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Il pensiero neosardista: Enciclopedia del Sardismo
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E-book447 pagine6 ore

Il pensiero neosardista: Enciclopedia del Sardismo

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Il pensiero neosardista è la più vasta ricostruzione del movimento neosardista, operativo tra gli anni Sessanta e Settanta, che ha elaborato un originalissimo pensiero filosofico-politico, scomodo, innovativo e inserito nel più avanzato movimento internazionale caratterizzato dal fenomeno del revival etnico e della decolonizzazione, dalla crisi del modello statalnazionale e dall’emersione di nuove forme di rappresentatività riferite alla galassia delle varie entità nazionalitarie sub-statali.
Si deve a personaggi del calibro di Antonello Satta, Elisa Nivola e soprattutto Giovanni Lilliu la riformulazione della vecchia questione sarda elaborata da Giovanni Battista Tuveri, e rilanciata secondo gli schemi innovativi della Questione Nazionale Sarda aperta alle emergenti problematiche dell’etnicità e dell’etnofederalismo come antidoto alle culture stataliste e al dipendentismo autonomista.
Soprattutto le elaborazioni degli anni Settanta, con particolare riferimento al movimento di “Nazione Sarda” e de “Il Popolo Sardo”, hanno rilanciato anche in Sardegna la questione etnolinguistica come problema politico centrale per la fondazione della Nazione Sarda nel quadro di un’Europa dei popoli e delle etnie, e all’interno di una nuova dimensione del federalismo. Sarà il PSdAz, con il “vento sardista”, a capitalizzare il lascito neosardista per inaugurare una nuova stagione di governo e di innovazione inserita in un contesto politico-culturale su scala europea e internazionale.
Il volume è arricchito da alcuni fondamentali scritti di Gianfranco Contu, uno dei massimi storiografi del sardismo e protagonista della stagione neosardista; di Elisa Nivola, che ha prodotto contributi di grande importanza per rilanciare la questione della identità; e di Giovanni Lilliu, che ha contaminato la cultura sardista con i temi fondamentali della mitopoiesi.
LinguaItaliano
EditoreCondaghes
Data di uscita4 mag 2024
ISBN9788873567523
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    Anteprima del libro

    Il pensiero neosardista - Alberto Contu

    sovraccoperta-su-sardismu-vol2

    Alberto Contu

    Il pensiero neosardista

    Enciclopedia del Sardismo

    Volume II

    1

    Condaghes

    Indice

    Volume II – Il pensiero neosardista

    Introduzione

    Giovanni Lilliu: Archeologia militante e Questione nazionale sarda

    Antonello Satta: Etica del sottosuolo e identità

    Elisa Nivola: Pedagogia nonviolenta e identità

    Appendice

    Nota ai testi

    L'Autore

    Colophon

    VOLUME II

    Il pensiero neosardista

    Introduzione

    «In politica le parole sopravvivono spesso alle istituzioni che esse originariamente designavano. È infatti una tendenza natu­rale degli uomini quella di cercare di non prendere atto dei mutamenti che intervengono nel mondo che li circonda. E si tratta di una tendenza comune a coloro che difendono come a coloro che combattono le istituzioni morenti. Prendere atto del mutamento significherebbe per gli uni e per gli altri essere costretti a modificare le proprie convinzioni e i propri atteggiamenti politici; abbandonare la comoda posizione di chi si trova su di una strada già tracciata per assumere quella ben più difficile e irta di responsabilità di chi si trova a dover analizzare una situazione nuova, costruire dei nuovi schemi rappresentativi, confrontare a questi i propri valori e assumere un nuovo comportamento. Naturalmente i mutamenti, soprattutto se sono di portata molto vasta, si riflettono necessariamente nella coscienza degli uomini. Ma questa presa di coscienza può rimanere superficiale e quindi non influenzare il loro comportamento. Essa può allora dar luogo alla conservazione del termine che designava l’istituzione o la situazione molto mutata o addirittura scomparsa, e alla sua applicazione al nuovo contesto coll’aggiunta del prefisso neo o della parola nuovo. Si tratta di un artificio linguistico mediante il quale si mira a convincere e a convincersi che un mutamento si è bensì prodotto, e che se è preso atto, ma che il fenomeno è rimasto essenzialmente lo stesso; che, soprattutto, i mutamenti intervenuti nel fenomeno non comportano mutamenti nell’atteggiamento da tenere di fronte ad esso».

    Questo lungo passo di Mario Albertini, per anni a capo del Movimento Federalista Europeo, riassume bene la dinamica vischiosa che caratterizza ogni cambiamento paradigmatico: il mutamento è sempre contenuto nei ranghi di un linguaggio che, nel diritto come nel pensiero politico, non è ancora pronto a innovarsi e conserva termini antichi per nuovi usi. Il casus belli di Albertini aveva di mira La decadenza del federalismo negli Stati Uniti d’America (1962), ma si tratta di osservazioni estensibili anche alla spiegazione del fenomeno «neosardista».

