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Qualcosa Di Bello
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E-book550 pagine7 ore

Qualcosa Di Bello

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Info su questo ebook

Che cosa faresti se scoprissi che, tra non molto, la leucemia potrebbe portarti via (di nuovo) i tuoi sogni? E, soprattutto, cosa faresti se all'improvviso scoprissi che la tua migliore amica, quella ragazza che soffre ancora per la morte del fratello e che ne porta sul viso le cicatrici, è segretamente innamorata di te? Oliver non ha dubbi: spingere Joanna ad odiarlo, invece che amarlo, è l'unico modo per assicurarsi che non si farà alcun male se le sue cure dovessero fallire. Ma è proprio quando la sua messinscena per farla ingelosire sta funzionando sul serio - e lei sta davvero per dimenticarlo - che Oliver si accorge di come i sentimenti nei suoi confronti si siano inaspettatamente trasformati... in qualcosa di bello. Dall'altra parte, il suo amico William sogna una carriera da calciatore che possa portarlo lontano dalla vita cui è costretto: un padre in carcere per la malavita in cui era invischiato, una madre che non dorme per poter pagare le bollette e tanti pregiudizi, a cui si aggiunge una sorellastra che non vuole saperne di stare fuori dai guai. Lui, il donnaiolo della scuola a cui tutte le ragazze cadono ai piedi, si ritrova a fare i conti con un cuore che non ha mai battuto così forte: Vivian, promessa ballerina alla prestigiosa scuola di Boston, entra nella sua vita tra una chiacchierata sul tetto e un bacio fatale, facendogli scoprire per la prima volta quel qualcosa di bello che è l'amore.

TW: si parla di perdita, di lutto, di problemi di alimentazione. Astenersi se l'argomento risulta difficoltoso da essere letto (le tematiche sono descritte in maniera leggera, ma ognuno conosce i propri limiti)
LinguaItaliano
Data di uscita7 mar 2024
ISBN9791222735351
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    Anteprima del libro

    Qualcosa Di Bello - Corinna Lovegood

    Sommario

    #Prologo

    #Capitolo 1

    #Capitolo 2

    #Capitolo 3

    #Capitolo 4

    #Capitolo 5

    #Capitolo 6

    #Capitolo 7

    #Capitolo 8

    #Capitolo 9

    #Capitolo 10

    #Capitolo 11

    #Capitolo 12

    #Capitolo 13

    #Capitolo 14

    #Capitolo 15

    #Capitolo 16

    #Epilogo

    RINGRAZIAMENTI

    Qualcosa di bello

    Un romanzo di

    CORINNA LOVEGOOD

    Titolo | Qualcosa di bello

    Autore | Corinna Lovegood

    ISBN | 9791222735351

    © 2023 - Tutti i diritti riservati all’Autore

    Questa opera è pubblicata direttamente dall'Autore tramite la piattaforma di selfpublishing Youcanprint e l'Autore detiene ogni diritto della stessa in maniera esclusiva. Nessuna parte di questo libro può essere pertanto riprodotta senza il preventivo assenso dell'Autore.

    Youcanprint

    Via Marco Biagi 6, 73100 Lecce

    www.youcanprint.it

    info@youcanprint.it

    Raccomando una lettura consapevole, in quanto la storia racchiude tematiche che potrebbero urtare la sensibilità di alcuni di voi.

    TW: malattia, lutto, alimentazione, presenza minima di scene a carattere sessuale

    Lettura consigliata per un pubblico dai 16 anni per garantire una maggiore comprensione delle tematiche trattate.

    Qualsiasi riferimento a fatti, luoghi o personaggi è puramente casuale e non riferito ad entità specifiche presenti nella vita reale.

    A chi nella vita cerca qualcosa di bello

    A chi pensa di non farcela

    A chi poi ce la fa

    #Prologo

    DIARIO DELLA MALATTIA DI: Oliver Hill

    STATO: vivo (eh già)

    PESO: 81,3 kg

    NOTE:

    Ho discusso per un’ora intera con il dottor Wilson sull’utilità di questo diario. Lui ha insistito sul fatto che mi sarà di aiuto, e io non so perché ho finito per crederci.

    Gli ho chiesto se scrivere su queste pagine riciclate riuscirà a far scomparire il cancro, e lui mi ha guardato come per dire è un plico di carta a righe, non Dio.

    Quindi no.

    NON FARA’ SCOMPARIRE IL CANCRO.

    E, se proprio vogliamo dirla tutta, non riuscirà nemmeno a distrarmi dal pensiero di averne uno. Insomma, come fai a non pensare di avere un cancro quando ti obbligano a scrivere del tuo cancro su uno stupido diario?

    Nessuno in questa casa riesce a fingere che questa malattia non esista. Io stesso ci ho provato ma ormai è qui, tra tutti noi, e non se ne andrà mai. Quando siamo tornati dalla clinica ho canticchiato sottovoce, in maniera quasi impercettibile, come per convincermi che si è trattato solo di un brutto incubo. Ho finto che andasse tutto bene, come se il cancro fosse una semplice influenza che si combatte con il paracetamolo.

    Anche i miei genitori sembravano sforzarsi di fare lo stesso, ma senza grandi risultati: mamma, per esempio, ha pianto per ore chiusa nel bagno, probabilmente chiedendo al buon Dio perché, nello scegliere il destino di suo figlio, sia stato particolarmente crudele.

