Scopri milioni di eBook, audiolibri e tanto altro ancora con una prova gratuita

Solo $11.99/mese al termine del periodo di prova. Cancella quando vuoi.

Il matrimonio delle bugie
Il matrimonio delle bugie
Il matrimonio delle bugie
E-book363 pagine5 ore

Il matrimonio delle bugie

Valutazione: 0 su 5 stelle

()

Leggi anteprima

Info su questo ebook

«Si divora in un attimo. Adrenalinico.»
Publishers Weekly

Un grande thriller

Anche il matrimonio perfetto ha il suo lato oscuro...

Dopo sette anni di matrimonio, Iris e Will sono il ritratto della coppia felice: vivono in una bella casa, hanno un lavoro appagante e stanno cercando di avere un bambino. Quando Will parte per un viaggio di lavoro in Florida, Iris non sa che il suo mondo perfetto sta per crollare. Quella mattina, infatti, un aereo diretto a Seattle precipita e tra i nomi delle vittime c’è inspiegabilmente quello di Will. Iris è sconvolta, ma è certa che si tratti di un errore. Perché Will avrebbe dovuto mentirle? Che cosa doveva fare a Seattle? E su cosa altro ancora potrebbe averle raccontato bugie? Se vuole davvero arrivare alla verità, Iris dovrà affrontare un’indagine disperata per scoprire che cosa si nascondeva sotto la superficie calma del suo matrimonio. Ma non ha idea delle conseguenze che tutto ciò potrebbe avere… 

Tradotto in 12 lingue
Un’autrice bestseller di USA Today, Wall Street Journal e Globe and Mail

Perché suo marito era su quell’aereo?

«La suspense cresce rapidamente. Avvincente.»
Kirkus Reviews

«Si divora in un attimo. Una sorpresa continua.»
Publishers Weekly

«Questo thriller intelligente parte da un interrogativo ben preciso: cosa faresti se scoprissi che tuo marito non è quello che credi? Un romanzo adrenalinico, con un sorprendente colpo di scena finale.»
Daily Mail
Kimberly Belle
È un’autrice bestseller internazionale, tradotta in dodici lingue. Il suo romanzo Il matrimonio delle bugie è stato semifinalista ai Goodreads Choice Awards, per la categoria Mystery & Thriller. I suoi libri sono apparsi nelle classifiche di «USA Today», «Wall Street Journal» e «Globe and Mail».
LinguaItaliano
Data di uscita31 lug 2018
ISBN9788822724878
Il matrimonio delle bugie

Correlato a Il matrimonio delle bugie

Titoli di questa serie (100)

Visualizza altri

Ebook correlati

Thriller per voi

Visualizza altri

Articoli correlati

Categorie correlate

Recensioni su Il matrimonio delle bugie

Valutazione: 0 su 5 stelle
0 valutazioni

0 valutazioni0 recensioni

Cosa ne pensi?

Tocca per valutare

La recensione deve contenere almeno 10 parole

    Anteprima del libro

    Il matrimonio delle bugie - Kimberly Belle

    1

    È la sua mano a svegliarmi. Mi afferra per la vita e mi fa aderire da capo a piedi alla sua pelle riscaldata dal sonno. Sospiro e mi abbandono contro le forme familiari di mio marito, appoggiando la schiena al suo petto, assorbendo il suo calore. Will è una stufa quando dorme e io ho sempre freddo da qualche parte. Stamattina tocca ai piedi, li infilo tra i suoi polpacci tiepidi.

    «Hai le dita gelide». La sua voce rimbomba nella stanza buia e si riverbera attraverso il mio corpo. Oltre le tende della camera da letto non è ancora del tutto mattina, quell’istante tinto di violetto che separa la notte dal giorno, ancora una buona mezz’ora prima che suoni la sveglia. «Li hai tenuti fuori dal letto o cosa?».

    Aprile è a malapena cominciato e marzo non ha ancora allentato la sua gelida morsa. Cieli plumbei rovesciano pioggia da ormai tre giorni e un vento glaciale ha precipitato le temperature ben al di sotto della media. I meteorologi prevedono almeno un’altra settimana da brividi, e Will è l’unica persona ad Atlanta che accoglie il gelo spalancando le finestre. Il suo termostato interno è sempre regolato su fornace.