    Il brand sardista ha sempre costituito il patrimonio più vitale, prezioso e irrinunciabile per la storia politica contemporanea in Sardegna. I conti con il sardismo, all’interno come all’esterno, sono ineludibili, e la cultura politica sardista ha fornito chiavi di lettura dei bisogni isolani assai più perspicui e innovativi rispetto a qualsiasi altro orientamento politico-ideologico di massa. E l’alleanza con i sardisti, o la lotta per sottrar loro le parole fondamentali (e con esse gli orizzonti di senso), hanno costituito i poli dialettici attorno ai quali si è snodato un secolo di storia politica della Sardegna.

    Vista in questi termini, la proposta «neosardista», con l’uso di una formula sufficientemente ampia, ha potuto interpretare due messaggi convergenti: da un lato, riconoscere che a partire dal 1970 tutti i temi sviluppati dalla galassia movimentista rappresentano la continuazione storicizzata dei temi classici del sardismo, a loro volta sussunti sotto l’ombrello di copertura della questione sarda; dall’altro, specularmente, «neosardismo» ha significato prendere atto che l’opera di svecchiamento dei vecchi paradigmi sardisti comportava una cesura assai rilevante, e che tale fenomeno si poneva in zona borderline sino quasi ad apparire come una legge di morte del sardismo storico, o comunque come un’operazione di radicale ridiscussione degli strumenti politici e culturali sino a quel momento caratterizzanti l’agire politico sardista.

    Fermo restando l’orizzonte comune disegnato a partire da Giovanni Battista Tuveri, e condensato in un’altra formula sufficientemente ampia come «questione sarda», la parabola decennale neosardista ha spostato il focus sul nuovo paradigma della «questione nazionale sarda», formula coniata da Giovanni Lilliu nel 1977 sulle colonne del periodico neosardista, da lui diretto, Il Popolo Sardo. Anche qui la formulazione non è del tutto nuova e inedita, dato che si è trattato di una estrapolazione sintetica di ciò che il sardista Antonio Simon Mossa aveva introdotto nel lessico politico negli anni Sessante. In tal modo, la variabile etnicista trovava stabilmente posto nel bagaglio politico-culturale sardista, che finalmente poteva inserirsi nel movimento internazionale del revival etnico, e nelle dinamiche delle lotte per la decolonizzazione, a loro volta agìte secondo le nuove terminologie dell’autodeterminazione, dell’indipendenza, e del nuovo vento nazionalitario.

    Nulla di nuovo sotto il sole. Ancora una volta, l’istanza universale e permanente del sardismo subiva una nuova ricollocazione, come si conviene ai movimenti politici di lungo periodo i quali sono costretti a utilizzare i paradigmi della situazionalità per adeguare i princìpi fondamentali alle esigenze contingenti della lotta politica.

    La formula del neosardismo, peraltro, non è stata accettata neppure da molti protagonisti del decennio 1970-1980. Ma qui non si tratta di compiere operazioni di alta filologia. La formula ha circolato, e la definizione stipulativa si è prestata, meglio di altre, a circoscrivere un fenomeno movimentistico frastagliato e non sempre omogeneo sotto il profilo ideologico. Non a caso, dietro quella formula sono stati sussunte esperienze militanti assai diverse tra loro, ma tutte ruotanti attorno a riviste d’assalto, innovative nei contenuti, nel linguaggio e nei metodi, in quanto portatrici di istanze che la politica regionale faticava persino a riconoscere e a gestire.

    La galassia neosardista non riconosce radici comuni, e non a caso si registrano appartenenze politiche e ideologiche assai variegate e, in un certo senso, spesso tra loro incompatibili se misurate sul criterio dell’appartenenza partitica.

    Antonio Simon Mossa, appena pochi anni prima, aveva inaugurato nuovi linguaggi unificati dalla introduzione della categoria-«etnicità» dentro una cultura politica ancorata al dogma del nazionalismo giacobino che non riconosceva alla Sardegna alcuna legittima aspirazione a costruirsi e rappresentarsi come Nazione senza Stato.

    Nonostante la lettura retrospettiva dimostri ampiamente che la lezione simon-mossiana abbia contaminato, anche indirettamente, il movimento neosardista, non tutti i protagonisti di quel decennio sono stati (o sarebbero) disposti ad accettare quel collante comune, anche perché la lezione di Simon Mossa scontava, per così dire, la sua appartenenza organica al PSdAz, che all’epoca era considerato portatore di una politica regionale asfittica e in ritardo rispetto ai mutamenti di paradigma emergenti a livello internazionale.

    È evidente che il contenitore-«neosardismo» ospita posizioni molto distanti tra loro: si va dal terzomondismo con venature separatistiche all’etnofederalismo nazionalitario; dal maosimo al marxismo c.d. critico; dal meridionalismo all’indipendentismo radicale; dalla questione nazionale sarda di matrice democristiana all’europeismo ante litteram, senza contare che attorno a questi fermenti sono documentabili torbide e precise collusioni con ambienti terroristici non solo isolani.

