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L'ultimo segreto di Anne Frank
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E-book335 pagine4 ore

L'ultimo segreto di Anne Frank

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Una storia vera

Una testimonianza inedita, preziosa e fondamentale raccontata da chi è riuscito a sopravvivere

Il Diario di Anne Frank è uno dei testi più conosciuti, tradotti e studiati di sempre. La forza della testimonianza di Anne, la voglia di vivere e, non ultimo, lo straordinario talento di scrittrice hanno commosso generazioni di lettori, ma non solo: le sue parole sono state oggetto di ogni tipo di studio, inchiesta, perizia. Sappiamo tutto del nascondiglio in cui trascorse 761 terribili giorni, in compagnia di sette persone, e conosciamo i nomi dei cosiddetti “benefattori” dell’alloggio segreto, cinque cittadini olandesi che, rischiando la vita, aiutarono in vari modi le famiglie ebree lì nascoste. La storia di Bep Voskuijl, però, è rimasta finora sconosciuta. Bep, la più giovane dei “benefattori”, si legò in modo particolare ad Anne e affrontò ogni genere di pericolo nel tentativo di procurare cibo e medicinali per la famiglia Frank. Il suo nome ricorre molto spesso nel Diario, eppure di lei si sa pochissimo. Questo libro, commovente e ricco di dettagli inediti, prova a raccontarne la storia, ricostruendo minuziosamente la sua vita fino a addentrarsi nel fatidico mistero, tuttora irrisolto, della telefonata che portò all’arresto, il 4 agosto del 1944, di Anne e della sua famiglia. Bep conosceva la verità sulla persona che segnò il destino della giovanissima amica? Quel terribile tradimento potrebbe essere stato commesso da qualcuno che le era molto vicino?

Una storia vera con documenti inediti che va oltre il Diario e che racconta dei 761 giorni trascorsi nell’alloggio segreto

«Un libro devastante, in cui il figlio della confidente di Anne getta luce su nuove, scioccanti verità.»
Daily Mail

«Una perfetta testimonianza di come il lavoro di scrittura della storia non abbia mai fine.»
Publishers Weekly

«Un fondamentale contributo alla letteratura su Anne Frank.»
Kirkus Reviews

«Superbamente scritto, intimo, coinvolgente e straziante.»
Booklist
Joop Van Wijk-Voskuijl
È nato nel 1949 ad Amsterdam. Dopo una carriera di successo come produttore e marketing manager, ha deciso di dedicarsi a tempo pieno allo studio dei terribili anni della guerra, per ricostruire la storia di sua madre, che ebbe un ruolo chiave nel proteggere e nascondere la famiglia Frank. Collabora con numerose scuole olandesi, organizzando letture del Diario di Anne Frank destinate ai bambini.
Jeroen De Bruyn
È nato nel 1993 ad Anversa, nelle Fiandre. Ancora giovanissimo ha iniziato a lavorare come redattore per uno dei quotidiani più importanti del Belgio, il «Gazet van Antwerpen», dove si occupa di approfondimenti di carattere storico, raccogliendo importanti testimonianze sull’Olocausto.
LinguaItaliano
Data di uscita8 set 2023
ISBN9788822762993
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    Anteprima del libro

    L'ultimo segreto di Anne Frank - Jeroen De Bruyn

    Prologo

    Una lettera dal Belgio

    L’idea di questo libro non è nata dal desiderio di indagare i meandri più oscuri dell’Alloggio segreto, ma da una lettera inviatami nel 2009 da un quindicenne di Anversa di nome Jeroen De Bruyn. Come altri milioni di bambini, Jeroen era rimasto molto colpito dal Diario di Anne Frank che sua madre gli aveva letto quando aveva appena sei anni.

    Era un ragazzino curioso e sorprendentemente maturo per la sua età. Non appena era riuscito a comprendere che un tempo il mondo era stato in guerra, aveva chiesto delucidazioni alla madre. Lei gli aveva raccontato le storie che aveva sentito fin da ragazzina… a proposito dei vicini di casa costretti a indossare la stella di David e dei razzi

    V2

    sganciati sopra Anversa. Dopodiché Jeroen le aveva posto la domanda che i bambini fanno sempre e gli adulti spesso dimenticano: perché?