    Mio padre, nel frattempo, ha girato a vuoto tra la cucina e il salotto, chiedendosi come poteva convincere sua moglie ad uscire da lì senza sfondare la porta a suon di calci e parolacce.

    Aaron, invece, se ne è stato davanti alla TV, con il volume al minimo e il telecomando in bilico sul bracciolo della poltrona, gli occhi fissi sulle auto del canale DMAX che sfrecciavano folli sulla strada, probabilmente chiedendosi se fingere anche lui che la leucemia non gli porterà via suo fratello.

    Lo schermo della televisione era un acquario silenzioso, le immagini si trascinavano l’una dietro l’altra senza emettere alcun suono: sembrava un tentativo di dare colore alla tristezza che presto diventeranno le nostre vite per colpa della mia malattia.

    Comunque, ho scoperto una cosa interessante: solamente il 30% dei malati terminali riesce a sopravvivere. Non che abbia fatto ricerche come un disperato sulle probabilità di sopravvivenza al cancro, macché.

    Ero solo curioso. Curioso di sapere quanto e SE ancora vivrò.

    E indovinate un po’? La risposta di Google mi è bastata per farmi maledire il giorno in cui il mondo dell’informazione mi ha tolto la speranza di una sopravvivenza più alta di un misero trenta percento.

    Allora ho chiuso il portatile, come se fosse sufficiente a far scomparire il cancro dalla mia vita, e mi sono sdraiato a letto, cercando di pensare al nulla – se mai ci si riesce.

    Poco dopo sono scivolato nel sonno, così come sono scivolato in questa stupida malattia, involontariamente ed ingiustamente. Ho fatto degli incubi pazzeschi e ho capito che, oltre ad una vita normale, la leucemia mi toglierà anche i sonni tranquilli. Mi sono rigirato fino allo sfinimento e un’ora fa mi sono risvegliato, molto stordito. Così stordito che ho pensato di essere in ritardo per il primo giorno di scuola, e invece era solo un caldo venerdì sera di fine estate.

    Comunque, sono un ragazzo forte. Non sono rimasto a letto per le successive due ore, abbracciato al cuscino come un poppante riflettendo sul fatto che forse me ne andrò per sempre.

    OKAY, L’HO FATTO.

    Ma solo per un momento, lo giuro.

    E va bene. Cazzate. Un mucchio di fesserie: la verità è che quelle cartelle cliniche non se ne andavano dalla mia testa, e ho pensato che vorrei non sapere cosa significano tutti quei numeri che ci stavano scritti sopra. Vorrei non sapere che dietro ad alcune cifre si nasconde ancora una speranza mentre dietro ad altre questa svanisce.

    Mi sono chiesto più volte se sia possibile fermare il tempo e far durare un istante un’infinità, perché se così fosse lo fermerei all’attimo prima di mettere piede in quella stupida clinica.

    Sarebbe tutto più semplice se le lancette dell’orologio si bloccassero proprio in quel momento e non riprendessero più a funzionare.

    * * *

    William è sotto la doccia, ascolta le gocce frantumarsi sul vetro di fronte a lui. Fuori fa caldissimo, una delle giornate più roventi dell’intera estate, e lui ha appena percorso il tragitto fino al suo appartamento schiacciato come una sardina sull’autobus di linea, stracolmo di gente che andava e veniva dal lago in una perfetta domenica di sole.

    Sospira forte mentre ripensa ai mesi appena passati. L’estate peggiore della sua vita da liceale, continua a ripetersi: giornate intere trascorsi a sgobbare sui libri, l’allenamento intensivo di calcio due pomeriggi alla settimana e il lavoro al botteghino del cinema e al reparto frigo del minimarket dietro casa.

    In tutto è riuscito a mettere da parte seicento dollari. Non pochi, ma nemmeno sufficienti, pensa mentre si infila la maglietta. Il proprietario di quella vecchia berlina grigia vuole almeno novecento dollari per disfarsene, e con l’inizio della scuola e le giornate che deve passare sui libri per tenere alta la media non è sicuro di riuscire a guadagnarne altri trecento.

    D’istinto afferra il telefono, rimane con il dito sospeso sul numero che ha memorizzato come George. La disperazione gli dice di chiamarlo e di chiedergli se è disposto ad accettare un pagamento a rate, o addirittura a fare uno sconto ad un povero ragazzo che ha sgobbato tutta l’estate per racimolare qualche soldo nella speranza di avere una macchina tutta per sé come un normalissimo liceale.

    Si porta il telefono all’orecchio ma riattacca dopo il secondo squillo, abbandonando l’idea di elemosinare la compassione del proprietario dell’auto – che senza dubbio scoppierebbe a ridere, dicendo di non avere tempo per le lamentele di un ragazzino.

    Si distende sul letto ancora sfatto dalla mattina precedente, passandosi una mano sulla testa rasata. Il suo non è un capriccio, ha assolutamente bisogno di un’auto. Continua a prendere in prestito quella di sua madre, ma molto spesso le serve perché lei fa i doppi turni all’ospedale per riuscire a pagare le bollette e tutto il resto che serve per non essere sfrattati da quel minuscolo appartamento.

    È così nervoso al pensiero di aver lavorato tutta l’estate senza alcun risultato che vorrebbe uscire per fumare una sigaretta. La mano già stringe la maniglia della porta quando il suo telefono vibra: è Oliver che gli chiede di fare una partita a FIFA.

