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Il matrimonio delle bugie - Una madre perfetta - La scomparsa di Sabine Hardison
Il matrimonio delle bugie - Una madre perfetta - La scomparsa di Sabine Hardison
Il matrimonio delle bugie - Una madre perfetta - La scomparsa di Sabine Hardison
E-book999 pagine15 ore

Il matrimonio delle bugie - Una madre perfetta - La scomparsa di Sabine Hardison

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Info su questo ebook

Un'autrice ai vertici delle classifiche
3 grandi thriller

Iris e Will sono il ritratto della coppia felice. Ma quando Will parte per un viaggio di lavoro in Florida, il mondo perfetto di Iris crolla. Un aereo diretto a Seattle precipita e tra i nomi delle vittime c’è quello di Will. Perché lui avrebbe do­vuto mentirle? E su cosa altro ancora potrebbe averle raccontato bugie?

L’incubo peggiore di Kat Jenkins è diventato realtà. Suo figlio Ethan è scomparso durante una gita scolastica. Stef Huntington è una donna influente nella comunità e conosce Kat solo di sfuggita, ma ha sentito voci sul suo passato traumatico. Le due donne vengono da due mondi opposti, ma le loro strade stanno per incontrarsi. E la loro disperata ricerca della verità potrebbe sconvolgere per sempre le loro esistenze.

Beth Murphy è finalmente libera. Ha cambiato città, nome e aspetto, per scappare da suo marito. Nel frattempo, la scomparsa di Sabine Hardison sta facendo scalpore. Suo marito Jeffrey ha trovato la casa deserta, ma l’uni­co indizio a disposizione del detective Marcus è una macchina abbandonata lungo la strada. Inizia così un’indagine difficilissima. Sabine è ancora viva? Jeffrey nasconde qualcosa? E quali oscuri segreti si celano dietro il loro matrimonio?

Un’autrice bestseller di «USA Today», «Wall Street Journal» e «Globe and Mail»
Pubblicata in 17 Paesi

«Kimberly Belle è un’autrice eccezionale. I suoi libri sono pieni di segreti e colpi di scena, e conducono il lettore verso finali imprevedibili.»
Hank Phillippi Ryan, autrice del bestseller La verità sul caso Ashlyn Bryant

«Ancora una volta Kimberly Belle dà prova del suo straordinario talento nel tenere la tensione alta fino alla fine.»
Publishers Weekly

«Niente è come sembra in questo thriller veloce, appassionante e geniale.»
Kirkus Reviews

«Un ottimo thriller sostenuto da una scrittura brillante, personaggi credibili e una trama sensazionale. Ho divorato questo libro in una notte.»
Julia Heaberlin
Kimberly Belle
È un’autrice bestseller internaziona­le, tradotta in dodici lingue. Il suo romanzo Il matrimonio delle bugie è stato semifinalista ai Goodreads Choice Awards, per la categoria Mystery & Thriller. I suoi libri sono apparsi nelle classifiche di «USA To­day», «Wall Street Journal» e «Globe and Mail». La Newton Compton ha pubblicato anche Una madre perfetta e La scomparsa di Sabine Hardison.
LinguaItaliano
Data di uscita25 gen 2021
ISBN9788822754943
Il matrimonio delle bugie - Una madre perfetta - La scomparsa di Sabine Hardison

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    Anteprima del libro

    Il matrimonio delle bugie - Una madre perfetta - La scomparsa di Sabine Hardison - Kimberly Belle

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    Indice

    Il matrimonio delle bugie

    Una madre perfetta

    La scomparsa di Sabine Hardison

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    2839

    Titolo originale: The Marriage Lie

    Copyright © 2017 Kimberle Swaak-Maleski

    All rights reserved

    including the right of reproduction

    in whole or in part in any form. This edition is published

    by arrangement with Harlequin Books S.A.

    Traduzione dalla lingua inglese

    di Serena Stagi

    Titolo originale: Three Days Missing

    Copyright © Kimberle S. Belle Books, LLC 2018

    Kimberle S. Belle LLC asserts the moral right

    to be identified as the author of this work.

    All rights reserved

    including the right of reproduction in whole or in part in any form.

    This edition is published by arrangement with Arlequin Books S.A.

    Traduzione dalla lingua inglese

    di Lucilla Rodinò

    Titolo originale: Dear Wife

    Copyright © 2019 by Kimberle S. Belle Books, LLC

    All rights reserved

    Traduzione dalla lingua inglese di Lorena Marrocco

    Prima edizione ebook: febbraio 2021

    © 2018, 2021 Newton Compton editori s.r.l., Roma

    ISBN 978-88-227-5494-3

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Caratteri Speciali, Roma

    Kimberly Belle

    Il matrimonio delle bugie

    Una madre perfetta

    La scomparsa di Sabine Hardison

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    Newton Compton editori

    Il matrimonio delle bugie

    Per Kristy Barrett, st-ape-nda dentro e fuori

    1

    È la sua mano a svegliarmi. Mi afferra per la vita e mi fa aderire da capo a piedi alla sua pelle riscaldata dal sonno. Sospiro e mi abbandono contro le forme familiari di mio marito, appoggiando la schiena al suo petto, assorbendo il suo calore. Will è una stufa quando dorme e io ho sempre freddo da qualche parte. Stamattina tocca ai piedi, li infilo tra i suoi polpacci tiepidi.

    «Hai le dita gelide». La sua voce rimbomba nella stanza buia e si riverbera attraverso il mio corpo. Oltre le tende della camera da letto non è ancora del tutto mattina, quell’istante tinto di violetto che separa la notte dal giorno, ancora una buona mezz’ora prima che suoni la sveglia. «Li hai tenuti fuori dal letto o cosa?».

    Aprile è a malapena cominciato e marzo non ha ancora allentato la sua gelida morsa. Cieli plumbei rovesciano pioggia da ormai tre giorni e un vento glaciale ha precipitato le temperature ben al di sotto della media. I meteorologi prevedono almeno un’altra settimana da brividi, e Will è l’unica persona ad Atlanta che accoglie il gelo spalancando le finestre. Il suo termostato interno è sempre regolato su fornace.

    «È perché ti ostini a dormire in un igloo. Credo di avere i geloni a tutte le estremità».

    «Vieni qui». Le sue dita mi scivolano lungo il fianco, la sua mano mi avvicina ancora di più. «Pensiamo a riscaldarti allora».

    Restiamo distesi per un po’ in un confortevole silenzio, il suo braccio stretto attorno alla vita, il mento appoggiato nell’incavo della mia spalla. Will è sudato e accaldato dal sonno, ma non mi importa. Sono questi i momenti che preferisco, i nostri cuori e i nostri respiri sincronizzati, intimi quanto fare l’amore.

    «Sei la mia persona preferita sulla faccia della Terra», mi mormora nell’orecchio e io sorrido. Sono le parole che abbiamo scelto al posto del più convenzionale ti amo e per me valgono molto di più. Tutte le volte che gli scivolano di bocca mi colpiscono come una promessa: mi piaci più di tutti e sarà sempre così.

    «Anche tu sei la mia persona preferita».

    Le mie amiche mi ripetono che non durerà per sempre, questo legame con mio marito. A breve ormai, dicono, l’abitudine domerà le fiamme e all’improvviso ricomincerò a notare gli altri uomini. Mi ravviverò le guance e luciderò le labbra per estranei senza nome e senza faccia che non sono Will e li immaginerò mentre mi toccano in punti cui solo mio marito dovrebbe avere accesso. La crisi del settimo anno, così la chiamano. Riesco a malapena a immaginare che effetto faccia perché oggi – dopo sette anni e un giorno – la mano di Will mi scivola sulla pelle e l’unica crisi in vista è quella provocata dal suo tocco.

    Abbasso le palpebre mentre il contatto risveglia un formicolio familiare, l’avvertimento che con ogni probabilità farò tardi al lavoro.

    «Iris?», sussurra.

    «Uhm?»

    «Mi sono dimenticato di cambiare i filtri del condizionatore».

    Apro gli occhi. «Cosa?»

    «Ho detto che mi sono dimenticato di cambiare i filtri del condizionatore».

    Rido. «Allora avevo sentito bene». Will è un brillante ingegnere informatico con qualche tendenza al disturbo da deficit dell’attenzione. Il suo cervello è talmente infarcito di fatti e informazioni da dimenticare le piccole cose… di solito non durante il sesso, però. Do la colpa a un periodo particolarmente stressante al lavoro, insieme all’imminente conferenza che lo porterà in Florida per tre giorni: la sua lista di cose da fare è più lunga del solito. «Puoi rimediare questo weekend, quando torni».

    «E se il caldo arrivasse prima?»

    «Non dovrebbe. E se anche fosse, il filtro può aspettare un paio di giorni».