    Non sapendo bene come rispondere, la madre aveva tirato fuori una delle più note testimonianze dell’epoca, Het Achterhuis (La casa sul retro), in italiano Il diario di Anne Frank ¹. Alcuni penseranno che Jeroen fosse troppo giovane per cimentarsi con una lettura simile, ma secondo me tendiamo a sottovalutare le capacità che i bambini hanno di comprendere ed esprimersi, come dimostra con dirompenza il diario di Anne. Inoltre la madre non gli lesse il diario per intero, ma soltanto alcuni brani, evitando accuratamente i passaggi più ardui.

    Jeroen ne rimase stregato. Trascorse ore e ore a osservare le fotografie in bianco e nero della libreria girevole e degli angusti spazi dell’Alloggio segreto. La sua giovane mente non riusciva proprio a comprendere per quale ragione intere famiglie, con tanto di bambini, fossero state costrette a nascondersi come topi per evitare di finire ammazzate. Prese a fare sempre più domande sulla guerra, e di volta in volta la madre gli comprava libri sull’argomento adatti alla sua età. Passato qualche anno, Jeroen iniziò a consultare da solo testi sull’Olocausto presi in biblioteca. I genitori trovavano un po’ strano questo suo interesse ma, da europei liberali e di ampie vedute quali erano, preferivano spiegare la dura realtà piuttosto che nasconderla.

    Col passare del tempo, i libri per bambini e i cartoni animati furono sostituiti da grossi tomi di storia e documentari dalle immagini sgranate. I racconti e i filmati diventarono più espliciti, più terribili. A dodici anni, Jeroen aveva visto qualsiasi pellicola esistente sull’Olocausto – Shoah ², il documentario di nove ore di Claude Lanzmann, lo colpì profondamente – e letto qualsiasi testo fosse riuscito a recuperare su Anne Frank. Più cose scopriva, meno capiva. Com’era possibile che le tranquille viuzze alberate che lui percorreva ogni giorno fossero state teatro di simili atrocità? Com’era possibile che sua nonna, la stessa donna che gli mandava sciocchi messaggini al cellulare, vi avesse assistito con i propri occhi? Rastrellamenti di quartiere. Svastiche per strada. La città in fiamme.

    Anche la nonna di Jeroen si chiamava Anne. Era nata nel 1929, come Anne Frank, e per un certo periodo, durante la seconda guerra mondiale, aveva abitato insieme ai suoi nonni a meno di un chilometro dall’appartamento della famiglia Frank nella zona meridionale di Amsterdam. All’inizio dell’Occupazione si era innamorata di un giovane ebreo di nome Louis. Lui era riuscito a sfuggire alla stretta dei nazisti nascondendosi nelle campagne olandesi, ma quasi tutta la sua famiglia aveva perso la vita nel campo di sterminio di Sobibór ³, nella Polonia orientale, dove nell’arco di cinque mesi circa, tra il marzo e il luglio del 1943, furono uccisi ben trentaquattromila ebrei olandesi. Che fosse stata proprio la nonna Anne – della stessa età, città e con lo stesso nome – ad accendere l’interesse ossessivo di Jeroen per Anne Frank? Perché questo era diventata: un’ossessione, un’urgenza di dover scoprire esattamente cos’era accaduto nell’Alloggio segreto.

    Jeroen stampò centinaia di articoli che raccolse in diversi album, visitò la Casa di Anne Frank ad Amsterdam durante le vacanze scolastiche, acquistò un’edizione critica del diario studiandone con cura ogni nota. La sua insegnante pensava che quelle ricerche, i dossier minuziosi che Jeroen realizzava su ogni aspetto della vicenda, non fossero altro che l’ozioso hobby di un alunno con troppo tempo libero a disposizione: non avrebbero portato a nulla. Tuttavia Jeroen era intraprendente anche da ragazzino, e sapeva andare a fondo delle questioni. A interessarlo non erano unicamente gli aspetti noti della vicenda, ma anche gli eventi poco conosciuti o equivocati. Incominciò a concentrarsi sulle persone che avevano protetto l’Alloggio segreto, quelle che avevano rischiato la vita per tenere al sicuro Anne e la sua famiglia per ben 761 giorni… fino a quando, poco prima della Liberazione, erano state tradite da un ignoto.