    Resta a fissare il controller sul comodino, poi si convince che passare un po’ di tempo con gli amici sarà una valvola di sfogo decisamente più salutare di una sigaretta.

    Che fuma in ogni caso, ma solo un’ora più tardi.

    * * *

    Da: Joanna

    A: Oliver

    Ore: 17:52

    JOANNA: Come al solito starai rendendo la tua giornata molto produttiva. Probabilmente a smaltire la sbornia di ieri sera

    OLIVER: Ricordami perché sono andato a quella festa senza di te? E già che ci sei, ricordami anche di non farlo mai più. Devi dirmi qualcosa di importante? Non riuscirò a gestire il controller con una sola mano ancora per molto. E sai che in situazioni come queste sceglierò sempre di vincere la partita.

    JOANNA: Mi fa piacere che tu abbia messo ordine tra le tue priorità. Spero almeno che in tutto questo tu abbia concluso la tua parte del progetto di biologia per le vacanze estive: la scadenza per la consegna è mercoledì prossimo. E soprattutto, non serve che ti ricordi che domani mattina il professor Gilmore ha fissato un test di benvenuto di matematica, vero?

    OLIVER: OVVIAMENTE mi sono ricordato di finire quella interessantissima relazione sulle rocce sedimentarie. E OVVIAMENTE, dopo un’estate di sbronze, mi sento prontissimo per il test di matematica. Sono nato pronto, baby. Pronto è il mio secondo nome.

    * * *

    L’autobus si ferma, Joanna prende posto nell’ultima fila vicino ad un signore di mezza età che legge il giornale e commenta i risultati dell’ultima partita della squadra di hockey della contea.

    Joanna si mordicchia un’unghia mente ricontrolla la sua agenda per l’ennesima volta: si è iscritta al corso avanzato di matematica due pomeriggi alla settimana e al corso intensivo di biologia. È indecisa se prendere parte anche al corso di fisica o a quello di chimica.

    O forse ad entrambi.

    È pronta a tutto per ottenere il massimo dei voti e vincere la borsa di studio per Harvard, pensa mentre scende alla fermata del suo quartiere. La sabbia sotto i suoi infradito scricchiola sul cemento mentre procede svelta fino al vialetto di casa.

    Nota senza grande sorpresa che l’auto di sua madre non c’è, deduce che cenerà da sola anche quella sera. Tanto meglio, pensa mentre cerca le chiavi nella sua borsa, almeno potrà leggere in santa pace mentre sbocconcella gli avanzi del pranzo, senza sorbirsi il silenzio assordante in cui sua madre si chiude quando entrambe si ritrovano a condividere il tavolo.

    Quando entra, la casa è silenziosa e immacolata come sempre. Già immagina sua madre riprenderla per aver lasciato dietro di sé granelli di sabbia mentre sale le scale.

    Scuote le spalle per scacciare quel pensiero, non le importa quello che le dirà. Non le importa nulla di ciò che riguarda sua madre.

    Non più, ormai.

    Sulla parete del corridoio che la porta nella sua stanza c’è uno specchio, e quando si volta il suo riflesso la saluta: nonostante applichi tutte le sere quella crema costosissima, pensa mentre la esamina attentamente, la cicatrice sul viso si vede ancora.

    Sono ormai tre anni che quel taglio le attraversa la parte sinistra del viso. Quanto tempo ci metterà per scomparire del tutto? Dieci, forse?

    È migliorata, questo deve ammetterlo. Durante i primi mesi dopo l’incidente stentava addirittura a guardarsi. Certi giorni fatica a guardarsi ancora adesso, e non solo perché trova il suo viso troppo deformato: ogni volta che posa gli occhi quella cicatrice, tutto ciò che le viene in mente è suo fratello Sam.

    È per colpa di quell’incidente che si è procurata quel taglio.

    Il parabrezza si è frantumato e un pezzo di vetro le ha inciso la guancia, colpendole l’iride e costringendola ad indossare sempre quegli occhiali.

    Scuote forte la testa, vuole scacciare quei pensieri che da troppo tempo le affollano la testa. Nel momento in cui entra in camera sua e sta per togliersi il copricostume, sente un lungo fischio provenire da fuori: è Oliver, che dalla sua stanza agita una mano nella sua direzione.

    «La prossima volta avvisami, Jo, così posso prepararmi e godermi lo spettacolo!»

    Joanna si volta mostrandogli la lingua, sperando con tutto il cuore che la distanza tra le loro finestre sia sufficiente per non fargli notare che le sue guance sono diventate bollenti.

    Oliver ha sempre scherzato con lei in quel modo.

    È il suo migliore amico dai tempi dell’asilo e la conosce meglio di chiunque altro, eppure non riesce a capire perché, da quell’estate in particolare, il suo cuore impazzisce quando lui la guarda, o quando dice qualcosa di banale ed innocente come puoi passarmi quel bicchiere? e accidentalmente le loro mani si sfiorano.

    * * *

    La madre di Vivian bussa alla sua porta ogni cinque minuti per chiederle se è pronta, e ogni volta Vivian prende un respiro profondo prima di parlare. Le risponde che uscirà in una manciata di secondi.

    È vestita da un pezzo, in realtà, ma non ha voglia di scendere nel patio. Sa che suo padre sarà lì, seduto su una di quelle costosissime poltroncine di vimini, ad attenderla prima di cominciare la sua importante intervista. E lei non ha alcuna intenzione di starsene ferma come un burattino ad ascoltarlo mentre parla di cifre di cui lei non capisce nulla e di sorridere al cameraman soddisfatto della sua paga.

