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Attacco all'impero
Attacco all'impero
Attacco all'impero
E-book358 pagine5 ore

Attacco all'impero

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Info su questo ebook

Un grande romanzo storico

Invasion Saga

169 d.C. Mai nella sua storia l’impero romano ha dovuto affrontare tante minacce contemporaneamente. 
La peste imperversa nei suoi territori da quattro anni, e tutti i popoli barbarici lungo le frontiere hanno approfittato delle difficoltà in cui si dibattono i romani per lanciare una serie interminabile di invasioni, che raggiungono perfino la penisola italica. E una cricca di generali sta pianificando l’assassinio di uno degli imperatori, Marco Aurelio o Lucio Vero, senza farsi scrupoli di scatenare una guerra civile. Di ritorno dalla loro prigionia presso i Parti, tre ausiliari germani, Tito, Magnus e Bendix, insieme alle loro compagne armene, Taline, Lucine e Yeva, affrontano un viaggio pieno di pericoli per salvare i sovrani, percorrendo l’impero in tutta la sua estensione, lungo una frontiera devastata dai barbari, dalla peste e dalla carestia. Tra colonne di profughi disperati, persecuzioni di cristiani, razzie di invasori spietati e inseguimenti da parte di sicari dei cospiratori, i sei metteranno a rischio la vita in una frenetica corsa contro il tempo.

Un autore da oltre un milione di copie
Tradotto in tutto il mondo 
L’impero romano come non lo avete mai letto

«Frediani tiene il pubblico con il fiato sospeso grazie a un ritmo e a una cadenza serrata, tipica di romanzieri quali Ken Follett, Valerio Massimo Manfredi e Michael Crichton. Il suo stile è fluido, accattivante, mai monotono e ripetitivo, e immerge interamente il lettore nelle vicende narrate e nelle sensazioni provate dai vari personaggi.» 
Corriere della Sera

«Andrea Frediani è autore di romanzi di impressionante successo.» 
Loredana Lipperini, Il Venerdì 

«Non si può fare a meno di appassionarsi alla narrazione di questo autore.» 
Il Messaggero
Andrea Frediani
È nato a Roma nel 1963. Divulga­tore storico tra i più noti d’Italia, ha collaborato con numerose riviste specializzate. Con la Newton Com­pton ha pubblicato diversi saggi e romanzi storici, tra i quali: Jerusalem; Un eroe per l’impero romano; la trilo­gia Dictator (L’ombra di Cesare, Il ne­mico di Cesare e Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011); Mara­thon; La dinastia; 300 guerrieri; 300. Nascita di un impero; I 300 di Roma; Missione impossibile; L’enigma del ge­suita. Ha firmato le serie Gli invin­cibili e Roma Caput Mundi; i thriller storici Il custode dei 99 manoscritti e La spia dei Borgia; Lo chiamavano Gladiatore, con Massimo Lugli; Il co­spiratore, La guerra infinita, Il biblio­tecario di Auschwitz, I tre cavalieri di Roma e Attacco all'impero, primi volumi della Invasion Saga, e I Lupi di Roma. Le sue opere sono state tradotte in sette lingue.
LinguaItaliano
Data di uscita10 giu 2021
ISBN9788822750679
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    Anteprima del libro

    Attacco all'impero - Andrea Frediani

    I

    Cesarea Marittima, provincia di Siria, 169 d.C.

    «Eccola, è lei! È lei che ha cercato di convertirmi al suo ridicolo dio!».

    «Allora quelli vicino a lei devono essere cristiani anche loro!».

    «Di sicuro… È assurdo: cerchi di portarti a letto una donna e finisci in un vortice demoniaco! Dicono che ammazzino i bambini».

    «È vero! E che poi se li mangiano a pranzo. Si cibano di carne umana, lo sanno tutti!».

    «E praticano l’incesto, quindi è probabile che quella donna che volevi portarti a letto sia stata abusata dal padre. Non ti fa schifo?».

    «Magari sono stati proprio loro a causare la pestilenza… Non si sa mai di cosa sono capaci, questi cristiani…».

    «Ma certo: se gli imperatori dicono che sono un danno per lo Stato, qualcosa di male devono averlo fatto!».

    «Potrebbero aver avvelenato i pozzi. Ecco perché si è diffusa la malattia!».