    Dalle sue letture, Jeroen aveva appreso che tre benefattori ⁴, come vengono chiamati in Olanda, erano stati oggetto di studio approfondito: avevano rilasciato numerose interviste, scritto le proprie memorie, oppure gli erano stati dedicati libri e documentari. Ma i Frank erano stati aiutati da una quarta persona, che era anche la più giovane di tutte, della quale non si sapeva quasi nulla. Si diceva fosse una donna timida e schiva, che aveva svolto un ruolo secondario nella vicenda ⁵. Stando alle evidenze, però, Jeroen era di tutt’altro avviso.

    Iniziava a sospettare che la giovane benefattrice fosse stata in realtà fondamentale per Anne. Era stata la sua migliore amica e la sua confidente più intima. In sprezzo al pericolo, si era comportata in maniera eroica. Eppure, per qualche ragione imperscrutabile, dopo la guerra, e per il resto dei suoi giorni, aveva preso le distanze da ciò che aveva fatto.

    Quella persona era mia madre: Bep Voskuijl.

    Dall’istante in cui la Gestapo aveva fatto irruzione nell’Alloggio segreto il 4 agosto 1944 fino alla sua morte avvenuta il 6 maggio 1983, mia madre evitò in tutti i modi l’argomento Anne Frank. Rifiutò qualsiasi riconoscimento pubblico per il ruolo svolto nella vicenda ed evitò di parlarne persino con i parenti stretti, benché in segreto abbia sofferto moltissimo per la perdita della sua giovane amica e abbia addirittura chiamato come lei la sua unica figlia femmina. Se Bep evitava l’argomento non era tanto per modestia, come si pensava inizialmente. Più che altro era rimasta traumatizzata dagli eventi cui era sopravvissuta, e rifuggiva la visibilità perché custodiva dei segreti, segreti che intendeva portarsi nella tomba.

    Jeroen capì di avere tra le mani una storia importante. L’unico problema era che aveva appena quattordici anni. Non sarebbe mai riuscito a scrivere una biografia senza l’aiuto dei familiari ancora in vita di Bep, le persone che l’avevano conosciuta e potevano consultare i documenti che poteva aver lasciato. E però temeva, giustamente, che noi lo avremmo ignorato per via della sua giovane età e inesperienza.

    Nel 2008 Jeroen compì quindici anni, la stessa età che aveva Anne quando morì di tifo nel campo di concentramento di Bergen-Belsen. Poco dopo il compleanno si decise finalmente a contattare la mia famiglia. Non riuscendo a trovare un nostro recapito, scrisse a Miep Gies, all’epoca l’unica benefattrice dell’Alloggio segreto ancora in vita. Fu suo figlio Paul a rispondere: inoltrò la richiesta a due miei fratelli, ma loro dissero che non erano interessati a parlare di nostra madre, e in ogni caso avevano ben poco da dire. Nel bigliettino Jeroen non accennava a quanti anni avesse né da dove venisse ma, fallito il primo tentativo, decise di scriverci una lunga lettera con il cuore in mano.

    In cinque pagine spiegò le sue intenzioni, che documenti aveva trovato e i nuovi elementi che era riuscito a mettere insieme. Dopodiché ci chiese il permesso di intervistarci. Neanche allora ebbe il coraggio di rivelare la sua vera età: si abbonò qualche mese e disse di avere sedici anni. Spedì la lettera alla Casa di Anne Frank, che la girò a me.