    «È perché ti ostini a dormire in un igloo. Credo di avere i geloni a tutte le estremità».

    «Vieni qui». Le sue dita mi scivolano lungo il fianco, la sua mano mi avvicina ancora di più. «Pensiamo a riscaldarti allora».

    Restiamo distesi per un po’ in un confortevole silenzio, il suo braccio stretto attorno alla vita, il mento appoggiato nell’incavo della mia spalla. Will è sudato e accaldato dal sonno, ma non mi importa. Sono questi i momenti che preferisco, i nostri cuori e i nostri respiri sincronizzati, intimi quanto fare l’amore.

    «Sei la mia persona preferita sulla faccia della Terra», mi mormora nell’orecchio e io sorrido. Sono le parole che abbiamo scelto al posto del più convenzionale ti amo e per me valgono molto di più. Tutte le volte che gli scivolano di bocca mi colpiscono come una promessa: mi piaci più di tutti e sarà sempre così.

    «Anche tu sei la mia persona preferita».

    Le mie amiche mi ripetono che non durerà per sempre, questo legame con mio marito. A breve ormai, dicono, l’abitudine domerà le fiamme e all’improvviso ricomincerò a notare gli altri uomini. Mi ravviverò le guance e luciderò le labbra per estranei senza nome e senza faccia che non sono Will e li immaginerò mentre mi toccano in punti cui solo mio marito dovrebbe avere accesso. La crisi del settimo anno, così la chiamano. Riesco a malapena a immaginare che effetto faccia perché oggi – dopo sette anni e un giorno – la mano di Will mi scivola sulla pelle e l’unica crisi in vista è quella provocata dal suo tocco.

    Abbasso le palpebre mentre il contatto risveglia un formicolio familiare, l’avvertimento che con ogni probabilità farò tardi al lavoro.

    «Iris?», sussurra.

    «Uhm?»

    «Mi sono dimenticato di cambiare i filtri del condizionatore».

    Apro gli occhi. «Cosa?»

    «Ho detto che mi sono dimenticato di cambiare i filtri del condizionatore».

    Rido. «Allora avevo sentito bene». Will è un brillante ingegnere informatico con qualche tendenza al disturbo da deficit dell’attenzione. Il suo cervello è talmente infarcito di fatti e informazioni da dimenticare le piccole cose… di solito non durante il sesso, però. Do la colpa a un periodo particolarmente stressante al lavoro, insieme all’imminente conferenza che lo porterà in Florida per tre giorni: la sua lista di cose da fare è più lunga del solito. «Puoi rimediare questo weekend, quando torni».

    «E se il caldo arrivasse prima?»

    «Non dovrebbe. E se anche fosse, il filtro può aspettare un paio di giorni».

    «C’è anche da cambiare l’olio alla tua macchina. Quand’è stata l’ultima volta che l’hai fatta controllare?»

    «Non lo so».

    Will e io ci dividiamo le faccende di casa secondo i rigidi schemi dei ruoli di genere. Le auto e la manutenzione della casa spettano a lui, cucina e pulizie a me. La divisione del lavoro non dispiace a nessuno dei due. Il college mi ha insegnato a essere femminista, il matrimonio a essere pragmatica: preparare le lasagne è di gran lunga più piacevole di pulire le grondaie.

    «Controlla le ricevute del meccanico, okay? Sono nel cassetto del cruscotto».

    «Va bene. Ma perché tutte queste faccende improvvise? Ti sto già annoiando?».

    Lo sento sorridere contro la mia nuca. «Forse è questo che intendono i libri sulla gravidanza quando parlano di fare il nido».

    La gioia mi riscalda il petto al ricordo di cosa stiamo facendo – quello che forse abbiamo già fatto – e mi volto verso di lui. «Non posso essere già incinta. Ci stiamo provando ufficialmente da meno di ventiquattro ore».

    Una volta ieri sera prima di cena e due dopo. Può darsi che nella nostra prima sessione fai-bambini ufficiale ci siamo lasciati prendere la mano ma, in nostra difesa, era il nostro anniversario e a Will piace strafare.

