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I falò dell'autunno
I falò dell'autunno
I falò dell'autunno
E-book252 pagine3 ore

I falò dell'autunno

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Info su questo ebook

Romanzo pubblicato postumo ed ambientato in un periodo che va dal 1912 al 1941, a Parigi, è un bell’esempio della letteratura decadente allora diffusa in Francia, di quella letteratura impegnata a svelare quanto avviene nell’interiorità dell’uomo, a superare l’evidenza. La scrittura è chiara, volta a scoprire i problemi, i drammi dell’animo umano, farne emergere le inquietudini e i turbamenti.
Infatti Bernard, tornato dalla grande guerra, ha messo da parte gli ardori, gli entusiasmi che lo avevano animato prima di partire e assiste, disilluso, alla sfrenata ricerca di ricchezza, di lusso, di piaceri che si era diffusa allora a Parigi.
Ma scoppia la seconda guerra mondiale e Bernard è richiamato alle armi. Le drammatiche esperienze che vivrà a causa della sconfitta subita dalla Francia, lo turbano e gli fanno riscoprire i valori semplici e naturali che aveva perso.
Si capisce il dramma che vivrà l’autrice: perseguitata dalle leggi razziali, tra poco sarebbe stata arrestata e deportata a scrivere questo libro. Più che la scrittrice era la donna che vedeva dilagare il male ma non cessava di credere ancora possibile il bene, come lei lo desiderava.
LinguaItaliano
Data di uscita13 ott 2020
ISBN9788833260853
I falò dell'autunno

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    Anteprima del libro

    I falò dell'autunno - Irene Nemirovsky

    PARTE PRIMA: 1912-1918.

    CAPITOLO 1.

    Sulla tavola c’era un mazzo di violette fresche, una brocca gialla a becco d’anatra che si apriva con un piccolo schiocco per lasciar colare l’acqua, una saliera di vetro rosa con l’iscrizione «Ricordo dell’Esposizione universale. 1900» (dopo dodici anni, le lettere erano sbiadite e mezzo cancellate). C’era un enorme pane dorato, il vino e il piatto forte, - una magnifica fricassea di vitello, ogni tenero pezzetto rannicchiato pudicamente sotto la salsa vellutata, i giovani funghi profumati e le patate rosolate. Nessun antipasto, nessuno stuzzichino: il cibo è una cosa seria. A tavola, dai Brun, si attaccava subito con la portata principale; erano apprezzati gli arrosti la cui esecuzione, governata da regole semplici e severe, si  accomuna all’arte classica, ma  la cuoca dedicava tutte le sue amorevoli cure anche a una sapiente cottura a fuoco lento; dai Brun era la suocera, la vecchia signora Pain, a occuparsi della cucina. I Brun erano piccoli borghesi parigini che vivevano di una modesta rendita. Morta da tempo la moglie, spettava a Adolphe Brun sedere a capotavola e distribuire le porzioni. Era ancora un bell’uomo: aveva un’ampia fronte liscia, un piccolo naso all’insù, guance piene, lunghi baffi rossicci che lui torceva e stirava con le dita fino a che la punta affilata non gli entrava quasi nell’occhio. Di fronte a lui la suocera, rotondetta, piccolina, rubiconda, con una corona  di capelli  bianchi leggeri e svolazzanti  come la spuma del mare, mostrava sorridendo denti ancora perfetti e con un gesto della piccola mano paffuta si schermiva sottraendosi ai complimenti («Squisito… avete superato voi stessa, mamma… È delizioso, signora Pain!»). Lei faceva una smorfietta falsamente modesta e, come una primadonna finge di cedere al partner i fiori che le consegnano in palcoscenico, mormorava: «Sì, oggi il macellaio mi ha servito bene. Era un bellissimo pezzo di vitello».

    Alla destra di Adolphe Brun sedevano gli invitati, - i tre Jacquelain -, alla sua sinistra il nipote Martial e la figlia, la piccola Thérèse.

    Avendo compiuto quindici anni pochi giorni prima, Thérèse portava i boccoli raccolti in uno chignon, ma le ciocche setose non avevano ancora preso la piega che le forcine volevano dar loro e spuntavano fuori da ogni parte, il che contrariava Thérèse, malgrado l’apprezzamento che il timido cugino Martial le aveva sussurrato facendosi tutto rosso:

    «È molto carina la vostra pettinatura, Thérèse… è come una nuvola d’oro».