    «Sono un ragazzo di sedici anni che abita ad Anversa», esordiva la lettera. «È da tantissimo tempo che studio la storia di Anne Frank». Jeroen raccontò del suo grande interesse per l’Alloggio segreto, di come a poco a poco la sua attenzione si era spostata da Anne alle persone che l’avevano aiutata e infine a mia madre. Trovava assurdo che di lei «si sapesse così poco». Disse di aver raccolto un «dossier» nel quale aveva cercato di «mettere insieme i vari tasselli». Ogni nuovo elemento scoperto grazie a una bobina impolverata o all’archivio di un giornale lo «entusiasmava». A suo avviso mia madre era stata una sorta di doppio di Anne: una ragazza dal lato opposto della libreria che era stata un’amica fedele, che durante la guerra si era a sua volta innamorata, che litigava come lei con genitori e fratelli, che aveva trascorso l’Occupazione nel terrore di venire scoperta. Bep era ancora una figura confusa, ma «a poco a poco», scrisse Jeroen, stava «iniziando a metterla a fuoco».

    La giovane età mi lasciava perplesso, ma il suo desiderio autentico di comprendere mia madre mi colpì immediatamente. In un certo senso, avevo passato tutta la vita a desiderare la stessa cosa. Prima di ricevere quella lettera, nessuno mi aveva mai chiesto che ruolo avesse avuto mia madre nella vita di Anne Frank. Il mondo esterno non sapeva nulla dei suoi trascorsi, e in famiglia vigeva la regola non scritta di non parlare mai di cos’era accaduto durante la guerra.

    Tuttavia nel corso degli anni mia madre mi aveva raccontato cose che nessun altro sapeva, compresi mio padre e i miei fratelli. Per un certo periodo ero stato per lei ciò che lei era stata per Anne: un confidente e un protettore. Ma a causa delle vicissitudini della vita il nostro rapporto si era fatto complicato: per quanto fossimo uniti, non ho mai capito esattamente come mai quella vicenda la tormentasse e angustiasse tanto.

    Risposi a Jeroen che era meglio vederci di persona e che sarei andato volentieri ad Anversa per vedere ciò che aveva scoperto e discutere la sua proposta. Partii da casa, nella zona orientale dei Paesi Bassi, insieme a mia moglie Ingrid. Jeroen mi diede l’impressione di un ragazzino serio, tenero e molto determinato. Aveva disseminato il tavolo nella cucina dei genitori di libri zeppi di post-it gialli annotati, e ci delineò un quadro abbastanza chiaro della situazione. Aveva appena scovato la registrazione di una rara intervista rilasciata da Bep durante un viaggio in Canada alla fine degli anni Settanta ⁶. Mise su la cassetta, e per la prima volta dopo oltre trent’anni sentii la voce di mia madre.

    Non potei fare a meno di pensare che io e Jeroen fossimo destinati a incontrarci. Era da anni che custodivo i segreti di mia madre, ma solo in quell’istante mi resi conto che stavo aspettando l’occasione giusta per condividerli, per dare loro un senso, o – come diceva Jeroen – per mettere insieme i vari tasselli. All’epoca non immaginavamo che avremmo impiegato oltre dieci anni. Non so ancora bene perché confidai i segreti della mia famiglia e cose sepolte da tempo a quel ragazzino. Forse abbassai la guardia proprio per via della sua giovane età.

    Sia come sia, gli dissi che avrei fatto il possibile per aiutarlo. Davo per scontato che i miei familiari non avrebbero fatto altrettanto, ma se non altro, quando li contattai, nessuno si oppose alla mia partecipazione. Certo non potevano prevedere alcune scomode verità che sarebbero venute a galla, la serie di tradimenti che avremmo disvelato. Contrariamente a quello che ci avevano raccontato da piccoli, durante la guerra i Voskuijl non si erano affatto distinti dalle altre famiglie di Amsterdam, in cui spesso oppositori e collaborazionisti abitavano sotto lo stesso tetto.

