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E-book385 pagine5 ore

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Info su questo ebook

A volte il senso di tutta una storia si capisce in un solo minuto

Londra, 31 dicembre 1999. Alla festa che saluterà l’inizio del Nuovo Millennio, Hanna incontra Richard. Lui è un affascinante newyorkese con un’ottima posizione sociale. Lei è una londinese sicura di sé e per nulla interessata ai bravi ragazzi americani. Vengono da due mondi diversissimi e non hanno nulla in comune, se non la loro immediata – e reciproca – attrazione. Quando l’orologio batte la mezzanotte, entrambi capiscono che quell’incontro cambierà per sempre le loro esistenze.
New York, 12 maggio 2012. Hanna e Richard non si parlano da quando lei gli ha spezzato il cuore per l’ultima volta, ma Hanna si presenta nel suo ufficio di Wall Street per rivelargli un segreto esplosivo. Richard un tempo era convinto che fosse la sua anima gemella, e invece Hanna ha distrutto il loro amore. Riuscirà a perdonarla e a permetterle di rimettere insieme i pezzi della loro storia?

E se avessi trovato l’uomo giusto ma la vita avesse in serbo per te un altro destino?

Bestseller in Inghilterra

«Una lettura perfetta, la storia completa e senza fine dell’amore di Richard e Hanna.»

«Una storia brillante e ben scritta, commovente e irresistibile.»

«Avete presente quando incappate per caso in un libro e si rivela essere quello giusto per voi? Ecco, è questo.»

Un romanzo d’amore che sembra un film
Carrie Elks
Laureata in Scienze politiche, ha conosciuto il suo attuale marito al college. Ha vissuto in America e in Svizzera e attualmente abita vicino a Londra. È autrice di romanzi d’amore con un pizzico di suspense.
LinguaItaliano
Data di uscita29 gen 2016
ISBN9788854192225
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    Anteprima del libro

    Abbi cura di me - Carrie Elks

    1

    31 dicembre 1999

    Ormai la sua valigia sarebbe dovuta apparire. Guardò il nastro di gomma che le scorreva davanti, portando bagagli di ogni forma e dimensione. Forse la sua borsa marrone e logora si vergognava troppo per farsi vedere in mezzo a tutte quelle griffate Louis Vuitton e Henk.

    Hanna conosceva bene quella sensazione.

    Aveva ricominciato a mangiarsi le unghie. Erano già consumate fino al vivo, e lo smalto nero che si era messa solo un paio di giorni prima si stava staccando a scaglie. La sua matrigna non riusciva a capire perché non optasse per la french manicure, molto più di classe, e perché non riuscisse ad andare dall’estetista con regolarità. Alla fine scorse la sua valigia che avanzava lungo il nastro del ritiro bagagli, e cercò di superare la seccata madre di due bambini che aveva davanti. La donna teneva in braccio un bimbo, mentre con l’altro muoveva un passeggino avanti e indietro, cercando di far addormentare un neonato.

    «Permesso», mormorò Hanna, protendendosi in avanti quel tanto che bastava per afferrare la maniglia della valigia, poi si tirò indietro e la portò sul pavimento di piastrelle grigie. Era pesante, piena di abbigliamento da sci e abiti caldi. Quasi non aveva avuto il tempo di indossarli.

    Quel giorno non avrebbe nemmeno dovuto viaggiare. Doveva essere allo chalet di suo padre, a Val d’Isère, insieme alla matrigna e alle sorellastre di undici anni. Lui però era stato deluso da lei fin dal primo momento: nell’attimo in cui l’aveva osservata con attenzione, aveva arricciato il naso per il disgusto.

    «C’è qualcosa di diverso nei tuoi capelli o sbaglio?». Il suo sguardo era carico di collerica disapprovazione.

    Hanna aveva provato a reprimere un sorriso in risposta a quell’eufemismo. Nell’anno trascorso dall’ultima volta che l’aveva vista, era diventata Goth. Si era tinta i capelli di nero con riflessi rossi e aveva cambiato modo di truccarsi, la pelle chiarissima e le labbra molto, molto scure. Il tocco finale al look era una gonna nera morbida e un corpetto nero stretto.