    Pensa solo che sarebbe rimasta volentieri alla spiaggia con Joanna, a godersi l’ultimo sole di quell’estate che se ne sta andando.

    Osserva di nuovo la sua acconciatura, le onde dei suoi capelli sono tenute ferme da un’infinità di forcine e una piccola crocchia è fissata sulla sua nuca.

    Lei vorrebbe tenerli sciolti, con le lunghe ciocche nere ad accarezzarle le spalle, ma sua madre ha insistito affinché gli spettatori della campagna possano ammirare il suo collo lungo e grazioso, proprio come quello di una ballerina.

    Mentre si studia allo specchio, si chiede se sua madre si accorgerà di quel paio di chili che ha preso durante l’estate, o se le pieghe del vestito riusciranno ad ingannarla. Sarebbe un vero peccato, le ripete sempre, aumentare di peso proprio nell’anno in cui dovrà sostenere il provino per la Boston Ballet School.

    Vivian sente gridare il suo nome, così sorride alla sua figura riflessa, costringendosi a mantenere quell’espressione fino a quando avrà il permesso di tornare nella sua stanza.

    Mentre scende le scale, annunciando la sua presenza con un eccomi, scusate il ritardo, continua a chiedersi cosa la stia portando a non voler fare più parte di quella compagnia teatrale che è la sua famiglia.

    * * *

    DIARIO DELLA MALATTIA DI: Oliver Hill

    COME TI SENTI? Vivo, di nuovo

    PESO: 81,3 kg

    NOTE:

    Una cosa che ho notato è che questa malattia ti fa pensare davvero troppo.

    La mia testa è pesantissima, come se di notte, senza che io me ne accorga, qualcuno ci infilasse dentro dei sassi e si divertisse a vedermi in difficoltà nel sorreggere questo peso.

    Oggi, per l’appunto, stavo pensando che ci sono un mucchio di cose di cui dovrei pentirmi, anche se poi non succede mai: ad esempio, una volta ho copiato durante il test di biologia (okay, più di una volta) e ho mentito spudoratamente quando la Foster si è congratulata per la mia unica sufficienza in tutto l’anno scolastico.

    Oppure, sentite questa: un giorno ho detto a mamma che sarei rimasto camera a studiare tutta la notte, invece sono uscito dalla finestra per raggiungere Will e gli altri a casa di Lucas per una partita a beer-pong, dalla quale sono tornato così sbronzo che vedevo sette dita sulla mia mano sinistra.

    È semplicissimo quando si tratta di bugie del genere: niente rimorsi, nessun senso di colpa che ti rotola nello stomaco. Io le chiamo bugie a fin di bene perché, se tutto va secondo i piani, nessuno si fa male.

    Avere un cancro e fingere che vada tutto a meraviglia, invece, è una bugia davvero scomoda, una spina nel fianco che non sai come levarti di dosso.

    Non ho ancora dato la grande notizia a nessuno (non che il fatto che i miei globuli abbiano ricominciato a fare gli stronzi sia così entusiasmante da chiamarla una grande notizia) e qualcosa dentro di me continua a ripetermi che sono un pessimo amico se ho appena trascorso un’ora davanti alla PS4 e non ho detto ai miei amici del responso. È come se, in qualche modo, io stessi tradendo la loro fiducia.

    Qualcuno di voi medici (che sicuramente leggerà questo stupido diario quando cercherà di capire cosa non va con le mie cure) potrebbe spiegarmi una volta per tutte come diavolo si fa?

    Ci dev’essere un manuale di istruzioni da qualche parte, con un titolo del tipo come dire a qualcuno che forse morirai, o qualche cosa di simile che spieghi come riuscire a guardare negli occhi le persone che ami e dire loro che forse te ne andrai per sempre.

    Oliver sente sua madre armeggiare con i fornelli. Evidentemente, pensa, suo padre è riuscito a tirarla fuori dal rifugio delle cattive notizie e a convincerla a preparare qualcosa di più sostanzioso e nutriente rispetto a quei piatti surgelati che lui, nel frattempo, era uscito a comprare.

    Proprio quando fa partire una serie TV su Netflix sul suo computer portatile, Aaron bussa alla porta e aspetta il suo permesso per entrare. Attende sempre che Oliver gli risponda da quando, due anni prima, lo ha beccato a letto con Allison, la sua prima ragazza.

    Oliver lo fa entrare e Aaron fa capolino con una palla da basket stretta sotto il braccio.

    «Due tiri?», chiede.

    Oliver annuisce, certo che gli vanno due tiri a pallone. Una volta giocavano spesso, pensa, poi Aaron è partito per il college e lui si è ritrovato a tirare da solo, o con William quando non è troppo impegnato a portarsi a letto qualche ragazza. A volte gioca con Joanna, ma un metro e cinquanta come lei fatica a competere con un metro e ottanta come lui e finisce sempre che tocca a Joanna pagare la pizza del mercoledì.

    Quel giorno Aaron ha l’aria di chi si sente in colpa per qualcosa di cui non può assolutamente avere colpa; dunque, Oliver si convince che fare due tiri di sotto servirà a dimostrargli che questa malattia potrà pure portargli via suo fratello, ma non il ricordo di loro due che tirano a canestro sul piazzale di casa.

