L'arte del convitare spiegata al popolo
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Anteprima del libro
L'arte del convitare spiegata al popolo - Giovanni Rajberti
Table of Contents
Copyright
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Introduzione
Vita e opere di Giovanni Rajberti
PREFAZIONE ALLA PARTE PRIMA
PARTE PRIMA
Per chi sia scritto il libro
Maniere diverse d’invitare a pranzo
Invitatori freddi e invitatori violenti
Dell’ora di pranzare
Del numero tredici a tavola
Della scelta dei commensali
Esempii di riunioni male assortite
Dell’invitare a pranzo chicchessia
Incontri insopportabili e modi di evitarli
I piccoli fanciulli a tavola
Preliminari del pranzo: ciarle del tempo cattivo
Angustie della padrona di casa: dissimulazione e sincerità
Del farsi troppo aspettare ai pranzi
La distribuzione dei posti
Dello stare a tavola troppo addossati
Democrazia e aristocrazia che vanno a tavola
I lumi a tavola
Tempo della minestra e sua estetica
Tempo del salame e discussione in proposito
Esempio sull’abuso del salato
Del numero dei piatti
Confronto tra i pranzi aristocratici e democratici
Dello stare a tavola troppo tempo
Il manzo: suo nome poetico.
Riassunto sui pranzi illustri e quelli alla buona
PREFAZIONE ALLA PARTE SECONDA
PARTE SECONDA
Dei discorsi che si tengono a tavola.
Discorsi irreligiosi.
Discorsi lubrici.
Maldicenza.
Sugli elogi alle vivande
Cerimonie per servirsi dopo gli altri.
Del cambiare il piatto e la posata.
Dell’eccitare a mangiar molto
Episodio sulle polpette, e aneddoto.
Ancora dello stimolare mangiar troppo
Sugli eccitamenti al bere
Del vino e dei vini
Il vino di Bordò
Il vino fiorentino e i tre scienziati
Il vino del 1802
Sull’uso del brindisi in versi
Il formaggio di grana
Il ritorno nella sala di conversazione
Il caffè
Ultimi consigli a Giorgio e conclusione
Copyright
Titolo: l'Arte di convitare
Autore: Giovanni Rajberti
Curatore: Pier Luigi Leoni
L'Arte di convitare è pubblicato nella collana Libri Leggeri
Copyright © 2012 LibrosìEDIZIONI
ISBN versione ebook: 978-88-98190-07-2
Il volume è disponibile anche in formato cartaceo puoi richiederlo a librosi@librosi.it oppure accedi al catalogo on line.
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Chi dispera ha una bella illusione in meno
e un brutto male in più.
Giovanni Rajberti
Introduzione
Quando capita sottomano un bel libro d’altri tempi, come L’arte di convitare
di Giovanni Rajberti, è giusto il caso di ricordare l’affermazione di Goethe che tutto ciò che è intelligente è già stato pensato: basta cercare di pensarlo di nuovo.
Dopo aver approfittato del libro per una divertente meditazione sui difetti imperituri della natura umana, mi sono preso la briga di sfrondare il testo dalle pochissime parti troppo legate al contesto in cui fu scritto; quindi mi sono permesso d’inserire alcune note per rendere più scorrevole la lettura ed evitare ai lettori la fatica, che io ho dovuto affrontare, di consultare vocabolari ed enciclopedie; ho inserito anche rarissime noticine di commento, ma solo quando non ne ho potuto fare a meno.
Giovanni Rajberti, medico in Monza, pubblicò la prima parte de L’arte di convitare spiegata al popolo
nel novembre del 1850 e la seconda nell’aprile del 1851, quindi la prefazione alla seconda parte è anche una risposta alle critiche che la prima parte aveva suscitato.
Rajberti affronta il tema del convito manifestando competenza di buongustaio e gusto per la comitiva: qualità entrambe che, insieme a tanta brava gente, apprezzo e condivido. Ma il convito è un frammento del grande specchio infranto che chiamiamo realtà. Esso riflette, come ogni frammento di specchio, la realtà intera. Rajberti lo sa bene e si muove nell’ambiente prescelto con l’arguzia che, nel vero umorista, nasconde pudicamente un delicato amore per l’umanità.
Qualche volta egli fuoriesce dallo stile umoristico ed assume un tono predicatorio che può dare fastidio ai lettori più sofistici. Ma si accettano di buon grado anche le prediche, quando si vuol bene al predicatore. E il dottor Rajberti, medico in Monza, si fa voler bene.
Se si vuole trarre dal libro una utilità pratica per i conviti d’oggidì, c’è da tener conto di non poche ma non incolmabili differenze. Il ceto medio in cui si muove l’Autore si è dilatato enormemente, ma sta perdendo opportunità e abitudini che consentano di aprire la casa agli ospiti. Sovente la donna coniugata, per evitare che la famiglia scenda dal medio al basso ceto, deve lavorare fuori casa. Ciò impedisce la cura della cucina e di tutta la casa e rende impraticabile l’ospitalità. Spesso le case non dispongono di spazi, suppellettili e servit ù per ospitare convenientemente una brigata di giuste dimensioni. E, quando ne dispongono, si evita di convitare gli amici per non metterli nell’imbarazzo di non poter adeguatamente ricambiare. Così si finisce sempre più spesso al ristorante.