    Se si limitasse l’analisi a questo livello fenomenologico, la galassia neosardista sembrerebbe atteggiarsi come un’accozzaglia disordinata di proposte tra loro incompatibili artificiosamente unificate da una formula onnicomprensiva.

    Eppure, se volgiamo lo sguardo ai contenuti estrapolabili al di là delle forme della loro espressione contingente, si possono enucleare diverse costanti tutte riconducibili al solco del sardismo:

    l’accordo sul diritto della Sardegna ad autodeterminarsi per scrollarsi di dosso lo status storico di «colonia»;

    una visione nazionalitaria basata anzitutto sugli studi illuminanti di Sergio Salvi, allora considerati la vera apertura di una finestra sul mondo delle minoranze oppresse;

    la centralità attribuita alla lingua sarda come lingua etnico-nazionalitaria, rafforzata anche dal suo uso diretto nella comunicazione mediatica e nella scrittura;

    l’unanime convergenza sulla necessità di superare la specialità regionale ritenuta veicolo di dipendenza, nell’ottica di una originale visione del federalismo;

    la tendenza a ricucire la frattura storica tra zone costiere e zone interne, o come si preferiva allora, tra Città e Campagna;

    la convinzione generale che il Piano di Rinascita avesse ormai fallito la propria taumaturgica missione civilizzatrice, e che al contrario occorresse elaborare un modello di sviluppo economico e sociale auto-propulsivo;

    l’operazione di recupero della storia isolana cancellata dall’Università e dalle scuole di ogni ordine e grado, e con il tentativo di offrire visibilità a figure e temi obliati, a iniziare da una nuova interpretazione del ruolo della civiltà nuragica rispetto alla sua programmatica sottovalutazione da parte dell’accademia, con cui si è aperto un vulnus macroscopico dopo la scoperta di Barumini;

    l’intuizione che la questione sarda comunque denominata appartenesse di diritto a dimensioni più ampie di portata europea e internazionale, che lo Stato plurinazionale aveva ampiamente tradito;

    il nuovo protagonismo di altri soggetti attivi della storia in ambito regionale (e poco importa se i relativi riferimenti non fossero tutti allineati: classi, ceti, frange, strati) per smuovere dal basso, e con partecipazione non mediata dai partiti, lo stagno immobile della politica regionale;

    l’attenzione ai complessi problemi dell’identità etnostorica per la costruzione della Nazione Sarda fuori dalla palude del folkorismo progressivo gramsciano e dei suoi provinciali epigoni;

    la ridiscussione critica circa le cause del banditismo e del malessere sociale, giocata al di fuori dei paradigmi antropologico-criminali, delle stereotipie di lunga durata codificate dalla letteratura di viaggio (e in più luoghi della produzione della stessa Grazia Deledda), e dalle letture ideologicamente orientate intorno al codice della vendetta barbaricina.

    Non trattandosi di un movimento riferibile a specifiche compagini partitiche, il neosardismo è rappresentabile come un fenomeno nato dal basso per rispondere a nuove esigenze emergenti e non più rinviabili, tutte non casualmente alimentate dalla diffusa coscienza che il mito regressivo della Rinascita era fallito senza possibilità di riscatto.

    I modelli ottriati finivano per accomunarsi a tutta una lunga filiera storica costellata da pretensioni coloniali: le nuove forme di partecipazione militante slegate dai partiti storici furono una risposta (a tratti ingenua, spesso velleitaria, ma sempre felicemente innovativa) alla stagnazione della politica regionale.

    In Sardegna, come altrove, maturava la coscienza che il vecchio assetto post-quarantottesco era scosso da fermenti non più esorcizzabili: il ’68 giungeva alle porte, sia pure in ritardo e in forme non sempre adeguate ai contesti; i partiti storici stentavano a rappresentare sempre più sardi avviliti e traditi; le parole della politica avevano smesso di esercitare una funzione mobilitante e si riducevano alla recita di stantii slogan privi di alcuna vibrazione emozionale; il conflitto Tradizione/Modernità (strumentalmente acuìto dalla devastante stagione della Rinascita) assumeva contorni surreali giocati sullo svilimento delle radici e sulla supposta superiorità del mito della fallimentare modernizzazione; la distanza tra i Palazzi, la TV di Stato e la società sarda diventava abissale e incolmabile, e si potrebbe continuare con l’elenco delle crepe serpeggianti nell’immaginario collettivo.