    «La piccola ha i miei capelli» disse la signora Pain che, essendo nata a Nizza, pur avendola lasciata a sedici anni per sposare un commerciante di nastri e velette stabilitosi a Parigi, conservava l’accento del paese natale, sonoro e armonioso come un canto. Aveva splendidi occhi neri, dallo sguardo allegro. Il marito l’aveva mandata in rovina, aveva perso una figlia di vent’anni, - la madre di Thérèse -, e viveva a carico del genero, ma niente aveva alterato il suo buonumore. Al dessert, le piaceva bere un bicchierino di liquore dolce e canticchiava: Joyeux tambourins, menez la danse…

    I Brun e i loro invitati sedevano in una piccola sala da pranzo piena di sole. I mobili, - un buffet Enrico II, le sedie impagliate dallo schienale a colonnine, una chaise-longue rivestita di una stoffa scura, con mazzi di fiori rosa su fondo nero, un pianoforte verticale - si stipavano in qualche modo nello spazio ristretto. Alle pareti erano appesi disegni acquistati ai grandi magazzini del Louvre e che raffiguravano fanciulle che si trastullano con dei gattini, pastori napoletani (con l’immancabile vista del Vesuvio sullo sfondo), nonché una riproduzione dell’Abandonnée, opera struggente in cui si vede una creatura manifestamente incinta che piange seduta su un sedile di marmo, in autunno, mentre un ussaro della Grande Armée si allontana tra le foglie morte. I Brun abitavano nel cuore di un quartiere popoloso, vicino alla Gare de Lyon. I lunghi fischi nostalgici dei treni arrivavano fino a loro, carichi di richiami che essi non coglievano. In compenso, erano sensibili alla vibrazione argentina, aerea, musicale che, a certe ore del giorno, proveniva dal grande ponte metallico sul quale passava il mètro, quando, emergendo dalle profondità sotterranee, sbucava improvvisamente all’aperto per poi dileguarsi con un brontolio sordo. Al suo passaggio, i vetri delle finestre tremavano. Sul balcone, in una gabbia cantavano dei canarini, e in un’altra tubavano delle tortore. Dal basso salivano rumori domenicali: da ogni piano arrivava, attraverso le finestre aperte, un tintinnare di bicchieri e di piatti e dalla strada grida gioiose di bambini. La pietra grigia delle case, impregnata di luce, si colorava di rosa. Persino i vetri delle finestre nell’appartamento di fronte, sporchi e fuligginosi  per tutto l’inverno, adesso, appena lavati, rifulgevano  come bagnati  da un’acqua lustrale.

    Ecco l’antro dove il caldarrostaio si è rintanato al caldo a partire da ottobre; lui però è sparito e al suo posto è spuntata una ragazza dai capelli rossi che vende mazzi di violette. Anche quel bugigattolo buio è invaso da un fumo biondo: è il sole che illumina la polvere, quella polvere di Parigi che in primavera, ai tempi felici, sembrava fatta di cipria e polline di fiori (finché non ci si accorse che puzzava di sterco). Era una bella domenica. Martial Brun aveva portato il dolce, una torta al caffè che fece brillare di entusiasmo gli occhi del giovane Bernard Jacquelain. La mangiarono in silenzio: si sentiva solo il rumore dei cucchiaini che urtavano sui piatti e quello dei chicchi di caffè nascosti nella crema e ripieni di profumato liquore che scricchiolavano sotto i denti dei commensali. Poi, dopo  quell’istante di raccoglimento, la conversazione riprese, placida ed esente da passione come il ronzio di un bollitore. Martial Brun, studente di Medicina, era un ragazzo di ventisette anni dal lungo naso aguzzo sempre un po’ rosso sulla punta, dal lungo collo comicamente piegato di lato come se stesse ascoltando una confidenza, dai begli occhi da cerbiatto. Parlò degli esami che si avvicinavano.

    «I nostri uomini devono applicarsi seriamente» disse Blanche Jacquelain con un sospiro, e guardò suo figlio. Lo amava a tal punto che metteva ogni cosa in relazione con lui: non poteva leggere che a Parigi era scoppiata un’epidemia di febbre tifoide senza immaginarlo ammalato, forse morto, né sentire la fanfara di un reggimento senza figurarselo in divisa. Fissò uno sguardo triste e profondo su Martial Brun, sovrapponendo mentalmente a quei lineamenti mediocri quelli di suo figlio, così incantevoli ai suoi occhi, e pensando al giorno in cui sarebbe uscito da una scuola prestigiosa, coperto di gloria. Con un certo compiacimento, Martial raccontò dei suoi studi, delle notti passate sui libri. Per natura era estremamente modesto, ma un dito di vino bastava a fargli venir voglia di chiacchierare, di farsi valere.