    Il ricordo dell’espressione furente di Philip nell’osservare il suo nuovo aspetto le fece incurvare le labbra in un’espressione divertita. Caricò la valigia su un carrello per il trasporto bagagli, le cui dimensioni la resero impacciata nei movimenti.

    A Philip era quasi venuto un colpo di fronte al suo nuovo look, e Olivia aveva decretato che Hanna sarebbe dovuta restare perennemente chiusa nello chalet, temendo che qualcuno dei suoi amici potesse vederla.

    Hanna doveva restare il loro sporco segretuccio per una settimana. Ma dopo due giorni trascorsi a leggere libri e ingozzarsi di cioccolato, si annoiava troppo.

    Aveva scoperto che Philip, Olivia e le sue sorelle avrebbero trascorso il Capodanno nel castello di alcuni loro amici a circa ottanta chilometri da Val d’Isère, e lei non era stata invitata. Ne era risultata una lite furibonda, al termine della quale Hanna era stata cacciata dallo chalet e caricata sul primo volo per Londra, con un generoso salasso al conto corrente di Philip.

    Giurò a se stessa, dato che aveva quasi diciotto anni, che non si sarebbe mai più sottoposta alla tortura di una settimana bianca. Se suo padre voleva passare del tempo con sua figlia maggiore, il che nella mente di Hanna non era affatto scontato, allora sarebbe dovuto andare lui a Londra a trovarla.

    Lei e sua madre non erano ricche: in qualsiasi altra città avrebbero potuto condurre una vita agiata, in una casa di medie dimensioni con giardino e garage. Invece con gli introiti di Diana nell’organizzazione di feste potevano permettersi un appartamentino con due camere da letto nei pressi di Putney. Dal momento in cui era fuggita dal matrimonio con Philip Vincent e la società di Manhattan, Diana si era rifiutata di accettare denaro da lui. Non era un problema se Philip comprava qualcosa per la figlia, ma lei non prendeva un centesimo per sé.

    Quando Hanna arrivò a casa, nel tardo pomeriggio, fuori era già buio. La strada, inondata del tenue chiarore arancio dei lampioni, era costeggiata di case a schiera in stile vittoriano, di mattoni rossi ed elaborate, con l’intonaco che veniva via e le pareti in rovina. Hanna adorava l’elegante facciata di quelle villette un tempo maestose, con i portici dipinti di bianco e i vialetti con le mattonelle bianche e nere, che si opponevano in un netto contrasto al rumore e alla modernità della vita londinese.

    Pescò le chiavi nella borsa, sapendo che Diana sarebbe rimasta tutto il giorno fuori per lavoro, impegnata nell’organizzazione del party annuale della famiglia Larsen. Anche se non li aveva mai conosciuti, Hanna sapeva che i Larsen erano tra i migliori clienti di sua madre. Il veglione di Capodanno era sempre stata la serata più impegnativa di Diana, e il fatto che si trattasse dell’avvio di un nuovo millennio portava il tutto a un livello ancor superiore.

    Era entrata in casa da due minuti quando il telefono cominciò a suonare. Un rapido sguardo al display la informò che aveva già tre messaggi in segreteria: qualcuno aveva una gran fretta di parlare con lei o con Diana. Sperò con tutto il cuore che non fosse suo padre.

    «Pronto?»

    «Hanna? Grazie al cielo sei arrivata. Tutto bene? Com’è andato il volo?». Quasi non prese nemmeno fiato. «Tesoro, ho tre ragazze colpite da quell’orrendo virus gastrointestinale. Ho bisogno che ti infili un’uniforme e vieni ad aiutarmi… questa festa sarà un disastro assoluto». Abbassò la voce a un sussurro per pronunciare l’ultima frase, e Hanna si domandò chi altro ci fosse con lei.

    «Okay, dammi l’indirizzo». Si infilò il telefono tra orecchio e spalla e prese un pezzo di carta.

    «Cheyne Walk, numero 5, a Chelsea. Prendi un taxi, ti ridò io i soldi. Ah, e, Hanna…» Il tono di sua madre scese di un’ottava.

    «… Potresti smorzare un pochino il look?» la imitò lei, che aveva già capito dove stava andando a parare.