    «C’è anche da cambiare l’olio alla tua macchina. Quand’è stata l’ultima volta che l’hai fatta controllare?»

    «Non lo so».

    Will e io ci dividiamo le faccende di casa secondo i rigidi schemi dei ruoli di genere. Le auto e la manutenzione della casa spettano a lui, cucina e pulizie a me. La divisione del lavoro non dispiace a nessuno dei due. Il college mi ha insegnato a essere femminista, il matrimonio a essere pragmatica: preparare le lasagne è di gran lunga più piacevole di pulire le grondaie.

    «Controlla le ricevute del meccanico, okay? Sono nel cassetto del cruscotto».

    «Va bene. Ma perché tutte queste faccende improvvise? Ti sto già annoiando?».

    Lo sento sorridere contro la mia nuca. «Forse è questo che intendono i libri sulla gravidanza quando parlano di fare il nido».

    La gioia mi riscalda il petto al ricordo di cosa stiamo facendo – quello che forse abbiamo già fatto – e mi volto verso di lui. «Non posso essere già incinta. Ci stiamo provando ufficialmente da meno di ventiquattro ore».

    Una volta ieri sera prima di cena e due dopo. Può darsi che nella nostra prima sessione fai-bambini ufficiale ci siamo lasciati prendere la mano ma, in nostra difesa, era il nostro anniversario e a Will piace strafare.

    I suoi occhi brillano di soddisfazione. Se ci fosse abbastanza spazio tra di noi, si batterebbe i pugni sul petto. «Sono sicurissimo che i miei ragazzi siano ottimi nuotatori. Probabilmente sei già incinta».

    «Ne dubito», gli dico, anche se le sue parole mi fanno sentire più che piacevolmente intontita. Will è la metà pragmatica della coppia, quello che rimane con i piedi per terra davanti al mio ingenuo ottimismo. Non gli dico che ho già fatto i calcoli, che ho già studiato il mio ciclo, contato i giorni passati dalle ultime mestruazioni e documentato ogni cosa grazie a un’applicazione sul telefono, né che ha ragione: potrei davvero essere incinta. «Per il settimo anniversario si regala lana o rame. Tu invece mi hai regalato una manciata di spermatozoi».

    Sorride in modo nervoso, quell’espressione che gli esce quando ha fatto qualcosa che non avrebbe dovuto. «Non solo quelli».

    «Will…».

    L’anno scorso, su sua insistenza, abbiamo investito tutti i nostri risparmi e una discreta parte del nostro reddito mensile in un mutuo che ci avrebbe essenzialmente resi poveri per qualsiasi altro tipo di spesa. Ma oh, se ne è valsa la pena. È la casa dei nostri sogni, un edificio vittoriano con tre camere da letto in una tranquilla strada del quartiere di Inman Park, con un’ampia veranda frontale e impiantiti di legno originali. Appena entrati, Will ha deciso che doveva averla, anche se metà delle stanze sarebbe rimasta vuota per un bel po’ di tempo. Questo doveva essere un anniversario senza regali.

    «Lo so, lo so, ma non ho resistito. Volevo comprarti qualcosa di speciale. Qualcosa che ti ricorderà per sempre questo momento, quando eravamo solo tu e io». Si gira, accende la luce e tira fuori una scatolina rossa dal cassetto del comodino. Me la porge con un timido sorriso. «Buon anniversario».

    So riconoscere un Cartier quando lo vedo e so anche che di quel negozio non possiamo permetterci neanche un granello di polvere. Dato che non accenno ad aprirlo, Will fa scattare la chiusura col pollice e solleva il coperchio rivelando tre anelli intrecciati, di cui uno ricoperto di file e file di piccoli diamanti.

    «È un anello trinity. L’oro rosa simboleggia l’amore, quello giallo la fedeltà, quello bianco l’amicizia. Mi piace il significato del tre: tu, io e il nostro quasi-bambino». Ricaccio indietro le lacrime e Will mi solleva il mento con un dito per farsi guardare negli occhi. «Che c’è? Non ti piace?».

    Sfioro le gemme bianche e luminose che brillano sul cuoio rosso. La verità è che Will non avrebbe potuto scegliere un anello migliore: è sobrio, sofisticato, bellissimo. Esattamente il tipo d’anello che sceglierei se potessimo spendere tutti i soldi del mondo, che però non abbiamo.

    Eppure desidero quest’anello più di quanto dovrei, non perché è bello o costoso, ma per la cura con cui Will l’ha scelto per me.

    «Lo adoro, ma…», scuoto la testa. «È troppo. Non possiamo permettercelo».

    «Non è troppo. Non per la madre del mio futuro bambino». Sfila l’anello dalla scatolina e me lo fa scivolare lungo il dito. È freddo e pesante e mi calza alla perfezione, abbracciando la porzione di pelle sotto la nocca come fosse fatto su misura. «Dammi una bambina uguale a te».

    Il mio sguardo vaga sulle superfici lisce e spigolose del suo volto, scegliendone le mie parti preferite. La piccola cicatrice che gli attraversa il sopracciglio sinistro. La leggera protuberanza all’attaccatura del naso. La mascella ampia e squadrata, le labbra carnose che chiedono solo di essere baciate. Ha gli occhi assonnati, i capelli in disordine, il mento ricoperto da un accenno di barba. Tra tutte le sue abitudini, tra tutti i suoi momenti, tra tutti i lati di lui che ho imparato a conoscere, lo amo di più quando è come adesso: dolce, tenero, sgualcito.

    Gli sorrido tra le lacrime. «E se fosse un maschio?»

    «Allora continueremo a provarci finché non avrò la mia bambina». Conclude la frase con un lungo bacio, le sue labbra premute sulle mie. «Ti piace l’anello?»

    «Lo adoro». Gli passo un braccio attorno al collo, i diamanti che ammiccano al di sopra della sua spalla. «È perfetto, come te».

    Sorride. «Forse dovremmo fare un altro tentativo prima che me ne vada, tanto per essere sicuri».

    «Il tuo aereo parte fra tre ore».

    Ma le sue labbra si stanno già facendo strada sul mio collo e la sua mano scivola sempre più verso il basso, ancora e ancora. «E quindi?»

    «Quindi piove. Il traffico sarà un incubo».

    Mi fa rotolare sulla schiena, sovrastandomi col suo corpo. «Allora sarà meglio darsi una mossa».

    2

    La retta della Lake Forrest Academy, l’esclusivo istituto dall’asilo-al-liceo situato in un frondoso sobborgo di Atlanta dove lavoro come psicologa scolastica, ammonta alla vertiginosa somma di 24.435 dollari all’anno. Tenendo conto di un’inflazione del cinque per cento, tredici anni in questi aurei corridoi costano più di 400.000 dollari a figlio, e senza che abbia ancora messo piede in un campus universitario. I nostri studenti sono i figli e le figlie di chirurghi e amministratori delegati, di banchieri e imprenditori, di presentatori televisivi e atleti professionisti. Sono una tribù elitaria e privilegiata e il gruppo di ragazzini più disadattato che si possa immaginare.

    Supero le doppie porte che sono le dieci appena passate – in ritardo di ben due ore grazie alla non-poi-così-sveltina di Will e a una gomma a terra – e mi incammino lungo il corridoio rivestito di moquette. L’edificio è avvolto nel silenzio, il tipo di silenzio degli studenti in classe, rannicchiati davanti ai loro MacBook nuovi di zecca. Sono arrivata nel bel mezzo della terza ora, quindi non c’è fretta.

    Quando giro l’angolo, non sono sorpresa di trovare un paio di alunni di terza superiore davanti al mio ufficio, le teste chine sui loro apparecchi elettronici. Gli studenti sanno che la mia porta è sempre aperta e ne approfittano spesso.

    Dall’aula sull’altro lato del corridoio escono altri ragazzi. Le loro voci cariche d’agitazione e paura mi inchiodano sul posto. «Che sta succedendo? Perché non siete in classe?».

    Ben Wheeler alza lo sguardo dal suo iPhone. «È appena precipitato un aereo. Dicono che era partito da Hartsfield».

    Il panico mi riempie il petto e il mio cuore si ferma. Mi appoggio a un armadietto per mantenere l’equilibrio. «Che aereo? Dove?».

    Si stringe nelle spalle ossute. «Non si sa ancora molto».

    Mi faccio strada tra la folla di studenti e balzo dietro alla mia scrivania, allungando una mano tremante verso il mouse. «Forza, forza», sussurro, risvegliando il computer dal suo letargo. Mi gira la testa mentre cerco di ricordare i dettagli del volo di Will. È in viaggio da più di mezz’ora ormai, i motori che rombano da qualche parte in prossimità del confine con la Florida. È ovvio – ovvio – che l’aereo precipitato non può essere il suo. Quante probabilità ci sono? Migliaia di aerei decollano dall’aeroporto di Atlanta ogni giorno senza precipitare dal cielo. Sono certa che sono arrivati a destinazione sani e salvi.