    I suoi occhi brillano di soddisfazione. Se ci fosse abbastanza spazio tra di noi, si batterebbe i pugni sul petto. «Sono sicurissimo che i miei ragazzi siano ottimi nuotatori. Probabilmente sei già incinta».

    «Ne dubito», gli dico, anche se le sue parole mi fanno sentire più che piacevolmente intontita. Will è la metà pragmatica della coppia, quello che rimane con i piedi per terra davanti al mio ingenuo ottimismo. Non gli dico che ho già fatto i calcoli, che ho già studiato il mio ciclo, contato i giorni passati dalle ultime mestruazioni e documentato ogni cosa grazie a un’applicazione sul telefono, né che ha ragione: potrei davvero essere incinta. «Per il settimo anniversario si regala lana o rame. Tu invece mi hai regalato una manciata di spermatozoi».

    Sorride in modo nervoso, quell’espressione che gli esce quando ha fatto qualcosa che non avrebbe dovuto. «Non solo quelli».

    «Will…».

    L’anno scorso, su sua insistenza, abbiamo investito tutti i nostri risparmi e una discreta parte del nostro reddito mensile in un mutuo che ci avrebbe essenzialmente resi poveri per qualsiasi altro tipo di spesa. Ma oh, se ne è valsa la pena. È la casa dei nostri sogni, un edificio vittoriano con tre camere da letto in una tranquilla strada del quartiere di Inman Park, con un’ampia veranda frontale e impianti di legno originali. Appena entrati, Will ha deciso che doveva averla, anche se metà delle stanze sarebbe rimasta vuota per un bel po’ di tempo. Questo doveva essere un anniversario senza regali.

    «Lo so, lo so, ma non ho resistito. Volevo comprarti qualcosa di speciale. Qualcosa che ti ricorderà per sempre questo momento, quando eravamo solo tu e io». Si gira, accende la luce e tira fuori una scatolina rossa dal cassetto del comodino. Me la porge con un timido sorriso. «Buon anniversario».

    So riconoscere un Cartier quando lo vedo e so anche che di quel negozio non possiamo permetterci neanche un granello di polvere. Dato che non accenno ad aprirlo, Will fa scattare la chiusura col pollice e solleva il coperchio rivelando tre anelli intrecciati, di cui uno ricoperto di file e file di piccoli diamanti.

    «È un anello trinity. L’oro rosa simboleggia l’amore, quello giallo la fedeltà, quello bianco l’amicizia. Mi piace il significato del tre: tu, io e il nostro quasi-bambino». Ricaccio indietro le lacrime e Will mi solleva il mento con un dito per farsi guardare negli occhi. «Che c’è? Non ti piace?».

    Sfioro le gemme bianche e luminose che brillano sul cuoio rosso. La verità è che Will non avrebbe potuto scegliere un anello migliore: è sobrio, sofisticato, bellissimo. Esattamente il tipo d’anello che sceglierei se potessimo spendere tutti i soldi del mondo, che però non abbiamo.

    Eppure desidero quest’anello più di quanto dovrei, non perché è bello o costoso, ma per la cura con cui Will l’ha scelto per me.

    «Lo adoro, ma…», scuoto la testa. «È troppo. Non possiamo permettercelo».

    «Non è troppo. Non per la madre del mio futuro bambino». Sfila l’anello dalla scatolina e me lo fa scivolare lungo il dito. È freddo e pesante e mi calza alla perfezione, abbracciando la porzione di pelle sotto la nocca come fosse fatto su misura. «Dammi una bambina uguale a te».

    Il mio sguardo vaga sulle superfici lisce e spigolose del suo volto, scegliendone le mie parti preferite. La piccola cicatrice che gli attraversa il sopracciglio sinistro. La leggera protuberanza all’attaccatura del naso. La mascella ampia e squadrata, le labbra carnose che chiedono solo di essere baciate. Ha gli occhi assonnati, i capelli in disordine, il mento ricoperto da un accenno di barba. Tra tutte le sue abitudini, tra tutti i suoi momenti, tra tutti i lati di lui che ho imparato a conoscere, lo amo di più quando è come adesso: dolce, tenero, sgualcito.