    «Come va?», chiede Aaron mentre palleggia, e Oliver pensa tra sé che è una domanda davvero difficile a cui trovare risposta.

    Come sta? Non lo sa, come sta.

    È come se il suo cervello avesse messo in stand-by la parte di sé che sa di avere un cancro per difendersi dalla sua cattiveria. Finge di non averlo, il cancro, anche se sa che non c’è errore più grande di non voler essere consapevoli della propria malattia, si ripete mentre prende al volo la palla e centra il canestro sopra la sua testa.

    Gli risponde che sta bene.

    A quelle parole, lo vede fare un sorriso che, ragiona, sicuramente maschera un mucchio di incertezze e di preoccupazioni.

    A volte si chiede cosa farebbe lui se scoprisse che suo fratello si ritrova a convivere con quella malattia per la seconda volta. Con tutta probabilità, consapevole del suo mancato controllo sulla rabbia, prenderebbe a calci qualsiasi cosa e se la prenderebbe con Dio per la pessima scelta.

    * * *

    Dall’altra parte, William si ritrova a pensare a Sylvia e a quanto vorrebbe essere per lei un bravo fratello.

    Invece non lo è, si ripete mentre sfoglia le pagine del suo diario. 

    Caro diario,

    qui è davvero una noia. Mi mancano i miei amici, mi mancano le partite al campetto e i giri sullo skate. La mia stanza è così piccola che a malapena riesco a respirare. Non capisco come faccia la gente a vivere in questo tugurio. Perché nessuno mi ha avvertito che le case popolari sono così orrende?

    Mi fa schifo stare qui. Vorrei tanto che papà non si fosse fatto fregare da quella banda di sbirri, così potrei ancora dormire nel mio letto e vedere Jessica.

    Jessica è l’unica persona di cui mi fido ancora. Michael, invece, mi ha lasciata con un SMS appena ha saputo dell’arresto di mio padre. Ha detto che continuare a frequentarci sarebbe impossibile ora che vivo qui. Sono tutte balle, ovviamente.

    So che mi ha scaricata solo per potersi portare a letto quella sgualdrina di Danielle. Sono anni che quella schifosa gli fa il filo, e ora ha finalmente la possibilità di provarci.

    Ho già detto che il palazzo in cui vivo fa schifo?

    I muri cadono a pezzi e le tubature stridono ogni volta che qualcuno apre il rubinetto della doccia. William si sta dando da fare con una sciacquetta sul divano di casa credendo che io dorma.

    Dovrebbe almeno dirle di non urlare.

    VOGLIO TORNARE A CASA, CAZZO!

    * * *

    William ripensa a quella notte, a quando hanno ricevuto la chiamata dei servizi sociali. Ricorda che sua madre ha riattaccato la cornetta senza dire una parola e lo ha guardato, come per scusarsi in anticipo di ciò che stava per succedere, anche se in realtà non ne aveva alcun motivo.

    Poche ore più tardi si è ritrovato a pulire da cima a fondo quel buco di stanza accanto alla sua, che fino a quel giorno era stato il loro ripostiglio, ha steso delle lenzuola pulite sul materasso mezzo sfondato e ha spolverato quei pochi mobili scassati che il proprietario aveva lasciato loro come regalo di benvenuto quando avevano affittato l’appartamento.

    Cinque ore più tardi Sylvia è entrata nella loro casa, accompagnata da una donna sulla cinquantina che li ha riempiti di domande e di documenti che sua madre ha firmato con la mano che tremava.

    Non vedeva sua sorella da circa sei anni. Ne aveva undici quando lui e sua madre se ne sono andati per sempre, come gli aveva sussurrato lei all’orecchio quando quella notte le aveva chiesto quanto sarebbero stati via di casa. Sua madre ha avuto coraggio da vendere per caricare tutto sulla sua macchina mezza scassata e partire alla cieca verso uno spiraglio di libertà.

    Si ricorda di aver dormito in un motel diroccato per una settimana intera quando sono arrivati in questa città, dopo quell’interminabile notte sulla strada. Si svegliavano prestissimo e lei lo trascinava a visitare appartamenti semidistrutti, chiedendogli quale gli piacesse di più.

    Sognava una casa con un giardino enorme, voleva dirle, per invitare a giocare tutti gli amici che avrebbe conosciuto nella nuova scuola pubblica, ma gli unici appartamenti che potevano permettersi erano nientemeno che buchi di pochi metri quadri in sobborghi ben lontani da quelli che avevano una piscina interrata e un SUV parcheggiato nel vialetto.

    Perciò, William aveva risposto che l’appartamento al quarto piano di quel palazzone diroccato in mattoni rosso scuro sarebbe stato perfetto per ricominciare.

    Almeno, si era detto, sul retro del complesso c’era un piccolo cortile dove avrebbe potuto fare qualche lancio con la palla da football.

    * * *

    Caro Sam,

    Ho deciso di trascorrere il mio ultimo weekend di fine estate con Vivian: siamo rimaste ore sdraiate sull’asciugamano, io leggendo un libro che parlava di legami e reazioni chimiche e lei ascoltando la musica dal suo cellulare, dando sfogo alle sue corde vocali quando Jared Leto cantava il ritornello.

    Un paio di ragazzi si sono fermati a guardarla con un certo interesse mentre dimenava il suo corpo sull’asciugamano, e io ho dovuto assestarle un calcio sulla coscia perché la smettesse.

