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Dal Vangelo Secondo la 'Ndrangheta - Un antico delitto -: Un antico delitto
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Dal Vangelo Secondo la 'Ndrangheta - Un antico delitto -: Un antico delitto
E-book137 pagine1 ora

Dal Vangelo Secondo la 'Ndrangheta - Un antico delitto -: Un antico delitto

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Info su questo ebook

Bruzzano,1919
In un piccolo borgo della Calabria viene commesso un efferato omicidio. Alle luci dell’alba, in una strada di campagna, la bracciante agricola Michelina trova il corpo di un giovane massacrato con quarantaquattro coltellate.
Scoprirà subito essere il cadavere di Guglielmo Iozzo, un giovane di Bruzzano, suo promesso.
Il maresciallo Lo Presti, della stazione dei carabinieri, indaga senza arretrare di un passo: va fino in fondo con le indagini, fermando e interrogando gli “uomini d’onore” del paese.
La provincia di Reggio Calabria, soggiogata dall’Onorata Società, viene descritta dall’autore magistralmente, anche nei dettagli culinari dell’epoca. È attenta e rigorosa la narrazione del “vivere quotidiano”, fatto di frasi, atteggiamenti, sguardi. La parola “ONORE” assume significati diversi in base a chi la pronuncia.
È duro, ideologico, sanguinario, e anche culturale il conflitto che si innesca tra la Legge, rappresentata dai due carabinieri, e l’Onorata Società, capeggiata da don Ciccillo.
Sarà compito del lettore, alla fine, decretare i vincitori e i vinti, fare nome e cognome degli assassini, accettando o rifiutando il contesto dove il romanzo è ambientato.
LinguaItaliano
Data di uscita4 giu 2015
ISBN9788899333058
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    Anteprima del libro

    Dal Vangelo Secondo la 'Ndrangheta - Un antico delitto - - VINCENZO DE ANGELIS

    parziale.

    I

    Il letto era aderente alla parete, proprio di rimpetto alla piccola e unica finestra della stanza.

    Era un bel letto, in ferro battuto. Nella testata spiccavano le forme attorcigliate, fatte da un bravo mastro dell’artigianato locale, e i pomelli erano in ottone, sempre lucidi, Michelina li strofinava continuamente con un panno umido.

    Al primo sorgere del sole, la luce che penetrava attraverso la piccola finestra li rendeva ancora più splendenti. Sulle tavole del letto erano poggiati, l’uno sopra l’altro, due grandi materassi di lana; sul comodino, vi era una lanterna a olio.

    Era quasi l’alba, fuori l’atmosfera era dominata dal silenzio della notte e del gelo. Solo ogni tanto, si sentiva un ululato. D’inverno i lupi, quando il monte Scapparrone era tutto ricoperto di neve, affamati, scendevano nelle vicinanze del centro abitato, in cerca di cibo.

    Spesso lo trovavano in qualche ovile.

    A Bruzzano, molte persone vivevano di pastorizia, altre di agricoltura, i proprietari terrieri erano pochi.

    Quel giorno Michelina, con il primo canto del gallo si svegliò, aprì gli occhi e pian piano si mise seduta in mezzo al letto, portando tutte e due le braccia verso l’alto e stiracchiandosi.

    Spalancò la bocca facendo un grande sbadiglio.

    Dopo qualche attimo, accese la lanterna e si mise in piedi; prese lo scialle di lana, che era poggiato sul letto per coprirsi, poiché la stanza era molto fredda. Diede uno sguardo ad Angela, sua madre, che ancora dormiva, poi tirò da sotto il letto l’orinale, si abbassò e urinò.

    In piedi, ancora sbadigliava versando l’acqua nel lavamani per sciacquarsi.

    Quel mattino si muoveva in maniera molto silenziosa, non voleva che sua madre si svegliasse, perché il giorno precedente aveva lamentato forti dolori alla schiena, che avevano trattenuto, per qualche ora, il medico Misitano in casa loro. Aveva preparato un unguento molto efficace. Per fortuna, durante la serata, il dolore alla schiena si era attenuato e pian piano Angela si era addormentata.