    «Facciamoglielo confessare! Che ne dite?»

    «Buona idea. Venite con noi, brava gente! Difendiamo lo Stato dai suoi nemici interni, mentre i generali pensano a difenderci da quelli esterni!».

    Bendix guardò Yeva con aria preoccupata. «Si mette male. Andiamocene, prima di finire nei guai».

    «Sono assolutamente d’accordo», gli fece eco Tito rivolgendosi alla ragazza. «Forse non è stata una buona idea accompagnarti alla cerimonia dei tuoi correligionari. È un rischio, di questi tempi, farsi vedere con questa gente».

    «Questa gente, come la chiami tu, non farebbe male a una mosca! Lo sai che predichiamo l’amore universale!», replicò indignata Yeva, che però, dentro di sé, si sentiva in colpa per aver coinvolto i suoi amici in quella scomoda situazione. Avrebbe dovuto assumersi le sue responsabilità e andare da sola all’agape dei cristiani, che aveva sentito il bisogno di contattare non appena aveva messo piede a Cesarea Marittima. Dopo tanti anni trascorsi nel regno partico, in mezzo a miscredenti e senza la possibilità di innalzare le lodi al Signore in mezzo a persone che condividevano il suo credo, aveva fame di quel conforto che solo l’atmosfera di una comunità cristiana poteva darle.

    «Sarà pure così. Ma gli abitanti della città sembrano pensarla diversamente», osservò Magnus, spostandosi davanti al piccolo gruppo di amici. La sua donna, Lucine, non esitò ad affiancarlo: anche lei, rifletté Yeva, aveva l’innata tendenza a proteggere le sorelle.

    La ragazza osservò le reazioni delle persone con cui aveva appena condiviso l’agape. L’officiante, un predicatore molto stimato in quella comunità, di nome Apelle, si spostò in testa alla colonna, composta da una decina di persone, in gran parte donne, ma anche da due bambini. Erano tutti tesi, ma non sembravano impauriti.

    «D’altra parte, dovevamo pur fare qualcosa, mentre Taline faceva il suo sporco lavoro… È stata una nostra scelta», commentò Bendix. Yeva sapeva che lo diceva per sgravarla dei sensi di colpa; ma nelle sue parole leggeva anche una velatura di rimprovero e, al tempo stesso, di rimpianto per sua sorella: il giovane ne rimpiangeva senza dubbio la sfrenata sensualità, che lei non poteva neppure lontanamente aspirare a donargli. E vedendo come si era ridotto Tito, un tempo brillante e lucido, da quando stava con Taline, non dubitava che la sorella avesse lasciato un segno profondo anche in lui. Solo Magnus sembrava ancora immune al suo fascino, e non solo perché era l’unico dei tre germani a non aver mai assaporato l’intimità con lei: era davvero innamorato di Lucine.

    Ma ora avevano altri problemi di cui occuparsi. Yeva osservò i cittadini avvicinarsi.

    «Via, sfiliamoci, prima che arrivino qui. Siamo ancora in disparte, rispetto agli altri; forse non ci considerano dei loro», ribadì Tito. Yeva studiò la situazione. Quando l’uomo che aveva aizzato la folla contro i cristiani aveva riconosciuto la ragazza con cui aveva avuto una storia – o con cui aveva tentato di averla – i cinque amici si stavano separando dalla comunità e poteva darsi che non li avessero associati al gruppo. Ma la ragazza trovava arduo abbandonare i suoi confratelli a una sorte che si preannunciava assai fosca.

    «Gli aggressori non sono poi molti. Avete sentito con le vostre orecchie, all’agape, che i miei nuovi amici predicano l’amore in Cristo. Non sentire il dovere morale di sostenerli?», provò a dire.

    «Non è questione di dovere morale», insisté Tito. «Sai bene che non possiamo esporci. Anche se sono passati quattro anni dall’ultima volta che siamo stati in territorio romano, e anche se Taline è convinta che nessuno ci riconoscerà, il rischio di essere individuati esiste, soprattutto se attiriamo l’attenzione. E una rissa è proprio ciò che dobbiamo evitare: pensa cosa succederebbe se intervenissero le forze dell’ordine e ci portassero al cospetto di un magistrato…».