    All’inizio non intendevo partecipare alla stesura del libro, ma semplicemente guidare Jeroen: raccontargli ciò che sapevo e aprire qualsiasi porta possibile. E però, man mano che la storia mutava, si diramava e colpiva maggiormente sul vivo, diventò chiaro che non potesse occuparsene da solo. Alla fine, malgrado la differenza d’età e i percorsi di vita diversi, decidemmo di collaborare. Per amore di chiarezza e per rendere al meglio l’esperienza diretta della mia infanzia trascorsa all’ombra dell’Alloggio segreto, decidemmo che la voce narrante sarei stato io. Ma alla fin fine questa è la storia di Jeroen tanto quanto la mia. Avendolo visto crescere e da adolescente precoce diventare un giornalista affermato, ripenso alla nostra collaborazione un po’ con l’emozione di un padre orgoglioso. E in fondo è proprio di questo che parla il nostro libro: pur trattando della guerra e dell’Olocausto, di tradimenti e di collaborazionismo, non è altro che una storia di famiglia. E come ben sapeva mia madre, esistono due tipi di legami familiari: uno sancito dal sangue, l’altro dalle circostanze della vita.

    Joop van Wijk-Voskuijl

    Heemstede, Paesi Bassi

    marzo 2023

    Prima parte

    Anne

    «Non abbiamo mai sentito una sola parola che si riferisse al peso che certamente noi siamo per loro, mai nessuno si lamenta per il lavoro che gli diamo» ⁷.

    Anne Frank a proposito dei benefattori,

    28 gennaio 1944

    1

    La libreria girevole

    Ogni anno ad Amsterdam circa un milione di persone percorre le banchine curate del Prinsengracht, il canale del principe da cui prende il nome la strada che lo costeggia, fino a un anonimo edificio al civico 263. Una volta all’interno salgono per una scala ripida, entrano in un piccolo vestibolo e si trovano davanti una logora libreria in legno dalla quale si accede a un mondo segreto.

    Ruotando, la libreria rivela una porta. I visitatori allora penetrano in un dedalo di stanzette e provano a immaginare che cosa abbia vissuto Anne Frank: la paura incessante, la luce che filtra da fuori, l’ippocastano davanti dalla finestra, il ragazzo al piano di sopra, le risate soffocate, la noia, le liti, la speranza incrollabile. E la decisione di mettere tutto nero su bianco, di immortalare quella voce al contempo ingenua e matura, e spesso molto spiritosa. Una voce che continua a parlarci.

    Anche io mi reco in pellegrinaggio alla Casa di Anne Frank praticamente ogni anno, unendomi al milione di persone che visitano l’Alloggio segreto. In quelle occasioni penso ad Anne, alla sua famiglia e agli altri quattro ebrei rifugiati là dentro, oltre che ai ventottomila nascosti in quel periodo sul territorio dei Paesi Bassi ⁸. Ma penso anche a Johan Voskuijl, il mio nonno materno, l’uomo che costruì quella libreria girevole e la installò in gran segreto nell’estate del 1942. Che cosa spinse, mi chiedo, un ordinario cittadino olandese a compiere un gesto tanto straordinario e coraggioso? Che cosa lo spinse a rischiare la vita per salvare degli ebrei, mentre moltissimi suoi connazionali li denunciavano alla Gestapo?

    Le cifre sono spaventose. Nell’Olocausto perse la vita il settantacinque per cento degli ebrei olandesi, il che rende l’Olanda la nazione dell’Europa occidentale che ha subito maggiori perdite durante l’Occupazione nazista ⁹. Soltanto cinquemila dei centosettemila ebrei olandesi finiti nei lager sopravvisse ¹⁰. Uno di quei pochi fortunati era Otto Frank, il padre di Anne. Era alto un metro e ottanta – ricordo che gigante mi sembrava, quand’ero ragazzino – ma quando lasciò Auschwitz pesava poco più di cinquanta chili.

    Tornato ad Amsterdam, Otto sapeva già che sua moglie era morta. «Spero solo che le bambine ce l’abbiano fatta», scrisse nel 1945 a sua madre, che viveva in Svizzera. «Mi aggrappo alla speranza che siano vive e che ci ricongiungeremo» ¹¹. Mentre attendeva notizie di Anne e Margot, si recò al capezzale di mio nonno. All’epoca Johan aveva un cancro allo stomaco e gli restavano pochi mesi di vita.