    Dopo una doccia, un passaggio di acetone per eliminare lo smalto e uno di struccante, Hanna riuscì a trovare un taxi libero. Si era fermata i capelli in uno chignon ordinato e si era data appena un velo di trucco, e indossava la tipica tenuta da cameriera: gonna corta nera con una semplice camicetta bianca.

    Quando raggiunse la casa bussò un paio di volte alla porta dipinta di nero con il largo battente d’ottone. Venne ad aprirle un uomo in uniforme che lei non riconobbe, e che dunque non poteva essere uno dei dipendenti di Diana. I Larsen erano abbastanza ricchi da potersi permettere del personale a tempo pieno.

    Entrata nell’ingresso, restò senza fiato di fronte allo sfarzo che si trovò di fronte. La stanza si apriva su tutti e tre i piani della casa, e c’era una scalinata di marmo che curvava verso il piano superiore. Al centro dell’elegante pavimento di piastrelle c’era l’albero di Natale più grande che avesse mai visto, con delle lucine bianche che risplendevano dal basso verso l’alto, fino alla stella del puntale. Doveva essere alto almeno sei metri.

    «Hai visto qualcosa di bello?». Le si drizzarono i peli sul collo nel sentire quelle parole, pronunciate con un dolce accento americano. Si voltò di scatto e vide un ragazzo in fondo alle scale. Indossava un paio di jeans scuri larghi che gli pendevano sui fianchi in modo quasi osceno e una maglietta stretta nera con la scritta Columbia stampata in blu sul davanti.

    E poi il suo viso, Dio, il suo viso. Con quella mandibola definita, le labbra carnose, il naso dritto e gli occhi verde muschio, la fronte liscia incorniciata da un ciuffo di capelli castani chiari acconciato ad arte. Era identico a tutti gli altri ragazzi perfetti di Manhattan che avesse avuto la sventura di conoscere.

    Respirò velocemente e guardò Perfettino dritto negli occhi. «Non direi. Mi stavo solo chiedendo se Charlie Brown sentisse la mancanza del suo albero di Natale».

    Si voltò e corse verso la cucina, sentendo a stento lo scoppio di risa di lui mentre si allontanava, e represse il sorriso che minacciava di farsi strada sulle sue labbra.

    La serata era appena diventata interessante.

    Sua madre era al centro della cucina con un cucchiaio in una mano e un walkie talkie nell’altra. La cucina non era quella tipica da ricchi, in legno di quercia e granito: era tutta in acciaio inossidabile, con forni professionali, di quelle per cui uno chef sarebbe disposto a uccidere. Era difficile immaginare che qualcuno usasse il fornello a dieci fuochi solo per bollire un uovo.

    «Hanna, tesoro, che bello vederti». Diana fece il giro dell’isola centrale e abbracciò sua figlia, che si rilassò tra le sue braccia e serrò gli occhi con forza mentre sentiva la tristezza e lo stress degli ultimi giorni scivolarle via di dosso.

    Sua madre le era mancata.

    «Anch’io sono felice di vederti».

    «Ho una mezza idea di chiamare tuo padre e dirgli cosa penso di lui. Non posso credere che ti abbia trattata in quel modo, quel borioso, bigotto…».

    «Mamma, non ti preoccupare». Le rivolse un sorriso afflitto. «Penso che la mia lunga invettiva sia bastata per entrambe. Ora voglio solo dimenticare».

    Una dolce voce arrivò dalla porta della cucina: «Diana, cara, c’è qualcosa in cui hai bisogno d’aiuto?». Hanna si voltò e vide una donna minuta sorridere a entrambe. Aveva il viso a cuore contornato da morbidi riccioli avorio.

    «Credo che abbiamo tutto sotto controllo» rispose Diana. Hanna la vide incrociare le dita dietro la schiena mentre parlava. «Claire Larsen, sono felice di presentarle mia figlia, Hanna Vincent».

    Claire si fece avanti e allargò le braccia per salutare la ragazza attirandola a sé per un bacio leggero. «Hanna, è una gioia conoscerti, ho sentito tanto parlare di te da tua madre. E naturalmente conosco anche tuo padre e sua moglie».

    Lei fece una smorfia nel sentir nominare Philip e Olivia, ma si affrettò a mutare espressione. «Anche per me è un piacere». Sorrise alla donna che aveva di fronte. Era più bassa di lei di una spanna buona, anche se indossava un paio di scarpe col tacco davvero costose.