    Gli sorrido tra le lacrime. «E se fosse un maschio?»

    «Allora continueremo a provarci finché non avrò la mia bambina». Conclude la frase con un lungo bacio, le sue labbra premute sulle mie. «Ti piace l’anello?»

    «Lo adoro». Gli passo un braccio attorno al collo, i diamanti che ammiccano al di sopra della sua spalla. «È perfetto, come te».

    Sorride. «Forse dovremmo fare un altro tentativo prima che me ne vada, tanto per essere sicuri».

    «Il tuo aereo parte fra tre ore».

    Ma le sue labbra si stanno già facendo strada sul mio collo e la sua mano scivola sempre più verso il basso, ancora e ancora. «E quindi?»

    «Quindi piove. Il traffico sarà un incubo».

    Mi fa rotolare sulla schiena, sovrastandomi col suo corpo. «Allora sarà meglio darsi una mossa».

    2

    La retta della Lake Forrest Academy, l’esclusivo istituto dall’asilo-al-liceo situato in un frondoso sobborgo di Atlanta dove lavoro come psicologa scolastica, ammonta alla vertiginosa somma di 24.435 dollari all’anno. Tenendo conto di un’inflazione del cinque per cento, tredici anni in questi aurei corridoi costano più di 400.000 dollari a figlio, e senza che abbia ancora messo piede in un campus universitario. I nostri studenti sono i figli e le figlie di chirurghi e amministratori delegati, di banchieri e imprenditori, di presentatori televisivi e atleti professionisti. Sono una tribù elitaria e privilegiata e il gruppo di ragazzini più disadattato che si possa immaginare.

    Supero le doppie porte che sono le dieci appena passate – in ritardo di ben due ore grazie alla non-poi-così-sveltina di Will e a una gomma a terra – e mi incammino lungo il corridoio rivestito di moquette. L’edificio è avvolto nel silenzio, il tipo di silenzio degli studenti in classe, rannicchiati davanti ai loro MacBook nuovi di zecca. Sono arrivata nel bel mezzo della terza ora, quindi non c’è fretta.

    Quando giro l’angolo, non sono sorpresa di trovare un paio di alunni di terza superiore davanti al mio ufficio, le teste chine sui loro apparecchi elettronici. Gli studenti sanno che la mia porta è sempre aperta e ne approfittano spesso.

    Dall’aula sull’altro lato del corridoio escono altri ragazzi. Le loro voci cariche d’agitazione e paura mi inchiodano sul posto. «Che sta succedendo? Perché non siete in classe?».

    Ben Wheeler alza lo sguardo dal suo iPhone. «È appena precipitato un aereo. Dicono che era partito da Hartsfield».

    Il panico mi riempie il petto e il mio cuore si ferma. Mi appoggio a un armadietto per mantenere l’equilibrio. «Che aereo? Dove?».

    Si stringe nelle spalle ossute. «Non si sa ancora molto».

    Mi faccio strada tra la folla di studenti e balzo dietro alla mia scrivania, allungando una mano tremante verso il mouse. «Forza, forza», sussurro, risvegliando il computer dal suo letargo. Mi gira la testa mentre cerco di ricordare i dettagli del volo di Will. È in viaggio da più di mezz’ora ormai, i motori che rombano da qualche parte in prossimità del confine con la Florida. È ovvio – ovvio – che l’aereo precipitato non può essere il suo. Quante probabilità ci sono? Migliaia di aerei decollano dall’aeroporto di Atlanta ogni giorno senza precipitare dal cielo. Sono certa che sono arrivati a destinazione sani e salvi.

    «Signora Griffith, si sente bene?», chiede Ava, un’esile studentessa di seconda ferma sulla soglia del mio ufficio. Nel boato che mi riempie le orecchie, riesco a malapena a distinguere le sue parole.

    Dopo un’eternità il motore di ricerca finisce di caricare e posso digitare l’indirizzo della cnn con dita rigide e maldestre. E poi mi metto a pregare. Ti prego, Dio, ti prego, fa’ che non sia quello di Will.