    «Signora Griffith, si sente bene?», chiede Ava, un’esile studentessa di seconda ferma sulla soglia del mio ufficio. Nel boato che mi riempie le orecchie, riesco a malapena a distinguere le sue parole.

    Dopo un’eternità il motore di ricerca finisce di caricare e posso digitare l’indirizzo della CNN con dita rigide e maldestre. E poi mi metto a pregare. Ti prego, Dio, ti prego, fa’ che non sia quello di Will.

    Le immagini che invadono lo schermo sono orribili. Brandelli di aereo dilaniati dall’esplosione, un campo carbonizzato punteggiato da lamiere fumanti. Lo schianto peggiore, quello a cui nessuno sopravvive.

    «Poveretti», sussurra Ava sopra la mia testa.

    La nausea si intensifica bruciandomi la gola. Scorro la pagina finché non trovo i dettagli del volo: Liberty Airlines, volo 23. L’aria mi esce bruscamente dal petto e il sollievo mi riduce le ossa in gelatina.

    Ava mi tocca timidamente la schiena. «Cosa c’è che non va, signora Griffith? Posso fare qualcosa?»

    «Sto bene». Le parole mi escono informi e senza fiato, come se i polmoni non fossero ancora stati messi al corrente degli ultimi sviluppi. Lo so che dovrei disperarmi per i passeggeri del volo 23 e le loro famiglie, per quei poveracci fatti a pezzi sopra un campo di granturco del Missouri, per i parenti e gli amici che stanno scoprendo cosa è successo come ho fatto io, sui social media e con queste immagini tremende sui loro schermi, ma provo soltanto sollievo. Mi investe come una dose di Valium: forte, rapido, sublime. «Non era il volo di Will».

    «Chi è Will?».

    Mi passo le mani sulle guance e cerco di scacciare il panico, che però oppone resistenza. «Mio marito». Le dita mi tremano ancora e il cuore batte all’impazzata, non importa quante volte mi ripeta che non era il volo di Will. «È in viaggio verso Orlando».

    Sgrana gli occhi. «Pensava che suo marito fosse su quell’aereo? Cavolo, per forza è crollata».

    «Non sono crollata, è che…». Mi premo una mano sul petto e faccio un respiro profondo. «Per la cronaca, la mia reazione non è sproporzionata alla situazione. Una paura forte come quella che ho provato produce un brusco aumento dell’adrenalina e il corpo risponde di conseguenza. Ma sto bene adesso. Starò bene».

    Parlarne ad alta voce, descrivere la mia reazione fisiologica in termini scientifici, mi allenta qualcosa all’altezza del petto e il pulsare nella mia testa si attenua fino a ridursi a qualche sporadico tonfo. Grazie al cielo non era il volo di Will.

    «Ehi, non volevo giudicarla. Ho visto suo marito, è terribilmente sexy». Lancia lo zaino sul pavimento e si lascia cadere sulla sedia nell’angolo, accavallando le gambe decisamente troppo scoperte per le divise regolamentari. Come tutte le ragazze della scuola, Ava ripiega la gonna in vita finché l’orlo non raggiunge lunghezze degne di una prostituta. I suoi occhi scivolano sulle mie dita ancora premute sul petto. «Bell’anello, a proposito. Nuovo?».

    Riabbasso la mano sul laptop. Non mi sorprende che Ava l’abbia notato, probabilmente sa anche quanto costa. Ignoro il complimento e mi concentro sulla prima parte della sua risposta. «Quando avresti visto mio marito?»

    «Sulla sua pagina Facebook». Sorride. «Se mi svegliassi tutte le mattine accanto a lui, anch’io arriverei tardi al lavoro».

    Le lancio un’occhiata di rimprovero. «Per quanto mi stia godendo questa conversazione, non dovresti tornare in classe?».

    Le sue splendide labbra rosa si arricciano in una smorfia. Anche corrucciata, Ava è una ragazza stupenda. Incredibilmente bella. Occhioni azzurri, pelle morbida e liscia, riccioli ramati, lunghi e lucenti. È intelligente e, se vuole, sa anche essere divertente. Potrebbe avere qualsiasi ragazzo della scuola e… sembra li abbia: Ava è tutt’altro che schizzinosa e, se devo dare retta a Twitter, una conquista facile.

    «Salto l’ora di letteratura», dice in tono improvvisamente infantile.

    Le rivolgo il mio miglior sorriso da psicologa, amichevole e acritico. «Perché?».

    Sospira e alza gli occhi al cielo. «Perché sto cercando di evitare gli spazi chiusi in cui Charlotte Wilbanks e io siamo costrette a respirare la stessa aria. Mi odia e il sentimento è reciproco, glielo posso assicurare».

    «Perché pensi che ti odi?», le chiedo anche se conosco già la risposta. La faida tra Charlotte e Ava, ex migliori amiche, è lunga e ben documentata. Qualsiasi cosa abbia scatenato il loro odio, ormai diversi anni fa, è stata dimenticata e sepolta sotto un miliardo di tweet volgari e offensivi che portano il significato di cattiva ragazza a nuovi livelli. A giudicare da quello che ho visto scorrere sulla mia homepage di Twitter ieri, il loro ultimo battibecco riguarda un compagno di classe, Adam Nightingale, figlio della leggenda del country Toby Nightingale. Lo scorso weekend sono comparse online alcune foto di Ava e Adam che si scambiavano effusioni a un juice bar del quartiere.

    «Che ne so? Perché sono più carina, immagino». Si torce le dita impeccabilmente smaltate, un giallo acceso fresco di manicure.

    Come per la maggior parte dei ragazzi di questa scuola, i genitori di Ava le danno tutto ciò che desidera. Una decappottabile nuova di zecca, viaggi in prima classe verso destinazioni esotiche, una American Express Platino e la loro benedizione. Ma ricoprire la figlia di regali non equivale a darle attenzioni e, se ci fossero gli adulti seduti qui davanti a me, li inviterei a dare il buon esempio. La madre di Ava è un’esponente dell’alta società di Atlanta con l’impressionante abilità di voltarsi dall’altra parte tutte le volte che il marito, un chirurgo plastico noto in città come il Tipo delle Tette, viene pizzicato a palpare una ragazza con la metà dei suoi anni, il che accade piuttosto spesso.

    I miei studi mi hanno insegnato a considerare natura e cultura come due istanze equivalenti, ma il lavoro mi ha fatto capire che la cultura ha sempre la meglio. Soprattutto quando scarseggia. Più i genitori sono incasinati, più lo sono i figli. È elementare.

    Ma credo che tutti, persino i genitori peggiori e i ragazzini più disadattati, abbiano una caratteristica in grado di redimerli. Quella di Ava è che non può fare altrimenti: sono stati i genitori a crescerla così.

    «Sono sicura che se ci rifletti un po’ su, riuscirai a trovare un motivo migliore per cui Charlotte dovrebbe…».

    «Toc, toc». Il preside della scuola superiore, Ted Rawlings, si staglia sull’ingresso del mio ufficio. Alto e allampanato, con una corona di riccioli scuri e fitti, Ted sembra un barboncino che prende tutto con serietà a eccezione delle cravatte: deve averne a centinaia, tutte orrende, sempre a tema scolastico e immancabilmente ridicole, ma che su di lui fanno in qualche modo bella figura. La cravatta di oggi è di un poliestere giallo brillante ricoperto di equazioni di fisica. «Immagino tu abbia saputo dell’incidente».

    Annuisco, lo sguardo che guizza alle immagini sullo schermo. Quella povera gente, quelle povere famiglie.

    «Verrà sicuramente fuori che qualcuno della scuola conosceva uno dei passeggeri», dice Ava. «Aspettate e vedrete».

    Le sue parole mi provocano un brivido lungo la schiena, perché ha ragione: Atlanta è una grande metropoli, ma una piccola città dove i gradi di separazione tendono a essere piuttosto ridotti. Le probabilità che qualcuno alla Lake Forrest sia in qualche modo legato a una delle vittime non sono poi così scarse. La cosa migliore che posso augurarmi è che non si tratti di un parente o un amico intimo, immagino.

    «Gli studenti sono turbati», dice Ted. «E hanno un buon motivo per esserlo, ma non credo che riusciremo a lavorare oggi. Con il tuo aiuto, però, speravo di trasformare questa tragedia in una occasione d’apprendimento per tutti. Creiamo uno spazio sicuro perché i ragazzi possano parlare di quello che è successo e fare domande. E se la signorina Campbell qui ha ragione e qualcuno alla Lake Forrest ha davvero perso una persona cara nello schianto, saremo già al posto giusto per dare qualsiasi tipo di supporto morale necessario».