    «Hai uno splendido accento, e adoro i tuoi capelli. È un colore davvero interessante».

    Di solito quando qualcuno definiva qualcosa di Hanna interessante si trattava di un malcelato insulto. Olivia sembrava usare quella parola spesso, in sua presenza; ma il tono gentile di Claire le fece capire che pensava sul serio quel che diceva.

    «Grazie».

    «Più tardi voglio presentarti alla mia famiglia. Credo che mio marito, Steven, ti troverebbe affascinante: è un fan segreto di Marilyn Manson. E poi Ruby e Richard ti adorerebbero». Claire era un fiume in piena. Hanna arretrò dalla sua ospite americana: non era abituata a essere trattata con tanta gentilezza.

    «Richard e Ruby?», domandò.

    «Ruby è mia figlia. Ha dieci anni, frequenta la St Nicholas».

    Lei annuì. Se l’aspettava: la St Nicholas era una costosa scuola privata londinese. Sospettava che Ruby Larsen si sarebbe rivelata una fastidiosa ragazzina annoiata, proprio come le sue sorellastre.

    «Richard invece è figlio di mio marito, nato dal suo primo matrimonio. È all’ultimo anno della Columbia… mi mancherà quando tornerà a New York». Il sorriso di Claire si spense quando continuò: «Il mio ragazzo, invece, Nathan, è da qualche parte sulle Ande alla ricerca di se stesso».

    «È davvero sconsiderato andare a perdersi in un luogo tanto lontano», rispose Hanna, facendola ridere.

    «Sei proprio uguale a tua madre». Claire le prese il viso tra le mani, in un gesto di confidenza che la sorprese, poi si allontanò. «Ricordati di venire a parlare con me, stasera: sarai una boccata d’aria fresca in mezzo a tutti quei colletti inamidati».

    «Le porterò un panino con la salsiccia». Hanna le fece l’occhiolino, poi andò da sua madre a chiederle cosa doveva fare.

    Tra la madre gentile, il figlio belloccio e il padre amante di Marilyn Manson, Hanna si disse che forse quella famiglia le sarebbe piaciuta sul serio.

    Richard Larsen prese un altro bicchiere di champagne da un cameriere che passava tra la calca di invitati alla festa. Era fresco al tocco, e delle goccioline di condensa gli scivolarono lungo le dita mentre lo teneva. Prese un sorso e diede una rapida occhiata alla sala in cerca di qualcuno – chiunque – di interessante con cui parlare.

    Indossava il suo solito smoking con una camicia bianca di sartoria e una cravatta nera. L’abito gli calzava a pennello, e la giacca gli aderiva alle spalle ampie. I pantaloni erano della misura perfetta per la vita stretta. Aveva il fisico di chi pratica un bel po’ di sport.

    Da quando era arrivato a Londra aveva potuto concedersi di comportarsi come un ventenne, cosa che non gli capitava da tempo. Aveva indossato jeans, magliette e felpe con il cappuccio senza far sollevare nemmeno un sopracciglio. Era stato nei pub, aveva bevuto pinte di birra e aveva flirtato con belle ragazze, la maggior parte delle quali sua madre avrebbe definito come troppo inferiori al suo livello sociale.

    Purtroppo quel genere di festa gli ricordava un po’ troppo casa sua, sua madre e le sue amiche.

    Vedendo suo padre e Claire in un angolo del salotto, si fece largo tra la gente e li raggiunse. Mentre avanzava, colse qualche brandello di conversazione.

    «Certo, John è reperibile per intervenire nel momento in cui il millennium bug dovesse colpire…».

    «Che emozione, il River of Fire¹. Bob Geldof è come un Gandalf moderno…».

    Non capiva una parola di quel che dicevano. Faceva fatica perfino a interpretare l’accento, e ancor più difficile era riuscire a comprendere di cosa parlassero quegli inglesi.

    «Richard». Claire lo notò quando fu a circa un metro da lei. Lui si avvicinò alla sua matrigna e le diede un bacio su una guancia. Profumava di lavanda e rose, e gli sfiorò un lembo del vestito. «Sei sempre bellissimo con lo smoking. E sembri anche più grande».