    «Forza, amici! Facciamogli pagare i loro crimini! Il questore è troppo morbido! Pensiamoci noi, allora! Denunciamoli!», riprese a gridare qualcuno tra la folla che, nel frattempo, si era fatta più numerosa.

    «Ma no! Ci sono anche dei nobili che li proteggono! Magari ne escono puliti, grazie ai loro appoggi… invece di finire in pasto ai leoni. Pensiamoci direttamente noi!».

    «Ma certo! La gente che uccide e mangia bambini non deve passarla liscia!».

    Yeva lanciò ad Apelle uno sguardo implorante. Vide che l’uomo non si muoveva e, seguendo il suo esempio, anche i suoi seguaci rimanevano fermi. «Ma cosa aspettate a scappare? Ci sono dei vicoli, alle vostre spalle, vi disperdereste facilmente!», finì per gridare.

    L’uomo la guardò come se fosse pazza. «Pensi davvero che la nostra fede in Cristo sia tanto debole? Sarà Lui a proteggerci. E se non lo farà, vorrà dire che è Suo desiderio che noi soffriamo per testimoniare la Sua parola», replicò. E molti dietro di lui annuirono, chi in modo risoluto, chi dopo qualche esitazione e con espressione sgomenta.

    Ma non tutti. Una donna afferrò per la mano i suoi due bambini e si dileguò in un istante dietro l’angolo più vicino.

    «Questi pazzi agognano il martirio. Lo avevo sentito dire, infatti. Forza, andiamocene subito!», disse Bendix, e Tito e Magnus annuirono.

    Yeva non sapeva quale posizione prendere. Se i cristiani si mostravano così fermi davanti al pericolo, non poteva essere da meno; ma non poteva neppure pretendere di mettere in pericolo i suoi amici e il suo uomo, che non credevano nella sua religione. Le avevano salvato la vita più volte, in Partia, e non poteva ripagarli obbligandoli a esporsi per il suo credo.

    «Bloccate anche quei cinque! Li ho visti con loro, prima. Devono essere cristiani anche loro! Chissà quali crimini hanno sulla coscienza!», gridò qualcuno tra la gente.

    «Ma sì, facciamo pulizia!».

    La gente si allargò a raggiera, bloccando tutte le vie di fuga.

    Yeva fissò disperata i suoi amici. Non c’era più bisogno di prendere una decisione. Le circostanze avevano deciso per lei.

    «Ti ho già vista, per caso?». Il centurione Pescennio Nigro squadrò la ragazza alta e slanciata, che da tempo gli lanciava sguardi provocanti dal capo opposto della mescita, come se volesse spogliarla con gli occhi per scoprire se ciò che c’era sotto i vestiti fosse pari alla straordinaria sensualità emanata dalla sua figura statuaria.

    «Nei tuoi sogni, forse, centurione», rispose la donna, con le labbra carnose che si piegavano in un provocante – ed eloquente – sorriso.

    Pescennio afferrò la coppa di vino annacquato che stava sorseggiando e mosse verso di lei. Non appena le fu vicino, sentì le proprie membra fremere di eccitazione. Quella ragazza doveva essere una strega, per riuscire a instillare in lui un desiderio tanto irrefrenabile.

    Resse a fatica il suo sguardo e decise che, per una volta, si sarebbe concesso una conquista muliebre. Il sesso non lo aveva mai interessato quanto il denaro, il potere e la guerra, ma non capitava tutti i giorni che gli piovesse dal cielo una donna tanto desiderabile e disponibile. Era così seducente che, probabilmente, era una del mestiere; ma era disposto a pagare anche una bella cifra, ormai, pur di portarsela a letto.

    «Nei miei sogni, dici? Io non sogno…», rispose, facendo cenno al taverniere di riempire anche la coppa della sua interlocutrice.

    «Davvero? Non ci credo: tutti sognano. Semmai non li ricordi, i tuoi sogni…», replicò lei.

    «Mah… Se mi fossi sognato una come te me la sarei ricordata. No, devo averti già vista… nella vita reale, intendo».

    La donna si strinse nelle spalle. E anche così, rimanevano spalle ampie, ben definite e atletiche. «Sono una che viaggia… Faccio parte di una compagnia di attori girovaghi. Chi lo sa, forse mi hai visto in qualche spettacolo, in passato», dichiarò.