    Le immagini che invadono lo schermo sono orribili. Brandelli di aereo dilaniati dall’esplosione, un campo carbonizzato punteggiato da lamiere fumanti. Lo schianto peggiore, quello a cui nessuno sopravvive.

    «Poveretti», sussurra Ava sopra la mia testa.

    La nausea si intensifica bruciandomi la gola. Scorro la pagina finché non trovo i dettagli del volo: Liberty Airlines, volo 23. L’aria mi esce bruscamente dal petto e il sollievo mi riduce le ossa in gelatina.

    Ava mi tocca timidamente la schiena. «Cosa c’è che non va, signora Griffith? Posso fare qualcosa?»

    «Sto bene». Le parole mi escono informi e senza fiato, come se i polmoni non fossero ancora stati messi al corrente degli ultimi sviluppi. Lo so che dovrei disperarmi per i passeggeri del volo 23 e le loro famiglie, per quei poveracci fatti a pezzi sopra un campo di granturco del Missouri, per i parenti e gli amici che stanno scoprendo cosa è successo come ho fatto io, sui social media e con queste immagini tremende sui loro schermi, ma provo soltanto sollievo. Mi investe come una dose di Valium: forte, rapido, sublime. «Non era il volo di Will».

    «Chi è Will?».

    Mi passo le mani sulle guance e cerco di scacciare il panico, che però oppone resistenza. «Mio marito». Le dita mi tremano ancora e il cuore batte all’impazzata, non importa quante volte mi ripeta che non era il volo di Will. «È in viaggio verso Orlando».

    Sgrana gli occhi. «Pensava che suo marito fosse su quell’aereo? Cavolo, per forza è crollata».

    «Non sono crollata, è che…». Mi premo una mano sul petto e faccio un respiro profondo. «Per la cronaca, la mia reazione non è sproporzionata alla situazione. Una paura forte come quella che ho provato produce un brusco aumento dell’adrenalina e il corpo risponde di conseguenza. Ma sto bene adesso. Starò bene».

    Parlarne ad alta voce, descrivere la mia reazione fisiologica in termini scientifici, mi allenta qualcosa all’altezza del petto e il pulsare nella mia testa si attenua fino a ridursi a qualche sporadico tonfo. Grazie al cielo non era il volo di Will.

    «Ehi, non volevo giudicarla. Ho visto suo marito, è terribilmente sexy». Lancia lo zaino sul pavimento e si lascia cadere sulla sedia nell’angolo, accavallando le gambe decisamente troppo scoperte per le divise regolamentari. Come tutte le ragazze della scuola, Ava ripiega la gonna in vita finché l’orlo non raggiunge lunghezze degne di una prostituta. I suoi occhi scivolano sulle mie dita ancora premute sul petto. «Bell’anello, a proposito. Nuovo?».

    Riabbasso la mano sul laptop. Non mi sorprende che Ava l’abbia notato, probabilmente sa anche quanto costa. Ignoro il complimento e mi concentro sulla prima parte della sua risposta. «Quando avresti visto mio marito?»

    «Sulla sua pagina Facebook». Sorride. «Se mi svegliassi tutte le mattine accanto a lui, anch’io arriverei tardi al lavoro».

    Le lancio un’occhiata di rimprovero. «Per quanto mi stia godendo questa conversazione, non dovresti tornare in classe?».

    Le sue splendide labbra rosa si arricciano in una smorfia. Anche corrucciata, Ava è una ragazza stupenda. Incredibilmente bella. Occhioni azzurri, pelle morbida e liscia, riccioli ramati, lunghi e lucenti. È intelligente e, se vuole, sa anche essere divertente. Potrebbe avere qualsiasi ragazzo della scuola e… sembra li abbia: Ava è tutt’altro che schizzinosa e, se devo dare retta a Twitter, una conquista facile.

    «Salto l’ora di letteratura», dice in tono improvvisamente infantile.

    Le rivolgo il mio miglior sorriso da psicologa, amichevole e acritico. «Perché?».

    Sospira e alza gli occhi al cielo. «Perché sto cercando di evitare gli spazi chiusi in cui Charlotte Wilbanks e io siamo costrette a respirare la stessa aria. Mi odia e il sentimento è reciproco, glielo posso assicurare».

