty, il suo adorato carlino, era già in prima fila per aiutarla a finire tutto.

    Gli occhi di Flora si accesero al nome di Robert. Ricacciò indietro le parole che corsero alle sue labbra. Non riusciva ancora a parlare del marito senza scoppiare a singhiozzare.

    Amy invece doveva ancora versare la prima lacrima. La sua incapacità di piangere era stata motivo di stupore per i suoi compagni durante gli anni della scuola, e perenne fonte di imbarazzo per lei.

    «E non devi nemmeno cucinarmi la colazione. Anzi, sono io che dovrei badare a te». Amy infilò una forchetta e la portò di contrabbando sotto il tavolo mentre la madre era girata dall’altra parte. Un rapido suono soddisfatto segnalò che Dotty aveva sbrigato la pratica con efficienza. «Te la caverai senza di me per qualche ora?»

    «Non ti devi preoccupare, più tardi passa Winifred». Flora chiuse la finestra della cucina, gocce di pioggia screziavano il vetro. Amy sospirò guardando sua madre. Come lei, era bassa di statura, ma mentre Amy era un fascio di muscoli, Flora stava appassendo pian piano. L’ansia era una compagna costante della sua vita, e la morte di Robert le aveva presentato un conto salato da pagare. Avrebbe voluto abbracciarla, dirle che sarebbe andato tutto bene, ma per il momento subaffittare il suo appartamento per andare a stare un po’ da lei era il massimo che potesse fare. Anche perché il suo caro fratello non poteva certo sacrificare la sua rampante vita sessuale solo per confortare la povera madre, no?

    Se non altro Flora conosceva molti degli altri residenti di Royal Crescent, la via di villette a schiera in cui vivevano a Holland Park. Le scoppiava la testa se pensava che quella proprietà valeva due milioni di sterline e passa. Molte case della via erano state divise in appartamenti, ma alcune resistevano ancora nella forma originale, con i residenti che nei giorni di sole condividevano i giardini comuni. Per Amy non era stato certo un grande sacrificio trasferirsi nella sua vecchia tana al quarto piano. La casa era luminosa, ogni stanza arredata con gusto. Guardò la finestra a ghigliottina alle spalle della madre. Pioveva ancora. Sarebbe andata in ufficio in bicicletta. Dopo aver mandato giù un po’ di fagioli, fece scivolare sotto al tavolo una fetta di bacon prima di alzarsi.

    «Te ne vai, tesoro? Ma se hai appena toccato cibo!».

    «Scusa». Amy alzò le spalle. «Non mi va di mangiare troppo dopo l’allenamento».

    «Allora è una fortuna che Dotty abbia fame per

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