    Dovresti proprio vedere come è diventata: le sue gambe chilometriche attirano spesso l’attenzione dei ragazzi soprattutto quando il suo corpo è stretto in un bikini minuscolo come quello di oggi pomeriggio.

    Comunque, te l’ho detto che ho un nuovo lavoro?

    Lascerò per sempre il Bench Bar e i suoi luridi clienti sempre ubriachi per concentrare tutta la mia pazienza su una mocciosetta di sette anni che si crede Miss Sunshine.

    Mi servono soldi perché mamma minaccia di togliermi i fondi per il college dal giorno del tuo incidente. Dice che è per colpa mia se tu te ne stai lassù, lontano da noi.

    Il pastore Harper ha provato a convincerla che ci stai proteggendo dal regno dei cieli, o qualcosa del genere, e da quel giorno sono due anni che mamma non parla più con lui, perché sai anche tu quanto non creda a quelle baggianate perditempo.

    Forse la tua morte è stato il motivo per cui ha rotto con Dio per sempre: non gli perdona che tu non sia più nelle nostre vite, non lo perdona per non aver scelto me al tuo posto quella notte.

    Mamma non è più la mamma, mi sento un’orfana in questa casa troppo grande e troppo silenziosa. Ha tagliato i rapporti con tutti dal giorno dell’incidente, prima con la scusa del lutto che voleva vivere esclusivamente con la sua famiglia – se ancora così io e lei ci possiamo chiamare – poi con la scusa di volersi concentrare su se stessa e riprendere in mano la sua vita.

    Mamma sta creando attorno a sé un mondo di sofferenza e sembra volerci affogare dentro senza alcuna esitazione.

    Tua Jo

    * * *

    Quel giorno Sylvia lo ha fatto innervosire parecchio. William comprende la sua rabbia per essere stata portata nel via dalla sua città senza nemmeno il tempo di capire come e perché, ma non sta mostrando alcun rispetto per lui e sua madre. 

    «Questa pasta fa schifo. Hai mangiato questa merda per tutti questi anni?»

    Sylvia non la smette di provocarlo, come se fosse lui il colpevole di tutto ciò che è successo alla loro famiglia.

    William continua a mangiare, rischiando di soffocare pur di impedire a se stesso di rispondere a quelle parole, ma qualcosa deve pur dirle. Non può permetterle di continuare a trattarli così, come se fossero stati loro ad abbandonarla e a costringerla a vivere in posto che non le piace.

    «La prossima volta puoi cucinarti qualcosa da sola», le dice. Il suo tono è fermo e duro, vuole farle intendere che la conversazione si chiuderà lì e non ammetterà repliche.

    Sylvia lascia cadere la forchetta con un gesto che va oltre il presuntuoso, afferra il piatto ancora mezzo pieno e lo svuota nel cestino. «La prossima volta mi ordinerò una pizza», dice, e se ne torna in camera sua, sbattendosi la porta alle spalle. William tiene gli occhi fissi sulla sua cena, vuole mantenere la calma per non rischiare di esplodere.

    È vero, ammette a se stesso mentre continua a masticare, la pasta riscaldata non è un granché, ma sua madre gliela prepara sempre, ogni domenica. È uno dei pochi modi che lei ha per essere presente tra un turno e l’altro all’ospedale.

    William proprio non riesce a dirle che si ordinerebbe volentieri una pizza, non quando sua madre si spezza in due per potergli garantire la scuola e una vita pari a quella di tutti gli altri suoi coetanei.

    Sylvia compare di nuovo pochi minuti più tardi, percorre la sala da pranzo a grandi passi sbattendo gli stivaletti sul pavimento e guardando dritto verso l’uscita.

    «Dove pensi di andare vestita in quel modo?», le chiede lui, cercando di bloccarle il passaggio con il suo corpo.

    Lei però è più veloce, afferra la maniglia prima che possa farlo lui.

    Questo le strappa un sorriso vincitore che fa alterare William ancora di più.

    «Papà sarà anche finito in galera, ma non tocca a te sostituirlo. Non sapresti essere lui nemmeno se ti sforzassi», sibila Sylvia con un tono di sfida.

    William alza gli occhi al cielo, chiedendosi come possa anche minimamente pensare che lui voglia diventare come loro padre. Semmai, William ha sempre fatto di tutto per essere l’esatto opposto.

    «Non mi frega un cazzo se ti fa schifo stare qui, è chiaro? Se papà ci avesse davvero tenuto ad averti con lui, allora non si sarebbe fatto rinchiudere. E invece guarda un po’? Di te se n’è sbattuto».

    Lei fa scoppiare la gomma che tiene in bocca. «Hai finito?», gli chiede, guardandosi le unghie smaltate di giallo, che contrastano con la sua pelle scura.

    «No, non ho finito», continua William, puntandole un dito contro. «Infilati qualcosa che ti copra le mutande prima di uscire, o sarà l’ultima volta che vedrai un posto diverso dalla tua stanza».

    Sylvia scoppia a ridere, poi apre la porta e fa per uscire. «Forse dovresti dirlo a quella che ti sei portato a letto l’altra sera. Lei di certo non è uscita di casa vestita».

    Quando se ne va, William chiude gli occhi e sospira per l’ennesima volta.

    Proprio nel momento in cui sta per salire sul tetto e farsi una sigaretta, il suo telefono squilla.