    «Ne dubito. Non perdo tempo con gli spettacoli, io. E neanche nei lupanari, se è per questo».

    La donna assunse un’espressione indignata. «Be’, lì di certo non mi avresti vista… Ogni tanto ce la passiamo male, noi attori, ma non mi sono mai ridotta fino a quel punto».

    «Eppure penso che faresti molti più soldi che come attrice», si sentì di dire il centurione. Poi pensò che lei poteva prenderla male, ma non gli importò. Tra attrici e meretrici non doveva poi esserci una grande differenza, per quel che ne sapeva.

    «Dovrei prenderlo come un complimento?», osservò la ragazza, abbozzando un sorriso che la diceva lunga sulla sua disinvoltura di fronte agli uomini.

    «Se sei la donna che penso io, direi di sì», ribatté Pescennio.

    «Ah sì? E che tipo di donna sarei, secondo te?».

    Pescennio Nigro non era il tipo che amasse sprecare il proprio tempo. Decise di tagliare corto. Se lei l’avesse presa male, avrebbe comunque potuto catturare la sua attenzione con una congrua offerta economica, ne era certo.

    «Il tipo che, se le piace qualcuno, accetta di venirci subito a letto senza tanti convenevoli», dichiarò fissandola negli occhi con bramosia.

    La ragazza non parve affatto scandalizzata. Buon segno. Il suo sorriso si fece ancor più malizioso. Socchiuse gli occhi e lo fissò a sua volta. «Se mi piace, dici… E tu mi piaci?»

    «Direi di sì. I tuoi sguardi erano eloquenti, prima. Non mi sarei avvicinato, altrimenti».

    «Perché? Se ti piace una donna non hai il coraggio di avvicinarti? Sei timido?», lo provocò.

    «Macché timido… Non ho tempo da perdere in conquiste. Perlomeno non in questo tipo di conquiste».

    «E in quali conquiste concentri il tuo preziosissimo tempo, allora, centurione?»

    «Mah… In quello che conta davvero. E di certo le donne non ci rientrano».

    Lei scosse la testa. «Ecco, questo, decisamente, non è un complimento. Anzi, direi che è stato uno scivolone. E ora per risalire la china dovrai perdere del tempo, se mi vuoi».

    Stava giocando con lui. Pescennio fremette di rabbia, ma anche di eccitazione; una sensazione inedita che lo sorprendeva e lo divertiva al tempo stesso.

    «Vuoi essere corteggiata? Non lo so fare, anche volendo», reagì.

    La ragazza allargò le braccia. «Prova a farmi sentire importante… Alla fine è questo che significa corteggiare».

    «E come si fa?»

    «Mah… ci sono tanti modi. Non mi hai neppure chiesto il mio nome né hai mostrato alcun interesse per la mia attività di attrice… Dovresti almeno sforzarti di dare l’impressione di considerarmi un essere umano, non un oggetto, non credi?».

    Pescennio non capiva. «Ma io non ti conosco. Sì, mi pareva di averti già vista, ma anche se è così, non ti conosco come persona. E non abbiamo nulla a che spartire. Perché mai dovrei considerare importanti il tuo nome e la tua attività? Ciò che conta è ciò che siamo, qui e ora. Il resto non serve», obiettò.

    «E cosa siamo, dunque?».

    Il centurione rifletté un istante. «Un uomo e una donna attratti l’uno dall’altra, che hanno deciso di concedersi un’oretta di piacere reciproco», disse infine.

    Lei non rispose subito. Lo fissò con un’espressione che Pescennio non seppe interpretare. O meglio, poté farlo solo quando il viso della donna si illuminò in un franco e divertito sorriso e lei gli prese la mano, trascinandolo fuori dal locale. Una volta in strada, gli chiese: «Dove si va, adesso, a concederci quest’oretta?».

    E Pescennio si compiacque di essere un uomo cui bastava un’occhiata per saper giudicare le persone.

    Anche se… continuava ad avere l’impressione di averla già vista.

    Come d’abitudine, Bendix guardò Tito, in attesa di un suo cenno. Sperò vivamente che l’amico avesse già escogitato un modo per sottrarsi allo scontro. Non solo non dovevano esporsi; con le ragazze presenti, non potevano certo farsi coinvolgere in una rissa che rischiava di finire in un vero e proprio linciaggio.