    «Tu invece sei splendida come sempre, Claire», le rispose. Lei si lisciò l’abito e gli rispose con un gran sorriso.

    «Che ammaliatore. Diventi ogni giorno più simile a tuo padre».

    Con la coda dell’occhio, Richard notò qualcuno che si avvicinava. Chiunque fosse, era vestito di bianco e nero, e immaginò si trattasse di un cameriere.

    «Posso offrirvi una salsiccia del Cumberland avvolta in pasta choux e accompagnata da miele e salsa di senape?». La riconobbe subito. L’aveva vista all’ingresso, qualche ora prima. I capelli scuri e la pelle chiara erano difficili da ignorare.

    «A me sembra un panino con la salsiccia», sorrise Claire. Sembravano troppo in confidenza per essere solo una cameriera e la sua datrice di lavoro. «Hanna Vincent, ti presento mio marito, Steven Larson, e suo figlio Richard».

    «Ho tanto sentito parlare di te, Hanna». Suo padre fu il primo a parlare. «A quanto pare Claire pensa che dovrei prepararti una compilation».

    Richard aggrottò la fronte, confuso. Come cavolo facevano a conoscere quella ragazza? Non sembrava un’assidua frequentatrice di feste come quella. Era più un fascio d’energia selvaggia, priva di un filtro vocale.

    «Potrei essere io a prepararne una per lei», ridacchiò Hanna.

    «Mi farebbe piacere. Credo di non aver mai ricevuto in dono della musica da una ragazza bella come te». Steven era tutto sorrisi e fascino naturale. Il suo modo innocente di corteggiarla fece arrossire Hanna, e Richard osservò incantato il sangue caldo che le coloriva le guance, facendole brillare la pelle.

    La ragazza si rivolse a Claire: «Ma quanto champagne ha bevuto?».

    Aveva anche l’eccesso di modestia tipico degli inglesi. Richard aveva una gran voglia di vederla arrossire di nuovo. «Hanna Vincent, è un vero piacere conoscerti». Le prese la mano e se la portò alle labbra, aspettandosi un tremito, un sospiro. Qualsiasi cosa.

    Invece non ci fu nulla. Lei lo fissò e basta, con un’espressione divertita negli occhi, mentre le lasciava la mano.

    «Anche per me, Perfettino. Quasi non ti riconoscevo in cravatta nera. Ti invecchia».

    Perfettino? Lo smoking lo invecchiava? Come mai suo padre riceveva sguardi timidi e rossori mentre a lui erano riservate solo frecciatine?

    «Be’, cara la mia ragazza Goth, ti chiedo scusa per averti sconvolta con il mio abbigliamento». Biascicò le parole apposta, consapevole del fatto che il sarcasmo era la forma di arguzia più bassa.

    Hanna lo guardò e gli sorrise. «Sono stata molto felice di conoscervi tutti. Ora però devo proprio andare a offrire agli ospiti interiora di maiale avvolte in pasta sfoglia». Con quelle parole se ne andò, avvicinandosi al gruppo che stazionava all’altro angolo della stanza. Richard la osservò mentre si allontanava, ammirando il modo in cui la gonna stretta le aderiva al posteriore rotondo.

    Steven aveva inarcato un sopracciglio. Un’espressione perplessa gli passava sul volto mentre osservava suo figlio. Richard non diceva nulla, scuoteva il capo e sorrideva.

    Dopo l’arrivo della mezzanotte e dopo aver cantato Auld Lang Syne, Richard passò nell’atrio con l’idea di andarsene a letto. Notò Hanna seduta in cima alle scale accanto a una sagoma esile che somigliava in modo straordinario a sua sorella.

    Lui e Ruby erano molto affiatati, nonostante vivessero in Paesi diversi. Era sempre in pena per lei: non era la tipica bambina di dieci anni tutta vestitini rosa e shopping. Era furba, divertente, leggeva libri come se non ci fosse un domani e amava disegnare tutto ciò su cui posava lo sguardo. Era diversa, e questo faceva di lei un bersaglio. Richard sapeva quanto detestasse andare a scuola ed essere giudicata dalle altre ragazze. Perfino lì a Londra la trattavano come una reietta.