    Il dottore, prima di andarsene, le aveva detto che non poteva fare molti sforzi e che si doveva limitare a svolgere i soliti servizi, soprattutto non poteva trasportare la legna per il fuoco e per la cucina.

    Oltre ai dolori di schiena, infatti, era sofferente di cuore e a volte era dispnoica. L’età non era più quella di un tempo e il fisico reggeva poco.

    Una volta vestita, con gli abiti da lavoro, Michelina fece colazione con pane e latte (la cosiddetta suppa) e subito dopo tagliò tre fette di lardo; cucinò una frittata con la sugna e la mise in mezzo al pane, che avvolse con un tovagliolo legandolo a fagotto. Quello era il pranzo da portare e consumare sul posto di lavoro, in campagna, dove avveniva la raccolta delle olive.

    Michelina, contadina di Bruzzano, era una donna dal fisico imponente e prosperoso; capelli neri e lunghi, legati e raccolti, occhi castano scuri e rotondi, con due folte sopracciglia e il naso leggermente largo, a patata, con zigomi un poco alti; la testa coperta da un fazzoletto nero a striature bianche, legato con due nodi dietro al collo. Era una fresca, simpatica e bella ragazza. Michelina era figlia unica e orfana di padre; Peppino Grentone era morto in guerra nel 1916.

    Dopo un paio di mesi dalla partenza, i carabinieri le avevano comunicato che era caduto in battaglia. L’abitazione di Michelina era vicino all’arco della famiglia Carafa, che Vincenzo, duca di Bruzzano, aveva fatto costruire nei secoli precedenti come porta d’ingresso del paese. Quando uscì di casa, ormai gran parte delle finestrelle delle case del paese erano illuminate dalle lanterne.

    Camminando, con passo lungo e svelto per raggiungere al più presto il posto di lavoro, si bagnava le gambe con la brina depositata sull’erba durante la notte trascorsa. Si trovava nella contrada Scarparelli, in vicinanza della fiumara, quando, all’improvviso, si fermò perché le calze erano piene di erba appiccicosa.

    Seduta sopra una grande pietra, cercava di ripulirsi: l’erba le procurava tanto fastidio.

    Si grattò con forza.

    Rimase pochi minuti, giusto il tempo per scacciare quel prurito alle gambe.

    Poi, riprese il cammino. Canticchiava il motivetto Calabrisella mia, quando all’improvviso vide davanti a sé un uomo, disteso per terra.

    Scasciu meu chi succediu, cu esti chistu!

    Lentamente, con gli occhi spalancati e il labbro inferiore stretto tra i denti, piena di paura e incredula, si avvicinò a quel corpo. Con il piede destro lo toccò per sincerarsi se fosse ancora vivo o morto.

    Si rese ben presto conto che il corpo era privo di vita e quando riconobbe il giovane Guglielmo Iozzo, per qualche minuto rimase lì impalata, ferma come una scultura marmorea, ponendosi mille domande.

    Poi incominciò a tirarsi dei pugni sulle cosce e schiaffi in faccia: tremendamente scioccata. Piangendo, si mise a correre per ritornare in paese. Appena arrivò, tutta affannata e in preda al panico, con il palmo della mano e con forza, bussò alle porte delle case, isterica, ripetutamente, gridando a squarciagola: "Ammazzaru a Guglielmu".

    Porta dopo porta bussò anche alla caserma dei carabinieri. Prestu, maresciallu, faciti prestu ca ammazzaru a Guglielmu Iozzu, curriti, curriti.

    Il maresciallo, Francesco Lo Presti, era siciliano, veniva da Oliveri, un paesino della provincia di Messina, vicino a Barcellona Pozzo di Gotto. Era un uomo di trentasette anni, di media altezza. In viso, i lineamenti ben marcati e il ticchio di arricciare il naso, nei momenti di tensione.