    Ma Tito esitava e Bendix si maledisse per la propria tendenza a riporre ancora in lui la sua fiducia. Sapeva bene, per esserci passato egli stesso, che l’attuale stato d’animo dell’amico non gli consentiva di mantenere l’abituale lucidità. Era troppo tormentato dai comportamenti di Taline per avere la mente sgombra ed escogitare le sue proverbiali trovate. E quel bestione di Magnus, da parte sua, non era capace di partorire idee che andassero al di là di uno scontro fisico.

    In sostanza, spettava a lui prendere una decisione. Anche se, ormai, c’era ben poco da scegliere: i facinorosi che li avevano scambiati per cristiani gli erano quasi addosso, e non c’era più una direzione che si potesse prendere evitando uno scontro.

    Studiò la situazione. Gli avversari si erano portati perfino alle loro spalle, sebbene lì fossero ancora in pochi. Con una decisa azione di forza loro cinque avrebbero potuto sfondare e scappare. Ma non era certo che Yeva avrebbe approvato che proprio lui scegliesse di lasciare gli altri cristiani al loro destino, che a quel punto appariva segnato.

    Capì di non avere scelta. A meno che Tito non decidesse altrimenti, dovevano battersi. Non intendeva giocarsi la considerazione di Yeva per salvarsi la pelle.

    Poiché l’amico sembrava continuare a riflettere, guardò la propria donna. Lei gli lanciò uno sguardo implorante ed ebbe conferma che pretendeva da lui una difesa di quei poveri diavoli. Bendix fece cenno a Magnus di affiancarlo e il gigante non se lo fece dire due volte. Solo allora Tito si riscosse dal suo torpore e gesticolò per attirare la loro attenzione. «Di là! Sono solo in cinque! Li spazzeremo via in un attimo e ci dilegueremo nei vicoli!», urlò.

    Ma Bendix gli indirizzò un cenno di diniego con la testa, indicando con lo sguardo l’espressione supplice di Yeva. Tito fece una smorfia, poi, con un gesto di stizza, si affiancò ai due amici e disse: «Ammesso che ne usciamo vivi, finiremo per perdere il nostro anonimato».

    Bendix allargò le braccia, mentre il loro schieramento deciso in testa al gruppo, a mo’ di falange, e la loro massiccia corporatura frenarono per qualche istante l’impeto degli assalitori, che si guardavano l’un l’altro chiedendosi chi avrebbe avuto il coraggio di attaccare per primo.

    «Tirate fuori i pugnali e puntateli verso di loro. Può darsi che si mettano paura: non si aspettano che i cristiani reagiscano», suggerì ancora Tito.

    I due compagni annuirono, e non appena estrassero le armi corse il gelo tra le file dei facinorosi. Si piantarono tutti a breve distanza da loro, indecisi sul da farsi.

    Ma a quel punto fu Apelle a frapporsi tra loro e gli assalitori. «Ma cosa fate, siete pazzi? Volete ridurvi al loro livello?», gridò, prendendosela incredibilmente coi tre germani. «Non avete imparato niente seguendo i nostri riti? Porgete l’altra guancia!», aggiunse, avventandosi poi contro Bendix e cercando di strappargli di mano il pugnale.

    Il giovane fu troppo sorpreso per reagire in tempo. Il vecchio gli sottrasse l’arma e poi la buttò via. Naturalmente, uno degli assalitori corse a prenderla.

    Adesso erano armati anche loro.

    La gente trasse coraggio dal folle gesto del predicatore. Due uomini si scagliarono contro una donna ai margini del gruppo e alle spalle dei cinque amici, la afferrarono e la spinsero per terra, prendendola selvaggiamente a calci. Bendix sapeva che Yeva si aspettava un suo intervento. Mosse verso i due aggressori e non ebbe bisogno di impegnarsi troppo per metterli in condizione di non nuocere: ne sgambettò uno, già sbilanciato dopo l’ennesimo calcione alla donna, facendolo finire a terra, poi afferrò per un braccio l’altro, lo avvicinò a sé, gli prese la nuca e ne mandò a sbattere la testa contro quella del compare, appena rialzatosi. I due svennero all’istante, e la facilità con cui si era liberato di loro frenò nuovamente l’impeto degli altri assalitori.