    Penso spesso a quel momento, all’incontro tra due padri sull’orlo del baratro. Immagino quanto si saranno sentiti impotenti, e mi domando come si siano consolati a vicenda, ammesso che l’abbiano fatto. Si strinsero la mano? Si abbracciarono? Che cosa si dissero? Discussero chi poteva averli traditi? Che Otto abbia confidato a Johan la sua preoccupazione per Bep e le sue intenzioni di prendersi cura di lei dopo la sua morte, diventando una sorta di secondo padre?

    Ogni volta che metto piede nell’Alloggio, la mia mente viene attraversata da tutte queste domande. È da una vita che questi interrogativi mi tormentano, e ora, a settantatré anni, pretendo risposte, pretendo di avvicinarmi il più possibile alla verità, anche se fosse… scomoda. Adesso sono finalmente pronto ad accostare la storia di Anne Frank a quella della mia famiglia, a osservare l’Alloggio segreto da entrambi i lati della libreria. Il mio obiettivo è risolvere il mistero che ci ha legati, un mistero che ha tormentato mia madre per tutta la vita e ha creato una frattura mai sanata in seno alla mia famiglia.

    Il fantasma nel negozio di caramelle

    Mia madre fu una sorpresa… un incidente, direbbe qualcuno.

    Quando nell’inverno del 1918 mia nonna Christina Sodenkamp, all’epoca diciannovenne, scoprì di essere incinta, pensò di essere troppo giovane per diventare madre. Era da appena qualche mese che era fidanzata con il ventiseienne Johan Voskuijl. I due non avevano mai sfiorato l’argomento matrimonio. Non erano innamorati e avevano un rapporto altalenante che col tempo non farà che peggiorare. Ma che cosa potevano fare? In quegli anni, se volevi essere una persona rispettabile, non c’erano molte alternative. Così, nel febbraio del 1919, Johan e Christina convolarono a nozze, giurandosi amore eterno nella loro città natale, Amsterdam. Qualche mese dopo, il 5 luglio, nacque mia madre Elisabeth Voskuijl.

    Una bimba paffuta con la boccuccia a cuore e il visino tondo come una luna piena, che veniva chiamata indifferentemente Bep o Elli. A spuntarla alla fine fu il primo diminutivo, che le rimase appiccicato fino alla morte. Perciò quando Anne, immaginando una futura pubblicazione del suo diario, usò per mia madre lo pseudonimo Elli, fu quasi come se risvegliasse un alter ego dormiente da quando Bep era in fasce.

    I primi anni di vita di mia madre furono quasi idilliaci in confronto ai successivi. Benché non avesse ricevuto un’istruzione canonica, il padre Johan fece studi da autodidatta, se la cavava bene con i numeri ed era un grandissimo lavoratore. Aveva imparato a tenere la contabilità con manuali e corsi per corrispondenza, e intorno al 1920 ottenne un lavoro fisso come contabile grazie al quale riuscì a provvedere più che dignitosamente alla sua famiglia in espansione. In quell’anno arrivò anche la secondogenita Annie, cui seguirono altre tre femmine: Willy nata nel 1922, Nelly nel 1923 e Corrie nel 1924.

    Malgrado le tante bocche da sfamare, nel 1926, quando Bep aveva sette anni, la famiglia raggiunse una stabilità economica che le permise di lasciare lo squallido quartiere proletario in cui viveva per trasferirsi in un arioso appartamento al secondo piano di una palazzina in Fraunhoferstraat, nel quartiere residenziale ricco di verde chiamato Watergraafsmeer, nella zona orientale di Amsterdam.

    Per qualche anno mia madre ebbe un’infanzia da favola: bei vestitini per la scuola, pietanze genuine a tavola, messa alla domenica, vacanze al mare con gli amici. Tuttavia in casa Voskuijl non si respirava mai un’atmosfera accogliente e amorevole. Johan era un padre molto severo. Risultato della Chiesa riformata olandese, pretendeva che a tavola le figlie non fiatassero, in quanto il cibo veniva considerato un dono di Dio. Non esprimeva l’affetto a parole, ma con i fatti. Falegname talentuoso, abile e paziente, per i compleanni delle figlie adorava costruire elaborati aeroplanini di legno e altri giocattoli. «Le mani di papà», diceva sempre la zia Willy, «sapevano costruire qualsiasi cosa vedessero i suoi occhi» ¹².