    Parlava con fervore, passandosi l’indice nel colletto inamidato che gli dava fastidio e pavoneggiandosi come un galletto, quando squillò il campanello della porta d’ingresso. Thérèse fece per alzarsi e andare ad aprire ma Bernard la precedette e tornò in compagnia di un giovane barbuto e piuttosto in carne, un amico di Martial, studente di Legge: Raymond Détang. Per la sua vivacità, la sua facondia, la bella voce baritonale e il grande successo con le donne, questo Raymond Détang ispirava a Martial un sentimento di invidia e di malinconica ammirazione. Come lo vide si zittì e, con un gesto nervoso, prese a raccogliere intorno al piatto le briciole di pane sparse sulla tovaglia.

    «Si discorreva dei vostri studi, giovanotti» disse Adolphe Brun. «Puoi farti un’idea di quello che ti aspetta» aggiunse girandosi verso Bernard.

    Bernard non aprì bocca perché, a quindici anni, gli adulti lo intimidivano ancora. Portava i pantaloni corti. («Ma è l’ultimo anno… Tra poco sarà troppo grande» diceva sua madre con una nota di orgoglio e di rimpianto). Dopo quel buon pasto aveva le guance in fiamme e la cravatta irrimediabilmente di traverso. Ogni tanto le dava un energico strattone gettando indietro i capelli ricci che gli ricadevano sulla fronte. Suo padre disse con voce cavernosa: «Deve uscire dal Politecnico fra i primi. Mi sono svenato per la sua istruzione: i migliori insegnanti privati, e tutto il resto… Ma lui sa cosa mi aspetto in cambio: deve uscire dal Politecnico fra i primi del suo corso. Del resto è un secchione. Sempre il primo della classe».  Tutti guardarono Bernard, e lui sentì salirgli dentro un’ondata di orgoglio. Era un sentimento di quasi intollerabile soavità. Diventò ancora più rosso e poi disse, con la sua voce in via di mutamento, ora acuta e quasi stridula, ora bassa e morbida:

    «Oh, questo… non è niente…».

    Alzò il mento in un gesto di sfida, come per dire: «Staremo a vedere!» e tirò il nodo della cravatta così forte da rischiare di romperla. Una fantasticheria vaga, in cui si vedeva nelle vesti di grande ingegnere, matematico, inventore, o forse esploratore e soldato, con donne brillanti al seguito e una cerchia di amici e discepoli ferventi, gli turbò l’animo. Contemporaneamente sbirciava un pezzetto di dolce che gli era rimasto nel piatto domandandosi come riuscire a mangiarlo con tutti quegli occhi addosso; per fortuna suo padre, rivolgendosi a Martial, distolse l’attenzione da lui e lo ricacciò nell’oscurità che gli competeva. Ne approfittò per buttar giù quel che restava della sua fetta di torta.

    «Quale specializzazione in Medicina conta di prendere?» domandò a Martial il signor Jacquelain. Il signor Jacquelain soffriva di una grave malattia allo stomaco; aveva baffi di un giallo pallido come fieno e una faccia che sembrava fatta di sabbia grigia; la pelle era percorsa da rughe come la superficie di una duna increspata dalla brezza di mare.

    Guardava Martial con un’aria avida e triste, come se il solo fatto di parlare con un futuro medico racchiudesse una qualche virtù terapeutica, di cui lui però non poteva avvantaggiarsi. Più volte, portandosi con un gesto automatico la mano nel punto del corpo in cui covava il male, giusto sotto il petto incavato, ripeté:

    «Peccato che non abbia ancora in tasca la sua laurea, mio giovane amico. Peccato, davvero. Sarei venuto a farmi visitare. Peccato…». Poi si immerse in un’amara meditazione. «Fra due anni» disse timidamente Martial. Tempestato di domande, confessò di avere in vista un appartamento in rue Monge. Glielo avrebbe ceduto un medico, suo conoscente, che desiderava andare in pensione. Mentre parlava, Martial vedeva scorrere davanti ai suoi occhi un susseguirsi di giorni sereni…