    Senza badare al vecchio che sbraitava invocando il martirio, Tito lanciò il proprio pugnale a Bendix e poi si fece dare quello di Magnus: il colosso poteva tranquillamente combattere a mani nude. Il giovane afferrò al volo l’arma, giusto in tempo per puntarla alla gola di un altro aggressore che aveva cercato di attaccarlo sul fianco; l’uomo si pietrificò e il giovane si limitò ad aprirgli uno squarcio sulla tunica, tagliando anche la cinta in vita. Poi lo colpì con la mano sinistra a pugno, mandandolo a sedere sul selciato.

    Ma adesso la scena era di Magnus. Il gigante lanciò uno dei suoi urli terrificanti, che erano capaci di spaventare perfino temprati guerrieri sul campo di battaglia; per i civili fu come se l’Ade avesse spalancato le sue porte liberando il peggiore dei demoni.

    La sua sagoma imponente si avventò sul gruppo di assalitori più avanzato. Con le sue lunghe braccia ne cinse tre insieme, li sollevò e li scagliò addosso a quelli che seguivano, poi spiccò un salto e atterrò sopra quelli finiti a terra. Bendix sentì distintamente rumore di ossa che si spezzavano. Ma gli aggressori erano anche alle loro spalle e uno di essi raggiunse Lucine; tuttavia nella mano della ragazza brillò la lama di un coltello, che si tinse di rosso quando incontrò il braccio dell’uomo, costringendolo alla ritirata.

    Ma i cristiani erano più indifesi e fu su di loro che si concentrò l’ira di quella che, nel frattempo, era diventata una folla. Bendix si spostò verso Magnus e Tito e gli indicò dove c’era necessità del loro intervento. I tre amici, seguiti da Yeva e Lucine, si precipitarono a soccorrere i malcapitati, che si limitavano a levare le braccia al cielo o a inginocchiarsi, invocando il loro dio. Bendix afferrò un uomo che aveva appena devastato di pugni il volto di un cristiano e lo scaraventò a terra, centrandolo allo stomaco con un calcio. Poi menò ripetuti fendenti col coltello per allontanare gli altri aggressori che stavano infierendo sui correligionari di Yeva.

    Magnus, da parte sua, si frappose tra un’intera colonna di cittadini e i cristiani, respingendo i primi con la sola forza della sua mole, mentre Tito arginava i tentativi degli altri di aggirare il gigante per raggiungere le loro vittime. Perfino le due ragazze si davano da fare e, facilitate dai coltelli, tenevano a distanza gli aggressori, assicurando l’incolumità ai cristiani accanto a loro. I cinque amici finirono per disporsi in cerchio, presidiando ciascun lato del gruppo e continuando ad agitare le lame. A quel punto, l’impeto degli aggressori andò progressivamente spegnendosi e, anzi, qualcuno si dedicò a prestare aiuto ai feriti e ai contusi, che si trascinavano sul selciato.

    A Bendix parve che il peggio fosse passato. Tirò un sospiro di sollievo e si dispose ad attendere che l’assembramento si sciogliesse. Ma proprio in quel momento udì il suono di un fischietto. Guardò sgomento gli amici: tutti sapevano bene a cosa preludeva.

    Poco dopo, il lucore degli elmi di un drappello di soldati balenò all’imboccatura di un vicolo.

    «Ma è casa tua, questa?». Taline osservò Pescennio Nigro alzarsi dall’ampio e soffice letto in cui lo aveva intrattenuto e, apparentemente, soddisfatto, e andarsi a sciacquare il viso sudato in un lavabo di ceramica intarsiato e di pregio. Non avrebbe mai immaginato che quel rozzo centurione si concedesse lussi del genere e disponesse di ambienti tanto eleganti. Anche il resto della domus in cui l’aveva portata era arredato in modo raffinato e costoso, con mobilio e suppellettili di elevata fattura che non avrebbe mai pensato rientrassero nei gusti dell’ufficiale.

    «No. Ho amici importanti, però. E non hanno difficoltà a farmi usare le loro proprietà, di tanto in tanto», rispose l’uomo.