    Salì le scale in punta di piedi e decise di origliare la loro conversazione, prima di palesare la sua presenza. Da ciò che riusciva a sentire, era Ruby a parlare di più: strano.

    «… No, le Spice Girls mi piacevano abbastanza. Però odio Britney Spears, e Christina Aguilera fa veramente schifo. Insomma, facevano parte dei Mouseketeers, santo cielo».

    «Chi erano i Mouseketeers?». Hanna parlava in tono gentile e divertito. Qualche passo in più e sarebbe riuscito a vedere il suo viso.

    «Quelli del Mickey Mouse Show. Facevano balli stupidi, sketch… quel genere di roba. Che deficienti». La voce di Ruby era bassa, come se sapesse bene che non doveva essere fuori dal letto a parlare con una sconosciuta in cima alla scalinata di marmo.

    «Sembra terrificante. Grazie al cielo hai lasciato l’America in tempo».

    Ruby ridacchiò. «Preferisco i Nine Inch Nails. Trent Reznor è fantastico».

    Stavolta Hanna rise con lei. «È incredibile che a dieci anni si possano apprezzare i Nine Inch Nails. Sarà colpa di tuo padre: Claire mi ha detto che è un grande fan di Marilyn Manson».

    «Oh. Mio. Dio. No, no, no. Continua a scambiare Marilyn Manson con Marilyn Monroe. È un fan della biondona, non del cantante. Dio, che imbarazzo».

    A quelle parole, Richard scoppiò a ridere. Steven cercava sempre di restare al passo con le mode, e di solito nel farlo si ridicolizzava in modo irreparabile. Non che gli importasse: per fortuna suo padre era sempre pronto a ridere di se stesso.

    «Sei tu, Richard? Cosa fai, ti aggiri furtivo come al solito?», squillò la voce di Ruby.

    Lui salì gli ultimi scalini e vide sua sorella seduta accanto a Hanna, appoggiata a lei mentre chiacchieravano. La ragazza aveva le gambe piegate, le ginocchia tirate al petto. Era difficile non fissarle i polpacci.

    Hanna lo guardò. «Ci hai beccate. Adesso farai il bravo Perfettino e manterrai il nostro segreto oppure dobbiamo imbavagliarti?».

    Richard provò una gran voglia di rispondere con una battuta volgare. Si morse la lingua, però, ricordando a se stesso la presenza di sua sorella.

    «Che ci fai quassù, Lestofante? Pensavo non volessi partecipare alla festa». Rivolse a Ruby un sorriso indulgente. Se avesse saputo che voleva partecipare, sarebbe stato felice di farle compagnia.

    «Volevo vedere i fuochi a mezzanotte. Non potrei sopportare di sentirmi chiedere da tutti cosa ho fatto all’arrivo del nuovo millennio e dover rispondere che mi nascondevo nel letto come una disadattata».

    Richard trasalì. A volte dimenticava quanto fosse grande ed estremamente acuta, e odiava sapere che si sentiva una persona strana.

    «Però adesso ho sonno», riprese Ruby. «Hanna, mi accompagni a letto?». Distese le braccia e tornò a sembrare una bambina.

    «Ti aiuto, Hanna» le sussurrò lui, e di colpo si rese conto che gli piaceva sentire quel nome sulle labbra. Si voltò verso Ruby e la prese in braccio. «Milady, la carrozza l’attende», disse.

    La piccola ridacchiò mentre la portava nel corridoio e si mise una mano sulla bocca per smorzare il suono e non farsi scoprire dagli invitati di sotto. Hanna li seguiva da vicino, e Richard avvertiva fin troppo la sua presenza.

    Ruby posò la testa sulla spalla del suo fratellone con tenerezza.

    «Grazie, Richard. Sei un fratello maggiore fantastico».

    «Migliore anche di Nathan?». La portò in camera da letto, girandosi quel tanto che bastava per farle passare le gambe dalla porta.

    «Nathan non è un fratello, è un animale. Ogni volta che ci vediamo mi lancia in aria. Ho sempre il terrore che non mi prenda al volo». Parlava con voce impastata di sonno.

    Dopo averla distesa, lui le rimboccò le coperte. Hanna era rimasta sulla soglia a guardarli. Quando le sorrise, Richard sentì gli angoli degli occhi incresparsi, e quando lei rispose sorridendo a sua volta, nel vedere la curva di quelle labbra piene, sentì qualcosa sprofondargli nello stomaco.