    «Dovrai sposarti, Martial» disse la vecchia signora Pain con un sorriso malizioso. Nervosamente, lui fece una pallina di mollica strofinandola tra le mani, la spianò, le diede la forma di un omino, la trafisse ferocemente con la forchetta da dessert e, alzando verso Thérèse i suoi occhi da cerbiatto, disse con voce strozzata: «Infatti ci penso. Mi creda, ci penso davvero». Allora Thérèse fu attraversata per un attimo dal pensiero che quelle parole si rivolgessero a lei: le venne da ridere e, nello stesso tempo, si vergognò come se l’avessero spogliata in pubblico. Dunque era vero quello che le dicevano suo padre, sua nonna e le compagne di collegio: da quando si era tirata su i capelli sembrava proprio una donna! Ma sposare il buon Martial… Lo osservò incuriosita da sotto le palpebre abbassate. Lo conosceva da quando era bambina; gli voleva bene; con lui sarebbe vissuta come erano probabilmente vissuti suo padre e sua madre fino al giorno in cui la giovane donna era morta.

    «È orfano, poverino» pensò all’improvviso, e il suo cuore era già colmo di un affetto e di una sollecitudine quasi materni. «Però non è bello,» pensò ancora «assomiglia al lama che c’è al Jardin des Plantes. Ha un’aria mite e umiliata». Nello sforzo che fece per trattenere una risatina di scherno, due fossette le apparvero sulle guance un  po’  pallide, tipiche dei bambini di Parigi. Era una ragazzina slanciata, graziosa, dal volto serio e dolce, gli occhi scuri e i capelli leggeri come una nuvola. «Chi mi piacerebbe avere per marito?» si domandò. E si perse in deliziose e vaghe fantasie, popolate di bei  giovanotti che assomigliavano all’ussaro della Grande Armée nell’illustrazione appesa davanti a lei. Un bell’ussaro biondo, un soldato coperto di polvere e di sangue, che trascina la sciabola tra le foglie morte… Si alzò di scatto per aiutare la nonna a sparecchiare. Dentro di lei si andava compiendo una sorta di compromesso fra il sogno e la realtà; era un’operazione singolare e un po’ dolorosa, come se qualcuno le aprisse a forza gli occhi e le facesse passare davanti la fiammata di una luce abbagliante. «Che brutto crescere,» pensò «magari potessi restare sempre così…» Sospirò con un’ombra d’ipocrisia: era lusinghiero suscitare l’ammirazione di un giovane, fosse pure il buon Martial. Bernard Jacquelain era uscito sul balcone e lei lo raggiunse tra la gabbia dei canarini e quella delle tortore. Al passaggio del mètro il ponte metallico fu attraversato dalle solite vibrazioni. Dopo pochi istanti, Adolphe Brun, che si era avvicinato a Thérèse e Bernard, annunciò: «Ecco le signore Humbert».

    Erano due amiche della famiglia Brun: una vedova e la figlia di quindici anni, Renée. La signora Humbert aveva perso precocemente un marito attraente e simpatico. Una triste storia, ma, si diceva, un buon insegnamento per i giovani. Il povero avvocato Humbert (penalista di talento) era morto a ventinove anni per aver troppo amato il lavoro e il piacere, che non vanno molto d’accordo, come faceva osservare Adolphe Brun: «Era un dongiovanni» diceva, scrollando la testa con un’aria di ammirazione e di biasimo, non scevra di un pizzico di lievissima concupiscenza. Arricciandosi i baffi con uno sguardo pensoso, proseguiva: «Teneva troppo all’eleganza. Aveva trentasei cravatte (la cifra trentasei stava per un numero esagerato). Coltivava  abitudini lussuose: un bagno alla settimana. Ed è stato proprio uscendo da uno stabilimento di bagni e docce che si è preso l’infreddatura di cui è morto». La vedova, rimasta senza mezzi, aveva dovuto guadagnarsi da vivere aprendo un laboratorio di modista in avenue des Gobelins: un negozietto celeste con l’insegna «Germaine. Cappelli» impreziosita da uno svolazzo d’oro. La signora Humbert lanciava le sue creazioni indossandole lei stessa e mettendole in testa a sua figlia. Era una bella bruna; veniva avanti maestosa, offrendo ai raggi del sole uno dei primi cappelli di paglia della stagione, tutto una fioritura di papaveri artificiali. La figlia portava un copricapo virginale di tulle e nastri: una charlotte rigida e leggera come un abat–jour. Stavano aspettando solo loro per uscire e concludere all’aria aperta la giornata domenicale. Si misero dunque in cammino verso il mètro della Gare de Lyon. I più giovani camminavano davanti, Bernard tra le due ragazzine.