    «Mi sembra un’ottima idea».

    «Perfetto, sono contento che tu sia d’accordo. Convocherò un’assemblea nell’auditorium, tu e io faremo da moderatori».

    «Certo. Dammi solo qualche minuto per darmi una sistemata e sarò da te».

    Ted tamburella una nocca sulla porta e se ne va in tutta fretta. Adesso che l’ora di letteratura è ufficialmente saltata, Ava recupera il suo zaino e ci rovista dentro mentre tiro fuori la cipria dal cassetto della scrivania.

    «Ecco qua», mi dice, depositando una manciata di costosi trucchi di marca accanto al computer. Chanel, Nars, YSL, MAC. «Senza offesa, ma credo ne abbia bisogno più lei di me». Addolcisce le parole con un ampio sorriso.

    «Grazie, Ava, ma ho i miei».

    Ma Ava non se li riprende. Sposta il peso del corpo da un piede all’altro, una mano aggrappata alla cinghia dello zaino. Si morde le labbra, abbassa lo sguardo sulle sue oxford e mi ritrovo a chiedermi se, al di là della sua ostentata baldanza, non sia semplicemente timida. «Sono davvero contenta che non era il volo di suo marito».

    Stavolta il sollievo cresce lentamente, riscaldandomi come il corpo addormentato di Will stamattina. Mi sfiora come il sole sulla pelle nuda. «Anch’io».

    Appena se n’è andata, recupero il telefono e cerco il numero di cellulare di Will. So che non potrà rispondere ancora per un’ora o poco più, ma ho bisogno di sentire la sua voce, anche se soltanto registrata. Basta quel suono morbido e familiare ad allentare la tensione.

    Questa è la segreteria telefonica di Will Griffith…

    Aspetto il segnale acustico, abbandonandomi di nuovo sulla sedia.

    «Ehi, tesoro, sono io. So che sei ancora in volo, ma un aereo è appena precipitato dopo il decollo da Hartsfield e per circa quindici terribili secondi ho pensato che potesse essere il tuo e ho solo bisogno di… non lo so, sapere che stai bene. So che è stupido, ma chiamami non appena atterri, okay? I ragazzi sono spaventati, quindi sarò in assemblea, ma prometto di rispondere. Okay, devo andare, ma ci sentiamo presto. Sei la mia persona preferita in assoluto e mi manchi già».

    Rimetto il telefono in tasca ed esco dall’ufficio, i trucchi di Ava là dove li ha lasciati, in un mucchietto sopra la scrivania.

    3

    Seduto accanto a me sul palco dell’auditorium, Ted si liscia la cravatta parlando alla stanza gremita di liceali. «Come sapete, il volo 23 della Liberty Air, decollato dall’aeroporto internazionale di Hartsfield-Jackson e diretto a Seattle, Washington, si è schiantato poco più di un’ora fa. Tutti i 179 passeggeri sono dati per morti. Uomini, donne e bambini, persone come noi. Vi ho convocati qui per darci la possibilità di parlarne come gruppo, in modo aperto e onesto, senza giudicare. Tragedie come questa ci rendono fin troppo consapevoli dei pericoli di questo mondo, delle nostre debolezze, di quanto sia fragile la nostra vita. Questo è uno spazio sicuro per piangere, fare domande e qualsiasi altra cosa vi aiuti a metabolizzare l’incidente. Promettiamoci l’un l’altro che quello che succederà in questo auditorium rimarrà in questo auditorium».

    Qualsiasi altro preside proporrebbe un minuto di silenzio, per poi invitare i ragazzi a rimettersi al lavoro. Ma quando si tratta di adolescenti, Ted sa che la catastrofe ha sempre la precedenza sulla matematica e, proprio perché considera ogni evento – positivo o negativo che sia – come un’occasione di insegnamento, gli studenti obbediscono senza protestare.

    Faccio scorrere lo sguardo sui circa trecento ragazzi che frequentano il liceo della Lake Forrest e, da quello che vedo, sembrerebbero nettamente divisi in due gruppi: metà degli studenti terrorizzata dalle immagini dell’aereo con a bordo i loro presunti vicini di casa che precipita dal cielo, l’altra metà allegramente stordita dalla prospettiva di un intero pomeriggio di lezioni sospese. Il loro chiacchiericcio agitato riecheggia tra le pareti della sala.

    La voce di una ragazza sovrasta le altre. «Quindi sarebbe una specie di terapia di gruppo?»

    «Be’…», Ted mi lancia un’occhiata interrogativa e annuisco. Se c’è un contesto in cui gli studenti della Lake Forrest si sentono a loro agio, quello è la terapia, di gruppo o meno. I nostri sono ragazzi che hanno il numero dell’analista tra le chiamate rapide del cellulare. «Sì, esatto, come una terapia di gruppo».

    Adesso che sanno cosa aspettarsi, gli studenti sembrano rilassarsi: intrecciano le braccia al petto e sprofondano nelle poltroncine.

    «Ho sentito dire che sono stati i terroristi», afferma qualcuno dal fondo dell’auditorium. «Che l’ISIS ha già rivendicato l’attacco».

    Dal suo posto in prima fila, Jonathan Vanderbeek, un ragazzo dell’ultimo anno ormai in procinto di diplomarsi per il rotto della cuffia, si volta. «E chi te l’ha detto, Sarah Palin?»

    «Kylie Jenner l’ha appena ritwittato».

    «Fantastico», dice Jonathan sbuffando una risata. «Si sa che i Kardashian sono esperti di sicurezza nazionale».

    «Okay, okay», interviene Ted, richiamando tutti all’ordine con qualche colpetto sul microfono. «Non peggioriamo la situazione facendo circolare gossip e supposizioni. Ho seguito con attenzione i telegiornali e, a parte il fatto che un aereo è precipitato, non si sa altro. Nessuno ha ancora detto perché il velivolo si è schiantato o chi c’era a bordo. Né lo faranno finché non avranno contattato i parenti più stretti». Le sue ultime tre parole – parenti più stretti – hanno l’effetto di una bomba incendiaria: bollenti e pesanti, rimangono sospese nell’aria per un paio di secondi. «E prima di andare avanti, ricordiamoci che esistono fonti più credibili di Twitter, che ne dite?».

    Una risatina si alza dalla prima fila.

    Ted scuote il capo in un muto rimprovero. «La signora Griffith vorrebbe dire alcune cose, dopodiché ci guiderà nella discussione. Nel frattempo, controllerò il sito della CNN sul mio portatile e, non appena la compagnia aerea rilascerà nuovi dettagli, interromperò la conversazione per leggerli ad alta voce, così che avremo tutti le stesse informazioni aggiornate. Vi sembra una buona idea?».

    Tutti annuiscono e Ted mi passa il microfono.

    Vorrei poter dire di aver trascorso le ore successive a controllare il telefono in attesa della chiamata di Will, ma settantasei minuti dopo lo schianto, dopo soltanto dieci minuti di discussione e un quarto d’ora prima della prevista dichiarazione ufficiale della compagnia aerea, la CNN annuncia che la squadra di lacrosse del liceo della Wells Academy, sedici giocatori e i loro allenatori, è tra le 179 vittime. Pare fossero in viaggio per un torneo di metà stagione.

    «Oh mio Dio. Com’è possibile? Ci abbiamo giocato solo la settimana scorsa».

    «La settimana scorsa, imbecille, l’hai appena detto. Significa che hanno avuto un sacco di tempo per salire su quell’aereo».

    «Sei tu l’imbecille. Sto dicendo che abbiamo perso la partita che ha permesso alla Wells di qualificarsi per il torneo. Fai due conti».

    «Aspettate», dico e il monito attraversa l’auditorium prima che la discussione possa degenerare. «L’incredulità è una reazione perfettamente normale alla scomparsa di un amico, ma la rabbia e il sarcasmo sono pessime strategie di adattamento e sono piuttosto sicura che qui ne siate tutti consapevoli».

    I ragazzi si lanciano sguardi contriti e si infossano ancora di più nei loro posti.

    «Sentite, so che nascondersi dietro emozioni negative è più facile che affrontare l’idea che i nostri amici e compagni di scuola abbiano scampato la tragedia per un pelo», dico, il tono di voce che si addolcisce. «Ma è comprensibile sentirsi confusi, tristi, scioccati e persino vulnerabili. Sono reazioni normalissime a una notizia sconvolgente come questa: parlarne in modo onesto e sincero ci aiuterà a metabolizzarle. Okay? Ora, scommetto che Caroline non è l’unica che sta pensando all’ultima volta che ha visto uno dei giocatori della Wells. Chi altro ha assistito alla partita?».