    «Be’, Lestofante, ti prometto che io ti prenderò sempre», sussurrò Richard dandole un bacio sulla fronte. Ruby si era già addormentata, e i suoi respiri brevi e leggeri avevano un ritmo delicato.

    «Tua sorella è davvero dolce», disse Hanna quando la raggiunse sulla porta. «È il contrario delle mie malvagie sorelle. Sei molto fortunato».

    «Hai delle sorelle?»

    «Sorellastre», rispose. «Ci tengo a ricordare a me stessa che siamo parenti solo a metà. Sono il diavolo sotto le spoglie di gemelle undicenni, e già mi considerano socialmente inferiore a loro».

    «Sembrano davvero adorabili», fece lui, di nuovo biascicando. Una luce si accese negli occhi di Hanna.

    «Sono una vera minaccia. Se vuoi, possiamo fare a cambio». L’idea lo fece sorridere. Quelle ragazzine sembravano proprio il genere di persone che avrebbero dato il tormento a Ruby.

    «Insomma, che ci fai quassù? Non dovresti infilare crostini giù per la gola di ignari ospiti?». Era strano sentirsi così a suo agio lì, al piano di sopra con Hanna, lontano dalla festa e dalla folla.

    «Sono in pausa. Ho ancora…». Diede uno sguardo all’orologio. «Un quarto d’ora».

    «Ah, quante cose si possono fare in un quarto d’ora. Infinite possibilità». Sorrise, sfiorandola con il corpo quando superò la soglia e uscì nel corridoio. «Ti va di venire in camera mia?»

    «Porca miseria, non perdi tempo, eh?», esclamò lei, e Richard si trovò a ripensare a quanto aveva appena detto.

    «Oh, cazzo, non intendevo quello». Si torse le mani, nervoso. «Dico davvero, non era una proposta, cioè, non che tu non sia carina. Volevo solo dire… ho la PlayStation nuova, il gioco di Tony Hawk e due controller con su scritti i nostri nomi. Ti va di giocare con me?». Era agitato, spiazzato dalla propria idiozia e dalla risposta che lei gli aveva dato.

    «In questo caso come potrei dirti di no? Ma ti devo avvisare, sono una frana assoluta ai videogiochi».

    Mentre Richard preparava la PlayStation nella sua camera, Hanna esaminò gli scaffali, guardando i CD che aveva, come se cercasse di capirlo dai generi musicali che ascoltava. Vedendola perplessa, lui sorrise: aveva dei gusti eclettici, ed era molto difficile inserirlo in una categoria, considerando che i dischi in suo possesso andavano da Puccini ai Prodigy.

    «Hai della bella musica. Odio pensare a quanto deve valere la tua collezione». Fece scorrere le dita sui dorsi in plastica dei CD. Richard trattenne un sorriso, decidendo che sarebbe stato da sciocchi dirle che quella era solo una piccola parte della sua collezione e che aveva migliaia di altri CD a Manhattan.

    «Vuoi cominciare tu?». La guardò negli occhi. Si mise seduto sulla moquette, appoggiandosi al bordo del letto con le gambe piegate davanti a sé. Hanna si avvicinò e si sedette accanto a lui, rifiutando il controller che le porgeva scuotendo appena il capo.

    «Vai tu per primo, io guardo e imparo».

    Tre aerial, due flip e un grind e lo special meter era al massimo. Era in grado di eseguire anche altre mosse speciali, e diede un po’ di spettacolo a beneficio di Hanna.

    «Lo fai sembrare così facile», si lamentò lei.

    «È tutto facile, se sai come farlo. E poi ho problemi a dormire, quindi ho fatto un bel po’ di pratica. Tocca a te».

    Hanna prese il controller e fissò il televisore con tetra determinazione. Lo skater passò lento lungo la ringhiera e poi cadde oltre il bordo. Fece un altro tentativo, il viso contratto per la frustrazione, e accadde esattamente la stessa cosa.

    «Faccio proprio schifo», piagnucolò mentre osservava lo schermo.