    «Perché pensi che ti odi?», le chiedo anche se conosco già la risposta. La faida tra Charlotte e Ava, ex migliori amiche, è lunga e ben documentata. Qualsiasi cosa abbia scatenato il loro odio, ormai diversi anni fa, è stata dimenticata e sepolta sotto un miliardo di tweet volgari e offensivi che portano il significato di cattiva ragazza a nuovi livelli. A giudicare da quello che ho visto scorrere sulla mia homepage di Twitter ieri, il loro ultimo battibecco riguarda un compagno di classe, Adam Nightingale, figlio della leggenda del country Toby Nightingale. Lo scorso weekend sono comparse online alcune foto di Ava e Adam che si scambiavano effusioni a un juice bar del quartiere.

    «Che ne so? Perché sono più carina, immagino». Si torce le dita impeccabilmente smaltate, un giallo acceso fresco di manicure.

    Come per la maggior parte dei ragazzi di questa scuola, i genitori di Ava le danno tutto ciò che desidera. Una decappottabile nuova di zecca, viaggi in prima classe verso destinazioni esotiche, una American Express Platino e la loro benedizione. Ma ricoprire la figlia di regali non equivale a darle attenzioni e, se ci fossero gli adulti seduti qui davanti a me, li inviterei a dare il buon esempio. La madre di Ava è un’esponente dell’alta società di Atlanta con l’impressionante abilità di voltarsi dall’altra parte tutte le volte che il marito, un chirurgo plastico noto in città come il Tipo delle Tette, viene pizzicato a palpare una ragazza con la metà dei suoi anni, il che accade piuttosto spesso.

    I miei studi mi hanno insegnato a considerare natura e cultura come due istanze equivalenti, ma il lavoro mi ha fatto capire che la cultura ha sempre la meglio. Soprattutto quando scarseggia. Più i genitori sono incasinati, più lo sono i figli. È elementare.

    Ma credo che tutti, persino i genitori peggiori e i ragazzini più disadattati, abbiano una caratteristica in grado di redimerli. Quella di Ava è che non può fare altrimenti: sono stati i genitori a crescerla così.

    «Sono sicura che se ci rifletti un po’ su, riuscirai a trovare un motivo migliore per cui Charlotte dovrebbe…».

    «Toc, toc». Il preside della scuola superiore, Ted Rawlings, si staglia sull’ingresso del mio ufficio. Alto e allampanato, con una corona di riccioli scuri e fitti, Ted sembra un barboncino che prende tutto con serietà a eccezione delle cravatte: deve averne a centinaia, tutte orrende, sempre a tema scolastico e immancabilmente ridicole, ma che su di lui fanno in qualche modo bella figura. La cravatta di oggi è di un poliestere giallo brillante ricoperto di equazioni di fisica. «Immagino tu abbia saputo dell’incidente».

    Annuisco, lo sguardo che guizza alle immagini sullo schermo. Quella povera gente, quelle povere famiglie.

    «Verrà sicuramente fuori che qualcuno della scuola conosceva uno dei passeggeri», dice Ava. «Aspettate e vedrete».

    Le sue parole mi provocano un brivido lungo la schiena, perché ha ragione: Atlanta è una grande metropoli, ma una piccola città dove i gradi di separazione tendono a essere piuttosto ridotti. Le probabilità che qualcuno alla Lake Forrest sia in qualche modo legato a una delle vittime non sono poi così scarse. La cosa migliore che posso augurarmi è che non si tratti di un parente o un amico intimo, immagino.

    «Gli studenti sono turbati», dice Ted. «E hanno un buon motivo per esserlo, ma non credo che riusciremo a lavorare oggi. Con il tuo aiuto, però, speravo di trasformare questa tragedia in una occasione d’apprendimento per tutti. Creiamo uno spazio sicuro perché i ragazzi possano parlare di quello che è successo e fare domande. E se la signorina Campbell qui ha ragione e qualcuno alla Lake Forrest ha davvero perso una persona cara nello schianto, saremo già al posto giusto per dare qualsiasi tipo di supporto morale necessario».