    Una alla volta, le mani si alzano e gli studenti iniziano a parlare. La maggior parte degli interventi si limita a stesso campo, stesso momento, ma è ovvio che i ragazzi sono scioccati dalla coincidenza, soprattutto i giocatori di lacrosse. Se avessero vinto la partita, se la Lake Forrest si fosse qualificata al torneo, su quell’aereo avrebbero potuto esserci i nostri studenti. Arginare la conversazione assorbe ogni singolo briciolo della mia concentrazione fino a poco dopo l’una, quando facciamo una pausa per il pranzo.

    Mentre gli studenti sciamano verso l’uscita, tiro fuori il telefono dalla tasca e mi incupisco davanti allo schermo ancora vuoto. Will è atterrato più di un’ora fa e non ha ancora chiamato, né scritto un messaggio, né niente. Dove diavolo è?

    Ted mi appoggia una mano sul braccio. «Tutto a posto?»

    «Che? Oh, sì. Sto solo aspettando una telefonata da Will. È partito per Orlando stamattina».

    Ted sgrana gli occhi e le sue guance hanno un sussulto di solidarietà. «Be’, questo spiega l’espressione che avevi quando sono venuto nel tuo ufficio poco fa. Ti devi essere spaventata a morte».

    «Già, e la povera Ava si è beccata la parte peggiore». Agito il telefono nello spazio che ci separa. «Vado a vedere se riesco a rintracciarlo».

    «Certo, certo. Vai».

    Mi affretto a scendere dal palco e a percorrere il corridoio centrale, cercando il numero di Will prima ancora di varcare le doppie porte dell’uscita. La Lake Forrest è organizzata come un campus universitario: una mezza dozzina di edifici ricoperti d’edera sparpagliati su quasi mezzo ettaro. Mi incammino lungo il vialetto lastricato che conduce alla sede del liceo. Ha smesso di piovere, ma basse nuvole di piombo continuano a riempire il cielo e un vento gelido e sferzante mi fa rabbrividire. Mi stringo nel maglione e mi affretto a salire i gradini dell’ingresso, rientrando al caldo proprio mentre il telefono di Will mi rimanda alla segreteria.

    Cazzo.

    Mentre aspetto il segnale acustico, mi rassicuro e mi raccomando di non preoccuparmi, mi ripeto che c’è sicuramente una valida spiegazione al perché non ha chiamato. Gli ultimi mesi sono stati piuttosto stressanti al lavoro e Will fa fatica a dormire, forse sta schiacciando un pisolino. Senza contare la sua predisposizione a farsi distrarre da tutto; è il classico informatico incapace di concentrarsi su una cosa alla volta. Me lo vedo a comporre il mio numero per poi dimenticarsi di far partire la chiamata. Me lo immagino all’hotel, intento a socializzare con i pezzi grossi della conferenza a bordo piscina, ignaro del telefono che gli vibra in mano. O forse è ancora più semplice: gli si è scaricata la batteria o ha dimenticato il cellulare sull’aereo. Penso a tutte queste cose e riesco quasi ad assaporare il sollievo.

    «Ehi, dolcezza», dico al telefono, cercando di non lasciar trasparire la preoccupazione. «Volevo solo assicurarmi che fosse tutto a posto. Dovresti già essere arrivato in albergo ormai, ma suppongo che la ricezione nella tua stanza faccia schifo o qualcosa del genere. In ogni caso, chiamami appena hai un secondo. L’incidente mi ha messo in ansia e non vedo l’ora di sentire la tua voce. Okay, ci sentiamo presto. Sei la mia persona preferita in assoluto».

    In ufficio punto dritta al computer e apro la casella email. Will mi ha inviato i dettagli della conferenza mesi fa, ma ci sono più di tremila email nella posta in arrivo e neppure uno straccio di sistema per organizzarle. Dopo qualche ricerca, trovo quella che sto cercando:

    Da: w.griffith@appsec-consulting.com

    A: irisgriffith@lakeforrestacademy.org

    Oggetto: FW: Sicurezza informatica per elementi critici: un summit per l’intelligence

    Dai un’occhiata! La mia relazione aprirà la giornata di giovedì. Speriamo solo che non si addormentino come fai tu quando ti parlo di lavoro. xo

    Will M. Griffith

    Ingegnere di software Sr.

    AppSec Consulting, Inc.

    Fremo per il sollievo e mi sento quasi vendicata: le parole sono proprio qui, nero su bianco. Will è a Orlando sano e salvo.

    Clicco sull’allegato e l’opuscolo della conferenza si apre a tutta pagina. La foto di Will è circa a metà, accanto a una didascalia che riassume la sua esperienza in materia di sicurezza informatica. Lo mando in stampa e scarabocchio il nome dell’hotel su un post-it, poi ritorno al motore di ricerca per risalire a un numero di telefono. Lo sto già appuntando quando il cellulare squilla e il volto di mia madre illumina lo schermo.

    Una stilettata di disagio mi trafigge all’altezza del petto. Essendo una logopedista, mia madre sa cosa significa lavorare in un ambiente scolastico, sa che le mie giornate sono folli e non mi disturba mai al lavoro a meno che non si tratti di una questione di vita o di morte. Come quella volta che papà è finito in una buca con la ruota anteriore della bici, per poi spiccare un volo di trecentosessanta gradi sull’asfalto: la caduta è stata talmente violenta da fratturargli la clavicola e spaccargli in due il casco.

    Ecco perché rispondo alla sua telefonata con un: «Cos’è successo?»

    «Oh, tesoro. Ho appena visto il telegiornale».

    «Ti riferisci all’incidente? Lo so. Qui a scuola non si parla d’altro. I ragazzi sono molto scossi».

    «No, non mi riferivo a quello. Be’, non proprio… parlavo di Will, cara».

    Qualcosa nel modo in cui lo dice, nella cautela con cui mi chiede e non mi chiede di Will, mi mette in allarme. «Che intendi?»

    «Be’, tanto per cominciare, dov’è?»

    «A Orlando per una conferenza. Perché?».

    Il suo sospiro dall’altro capo del telefono mi perfora il timpano e improvvisamente capisco quanto si stesse trattenendo. «Oh, grazie al cielo. Sapevo che non poteva essere il tuo Will».

    «Ma di che parli? Chi non poteva essere il mio Will?».

    La chiassosa interruzione di una studentessa mi impedisce di sentire la risposta. «Il signor Rawlings mi ha detto di dirle che hanno appena rilasciato la lista dei nomi». Lancia le parole nel mio ufficio a voce altissima, come se non fossi seduta a neanche un metro di distanza e per di più al telefono. La zittisco e le faccio cenno di andarsene.

    «Mamma, riparti dall’inizio. Chi non è il mio Will?»

    «Il William Matthew Griffith che era sull’aereo».

    Non mio marito, è il pensiero che riemerge dal centro della mia persona, da un punto profondo e primitivo. Il mio Will era su un altro aereo, persino di un’altra compagnia. E se anche fosse, la Liberty Airlines mi avrebbe già contattato, non avrebbe mai diffuso il suo nome senza avvertire me, sua moglie, la sua persona preferita sulla faccia della Terra.

    Ma prima che possa dire a mia madre anche solo una di queste cose, il cellulare mi avverte dell’arrivo di un’altra chiamata e le parole che compaiono sullo schermo mi fermano il cuore.

    Liberty Airlines.

    4

    Con dita tremanti, riattacco con mia madre e rispondo alla telefonata della Liberty Airlines.

    «Pronto?». Ho la gola chiusa e la voce mi esce flebile e roca.

    «Salve, parlo con Iris Griffith?».

    So già cosa mi deve dire. Lo capisco dal modo in cui pronuncia il mio nome, dal tono cautamente neutrale che usa, dalla sua professionale formalità. Il respiro mi si blocca in gola.

    Ma si sbaglia. Will è a Orlando.

    «Will è a Orlando», mi sento dire.

    «Mi perdoni… è questo il numero di Iris Griffith?».

    Che succederebbe se rispondessi di no? Le impedirebbe di pronunciare le parole che ha chiamato per dirmi? Riattaccherebbe per telefonare alla moglie dell’altro William Matthew Griffith?

    «Sono io».

    «Signora Griffith, sono Carol Manning. La chiamo per conto della Liberty Airlines. Ci risulta che lei è il contatto d’emergenza di William Matthew Griffith».

    Will è a Orlando. Will è a Orlando. Will è a Orlando.

    «Sì». Mi stringo un braccio sulla pancia. «Sono sua moglie». Sono sua moglie. Sono.