    È Tanya: "Ultimo giorno. Prendere o lasciare", recita il messaggio.

    E William coglie al volo l’invito perché pensa che, tutto sommato, dopo una giornata così ha proprio voglia di andare a letto con lei.

    * * *

    Vivian torna nella sua stanza.

    Chiude il mondo d’affari di suo padre fuori dalla porta, si sfila i sandali e si getta sul materasso, allungando in alto le lunghe gambe fino a formare un angolo retto con il suo corpo.

    In quel momento Luz bussa alla porta, in modo calmo e composto come al suo solito. Luz è l’unica persona che le va sempre di vedere, anche durante una giornata storta in cui rifiuta il contatto con tutti gli altri. Sarà quel suo tono di voce pacato e l’amore in ogni cosa che fa, ma quando Luz le parla o la guarda, Vivian non può fare a meno di sentire un’ondata di affetto travolgerla.

    «Signorina Wright, quel vestito le dona molto».

    Vivian le sorride. Sua madre non le ha detto che quel vestito le sta bene. Piuttosto, quel pomeriggio aveva insistito sul fatto che avrebbe potuto metterci più impegno per la sua acconciatura.

    «Te la caverai senza di me, Luz? L’anno prossimo, intendo, quando partirò per Boston».

    Luz accenna ad un piccolo sorriso prima di rispondere. «Signorina Wright, come le ho già detto, lei ha un sogno da inseguire. Se lei sarà felice, io starò bene».

    Vivian chiude gli occhi e sospira forte. Immagina Boston, le luci, una città che non dorme la notte. E poi la scuola di danza, le lezioni alla sbarra con il ballerino più famoso dell’intero Stato e i provini per le migliori compagnie di ballo.

    «Signorina Wright», continua Luz, con una nota di tristezza nella voce, «A proposito di questo, sua madre vorrebbe informarla che domani mattina, prima che Edward la accompagni a scuola, il dottor Roberts passerà a farle visita».

    Le sfugge un sospiro un po’ troppo rumoroso. «Mia madre è troppo impegnata per parlarmene di persona ma trova comunque il tempo di fissare stupidi appuntamenti con quel dottore. Ti sembra corretto, Luz? Perché non posso avere dei genitori normali?».

    Luz chiude l’armadio e si volta per guardarla, avvicinandosi con passo lento ma deciso.

    «Signorina Wright, sua madre vuole che il suo regime alimentare sia sano e corretto per i provini di questa primavera», dice, e Vivian pensa a quale scusa potrà inventare per giustificare quei due chili di troppo che ha preso durante l’estate.

    Quando Luz esce dalla camera, Vivian guarda le sue punte stendersi e le vesciche sulle sue dita cicatrizzarsi. Perché non riesce ad avvertire quell’entusiasmo che tanto immaginava di avere, ora che si ritrova ad un passo dal suo sogno?

    Qualcosa le suggerisce che dovrebbe essere più contenta, eppure non ci riesce.

    Si alza, decisa a togliersi quell’abito stretto per infilare un paio di pantaloni decisamente più comodi. L’incontro di quel pomeriggio è durato un’eternità, non ha fatto altro che guardare l’orologio nella speranza che qualcuno si alzasse e ponesse fine a quello strazio.

    Può ben scommetterci che quell’intervista le abbia portato via l’entusiasmo.

    Non tutto, però. Una piccola parte di lei non sta nella pelle perché sa che incontrerà Fred. Torna da tre lunghissime settimane di vacanze in Grecia e continua a ripetersi che avrà sicuramente un sacco cose da raccontarle.

    Magari, spera, si deciderà a chiederle definitivamente di diventare la sua ragazza.

    Il suo cellulare suona e Vivian fa un balzo fino al comò, guarda il display illuminarsi: non è Fred.

    * * *

    Partecipanti alla videochiamata: Vivian, Joanna

    Ore: 19:02

    Vivian: E così, per un momento, ho pensato che mio padre volesse provare a combinarmi con quel rincretinito di Adam Hoffmann.

    Joanna: Il tuo compagno di banco delle elementari? Quello che aveva una cotta galattica per te?

    Vivian: Esattamente. E ti giuro che non è cambiato proprio un bel niente, tranne per il fatto che deve aver trasformato quei chili di troppo in bicipiti muscolosi. Se ne è stato lì impalato a guardarmi per tutto il tempo. Alla fine dell’intervista, mio padre ha detto una cosa come "Vivian, perché non accompagni Adam a fare il giro della casa?" con un tono che in realtà nascondeva un Vivian, perché non convinci Adam a ficcarti la lingua in bocca così io posso acquistare le azioni dell’azienda di suo padre?.

    Joanna: Tuo padre vuole che combini qualcosa con Adam per aumentare gli zeri sul suo conto corrente?

    Vivian: Si taglierebbe un braccio pur di non vedere i suoi investimenti andare in fumo. In ogni caso, non ho ficcato la lingua nella bocca di nessuno, specialmente in quella di Adam. Nemmeno voglio sapere come poteva essere il suo alito dopo tutti quegli stuzzichini all’aglio che Luz ha preparato.

    Joanna: Se parlassi di Fred a tuo padre, forse lui la smetterebbe di barattarti in cambio di un segno positivo sul suo conto corrente.