    Mia madre andava bene a scuola, soprattutto in olandese e matematica. Aveva ereditato dal padre una memoria fotografica e il bernoccolo per i numeri, qualità che le sarebbero tornate utili in futuro. Era molto studiosa, sbrigava le faccende settimanali e adorava giocare all’aria aperta con gli altri ragazzini del quartiere.

    Tra questi c’era Jacob. Era praticamente suo coetaneo e abitava in un appartamento due piani sotto a quello dei Voskuijl, sul retro del Nabarro, il negozio di alimentari e caramelle gestito dai suoi che si trovava al pianterreno dell’edificio. Parecchi anni dopo la fine della guerra, io e mia madre passammo davanti alla sua vecchia casa in Fraunhoferstraat. Mi disse che la vetrina del negozio, che ora vendeva vernici, un tempo pullulava di vassoi pieni di caramelle tra cui lei giocava sempre a nascondino. Ricordo ancora lo sguardo perso nel vuoto che aveva mentre me lo raccontava.

    Dopo l’invasione dell’Olanda nel 1940, i nazisti chiesero alla polizia di Amsterdam di stilare un elenco di tutte le attività commerciali cittadine gestite da ebrei. La bottega Nabarro non sfuggì al censimento. Inizialmente i non ebrei furono costretti a boicottarli, dopodiché il negozio venne chiuso. Nel 1942 Jacob, la sua sorellina Selma e i loro genitori furono caricati su un treno diretto al campo di transito di Westerbork e da là deportati ad Auschwitz, dove morirono tutti e quattro ¹³. Il loro non fu l’unico ramo spezzato della famiglia: il nonno di Jacob e due zie furono gassati a Sobibór, tre zii e un’altra zia persero la vita ad Auschwitz, tredici cugini vennero uccisi nei lager ¹⁴.

    Non so se mia madre sapesse precisamente che cos’era accaduto alla famiglia di Jacob, né se stesse pensando a loro quando mi raccontò che da piccola giocava sempre tra i vassoi di caramelle. Se ho tirato fuori questa vicenda è per chiarire subito una cosa: se quella di Anne Frank è l’unica storia che conoscete dell’Olocausto, probabilmente vi siete fatti un’idea sbagliata di ciò che accadde nel mio Paese.

    Come spiegò uno dei superstiti olandesi qualche anno dopo la guerra, con il diario di Anne Frank i Paesi Bassi hanno offerto «la più grande prova di relazioni pubbliche», dando erroneamente l’impressione che «gli ebrei qui fossero tutti riusciti a nascondersi e che l’intera popolazione dei Paesi Bassi fosse nella Resistenza» ¹⁵ e avesse fatto in sostanza ciò che fece mia madre, ovvero rischiare la pelle per salvare i vicini di casa ebrei in barba ai persecutori nazisti, i veri «cattivi». La verità nascosta dietro le «belle facciate delle case e i vasi di fiori» ¹⁶, come ha scritto lo storico olandese Geert Mak, è invece ben più complessa.

    Se è vero che furono i tedeschi a organizzare l’Olocausto nei Paesi Bassi, furono però gli olandesi a eseguirlo… e a eseguirlo con «la precisione di un orologio» ¹⁷, per riprendere le parole di Adolf Eichmann. Gli storici hanno rivelato la portata del collaborazionismo: si stima che abbia coinvolto mezzo milione di cittadini. In compenso, per tutta la durata dell’Occupazione, ad Amsterdam furono presenti al massimo sessanta ufficiali nazisti (anche se le schiere di soldati semplici rendevano la presenza tedesca ben visibile). Ciò significa che in linea di massima furono gli olandesi a rastrellare gli ebrei, furono i burocrati olandesi a stilare gli elenchi e a disegnare le mappe che

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