    «Vieni qui, ti aiuto». Richard fece un cenno verso il pavimento, indicando il punto in cui doveva sedersi lei. Restò quasi sconvolto quando Hanna strisciò dritta verso di lui, sistemandosi tra le sue gambe e appoggiandogli la schiena contro il petto. La circondò con le braccia e mise le dita sulle sue mentre teneva il controller, mostrandole quali tasti premere per eseguire un aerial.

    La sensazione della sua schiena che gli accarezzava il petto e del suo posteriore tra le gambe lo fece eccitare all’istante, e il suo membro eretto le premette contro la spina dorsale. Con solo due leggeri strati di stoffa a separarli, era sicuro che se ne fosse accorta.

    Hanna si voltò a guardarlo con un’espressione divertita in volto e inarcò un sopracciglio con aria interrogativa. «Wow, questo gioco deve piacerti davvero molto».

    «Non prenderla sul personale, io mi eccito guardando il canale del National Geographic».

    Lei scoppiò a ridere, scuotendo il capo. Richard aveva ancora le mani sulle sue, e le mostrò come unire un aerial e un grind.

    «Dio! Ho preso i punti speciali. Sono forte. Sono fortissima!». Hanna si dimenò felice per essere riuscita a fare qualcosa di diverso da una caduta. Nel muoversi si strusciò contro la sua erezione, facendolo trasalire per il piacere doloroso di quel contatto.

    Richard diede uno sguardo all’orologio e provò quasi sollievo nel vedere che la pausa di Hanna era quasi finita.

    ¹ Spettacolo pirotecnico di fine millennio organizzato da Bob Geldof. (n.d.t.)

    2

    19 luglio 2000

    Hanna tirò la canottiera sottile, la cui stoffa le restò incollata alla pelle prima di cedere e lasciare passare l’aria fresca sulla sua pelle bagnata. Anche se era luglio, faceva un caldo atipico, e l’abbigliamento pesante in stile Goth che aveva chiuso in valigia restava lì, ben piegato e abbandonato, come una zia zitella a una festa di addio al celibato.

    Ruby Larsen era distesa su un’amaca accanto a lei e si leggevano a vicenda brani di Harry Potter e il calice di fuoco che avevano appena comprato in un negozietto in città il giorno prima.

    «Credi che potrei piacere a Hermione, se ci incontrassimo?», chiese Ruby, passando il volume a Hanna.

    «Cavoli, ti adorerebbe. Cosa potresti avere che non le piacerebbe? Sei intelligente, simpatica e spacchi il sedere ai maschi nelle lezioni di pozioni».

    Erano al cottage di campagna dei Larsen, nell’Inghilterra occidentale, da una settimana. Claire Larsen aveva chiesto a Hanna di fare da baby sitter alla figlia per l’estate mentre lei andava negli Stati Uniti per prendersi cura della madre malata, e la ragazza aveva accettato all’istante.

    Era molto meglio che lavorare da Safeway.

    «A volte vorrei tanto poter andare a Hogwarts. Sembra un posto molto migliore della St Nicholas». Ruby giocherellava con i piccoli lustrini argentati che aveva attaccati alla maglietta.

    «I cattivi sono dappertutto, Ruby. Pensa a quanto era odioso Draco Malfoy con Harry», le rispose lei assorta. «Comunque siamo in vacanza: non siamo costrette a pensare a lezioni, uniformi o compiti. Dovremmo divertirci».

    «Tu non devi proprio più pensare alla scuola», si lamentò Ruby. «Sei così fortunata».

    Hanna tornò a posare la testa sull’amaca, ripensando al suo ultimo giorno di scuola. Dopo una lunga serie di esami, compiti e incubi su Jude l’Oscuro di Thomas Hardy, era stato bello poter ricominciare a respirare senza chiedersi se sarebbe mai riuscita a consegnare in tempo quanto le veniva assegnato.

    Era diventata la baby sitter ufficiale di Ruby da quando si erano conosciute, la sera di Capodanno. A lei non sembrava nemmeno di lavorare – anche se i soldi facevano sempre comodo – perché loro due riuscivano sempre a trovare il modo di divertirsi. Hanna era felice anche di trascorrere del tempo con Claire e Steven; erano passati solo sette mesi dal loro primo incontro, ma i Larsen le sembravano già la

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