    «Be’, devono essere davvero importanti, allora: questa casa è splendida», commentò Taline, osservando la pittura murale davanti a lei: raffigurava la conquista di Seleucia da parte del governatore Avidio Cassio di pochi anni prima. Era perfettamente in grado di riconoscere gli edifici della città nella quale aveva vissuto, prima di essere deportata nella parte più orientale del regno partico, e proprio a causa delle ambizioni del suo compagno di letto.

    «Non immagini quanto. I più importanti che si possano avere, da queste parti».

    Taline concluse che Pescennio si riferisse proprio ad Avidio Cassio. Ma non disse nulla, nel timore di fornirgli indizi che lo aiutassero a identificarla.

    Ma se il suo ragionamento era corretto e quella domus era uno degli edifici di proprietà del governatore, forse avrebbe potuto trovarvi qualche prova della cospirazione di cui il centurione e il suo superiore facevano parte.

    Doveva solo trovare il modo di cercare senza essere vista.

    «Meglio così. Almeno non mi hai portato in una bettola e ho potuto… diciamo così… esprimermi al meglio», rispose infine. Le era costato un notevole sforzo: non solo il centurione non le piaceva, ma era stato anche particolarmente insensibile e violento, durante l’atto. Per fortuna, era durato poco ed era riuscita a sopportarlo. Ma se tutto fosse andato come si augurava, anche stavolta i suoi amici avrebbero dovuto ringraziare il suo spirito di sacrificio. Con buona pace della gelosia di Tito, che più di ogni altro teneva ad arginare i cospiratori. Non lo capiva proprio, che lo stava facendo per lui e per ciò in cui credeva…

    Pescennio si voltò e la fissò a lungo. La sua espressione perennemente arcigna si deformò in un simulacro di sorriso. «Non male, in effetti», ammise. «Può darsi che senta il bisogno di rifarlo, nei prossimi giorni. Non partirai mica con la tua compagnia, vero?».

    Taline sospirò. Quella di rimanere non era un’opzione contemplata. Il centurione avrebbe potuto farsi venire la curiosità di vedere uno spettacolo della sua presunta compagnia teatrale, e scoprire così che gli aveva mentito. Ma in fin dei conti poteva sempre dirgli che lo aveva fatto perché si vergognava di ammettere di essere una meretrice.

    «No, per ora no. Ma non terremo spettacoli, nel breve termine; l’attore principale è malato, e dobbiamo aspettare che si riprenda», si giustificò.

    Pescennio la guardò allarmato. «Malato? Non ha per caso la peste?»

    «No, non temere. Ha solo una gamba rotta. La peste l’abbiamo evitata», lo rassicurò.

    Il centurione emise un sospiro di sollievo. Doveva aver sudato freddo, all’idea di essere stato a letto con una ragazza che aveva frequentato un appestato. «Meglio così», disse. «Ormai qui in Oriente i casi sono diminuiti, ma abbiamo avuto anni davvero duri. Ho visto morire molti dei miei uomini e nella città non funzionava più niente: i funzionari, i tecnici e i civili in generale si ammalavano e cadevano come mosche. Il governatore ha dovuto affidarsi a numerosi apprendisti per mandare avanti la vita della provincia. Adesso gli stessi problemi li hanno in Occidente. Anzi, perfino peggiori, perché loro devono anche fronteggiare le invasioni dei barbari. Se solo avessimo degli imperatori all’altezza…».

    «Non li ritieni adatti a fronteggiare le emergenze? Eppure almeno Marco Aurelio è molto amato…», lo sondò, vedendo che era in vena di confidenze.

    Pescennio fece una smorfia. «Un imperatore non deve puntare a essere amato, dico io. Diciamo che in questo periodo difficile per l’impero ci vorrebbero sovrani più… volitivi. Gente che si metta alla testa delle truppe e le motivi col proprio esempio, come era Traiano, per esempio. Da Adriano in poi, gli imperatori sono diventati dei burocrati, ed è per questo che ormai i barbari si sentono autorizzati a varcare le frontiere con le loro scorribande. Ed è per questo che i parti hanno rialzato la testa. Ma per fortuna abbiamo avuto un comandante come Avidio Cassio, che li ha rimessi in riga, almeno loro. Ci vorrebbero uomini come lui anche in Occidente! E poi ora abbiamo anche il problema della peste, che mina ulteriormente le difese dell’impero, aprendo vuoti tra i ranghi dei soldati, di cui approfittano i barbari… Mai l’impero romano è stato così in difficoltà, e abbiamo due imbelli al vertice…».