    Bernard era dolorosamente consapevole dei suoi pantaloni corti e guardava con preoccupazione e vergogna la peluria dorata che brillava sulle sue gambe robuste, ma si consolava pensando: «È l’ultimo anno…». Per di più sua madre, che lo viziava, gli aveva comprato un piccolo bastone da passeggio, una bacchetta dal pomolo dorato con cui giocherellava ostentando noncuranza. Purtroppo Adolphe non mancò di notarlo e canticchiò: «Col suo bastone se ne va a passeggio come un gagà…», cosa che rovinò a Bernard ogni piacere. Vivace, magro e irrequieto, con occhi molto belli, sua madre lo vedeva come la personificazione stessa della bellezza maschile e pensava, con una stretta al cuore e un pizzico di gelosia: «Chissà quante conquiste farà, a vent’anni», perché fino a quel momento contava di tenerlo al guinzaglio. Le ragazze indossavano tailleur che coprivano pudicamente le ginocchia rivestite di calze nere di cotone. La signora Humbert aveva fatto per Thérèse un cappel lo uguale a quello di Renée, un imponente edificio adorno di mussola e nastrini; diceva: «Sembrate due sorelle», ma pensava: «La mia Renée è più bella. È una bambola, una gattina, con quei capelli biondi e gli occhi verdi». E proseguiva: «Gli uomini la guardano già», perché era una madre ambiziosa e pensava al futuro.

    Emergendo dalle profondità della terra, il gruppetto uscì dal mètro Concorde e si avviò lungo gli Champs Elysées; le signore sollevavano delicatamente l’orlo delle gonne e si vedeva spuntare un pudico volant di popeline grigio sotto l’abito della signora Jacquelain e di rasatello color pulce sotto quello della vecchia signora  Pain, mentre la signora  Humbert, che aveva un seno opulento, saettando sguardi provocanti con i suoi occhi neri «da italiana», lasciava sbadatamente intravedere una balza di cangiante taffettà dal soave fruscio setoso. Le tre signore parlavano d’amore. La signora Humbert lasciava intendere di aver gettato un uomo nella disperazione con i suoi rifiuti, tanto che per dimenticarla lui era dovuto fuggire lontano, nelle colonie, e da laggiù le scriveva di aver addestrato un negretto ad andare tutte le sere nella sua tenda, dopo che era suonata la ritirata, per dirgli: «Germaine ti ama e pensa a te». «Gli uomini» sospirava la signora Humbert «hanno spesso più delicatezza d’animo di noi». «Lei crede?» esclamò Blanche Jacquelain che l’aveva ascoltata con l’aria ritrosa e accigliata con cui la gatta tiene d’occhio il latte che bolle in una pentola (allunga la zampa e la ritira con un breve miagolio offeso). «Crede davvero? Ma solo noi donne sappiamo sacrificarci senza secondi fini». «Che cosa intende per secondi fini?» domandò la signora Humbert e, alzando la testa e dilatando le narici, sembrava stesse per nitrire come una cavalla. «Lo sa bene, mia cara» rispose la signora Jacquelain con disappunto. «Ma, mia cara, è la natura…».

    «Già, già» diceva la vecchia signora Pain, assentendo con la sua piccola toque di jais coperta di violette artificiali, ma in realtà non stava ascoltando. Pensava al pezzo di vitello (gli avanzi della fricassea), che avrebbe messo in tavola per cena. Così com’era o con una salsa di pomodoro? Gli uomini venivano dietro parlando con enfasi e gesticolando. La placida folla domenicale camminava lungo gli Champs–Elysées. Procedeva a passo lento, probabilmente appesantita dalla digestione, dal caldo precoce, dalla giornata festiva. Era una folla piccoloborghese, affabile, allegra, misurata; il popolo non si spingeva fin là, e l’alta società mandava sugli Champs–Elysées solo i rampolli più giovani, custoditi da  balie elegantemente infiocchettate. Sul viale si  vedevano allievi dell’Accademia militare di Saint–Cyr che davano il braccio

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