Il dottor Rajberti rifiuta a priori l’idea della venale osteria
. Noi però siamo costretti, salvo rare eccezioni, a rarefare (se non ad abbandonare) l’idea di convitare e di essere convitati in casa.
Ma i consigli del dottor Rajberti, pur non essendo concepiti per il ristorante, sono così profondamente saggi che possono essere convenientemente adattati. Del resto bisogna rassegnarsi all’idea che il ristorante è diventato la nostra sala da pranzo e il personale del ristorante la nostra servitù. Solo nel ristorante possono ormai trovare accoglienza e speranza di sopravvivenza i piatti elaborati dalla tradizione. Compito del cliente è quello di consigliare saggiamente, redarguire amichevolmente e premiare generosamente quei ristoratori che siano in grado di comprendere l’importanza della loro missione.
Vita e opere di Giovanni Rajberti
Nacque a Milano nel 1805. Abbandonò la carriera ecclesiastica per studiare medicina a Pavia. Si laureò nel 1830 e conciliò sempre la professione di medico con l’attività letteraria. Divenuto chirurgo primario dell’ospedale di Monza, vi rimase fino al 1859, quando si trasferì a Como. Fu sempre perseguitato dal governo austriaco per il suo patriottismo. Morì a Monza nel 1861.
Pubblicò le seguenti opere:
1836. Traduzione in dialetto milanese dell’Arte poetica di Orazio.
1837-1839-1841. Traduzione delle satire di Orazio: L’avarizia, L’arte di ereditare e Amicizia e tolleranza.
1839: La prefazione alle mie opere future.
1840. Il volgo e la medicina.
1846. Sul Gatto, cenni fisiologici e morali, in cui, trattando delle abitudini del gatto, satireggia i costumi degli uomini.
1848. Marzo 1848, poesie vernacole risorgimentali.
1850-1851. L’arte di convitare spiegata al popolo.
1853-1857. El pover Pitt e I fest de Natal, poemetti in vernacolo.
1857. Il viaggio di un ignorante a Parigi.
PREFAZIONE ALLA PARTE PRIMA
P
ensando fra me stesso a quale categoria di libri appartenga questo mio, giacché sarebbe troppo pretenzioso che faccia classe a sé, trovo che si può chiamarlo un frammento o una fetta di Galateo. Difatti, che cosa è un Galateo? In grosso, l’arte di stare col prossimo il meno male per sé e per gli altri, ossia l’arte di vivere in società. Ma, delle ventiquattro ore del giorno, tra quelle che si voltano via dormendo, e quelle altre che si passano in qualsiasi modo isolati, più della metà, grazie al Cielo, si sottraggono alla pedantesca tirannide del Galateo. Delle rimanenti un paio, le più gradite, che si consumano a tavola, prendo a governarle io col presente trattato. Da ciò vorrei inferire che con quattro o cinque libri come questo avrò dato al mondo la scienza di tutta la vita, e la mia missione sarà giunta al suo fine. Come sia nato in me il desiderio di questo libro, non saprei dirlo in coscienza, perché non me ne ricordo più.
Era in parte già fatto prima dei trambusti1 che fecero dimenticare tante inutili cose. Ora, da alcuni mesi, ripigliai la penna, e di mano in mano che l’argomento mi dettava pagine una più matta dell’altra, il cuore mi diceva con forza sempre crescente, che io mi allontanavo troppo dalle esigenze dei tempi, e che adesso il pubblico non si mena più a spasso con delle parole (che sciocco d’un cuore!) e che la gente non ha più voglia di ridere.
E io gli rispondevo: Taci, bestia, ché i muscoli del riso non sono scomparsi dalle facce degli uomini, e siccome gli uomini usano delle loro facoltà finché possono, così in questo mondo si riderà sempre, per quanto gli affari vadano alla peggio: e meno c’è da ridere sulle cose grandi, più si ha bisogno delle cose piccole per occuparsene piacevolmente, e assopire, almeno per intervalli, il dolore dei fiaschi grossi
. Ma su questa obbiezione del ridere, giacché me la fanno molti, ho inventato un dilemma che mi pare d’una forza da levarvi il respiro: perciò vi consiglio di non affrontarlo. O avete la volontà di ridere, o no.
Se l’avete, benone! eccomi a servirvi, il mio libro è fatto apposta per questo. Se poi non l’avete, meglio ancora! è proprio il mio caso, e mi ci provo di cuore e di puntiglio, perché abbisognerò nientemeno che di tutta la mia virtù a farvi ridere per forza: ben inteso che, se ha da essere una sfida, cominciate a leggere: altrimenti sareste come coloro che si turano gli orecchi per non sentire la verità. Dunque, a far ridere la gente allegra e disposta, ogni inezia basta: i lazzi d’una scimmia, i bisticci d’uno stenterello2, l’aria invasata d’un poetino, i titoli accademici di un cacciatore di diplomi, i ciondoli pendenti dall’abito di un solenne minchione. Ma per mettere di buon umore le persone ingrugnite, e anche quelle ingrugnite per progetto, bisogna ricorrere al dottoraccio in Monza: perché il nuovo ramo di scienza ortopedica applicata alla testa, che consiste nell’allargare le facce lunghe, nessun chirurgo la possiede come lui: il quale, per parentesi, m’incarica di annunziarvi che del ridere egli ne tiene ai vostri comandi una provvigione inesauribile. Tutto sta a voler farne acquisto in grosso: ché aver legna da vendere a cataste, e doverla dar via a once, e tagliuzzarla in zolfanelli e stecchi, è una cosa da languire d’inedia.