    «Signora, mi rincresce molto informarla che suo marito era un passeggero del volo 23 che questa mattina è precipitato durante il viaggio da Atlanta a Seattle. Si presume che nessuno a bordo sia sopravvissuto». Suona come un robot, come se stesse leggendo un copione, come se Siri mi stesse informando che mio marito è morto.

    I muscoli smettono di funzionare e mi accascio. Ricado su me stessa, piegata in due come un ramo spezzato. Il contraccolpo mi toglie il fiato e il respiro mi abbandona in un brusco gemito.

    «So che è uno shock. Posso assicurarle che la Liberty Airlines è a sua totale disposizione per aiutarla in qualsiasi modo e in qualunque momento: abbiamo aperto una linea diretta e un indirizzo email a cui può contattarci giorno e notte. Aggiornamenti costanti saranno disponibili anche sul nostro sito: www.libertyairlines.com».

    Se dice altro, non la sento. Il telefono cade sul pavimento e proprio qui, nel bel mezzo del mio ufficio in completo disordine, mentre studenti incuriositi si affollano sulla porta, scivolo giù dalla sedia e comincio a piangere, premendomi le mani sulla bocca per soffocare i singhiozzi.

    Un paio di scarpe enormi entra nel mio campo visivo. «Oh, Iris, ho appena saputo. Mi dispiace così tanto».

    I capelli mi coprono il viso, ma riconosco comunque Ted e la sua espressione preoccupata incorniciata da riccioli canini. Piango per il sollievo: Ted sistema sempre tutto. Saprà cosa fare. Chiamerà qualcuno che gli confermerà che era il Will sbagliato, l’aereo sbagliato, la moglie sbagliata.

    Cerco di darmi un contegno, ma non ci riesco, e solo allora mi accorgo che il mio ufficio è gremito di liceali. Li ho già sentiti mentre si accalcavano fuori nel corridoio, voci basse e parole sussurrate che non avrei dovuto sentire. Termini come marito, aereo, morto mi confermano che sono stati informati.

    No. Proprio stamattina, mentre versavo il caffè nei thermos, Will ha controllato le previsioni del meteo di Orlando sul suo cellulare. «Massima di trenta gradi e mezzo oggi», ha detto scuotendo la testa. «E non è neanche estate. Ecco perché non vivremo mai in Florida».

    Ava mi guarda con occhi pieni di lacrime. «Will è a Orlando», le dico e la compassione le balena sul viso.

    Mi vergogno di farmi vedere così – da lei, da tutti – un disastro sgualcito e moccioso rannicchiato sul pavimento. Nascondo il viso nelle mani e desidero soltanto che se ne vadano, che mi lascino sola. La regola della porta sempre aperta può andarsene al diavolo.

    «Vieni qui, lascia che ti aiuti». Ted mi solleva e mi deposita sulla sedia.

    «Dov’è il telefono? Voglio provare a richiamare Will».

    Si china, raccoglie il cellulare da sotto la scrivania e me lo porge. Nove chiamate senza risposta. La rabbia mi riempie la bocca appena mi accorgo che sono tutte di mia madre. Nessuna, neanche una, di Will.

    «Ragazzi, dateci un minuto, che ne dite?», chiede Ted voltandosi verso gli studenti. «Chiudete la porta prima di andarvene».

    Sciamano via uno alla volta, mormorando le loro condoglianze. Ava mi sfiora il braccio con un dito e trasalisco: non voglio la sua compassione. Non voglio la compassione di nessuno. Compassione vorrebbe dire che quella donna ha detto la verità. Compassione vorrebbe dire che Will è morto.

    Appena siamo rimasti soli, Ted mi cinge le spalle con un braccio. «Posso chiamare qualcuno?».

    Chiamare! Stavo per chiamare l’hotel. Mi cade lo sguardo sull’opuscolo della conferenza e lo strappo via dalla stampante, sventolandolo in faccia a Ted. «Ecco! È la prova che Will è a Orlando: ha una presentazione domani. Stava andando in Florida, non a Seattle». La speranza mi rifiorisce in petto.

    «Ha fatto il check-in in albergo?», chiede e dal suo tono capisco che mi sta solo assecondando.

    Trovo il post-it su cui avevo scarabocchiato il numero di telefono e lo compongo sul mio cellulare, le mani che non smettono di tremare. È chiaro che Ted non ha alcuna speranza, che è convinto sia solo un’inutile perdita di tempo. La pacatezza che gli distende il volto è intollerabile: decido di fissare la scrivania, allora, di concentrarmi sui segni e i graffi che ne ricoprono la superficie. Il telefono squilla, ancora e ancora.

    Dopo un’eternità, mi risponde una allegra voce femminile.

    «Westin Universal Boulevard, buon pomeriggio. Come posso aiutarla?»

    «La stanza di Will Griffith per favore». Le parole si rincorrono fuori dalla mia bocca, spezzate e informi e fin troppo rapide, come quelle di un battitore d’asta fatto di crack.

    «Con piacere», cinguetta la receptionist. Scommetto che non è la prima volta che risponde a mogli alterate, a donne a caccia di fidanzati ribelli o mariti inaffidabili. È probabile che il Westin abbia un intero manuale dedicato a situazioni del genere. «Griffith, ha detto?»

    «Sì, Will. O forse William, il secondo nome inizia per M». Inspiro a fondo e cerco di calmarmi, ma la gamba continua a fare su e giù e non riesco a smettere di tremare.

    Ted si sfila la giacca e me la sistema sulle spalle. So che ha buone intenzioni, ma il gesto è fin troppo intimo e la stoffa intrisa del suo odore fragrante e sconosciuto. Ho una gran voglia di strapparmela di dosso e lanciarla dalla finestra: non voglio neanche essere sfiorata dai vestiti di un uomo che non è Will.

    La donna digita sulla tastiera per qualche secondo. «Uhm. Mi dispiace, ma non c’è nessuna prenotazione a nome del signor Griffith».

    Soffoco un singhiozzo. «Ricontrolli. Per favore».

    Segue una lunga pausa riempita da altri clic, altro assecondarmi. Il terrore inizia a scavarmi sotto pelle come un parassita lento e infaticabile, divorando le mie certezze.

    «È sicura di aver chiamato il Westin giusto? Ne abbiamo uno a Lake Mary, a nord della città. Posso darle il numero, se desidera».

    Scuoto la testa e cerco di scacciare le lacrime che hanno ripreso a scendere per ricontrollare i dettagli dell’albergo sul volantino. «Ho sotto mano l’opuscolo della conferenza. C’è scritto Universal Boulevard».

    La sento illuminarsi. «Oh, be’, se è qui per una conferenza allora posso lasciare un messaggio al referente dell’organizzatore. Di che conferenza si tratta?»

    «Sicurezza informatica per elementi critici: un summit per l’intelligence».

    Esita solo per un paio di secondi, abbastanza perché la rabbia mi raschi la gola. «Sono desolata, signora, ma a questo hotel non c’è nessuna conferenza con quel nome».

    Lascio cadere il telefono e vomito nel cestino della spazzatura.

    È una collega dell’ufficio iscrizioni, Claire Masters, a riaccompagnarmi a casa. Siamo in buoni rapporti, ma non amiche, e tuttavia non ho bisogno di chiedermi perché sono qui – inchiodata al sedile della sua Ford Explorer – e non sull’auto di qualcun altro: all’inizio dell’anno scorso, il morbo di Hodgkin si è portato via suo marito. Non importa se si è offerta volontaria o se è stato Ted a chiederglielo, il motivo è evidente. Chi può capire quello che sto passando meglio di un’altra vedova?

    Vedova. Se avessi ancora qualcosa nello stomaco, vomiterei.

    Mi volto verso il finestrino, guardando sfilare i negozi del quartiere di Buckhead. Claire guida lentamente, le mani alle dieci e dieci, e senza dire alcunché. Tiene la bocca chiusa e gli occhi fissi sulla strada e, per quanto detesti essere lanciata nella sua stessa tragica categoria, se non altro sa che l’unica cosa che voglio in questo momento è essere lasciata in pace.

    Il cellulare ricomincia a squillare, mia madre che chiama per quella che deve essere la centesima volta. Il senso di colpa mi dà il tormento: so che non è giusto evitarla, ma non ce la faccio a parlarle. Né con lei, né con nessun altro.

    «Non rispondi?». La voce di Claire, acuta e giovanile, fende il silenzio come una coltellata.

    «No». Col macigno che mi opprime il petto, parlare è praticamente impossibile.

    Il suo sguardo si sposta da me al telefono al traffico. «Fidati, tua madre starà dando di matto».

    Rabbrividisco al suo tono esperto, al modo in cui ci sta implicitamente riunendo nello stesso club. «Non ce la faccio», dico e la voce mi si spezza in due sull’ultima sillaba. Affrontare mia madre significherebbe pronunciare quelle tremende parole ad alta voce: Will non c’è più. Will è morto. Vorrebbe dire rendere tutto più reale.