    Non è perciò casuale che con l’arcipelago neosardista abbia trovato terreno fertile la riproposizione critica della tuveriana questione sarda. Ormai i tempi erano maturi per introdurre nel dibattito i temi nazionalitari, impliciti nell’elaborazione sardista e resi poi espliciti da Antonio Simon Mossa. Così, la nuova questione nazionale sarda diventò la sigla unificante di un dibattito polifonico culminante nella famosa battaglia per la ufficializzazione della lingua sarda tramite una proposta di legge di iniziativa popolare. Il fallimento dell’operazione coincise, grosso modo, con la fine del neosardismo: l’impatto con la politica dei Palazzi (sardi e romani) costituì la certificazione che la spinta movimentistica era esaurita: molti protagonisti preferiranno schierarsi; nessuno godette però dell’auspicata fortuna elettorale.

    Da quella complessa eredità scaturirà il fenomeno di sintesi del «vento sardista», culminato con la storica Presidenza sardista targata Mario Melis.

    Un onesto sguardo retrospettivo svela il fondamentale contributo del movimento neosardista al successo del PSdAz sul piano politico, e del sardismo sul piano culturale. Sdoganando i nuovi temi emergenti, sintetizzabili nel riconoscimento delle origini etniche della Nazione Sarda, il neosardismo ha riportato (e ampliato su larga scala) le intuizioni simon-mossiane, sino ad allora prive di progettualità politica: l’etnicità, fortemente avversata dai partiti storici di massa con argomentazioni risibili (ivi compresa l’accusa strumentale di razzismo), si congiunge con la riproposizione di temi costituenti (il federalismo delle etnie si traduceva nella più nuova formula dell’Europa dei popoli; la critica della specialità economicistica apriva le porte ai temi delle minoranze etnico-linguistiche e delle minoranze oppresse; i temi identitari, accusati di localismo, diventavano i segni visibili di una appartenenza a un dibattito di dimensioni internazionali; l’indipendentismo prendeva la forma del «federalismo indipendentista» liberandosi così della scomoda accusa di separatismo; il revisionismo storico ritrovava le radici sia nella costante resistenziale, sia nella critica al folklorismo di matrice deleddiana; le grandi figure del sardismo trovavano una nuova visibilità tramite complesse operazioni editoriali; vecchi/nuovi temi del dibattito politico-economico, quali ad esempio la zona franca, occupavano nuovamente la scena; riemergeva infine la questione delle scuole di ogni ordine e grado, e in particolare la necessità di far studiare anche la storia e la cultura sarda, lingua compresa, come parti integranti e ineludibili dei programmi ministeriali.

    La scelta di estendere l’analisi dei tre maggiori protagonisti del movimento neosardista oltre il 1980 si deve a una precisa consapevolezza che è stata ben documentata: il patrimonio di idee e di dibattiti che hanno animato la galassia neosardista ha trovato, nel ventennio 1980-2000, significative conferme, sviluppi e precisazioni. Il neosardismo post-1980 ha soltanto perduto la vocazione scopertamente militante e ha potuto dedicarsi, con esiti diversi ma convergenti, a prospettare nuovi paradigmi interpretativi che hanno seguito in parallelo gli sviluppi del pensiero politico sardista. L’abbandono di alcuni aspetti di ambiguità (e in particolare la mai risolta dialettica tra movimento di opinione e movimento orientato a uno sbocco politico) ha consentito all’eredità neosardista di contaminare il panorama politico-culturale isolano e di estendere la propria influenza sul sardismo, che in quel ventennio, pur con tutti i fisiologici contrasti, ha innovato l’orizzonte del proprio pensiero e si è aperto in particolare alle tematiche del sentimento nazionalitario e dell’orizzonte mitopoietico, mentre diventava ormai patrimonio consolidato l’idea della costante e della storia ininterrotta di lunga durata. E tuttavia, il neosardismo di fatto ha solo codificato con maggior precisione i temi sardisti già elaborati, a partire dagli anni Venti, da Egidio Pilia e Camillo Bellieni, in seguito ripresi e precisati dal pensiero etnofederalista di Antonio Simon Mossa, poi rifluiti nella svolta indipendentista del PSdAz tra il 1979 e il 1981, e infine culminati nella potente narrazione mitopoietica di Giovanni Lilliu.

    Come tutte le rivoluzioni paradigmatiche, anche il neosardismo ha dovuto attendere tempi migliori per misurare la propria capacità di anti-vedere e di anticipare i grandi temi della politica contemporanea.

    I fatti hanno dimostrato l’assoluta felice inattualità di una riflessione corale che, nel pieno degli anni Settanta, fu capace di reinventare i codici identitari.

    Oltre alla nuova centralità della questione etnolinguistica, ancora oggi in via di definizione, l’eredità neosardista ha coniato un nuovo vocabolario che il sardismo, da tempo, ha in gran parte fatto proprio.

    Il concetto di nazione sarda (abbinato alla nuova sensibilità per il sentimento della nazionalità) ha permesso di superare le trappole ideologiche connesse alla matrice illuministica di «popolo», per accedere alle più pregnanti considerazioni sulle radici etniche e culturali della Nazione Sarda, obliate e vilipese dalla storiografia progressista.