    «Mi sembra un’ottima idea».

    «Perfetto, sono contento che tu sia d’accordo. Convocherò un’assemblea nell’auditorium, tu e io faremo da moderatori».

    «Certo. Dammi solo qualche minuto per darmi una sistemata e sarò da te».

    Ted tamburella una nocca sulla porta e se ne va in tutta fretta. Adesso che l’ora di letteratura è ufficialmente saltata, Ava recupera il suo zaino e ci rovista dentro mentre tiro fuori la cipria dal cassetto della scrivania.

    «Ecco qua», mi dice, depositando una manciata di costosi trucchi di marca accanto al computer. Chanel, Nars, ysl, mac. «Senza offesa, ma credo ne abbia bisogno più lei di me». Addolcisce le parole con un ampio sorriso.

    «Grazie, Ava, ma ho i miei».

    Ma Ava non se li riprende. Sposta il peso del corpo da un piede all’altro, una mano aggrappata alla cinghia dello zaino. Si morde le labbra, abbassa lo sguardo sulle sue oxford e mi ritrovo a chiedermi se, al di là della sua ostentata baldanza, non sia semplicemente timida. «Sono davvero contenta che non era il volo di suo marito».

    Stavolta il sollievo cresce lentamente, riscaldandomi come il corpo addormentato di Will stamattina. Mi sfiora come il sole sulla pelle nuda. «Anch’io».

    Appena se n’è andata, recupero il telefono e cerco il numero di cellulare di Will. So che non potrà rispondere ancora per un’ora o poco più, ma ho bisogno di sentire la sua voce, anche se soltanto registrata. Basta quel suono morbido e familiare ad allentare la tensione.

    Questa è la segreteria telefonica di Will Griffith…

    Aspetto il segnale acustico, abbandonandomi di nuovo sulla sedia.

    «Ehi, tesoro, sono io. So che sei ancora in volo, ma un aereo è appena precipitato dopo il decollo da Hartsfield e per circa quindici terribili secondi ho pensato che potesse essere il tuo e ho solo bisogno di… non lo so, sapere che stai bene. So che è stupido, ma chiamami non appena atterri, okay? I ragazzi sono spaventati, quindi sarò in assemblea, ma prometto di rispondere. Okay, devo andare, ma ci sentiamo presto. Sei la mia persona preferita in assoluto e mi manchi già».

    Rimetto il telefono in tasca ed esco dall’ufficio, i trucchi di Ava là dove li ha lasciati, in un mucchietto sopra la scrivania.

    3

    Seduto accanto a me sul palco dell’auditorium, Ted si liscia la cravatta parlando alla stanza gremita di liceali. «Come sapete, il volo 23 della Liberty Air, decollato dall’aeroporto internazionale di Hartsfield-Jackson e diretto a Seattle, Washington, si è schiantato poco più di un’ora fa. Tutti i 179 passeggeri sono dati per morti. Uomini, donne e bambini, persone come noi. Vi ho convocati qui per darci la possibilità di parlarne come gruppo, in modo aperto e onesto, senza giudicare. Tragedie come questa ci rendono fin troppo consapevoli dei pericoli di questo mondo, delle nostre debolezze, di quanto sia fragile la nostra vita. Questo è uno spazio sicuro per piangere, fare domande e qualsiasi altra cosa vi aiuti a metabolizzare l’incidente. Promettiamoci l’un l’altro che quello che succederà in questo auditorium rimarrà in questo auditorium».

    Qualsiasi altro preside proporrebbe un minuto di silenzio, per poi invitare i ragazzi a rimettersi al lavoro. Ma quando si tratta di adolescenti, Ted sa che la catastrofe ha sempre la precedenza sulla matematica e, proprio perché considera ogni evento – positivo o negativo che sia – come un’occasione di insegnamento, gli studenti obbediscono senza protestare.

    Faccio scorrere lo sguardo sui circa trecento ragazzi che frequentano il liceo della Lake Forrest e, da quello che vedo, sembrerebbero nettamente divisi in due gruppi: metà degli studenti terrorizzata dalle immagini dell’aereo con a bordo i loro presunti vicini di casa che precipita dal cielo, l’altra metà allegramente stordita dalla prospettiva di un intero pomeriggio di lezioni sospese. Il loro chiacchiericcio agitato riecheggia tra le pareti della sala.