    Il telefono smette di squillare e ricomincia subito.

    Stavolta Claire lo prende dalle mie gambe e fa scorrere il dito sullo schermo per rispondere. «Pronto, sono Claire Masters, una collega di Iris alla Lake Forrest. È seduta qui accanto a me, ma ancora non se la sente di parlare». Pausa. «Sì, signora, temo sia tutto vero». Ancora una pausa, più lunga stavolta. «Okay. Glielo dirò sicuramente». Riattacca e rimette il cellulare dove era prima. «I tuoi genitori sono già in viaggio, saranno ad Atlanta prima di stasera».

    Se ne avessi le forze, la ringrazierei. Guardo fuori dal finestrino e cerco di immaginarmi la scena: il mio Will in un campo di lamiere fumanti. Bagagli, rottami e brandelli accartocciati di metallo carbonizzato sparsi dappertutto. Ma non ci riesco, mi sembra inconcepibile, un concetto astratto come le lezioni di fisica avanzata del professor Drukker. Will stava andando a Orlando, non a Seattle. Non può essere morto. È semplicemente impossibile.

    Claire esce allo svincolo per l’autostrada, spinge sull’acceleratore e sfrecciamo verso sud in un meraviglioso, sacrosanto silenzio.

    5

    Nonostante le ripeta che non è necessario, Claire insiste per accompagnarmi fino alla porta. Pesco le chiavi dalla borsa e le infilo nella serratura. «Grazie per il passaggio. Me la caverò».

    La apro ed entro ma, quando cerco di chiuderla, Claire mi blocca con una mano sul pannello di vetro colorato. «No, tesoro, resto. Almeno finché non arrivano i tuoi genitori».

    «Senza offesa, Claire, ma voglio stare sola».

    «Senza offesa, Iris, ma non ho intenzione di andarmene», stabilisce con voce acuta e sorprendentemente determinata, addolcendo le parole con un sorriso. «Se non ti va non dobbiamo parlare per forza, ma rimango. Fine della storia».

    Indietreggio per farla passare.

    Nell’ingresso, Claire dà un’occhiata alle pareti color miele, ai pavimenti di pino lucido ridipinti di un colore prossimo al nero, ai corrimano intagliati d’epoca vittoriana. Allunga il collo dietro l’angolo per sbirciare nel salottino – completamente vuoto, fatta eccezione per il divano beige trapuntato di Room & Board che ci siamo regalati per Natale e che stiamo ancora pagando – poi indica il retro della casa. «Suppongo che la cucina sia di là?».

    Annuisco.

    Lascia la borsa accanto alla porta e si avvia lungo il corridoio. «Preparo il tè», annuncia e sparisce in cucina.

    Appena sono sola, mi aggrappo al montante della scala e i ricordi di stamattina tornano a travolgermi. Will sopra di me a scaldarmi con le sue mani, con la sua pelle nuda e tiepida. Le sue labbra nell’incavo del collo e dirette verso il basso, il prurito della barba sfatta sui seni, la pancia e poi ancora più giù. Le mie dita intrecciate ai suoi capelli. L’acqua che gli scivolava sul fisico muscoloso quando è uscito dalla doccia, le sue dita a sfiorare le mie quando gli ho passato l’asciugamano. La sua bocca calda e morbida che si avvicinava per l’ennesimo bacio, non importa quante volte l’abbia avvertito che stava correndo il serio rischio di perdere l’aereo. Quell’ultimissimo stralcio della sua mano che trascinava il trolley fuori dalla porta, la fede illuminata dal sole del primo mattino, e infine la sua auto che si allontanava.

    Deve tornare. Abbiamo ancora alberghi da prenotare, appuntamenti e feste di compleanno da programmare. Il mese prossimo andiamo a Seaside, una fuga per due in occasione del Memorial Day, e a Hilton Head con la mia famiglia quest’estate. Solo ieri notte mi ha baciato la pancia e mi ha detto che non vede l’ora che sia talmente incinta da non potermi circondare con le braccia. È impossibile che Will se ne sia andato. Una conclusione troppo irreale, troppo indigesta. Ho bisogno di prove.

    Abbandono le mie cose sul pavimento e mi addentro in casa, fino alla cucina aperta sulla sala da pranzo che funge anche da soggiorno. Pesco il telecomando dal cestino della frutta e, dopo aver premuto un paio di tasti, la CNN illumina lo schermo. Una giornalista si staglia contro un campo di granturco: il vento le scompiglia i capelli scuri sul viso, mentre intervista un uomo ingrigito avvolto in un enorme cappotto. La scritta in sovraimpressione lo identifica come il proprietario del terreno adesso cosparso di lamiere e resti umani.

    Claire mi raggiunge con una confezione di tè in mano e gli occhi spalancati. «Non dovresti guardarlo».

    «Shh». Alzo il volume finché le voci diventano dolorose quasi quanto ciò che dicono. La giornalista tempesta l’uomo di domande e intanto scandaglio lo sfondo in cerca di una qualsiasi traccia di Will. Un lampo di capelli castani, la manica della sua felpa di pile blu. Trattengo il respiro e aguzzo la vista, ma non ci sono altro che fumo e pannocchie mosse dal vento.

    La giornalista invita il vecchio a raccontare cosa ha visto.

    «Stavo lavorando all’estremità occidentale dei campi, quando l’ho sentito arrivare», dice l’uomo, accennando alle sconfinate file di granturco alle sue spalle. «L’aereo, intendo. L’ho sentito prima ancora di vederlo. Ho capito subito che qualcosa non andava».

    La donna lo interrompe. «Da cosa l’ha capito?»

    «Be’, i motori stridevano, ma non c’erano né fiamme, né fumo, almeno non prima dello schianto e dell’esplosione. Non avevo mai visto una palla di fuoco così grande. Ero a quasi due chilometri di distanza, ma ho sentito la terra tremare e poi un’enorme ondata di calore che mi ha bruciato la punta dei capelli».

    Quanto ci mette un aereo a piombare giù dal cielo? Un minuto? Cinque? Mi chiedo come Will si sia sentito e mi piego sul lavello per vomitare.

    Claire recupera il telecomando e toglie il volume. Mi aggrappo al ripiano e fisso i graffi sul fondo del lavandino, aspettando che la nausea mi abbandoni. E ora? E ora che cazzo dovrei fare? Sento Claire muoversi per la cucina, aprire sportelli e rovistarci dentro, poi il sibilo del frigorifero che si apre e si chiude. Torna indietro con un pacchetto di cracker e una bottiglietta d’acqua. «Ecco qua. L’acqua è fredda, bevila a piccoli sorsi».

    Ignoro entrambi e aggiro il bancone per sedermi su uno sgabello. «Negazione, rabbia, contrattazione, depressione, accettazione». Claire mi lancia un’occhiata interrogativa. «Le fasi del lutto secondo Kübler-Ross. Sono chiaramente in quella del rifiuto, perché non ha alcun senso: come può un uomo in viaggio per Orlando finire su un aereo diretto a ovest? Hanno spostato la conferenza a Seattle?».

    Si stringe nelle spalle, ma la sua espressione non lascia spazio all’incertezza. Potrò anche essere nella fase della negazione, ma Claire non lo è. Anche se non lo dice ad alta voce, prende per vere le dichiarazioni della Liberty Air secondo cui Will sarebbe uno dei 179 corpi fatti a pezzi su un campo di granturco del Missouri.

    «È semplicemente impossibile. Will me l’avrebbe accennato, o se non altro avrebbe smesso di parlare di Orlando. Stamattina era lì dove sei tu adesso, a proclamare il suo odio per il caldo, il traffico e quei maledetti parchi a tema sparsi dappertutto». Scuoto la testa, la disperazione che si dispiega nella mia voce come una sirena. «È così stressato ultimamente, forse non sapeva che la conferenza è stata spostata. Forse è ancora lì, a vagare per le roventi strade di Orlando cercando di capirci qualcosa. Ma allora perché non mi ha richiamata?».

    Claire serra le labbra e non risponde.

    Chiudo gli occhi per qualche spasmodico istante, le emozioni che mi esplodono in petto come bombe. Che faccio? Chi chiamo? Il primo istinto è quello di telefonare a Will, come tutte le volte che non riesco a venire a capo di qualche problema da sola. La sua mente metodica vede le cose in modo diverso dalla mia e riesce quasi sempre a trovare una soluzione.

    «Dovresti creare un’applicazione», gli ho detto una volta, dopo che mi aveva aiutato a organizzare un intero semestre di programmi per la prevenzione all’uso di alcol e droghe. «Faresti una fortuna. Potresti chiamarla: Cosa dirà Will?».