    L’idea etnofederalista ha permesso di superare il dogma secondo cui o l’intera Italia diventa federale, o la Sardegna deve rassegnarsi al destino legato ad una ormai antistorica specialità.

    L’autodeterminazione, da strumento valido per tutti i popoli colonizzati e per le altre minoranze oppresse, è diventata la chiave per rifondare, su basi più moderne e rispettose dei nuovi contesti comunitari, la stessa idea di indipendenza non più identificabile tout-court con il separatismo.

    La scoperta dei sottosuoli ha impegnato la riflessione antropologica nella ricerca di più pregnanti codici che costituiscono il sostrato invisibile della specialità etnostorica isolana, a partire dalla messa in discussione delle rigide e in fondo inadeguate categorie utilizzate per la definizione dei processi identitari (troppo spesso declinati secondo le formule folkloriche, pittoresche, barbariche e localistiche, tutte accomunate dal porsi come declinazioni dell’arretratezza e della supposta atavica vocazione dei sardi alla subalternità).

    Il movimentismo neosardista ha riportato al centro del dibattito l’idea che le grandi riforme si fanno prima dal basso attraverso una capillare opera di persuasione culturale, poi tramite una organizzazione costituente, e infine nelle Aule istituzionali preposte anche tramite gli strumenti della democrazia ditetta.

    La costante resistenziale ha aperto un varco decisivo e definitivo per fondare una storia complessiva e unificante della civiltà dei Sardi, ha disancorato l’immaginario della Sardegna come oggetto passivo di una altrimenti ininterrotta storia coloniale, e ha riportato alla dimensione nobilitante i codici etnosimbolici necessari per costruire una credibile mitopoiesi.

    Lo studio analitico (per temi e per figure) della storia del sardismo estensivamente intesa ha restituito al PSdAz la vera dimensione nazionale come missione storica implicita, dato che la storiografia sul sardismo è stata per la maggior parte scritta tramite evidenti manipolazioni, menomazioni, e omissioni compiute da noti storici di marca progressista.

    Tuttavia, l’eredità non determina mai, di per sé, alcuna garanzia di successo.

    Il PSdAz di oggi e di domani dovrà agganciare all’innovazione contenutistica un progetto che sappia contemporaneamente divenire cantierabile ed eu-topico.

    È in gioco ciò che nessun partito e nessuna altra ideologia politica ha mai saputo non dico provare a realizzare, ma neppure a pensare: qui si deve misurare la qualità della proposta sardista, che dovrà essere capace di collegare a una dimensione visionaria e nobilitante un progetto politico mobilitante l’intera Nazione Sarda; di unificare in forma inclusiva le diverse anime nazionalitarie senza snaturarsi tramite la tentazione di scegliere uno schieramento italiano privilegiato nella forma di una appartenenza ‘genetica’; e infine, di sapere costruire un’alternativa credibile e virtuosa alla partitocrazia italiana senza cedere alle tentazioni ricorrenti di accontentarsi dei successi elettorali.

    La grande esperienza neosardista dimostra che senza un solido retroterra culturale qualsiasi progettualità politica inaridisce.

    È il tempo del nuovo mito politico e di una nuova epopea unificante.

    E il sardismo è l’unica realtà in grado di fare sintesi e di dimostrare che la storia unitaria rivendicata da Lilliu non è un vezzo folkloristico di una visione grettamente nuragista e pittoresca, ma uno strumento raffinato e mobilitante che deve diventare finalmente patrimonio collettivo riattualizzato alla luce delle nuove sfide, altrimenti, acquattate dietro l’angolo, saremo nuovamente afflitti dal vittimismo dipendentista o dell’ou-topismo velleitario e inconcludente che la Nazione Sarda non potrà meritare.

    * * *

    In Appendice sono stati riprodotti tre importanti scritti di mio padre Gianfranco, tutti inerenti l’esperienza di Nazione Sarda: il primo è dedicato alla omonima rivista diretta da Antonello Satta; il secondo a tutti gli scritti di Elisa Nivola pubblicati sul periodico neosardista; il terzo, alla rivista Nazione Sarda. Si tratta di una scelta quasi obbligata, che arricchisce il volume con osservazioni puntuali e documentate su alcuni importantissimi momenti della storia del neosardismo altrimenti destinati a un programmato oblìo da parte della storiografia accademica. Ancora una volta, si tratta di un omaggio a mio padre, che ebbe l’intuizione di farmi partecipe, sin dal 1977, alle vicende esaltanti di una stagione creativa irripetibile e ancora oggi attualissima. Devo a quel gesto se oggi vede la luce una iniziativa editoriale di così importante respiro.