    Taline decise che fosse saggio tacere. Erano discorsi sediziosi, ed evidentemente il centurione non aveva grande considerazione di lei se li pronunciava in sua presenza. Ma era chiaro che Pescennio godeva della protezione del governatore, un imperatore virtuale, da quelle parti. A quanto pareva, comunque, il loro disprezzo per Marco Aurelio e Lucio Vero non era venuto meno, in quei quattro anni in cui Taline e gli altri erano stati lontani dall’impero. Quindi era probabile che la cospirazione fosse ancora in atto. Intanto aveva questo dato certo, e non era poco. Si trattava di capire, adesso, se erano ancora disposti a passare alle vie di fatto.

    «Mah… Io non capisco nulla di queste cose. Mi piace divertirmi, soprattutto», si limitò a commentare.

    «Ma certo, cosa ne vuoi sapere… Le donne come te se la cavano sempre, anche in tempi difficili», valutò il centurione, stringendosi nelle spalle e dirigendosi verso il bagno.

    Non appena l’uomo fu uscito dalla stanza, Taline si alzò e si avvicinò alla madia ai piedi dell’affresco murale. La aprì e frugò tra le coperte e le lenzuola che vi erano contenute, ma non vi trovò altro. Sbuffò, poi uscì dalla camera e percorse il vestibolo, giungendo davanti a una porta, probabilmente quella del triclinio. Si fece coraggio e la aprì. Non trovò nessuno e si mise ad aprire ogni mobile presente nella sala. Non vide altro che stoviglie; forse l’unica speranza che aveva di trovare documenti compromettenti era nel tablino. Uscì dalla stanza e cercò di capire dove si trovava; ma proprio in quel momento, nel vestibolo vide comparire la figura statuaria di Pescennio Nigro.

    «Che ci fai, in giro per la casa?», le chiese guardandola con diffidenza.

    «Io… stavo cercando il bagno. Ne ho bisogno anch’io», si affrettò a rispondere.

    «Allora potevi dirmelo. Ti avrei fatto venire con me; non sono uno che si formalizza…», ammiccò il centurione, indicandole la direzione alle sue spalle.

    Lei gli restituì un sorriso malizioso e proseguì nella direzione indicata. Passò davanti a una porta socchiusa, dietro la quale vide scaffali con papiri e uno scrittoio. Se mai poteva trovare qualcosa, fu certa che fosse lì. Ma non poteva entrarvi e raggiunse il bagno, che era nei pressi dell’ingresso principale. Vi entrò e apprezzò subito l’eleganza dell’ambiente, decorato con pregevoli mosaici lungo le pareti e dotato di una piccola piscina dalla cui superficie si sollevavano vapori caldi. Raggiunse il settore della latrina, con una seduta di marmo intorno ai buchi, e vi si appoggiò, riflettendo sul modo per entrare nello studio.

    Poco dopo, sentì bussare al portone d’ingresso. Una voce chiese di Pescennio Nigro al servo che era andato ad aprire. Poi udì un passo marziale, che riconobbe come quello del centurione.

    «Il governatore ti vuole», disse il nuovo arrivato.

    «Ci siamo?», chiese Pescennio.

    «Già».

    «Il gaudente o il filosofo?», chiese ancora il centurione.

    «Il primo».

    «Va bene. Andiamo», dichiarò l’ufficiale. Poi confabulò con l’inserviente, cui ordinò di far uscire la ragazza che era con lui e di dirle che si sarebbero rivisti l’indomani alla taverna dove si erano incontrati.

    Quando Taline incontrò lo schiavo, sapeva già ciò che aveva da dirle. E sapeva anche che non l’avrebbe lasciata libera di aggirarsi per la casa.

    Ma di elementi da offrire alle valutazioni di Tito ne aveva acquisiti a sufficienza, per il momento.

    II

    L’irruzione dei soldati sulla piazza in cui si stava consumando il tentativo di linciaggio provocò un immediato fuggi fuggi tra quanti non si trovavano sul versante dal quale proveniva il drappello.

    Sfortunatamente, i cinque amici si trovavano sul lato sbagliato.

    Oltretutto, Tito notò passare dalla parte opposta un carretto

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