    La voce di una ragazza sovrasta le altre. «Quindi sarebbe una specie di terapia di gruppo?»

    «Be’…», Ted mi lancia un’occhiata interrogativa e annuisco. Se c’è un contesto in cui gli studenti della Lake Forrest si sentono a loro agio, quello è la terapia, di gruppo o meno. I nostri sono ragazzi che hanno il numero dell’analista tra le chiamate rapide del cellulare. «Sì, esatto, come una terapia di gruppo».

    Adesso che sanno cosa aspettarsi, gli studenti sembrano rilassarsi: intrecciano le braccia al petto e sprofondano nelle poltroncine.

    «Ho sentito dire che sono stati i terroristi», afferma qualcuno dal fondo dell’auditorium. «Che l’isis ha già rivendicato l’attacco».

    Dal suo posto in prima fila, Jonathan Vanderbeek, un ragazzo dell’ultimo anno ormai in procinto di diplomarsi per il rotto della cuffia, si volta. «E chi te l’ha detto, Sarah Palin?»

    «Kylie Jenner l’ha appena ritwittato».

    «Fantastico», dice Jonathan sbuffando una risata. «Si sa che i Kardashian sono esperti di sicurezza nazionale».

    «Okay, okay», interviene Ted, richiamando tutti all’ordine con qualche colpetto sul microfono. «Non peggioriamo la situazione facendo circolare gossip e supposizioni. Ho seguito con attenzione i telegiornali e, a parte il fatto che un aereo è precipitato, non si sa altro. Nessuno ha ancora detto perché il velivolo si è schiantato o chi c’era a bordo. Né lo faranno finché non avranno contattato i parenti più stretti». Le sue ultime tre parole – parenti più stretti – hanno l’effetto di una bomba incendiaria: bollenti e pesanti, rimangono sospese nell’aria per un paio di secondi. «E prima di andare avanti, ricordiamoci che esistono fonti più credibili di Twitter, che ne dite?».

    Una risatina si alza dalla prima fila.

    Ted scuote il capo in un muto rimprovero. «La signora Griffith vorrebbe dire alcune cose, dopodiché ci guiderà nella discussione. Nel frattempo, controllerò il sito della cnn sul mio portatile e, non appena la compagnia aerea rilascerà nuovi dettagli, interromperò la conversazione per leggerli ad alta voce, così che avremo tutti le stesse informazioni aggiornate. Vi sembra una buona idea?».

    Tutti annuiscono e Ted mi passa il microfono.

    Vorrei poter dire di aver trascorso le ore successive a controllare il telefono in attesa della chiamata di Will, ma settantasei minuti dopo lo schianto, dopo soltanto dieci minuti di discussione e un quarto d’ora prima della prevista dichiarazione ufficiale della compagnia aerea, la cnn annuncia che la squadra di lacrosse del liceo della Wells Academy, sedici giocatori e i loro allenatori, è tra le 179 vittime. Pare fossero in viaggio per un torneo di metà stagione.

    «Oh mio Dio. Com’è possibile? Ci abbiamo giocato solo la settimana scorsa».

    «La settimana scorsa, imbecille, l’hai appena detto. Significa che hanno avuto un sacco di tempo per salire su quell’aereo».

    «Sei tu l’imbecille. Sto dicendo che abbiamo perso la partita che ha permesso alla Wells di qualificarsi per il torneo. Fai due conti».

    «Aspettate», dico e il monito attraversa l’auditorium prima che la discussione possa degenerare. «L’incredulità è una reazione perfettamente normale alla scomparsa di un amico, ma la rabbia e il sarcasmo sono pessime strategie di adattamento e sono piuttosto sicura che qui ne siate tutti consapevoli».

    I ragazzi si lanciano sguardi contriti e si infossano ancora di più nei loro posti.

    «Sentite, so che nascondersi

    Ti è piaciuta l'anteprima?
    Pagina 1 di 1