    Giovanni Lilliu

    Archeologia militante e questione nazionale sarda

    1. Giovanni Lilliu tra vulgatae e processi di canonizzazione

    0.Introibo

    Il presente saggio intende portare un contributo critico al rapporto tra pensiero archeologico e pensiero nazionalitario¹. Se si scorrono i pochi saggi dedicati a Lilliu, si avverte la strana sensazione di un apparato di ricostruzioni ad usum delphini, sapientemente decontestualizzato, depurato dei luoghi editoriali più scomodi. Eppure, sin dai tempi della polemica di Renzo Laconi con Giovanni Lilliu, appariva chiaro che si trattasse di un tema centrale e scottante: dalla visione della storia isolana si poteva ritrovare un chiaro e scomodo pensiero politico attualizzante. Mai si è trattato di un dibattito di natura archeologica, ma dell’uso politico-militante dell’archeologia all’interno di un disegno di riscoperta delle origini etniche della nazione sarda. Perciò, le spesso risibili critiche contro la costante resistenziale, letta con superficialità sospetta e spesso con toni sprezzanti, hanno reso trasparenti le vere ragioni di fondo della polemica. La cultura progressista, che ha tentato di intestarsi il Giovanni Lilliu degli anni Novanta, ha sistematicamente evitato di confrontarsi sui reali temi in gioco. E ha tentato di vendere una immagine dell’archeologo sardo privata dei suoi più importanti contributi. Il ruolo di Lilliu nell’ambito del movimento neosardista è stato oscurato sia per via della pericolosa intuizione della storia di lungo periodo (che andava a disconfermare il mito modernista post-illuminista), sia perché Lilliu ha dedicato straordinari sforzi per denunciare l’assoluta inconsistenza della cultura anti-sardista dei progressisti sardi. Senza l’inquadramento di Lilliu nel movimento internazionale del revival etnico non si comprende il fatto che nel processo di riconoscimento delle radici etniche delle nazioni, l’archeologia ha un ruolo centrale e deriva la propria forza etnosimbolica proprio dal fatto che si tratta di una scienza sociale che studia i segni visibili monumentali in funzione di radici viventi e, meglio di altri approcci, è naturaliter orientata a pensare alla storia di lunga durata. La teoria delle costanti (variamente aggettivabili) emerge di fatto dallo sguardo archeologico. E il fatto che sia stata accusata di costituire un mito dimostra lo storico ritardo della cultura marxista e progressista rispetto al riconoscimento del sostrato etnico delle nazioni e alla sua natura decisamente premoderna ma ben presente nella cultura immateriale. In definitiva, lo scontro è sempre sorto tra contrapposti miti: da una parte il mito della costante resistenziale, dall’altro il mito (e la religione civica) della nazione moderna sorta dal mito rivoluzionario (francese e poi russo). Il problema è che il mito nei processi di riconoscimento delle origini etniche delle nazioni non ha e non può avere connotazioni negative, mentre nell’ambito della cultura marxista e progressista «mito» è pensiero premoderno, regressivo, da superare con l’ausilio della scienza storiografica. Si tratta, in realtà, solo di due miti, i quali si contendevano legittimamente la centralità della scena per fondare un progetto per la Questione Nazionale Sarda. Alla lunga, Lilliu ha mostrato la superiore valenza etnosimbolica della costante. Di questa storia ho tentato di trattare nelle seguenti note critiche.

    1.1. L’oscuramento dell’attività politico-militante

    «Sardus Pater»², «Papa nuragico»³, «Patriarca»⁴, «Babbai mannu de tottu sos Sardos»⁵, «Mastru Mannu de s’identidade»⁶. Con queste e altre pittoresche e forzate definizioni Giovanni Lilliu è stato consegnato all’oleografia attraverso la discutibile immagine caricaturale⁷ di un «capo­tribù nuragico»⁸ ormai consegnato alla dimensione rassicurante del mito. Non sono mancati contributi di riflessione meno legati all’effimero, né può negarsi che l’Accademico dei Lincei sia stato oggetto di qualche non cronachistica attenzione⁹. E tuttavia permane la sensazione che Lilliu, alla fineaccontenti tutti. O meglio, è netta l’impressione che una certa vulgata di maniera abbia finito per costruire del grande archeologo sardo una immagine levigata, accettabile, politically correct. Stupisce la generale condivisione che talvolta si ostenta nei confronti di una figura che ha attraversato da protagonista sessant’anni di storia contemporanea. Le idee di Lilliu sono state sovente depurate del sostrato politico-militante, ridotte a formulette di maniera, a slogan ripetitivi e talvolta maliziosi.

    Come maliziose sono le definizioni caricaturali che vorrebbero relegare Lilliu ad oggetto etnografico. Buono per tutte le stagioni, innocuo portatore di riflessioni sapientemente decontestualizzate, folklorizzato e fissato in formule che al contrario dovrebbero essere storicizzate, Giovanni Lilliu è da un pezzo considerato oggetto museale. E non certo perché il suo pensiero non abbia più nulla da dire, ma perché la carica ad arruolarlo nelle proprie fila è iniziata da molto tempo. Anche da parte di molti che pubblicamente ne hanno irriso il pensiero o che lo hanno duramente contrastato quando l’illustre archeologo non si limitava a tradurre in pensiero militante gli studi archeologici, ma tentava di incidere direttamente nella politica praticata, nelle istituzioni, nei luoghi dove ogni punto di vista si carica di decisione e di progettualità cantierabile, e dove la vera lotta non si combatte sul campo rassicurante degli intellettuali e degli accademici, ma nelle sedi istituzionali e con le logiche dello schieramento politico e partitico.