    Occhi e capelli castano scuri, magro ma muscoloso, ci teneva a far rispettare la legge, anche se in quel paesino non accadeva mai nulla di particolare o di spiacevole che lo potesse costringere al lavoro in maniera intensa.

    Era un tipo meticoloso, puntiglioso e anche furbo. Cercava di non scoprirsi, aspettava che gli altri iniziassero la conversazione.

    Non era timidezza, ma scaltrezza.

    Amava ascoltare, parlava molto poco, il necessario.

    Alle urla di Michelina, il maresciallo con cadenza siciliana, chiamò l’appuntato che ancora era a letto.

    Si chiamava Mario La Rosa, era un giovanotto alto circa un metro e settantacinque centimetri, capelli chiari tagliati corti a spazzola, occhi chiari e sguardo vispo. Veniva da un piccolo paesino dell’Abruzzo, sembrava un tipo ambizioso; ci teneva alla carriera e raccontava sempre al maresciallo la sua storia.

    Proveniva da una povera e numerosa famiglia; erano nove figli. Ripeteva sempre al suo superiore che nella vita voleva andare avanti, fare una buona carriera e diventare un maresciallo importante.

    I due gendarmi, a notizia pervenuta, non persero tempo; con le armi in mano si diressero presso la contrada Scarparelli per verificare quanto era stato detto.

    Dietro di loro, un codazzo di persone.

    Erano tutti incuriositi da quanto era accaduto.

    Arrivati sul luogo del delitto, oltre ai carabinieri, si era adunata molta gente, tra i sospiri e l’incredulità nel vedere il corpo privo di vita di Guglielmo Iozzo.

    Il corpo giaceva a terra, in una pozza di sangue, le gambe divaricate con la destra leggermente piegata.

    La mano destra impugnava un coltello a serramanico e il braccio sinistro era all’altezza del collo.

    Gli occhi sbarrati.

    La testa girata verso destra.

    Indossava un paio di scarponi neri, calze di lana lunghe di colore grigio, pantaloni marroni, camicia bianca, un gilè di lana verde scuro, una giacca marrone. A un metro di distanza dal corpo, un berretto nero. I carabinieri avvisarono il magistrato e quasi immediatamente il medico, per accertarsi di quanto avevano visto.

    In pochissimo tempo, la triste notizia raggiunse donna Teresa Modafferi, madre di Guglielmo Iozzo, e il fratello della vittima, Giuseppe.

    Il maresciallo aveva l’ingrato compito di avvisare la famiglia. Nel momento in cui a donna Teresa Modafferi fu confermato, ufficialmente, quanto le avevano detto qualche ora prima, le urla e il pianto inondarono l’intero borgo.

    Il maresciallo e l’appuntato erano stupefatti, increduli, non avrebbero mai pensato che nel paese di Bruzzano e proprio in quel periodo di quiete, potesse accadere qualcosa di simile.

    Dopo che si erano adoperati a seguire le procedure che il regolamento prevedeva e aver provveduto a portare il corpo all’obitorio, i due gendarmi si ritirarono in caserma. Stanchi della giornata intensa di lavoro, una volta rientrati, rimasero per circa mezzora senza dire una sola parola. Dopo un’intensa riflessione, l’appuntato si alzò dalla poltrona, prese la brocca, riempì il bicchiere d’acqua e disse:

    Ci dobbiamo dare da fare. Certo che quel povero uomo era combinato male, proprio molto male. Tutto pieno di sangue; gli hanno dato tante coltellate... proprio tante. Chissà che c’entri l’onorata società; a volte gli sgarri si lavano con il sangue. Tutto può essere, ma per arrivare a conoscere la verità è necessario lavorare e indagare bene, con intelligenza".

    Il maresciallo lo guardò preoccupato e prontamente rispose:

    "Sì, potresti avere ragione, dobbiamo fare un’indagine a largo raggio, iniziando proprio dagli uomini d’onore. Il morto li frequentava. Chissà se tra loro vi era un poco di ruggine. Bisogna indagare, interrogare e capire se dalle parole di qualcuno possa risultare qualche

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