    Si era dato una pacca sulle gambe e aveva sfoderato il mio sorriso preferito. «Per adesso dice che sei adorabile e di venire qui a darmi un bacio».

    Mi premo le dita sulle labbra e mi impongo di calmarmi, di pensare. Ci deve pur essere qualcuno da chiamare, qualcuno che mi confermerà che si tratta soltanto di un enorme malinteso.

    «Jessica!». Salto giù dallo sgabello e corro fino al cordless in carica accanto al microonde. «Jessica saprà dirmi dov’è. Saprà sicuramente che la conferenza è stata spostata».

    «Chi è Jessica?»

    «L’assistente di Will». Faccio il numero che conosco a memoria e do le spalle a Claire per non dover guardare la sua espressione corrucciata, il suo sguardo evasivo, il modo in cui si morde le labbra. Mi sta solo assecondando, proprio come Ted.

    «AppSec Consulting, sono Jessica».

    «Jessica, sono Iris Griffith. Hai…».

    «Iris? Ma non siete in vacanza?».

    È come un fulmine a ciel sereno e mi servono un paio di secondi per mettere a fuoco. Jessica sarà anche un genio a rispondere al telefono e a organizzare gli impegni di un manipolo di informatici svampiti, ma non è esattamente una campionessa di perspicacia.

    «Uhm, no. Perché?»

    «Perché dovreste essere nel bel mezzo di una vacanza fai-bambini tutto incluso sulla Riviera Maya. Will mi ha fatto vedere le foto del resort ed è favolo…». Si rimangia l’ultima sillaba, poi trattiene il respiro. «Oh Dio, Iris, devo essermi confusa. Sono sicura di aver scambiato le date».

    So cosa sta pensando, che è lì con un’altra donna, ma non mi interessa. E se avesse ragione? E se Will fosse vivo e vegeto a prendere il sole su una spiaggia messicana? La speranza mi resta aggrappata addosso per un paio di secondi, ma svanisce appena realizzo che non lo farebbe: Will non mi tradirebbe mai e, se anche ne fosse capace, un clima caldo come quello del Messico sarebbe in fondo alla sua lista. Una crociera in Alaska sarebbe già più credibile.

    «Non è possibile». Ed è tutto quello che riesco a dire per restare calma, per soffocare la mia frustrazione sotto una parvenza di cortesia. «È uno dei relatori della conferenza sulla sicurezza informatica, ricordi?»

    «Che conferenza?».

    Sgrano gli occhi. Chi diavolo ha avuto la brillante idea di assumerla? «Quella a Orlando».

    «Aspetta, sono confusa. Quindi non è in Messico?».

    Dio mi aiuti, perché è qui che perdo la testa. Trattengo il respiro e mi metto a urlare fino a raschiarmi la gola. «Non lo so, Jessica! Non so dove cazzo sia Will! È questo il problema!».

    Silenzio sbigottito tutt’intorno, da Claire alle mie spalle e da Jessica all’altro capo del telefono, un silenzio stereofonico che mi rimbomba nelle orecchie. Dovrei scusarmi, so che dovrei, ma un singhiozzo mi toglie il fiato e quasi mi strozzo con le orrende parole che vengono dopo. «Dicono… dicono che Will era sull’aereo che è precipitato stamattina, ma non è possibile. Era in volo per Orlando. Dimmi che è a Orlando».

    «Oh, mio Dio. Ho visto il telegiornale, ma non ne avevo idea, Iris. Non lo sapevo».

    «Ti prego. Aiutami a trovare Will».

    «Certo». Si zittisce per un istante, poi la sento digitare sulla tastiera del computer. «Sono sicura di non aver prenotato io il volo di oggi, ma ho le credenziali di tutti i suoi profili online. Mi ridici di chi era l’aereo che si è schiantato?»

    «Della Liberty Airlines. Volo 23».

    Un’altra lunga pausa con altri clic in sottofondo. «Okay, ho fatto l’accesso. Vediamo… Volo 23 hai detto?».

    Mi appoggio al bancone, sorreggendomi la testa con una mano. Chiudo gli occhi e inizio a pregare. «Sì».

    «Oh, Iris…», dice e la stanza comincia a girare. «Mi dispiace, ma eccolo qui: volo 23, in partenza da Atlanta questa mattina alle 8:55, diretto a Seattle e di ritorno il… uhm. Sembra abbia prenotato soltanto l’andata».

    Le gambe cedono sotto il mio peso e mi accascio sul pavimento. «Controlla la Delta».

    «Iris, non credo che…».

    «Controlla la Delta!».

    «Okay, dammi solo un secondo… Sta caricando… Aspetta, che strano, è anche qui. Volo 2069 per Orlando, partenza alle nove di stamattina, ritorno alle otto di venerdì sera. Perché avrebbe prenotato due biglietti per due direzioni opposte?».

    Il sollievo mi squaglia le ossa e raddrizzo bruscamente la schiena. «Dov’è la conferenza? Ho chiamato l’albergo di Universal Boulevard, ma sembra l’abbiano spostata».

    «Mi dispiace, Iris. Non so niente di nessuna conferenza».

    «Allora chiedi a qualcuno! Qualcuno lì deve pur sapere qualcosa sulla conferenza organizzata dalla vostra azienda».

    «No. Nel senso che la AppSec non ha nessuna conferenza in programma, non prima di novembre».

    Mi ci vogliono tre tentativi per tirar fuori le parole. «E il Messico?»

    «I biglietti non sono né Delta, né Liberty Air, ma posso controllare con le altre compagnie se vuoi».

    Sento la pietà nella sua voce adesso, e non riesco a tollerarla neanche per un secondo. Riattacco e cerco il numero della Delta su Google. Devo aspettare nove infiniti minuti di attesa, poi spiego la situazione a una sequela di rappresentanti del servizio clienti e infine vengo affidata a Carrie, un’incaricata dell’assistenza famiglie dalla voce allegra.

    «Ciao, Carrie. Mi chiamo Iris Griffith. Mio marito Will ha prenotato un posto sul volo 2069 di stamattina da Atlanta a Orlando, ma non sono ancora riuscita a contattarlo. Potrebbe controllare e dirmi se è andato tutto bene?»

    «Certamente, signora. Mi serve solo il codice del biglietto».

    A questo punto dovrei riattaccare e richiamare Jessica, ma non ho la minima intenzione di essere rimessa in attesa. Mi servono delle risposte. Adesso. «Non può cercarlo per nome? Ho davvero bisogno di sapere se era sull’aereo».

    «Temo sia impossibile». Mi dà la cattiva notizia con voce cantilenante e briosa, come se avessi appena vinto un menu gratis da Denny’s. «La legge sulla privacy ci impedisce di divulgare informazioni telefoniche sull’itinerario dei passeggeri».

    «Ma è mio marito. Sono sua moglie».

    «Capisco, signora, e se potessi accertarmene via telefono lo farei. Forse potrebbe rivolgersi allo sportello Delta più vicino a lei con un documento di identità, potrebbero…».

    «Non ho il tempo di andare a uno sportello della Delta!». Le parole erompono brusche e urgenti dalle profondità delle mie viscere, cogliendomi alla sprovvista, e Carrie tace di colpo. Se non fosse per i rumori di sottofondo, i clic sul computer e le voci distanti, sospetterei che mi abbia riattaccato in faccia.

    Poi sento uno stridio acuto simile all’interferenza in un microfono e mi ci vuole un secondo per capire che sono stata io. Crollo sotto il peso della mia disperazione.

    «È che aveva anche un biglietto per il volo 23 della Liberty Airlines, capisce? Ma non doveva essere su quell’aereo, doveva essere sul vostro. E adesso non risponde al telefono, l’albergo non sa niente né di lui né della conferenza e neanche la sua assistente, che invece era convinta fosse in Messico, ma lì sono sicura che non è. E con ogni secondo che passa, secondi in cui non so dov’è mio marito, comincio seriamente a perdere la testa. Quindi per favore, controlli sul suo computer e mi dica se era su quel volo. La supplico».

    Si schiarisce la voce. «Signora Griffith, io…».

    «La prego». L’implorazione si prolunga in un gemito e mi ci vuole un po’ per ricompormi. Le lacrime hanno ricominciato a scendere rapide e copiose, monopolizzando l’ossigeno e chiudendomi la gola. «La prego, mi aiuti a trovare mio marito».

    Segue una lunga, lunghissima pausa in cui stritolo il cellulare fino a farmi male. «Mi dispiace», dice dopo un’eternità, la voce ridotta a un sussurro, «ma suo marito non ha mai fatto il check-in per il volo 2069».

    Urlo e scaglio il telefono dall’altra parte della stanza. Si schianta contro il mobile, atterra

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