    Il «militante della cultura»¹⁰ – così si è anche definito lo stesso Lilliu –, meglio ancora se accompagnato da aggettivazioni caricaturali, ha offuscato il militante della politica, e sia pure «politicus dimidiatus»¹¹, «politico a metà», come si è anche a suo tempo autodefinito Lilliu, quasi a voler rimarcare la propria non organicità alle logiche dei «politici strutturali»¹². «Studioso di chiara fama, e soprattutto democristiano onesto»¹³ è in effetti la definizione che meglio di altre definisce i contorni dell’immagine pubblica di Lilliu, il quale non si è certo lasciato sfuggire l’occasione di ribadire, in tempi non sospetti, la propria etica politica: «I cristiani si sono lasciati invischiare dalla politica come mestiere, dall’appagamento di interessi personali e di gruppo come escatologia, dalla contesa e dalla divisione come agire politico. Il non aver voluto o saputo far avanzare, in termini di teorie e di pratica, una propria cultura ha subordinato la politica della D.C. alla cultura liberale e alla cultura marxista»¹⁴.

    È interessante rilevare come i pochi contributi che hanno approfondito il pensiero di Lilliu abbiano elegantemente glissato sullo strettissimo nesso tra cultura e politica militante, con particolare riferimento alla sua appartenenza alla DC, con tutto il corollario delle implicazioni ideologiche, filosofico-politiche e, lato sensu, culturali¹⁵. Una spia di tale atteggiamento si ritrova, ad esempio, nella generalizzata rimozione delle citazioni bibliografiche intorno alle opere più strettamente legate alla politica partitica di Lilliu. E quando non si può fare a meno di citarle, queste voci sono sempre elegantemente mischiate con il riferimento alle opere più legate alla carriera accademica, e difficilmente si coglie (o si vuole sottolineare) il nesso che invece connette produzione scientifica e produzione politica¹⁶. Finché si è trattato di reiterare riflessioni più o meno benevole intorno alla «costante resistenziale sarda», diversi studiosi hanno ritenuto opportuno non cogliere la pregnanza delle categorie culturali di Lilliu a contatto con le posizioni più politiche. Che Lilliu oggi sia schierato su posizioni ‘progressiste’ – abusata e stantìa parola che connota uno spazio politico assai generico in cui è possibile giustapporre anche posizioni tra loro incompatibili – non è certo un mistero. Molto più scomodo è stato invece portare alla luce la traduzione politica delle altrimenti fortunate ma innocue categorie che Lilliu, con rara capacità di sintesi, ha proposto nel corso dei decenni. Così è calato un velo sugli anni in cui le astrazioni resistenziali del Lilliu «archeologo militante»¹⁷ hanno trovato puntuale traduzione nell’agone politico-partitico. A parte gli addetti ai lavori, oggi non si trovano facilmente precisi e non parentetici riferimenti all’appartenenza di Lilliu alla corrente democristiana Forze Nuove di Donat Cattin e Ariuccio Carta. Allo stesso modo, la collaborazione di Lilliu al periodico Il Popolo Sardo è stata lasciata in ombra, sapientemente occultata per privilegiare soltanto i contributi adattabili ad una immagine costruita a tavolino e spendibile in chiave pan-autonomista, e, parallelamente, per espungere dalla memoria storica le posizioni critiche di Lilliu intorno alla questione comunista e al compromesso storico.

    1.2. Tra fedeltà democristiana e ideologia neosardista

    Il periodico di area democristiana, oltre a costituire un passaggio ineludibile per chi intenda formarsi una visione complessiva del percorso politico e culturale di Lilliu, è anche una miniera di posizioni politiche sapientemente cancellate. L’oblio si traduce in frettolose annotazioni, in parentetiche citazioni obbligate ma stringate, in una significativa assenza di considerazioni critiche. Oltre che, naturalmente, in una generalizzata censura bibliografica: gli scritti di Lilliu apparsi sul periodico Il Popolo Sardo tra il 1973 e il 1977 semplicemente non esistono nelle bibliografie relative all’opera dell’archeologo sardo. E che si tratti di operazione intenzionale, non dovuta cioè a difficoltà di reperimento della testata, è suggerito da due circostanze: i coevi articoli pubblicati da Lilliu su Nazione Sarda sono infatti citati con tranquillità¹⁸; inoltre, nel 1989 è stata pubblicata una corposa antologia degli articoli apparsi nella testata di area democristiana¹⁹, e arricchita da una lunga Introduzione dello stesso Lilliu mai citata da nessuna parte. Nella voluminosa antologia sono ripubblicati, e quindi resi nuovamente fruibili, molti degli articoli di Lilliu a suo tempo apparsi sul periodico Il Popolo Sardo tra il 1973 e il 1977, la cui lettura apre importanti motivi di ispirazione. Ma il caso Il Popolo Sardo, oltre a rientrare in una «costante ideologica sarda», che ha operato scientificamente per relegare nel limbo della damnatio memoriae i fatti scomodi, attraverso le prassi discriminatorie di una certa parte dell’intellettualità isolana, sarebbe facilmente giustificabile in quanto – si potrebbe dire – Lilliu ha in effetti collaborato a numerosissime riviste e giornali, e una completa raccolta bibliografica costituirebbe una fatica di Sisifo, complice anche l’alto tasso di dispersione delle fonti, che spesso ne determina la non facile reperibilità.