    Vivian: Mi ucciderebbe se sapesse che esco con un aspirante insegnante di storia. Io invece lo trovo affascinante. A proposito, stasera Fred ed io ci vediamo al chiosco, poi FORSE mi porterà da lui. Secondo te si è finalmente deciso? Usciamo insieme dall’inizio dell’estate e ancora non è successo nulla.

    Joanna: E sai che c’è? Qualsiasi cosa succederà mi risparmierai OGNI dettaglio alla colazione di domani mattina. QUALSIASI dettaglio, mi hai ascoltata? Non voglio sentirti parlare di corpi che si fondono l’un l’altro mentre bevo il mio cappuccino, perché quello sarà l’unica cosa gradevole di tutta la mattina oltre la lezione di matematica.

    * * *

    Oliver è seduto sul letto, il libro di algebra sulle ginocchia e una partita a Clash of Clans in corso sul cellulare. Decisamente più interessante di numeri e formule incomprensibili che nella vita non gli serviranno a nulla, pensa mente prepara le sue truppe a combattere contro il nemico.

    «Ti conviene spegnere quella robaccia, c’è un test domani mattina e tu non sai un bel niente di niente».

    La voce di Joanna lo fa sobbalzare.

    Le sorride, infila il telefono nella tasca dei suoi pantaloncini e aspetta che lei entri con la sua goffa agilità.

    La finestra delle loro camere è diventata l’ingresso principale delle loro serate, ma tranquilli, niente corpi seminudi tra le lenzuola: le notti che trascorrono insieme sono quelle con il portatile sulle ginocchia, a guardare un film con le cuffie nelle orecchie e a tenersi svegli a vicenda perché sono troppo stanchi ma allo stesso tempo non vogliono separarsi.

    Alcune notti sono davvero troppo difficili per essere affrontate da soli.

    «Allora, senti qui: se riuscirai a far entrare queste formule qui dentro», comincia Oliver, creando una linea immaginaria tra il libro di matematica e il suo cervello, «avrai accesso libero a tutte le puntate di The Walking Dead, quando e come vorrai. Si dà il caso che sia riuscito a rinnovare il mio abbonamento a Netflix per un altro anno. Solo ed esclusivamente per noi due».

    Joanna scoppia a ridere. «Attento a quello che prometti. Lo sai che finisco per vincere tutte le scommesse e a prendermi quello che voglio», gli ricorda, strofinandosi gli occhi stanchi e poi puntandoli nei suoi.

    Oliver si domanda, mentre scorrono sulle pagine del libro, se quegli occhi si siano accorti di quanto certe parole vorrebbero uscire dalla sua bocca in quel preciso istante. Di quanto vorrebbe raccontarle del cancro e della paura che ha di vedersi strappata la vita di nuovo, magari questa volta per davvero.

    «Vedi l’esercizio numero sette? L’equazione ha due soluzioni» dice lei.

    «Certo, due soluzioni. Chiarissimo», risponde lui, chiedendosi se anche la sua malattia presenti più soluzioni.

    Magari una di quelle non farà male a nessuno, pensa.

    «Ed ecco l’ultimo esercizio. Questa equazione non presenta alcuna soluzione, vedi?», conclude Joanna, scarabocchiando un punto esclamativo con la penna e restando a guardarlo per un lunghissimo secondo.

    Al cancro, forse, non c’è davvero soluzione.

    «E ora la prego, Signor Hill, la mia ricompensa», annuncia Joanna, sdraiandosi sul letto e accavallando le gambe. La gonna che porta sale leggermente sulle cosce e Oliver indugia con gli occhi solo per un secondo. «Allora? Ho assolutamente bisogno di sapere cosa succede a Rick e Daryl».

    Oliver batte le mani e le fa un occhiolino.

    «E va bene, va bene. Accesso illimitato guadagnato. D’altronde, ci sono buone probabilità che la mia carriera scolastica non cominci con un voto negativo grazie a te».

    * * *

    DIARIO DELLA MALATTIA DI: Oliver Hill

    COME TI SENTI? Sempre vivo, sono passate solo 48 ore

    PESO: 81,3 kg

    NOTE:

    Un effetto collaterale della mia malattia è che ucciderà prima le persone che mi stanno intorno, lasciandomi per ultimo a guardare il danno di cui mi sentirò totalmente responsabile.

    Quando poco fa Joanna mi ha sorriso ho pensato a quanto crudele sia la vita nei confronti di persone come lei.

    Posso essere uno stupido, a volte, un emerito imbecille che fa più cose sbagliate che giuste nella sua vita, ma il karma non può essere così spietato da costringermi a dire ho un cancro ad una delle persone che nella vita si merita il meglio.

    Joanna mi ha abbracciato a lungo prima di ritornare nella sua stanza. Mi abbraccia spesso, soprattutto da quando Sam se n’è andato, e mi piace sapere che possa ancora trovare un po’ di lui negli abbracci che le restituisco.

    Mi ha stretto forte come per chiedere aiuto e io l’ho aiutata con tutte le forze che avevo, lo giuro, stringendola ancora di più. Profumava di shampoo e mi è piaciuto, ha dato un tocco di pulito alla mia stanza che invece è un porcile, e ha regalato un briciolo di purità alla mia anima che è sempre tormentata e piena di ma e di perché.

    L’ho guadata staccarsi lentamente e piantare i suoi occhi verdi nei miei prima di saltellare sul tetto per tornarsene a casa.

    Le tegole hanno scricchiolato al suo passaggio, così come la mia voce ha scricchiolato quando ho dovuto rispondere a quello che mi

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