    E invece le cose stanno diversamente. Nelle maggiori antologie di scritti di Lilliu si è puntato essenzialmente sulla produzione dell’ultimo ventennio (quando cioè Lilliu ha dismesso i panni del politico)²⁰ e sono stati programmaticamente espunti scritti politici molto importanti e scomodi, dove ad esempio il politico democristiano spara a zero contro il compromesso storico, la cultura politica comunista e la filosofia di ispirazione marxista. Si tratta infatti di posizioni proposte da Lilliu non già sulla base di una analisi filosofico-politica, che pure non manca e presenta interessantissime considerazioni sul clima storico-culturale degli anni Sessanta e Settanta, ma soprattutto sulla base di una critica politico-partitica della sinistra complessivamente considerata in tutte le sue ramificazioni. Da quel momento il Re è nudo. Come si argomenterà più avanti, Lilliu propone letture non propriamente politically correct sia sul PCI sia sul movimentismo di sinistra, senza trascurare la stagione delle contestazioni studentesche, di cui l’archeologo ha svelato, e sia pure con qualche distinguo, la carica illiberale, velleitaria e anti-identitaria e la pregiudiziale ostilità verso le tematiche neosardiste.

    Gli scritti di Lilliu pubblicati sul periodico Il Popolo Sardo tra il 1973 e il 1977 fanno parte di un corpus di contributi dei quali non si è tenuto adeguatamente conto. Eppure è spesso grazie a pubblicazioni d’occasione – e tuttavia la maggior parte degli scritti di Lilliu sul periodico Il Popolo Sardo mantiene un alto respiro persino quando si occupa di questioni all’ordine del giorno –, anche laddove in più punti risultino irrimediabilmente datate, che è possibile reinterpretare in chiave meno buonista ma storicamente più pregnante la valenza dei paradigmi resistenziali di Lilliu calati nell’effettualità politica.

    La destoricizzazione di Lilliu va di pari passo con l’orientamento storiografico tèso a far recuperare alla sinistra storica il gap identitario che il grande archeologo ha ripetutamente denunciato, con argomentazioni ancora oggi meritevoli di «pensosa» considerazione. Si tratta insomma di recuperare alla cultura sarda il senso di una esperienza politica e culturale che non può essere annacquata da letture sin troppo scopertamente orientate. E quel profilo di Lilliu mal si presta perciò ad essere assimilato. Ma ciò non deve stupire: la canonizzazione è una operazione che per affermarsi ha l’obbligo di negare la storicità, ed è costretta perciò a fissare una immagine edulcorata, depurata da ogni incrostazione, ricostruita attraverso una reinterpretazione in senso armonizzante di una esperienza ad usum delphini. Il risultato è garantito: è in definitiva possibile consegnare all’oblio tutto ciò che risulti dissonante rispetto all’immagine canonica artificiale ottenuta.

    Eppure una delle grandi lezioni di Lilliu, a prescindere dall’adesione o meno alle sue posizioni, è che l’intellettuale deve essere dissonante nei confronti della politica. Il senso profondo della militanza è la testimonianza di una adesione condizionata nei confronti di qualsiasi blocco di potere. È in gioco cioè la capacità di produrre una coscienza critica a partire dalla riflessione culturale, posta al servizio della ricerca e non invece organica a qualsivoglia cupola politica (o storiografica). Lilliu è stato l’emblema dell’intellettuale militante prestato alla politica che non si è piegato ai diktat di partito e neppure a quelli ideologici. L’esercizio del diritto al dissenso, pur con tutte le mediazioni che l’agire politico-­partitico impone, implica che la verità individuale superi le logiche di schieramento, e che le posizioni possono anche essere nettamente critiche: l’interpretazione del comunismo italiano rappresenta un esempio paradigmatico di come Lilliu non sia mai stato buonista²¹. Semmai è stata l’appartenenza alla cultura democristiana che gli ha permesso di utilizzare le armi della tolleranza e del confronto civile opposte alla pratica del dileggio e

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