Poche settimane, finisce la prima metà del secolo, e subito dopo, senza la interruzione d’un minuto, comincia la seconda. Ed ecco che con la prima parte del mio lavoro giungo ancora in tempo a dare un addio al mezzo secolo che sta per piombare negli abissi del passato: e con la parte seconda saluterò l’altro mezzo secolo appena che sarà entrato in azione. In questo modo parmi quasi di chiudere coll’opera mia un’età che finisce male, e aprirne un’altra che forse comincerà peggio. Parmi di mettere un’ipoteca sul secolo tutto, e di prenderne possesso; di bilanciarmi e dondolarmi sul suo centro: ovvero di salirgli in groppa, proprio a mezza schiena, come su di un cavallaccio spaventoso, e di frustarlo davanti e di dietro a tutto potere. Il più grande uomo dell’epoca nostra3 si assise arbitro fra due secoli (come scrisse il più grande poeta lirico delle epoche tutte4) e li fece tacere: ei fe’ silenzio... Ed io mi accontento di assidermi fra due mezzi secoli, e li lascio anche ciarlare. Delle quali immagini il sugo è questo: intendo che l’opera mia appartenga egualmente alle due metà del secolo; perciò mando fuori il primo volumetto con le ultime rape del cinquanta e manderò fuori il secondo coi primi ravanelli del cinquantuno.
Cari amici, quante altre cose interessanti e consolantissime avrei da dirvi! Ma penso che per un fiorino ne ho dette d’avanzo. Dunque concluderò con una sentenza morale, e passatemela per buona, giacché sapete che la do gratuitamente. Regolatevi secondo la coscienza vi detta nel parlare, nell’agire, nello scrivere, senza troppo preoccuparvi delle altrui simpatie: perché fino nel fatto semplicissimo del morire o del campare, che non dipende dal nostro arbitrio, è impossibile incontrare il genio di tutti.
25 novembre 1850
1. Il 18 marzo 1848 i Milanesi erano insorti contro gli Austriaci e, in cinque giornate di lotta, avevano costretto le truppe austriache, comandate dal maresciallo Radetzky, a ritirarsi nel cosiddetto Quadrilatero (Peschiera, Mantova, Verona e Legnano). Il 6 agosto 1848, essendo stato sconfitto il Piemonte, che si era annesso la Lombardia, gli Austriaci erano rientrati a Milano. torna al testo
2. Stenterello è il nome che il popolo fiorentino dette alla maschera creata dall’attore Luigi Del Buono verso la fine del Millesettecento. La maschera rappresenta il povero venuto su a stento, esile e malandato, che vive di furberie strampalate e si esprime con affettati giochi di parole. Qui è adoperato nel senso figurato di persona sciocca e sprovveduta. CARDUCCI: Vive felice e il simil spera che sia di te/ lo amico tuo tuissimo Carducci Giosuè./ Ne la città che tanti bei stenterelli vanta/ venti quattro Decembre mille ottocentocinquanta. torna al testo
3. Napoleone Bonaparte. torna al testo
4. Ei si nomò: due secoli/ l’un contro l’altro armato,/ sommessi a lui si volsero,/ come aspettando il fato;/ ei fe’ silenzio, ed arbitro/ s’assise in mezzo a lor. MANZONI, Il Cinque Maggio. torna al testo
PARTE PRIMA
Per chi sia scritto il libro
Lungi, o profani! Via di qua, amatori degli artifizii retorici e dell'eloquenza tirata giù dalle nuvole: ché questa volta io parlo al caro popolo. E perciò entro a dirittura, senza esordio, nelle viscere del mio tema, e incomincio. A chi volesse sapere prima di tutto che cosa io intenda per popolo, dico, a scanso di astruse e complicate definizioni, che intendo il ceto medio: giacché il ceto basso si usa e si osa ancora chiamarlo plebaglia o polpaccio5. Io, che amo poco i peggiorativi, non mi occupo di questa classe, anche per non rubare la clientela agli ultrademocratici, che si sono messi alla mirabile impresa di farne col tempo la più eletta porzione della società. Oltre di che sarebbe stravagante ragionar di conviti a gente la quale, non che essere incapace di dar pranzi, ha un bel da fare a cavarsi la fame quotidiana.
Eppure potrebbe accadere che, mentre il mio libro non s'indirizza a costoro, molti di costoro si indirizzassero al mio libro, tratti, non fosse altro, dall'immensa bellezza dell'argomento. Se ciò avvenisse, vada in compenso dei tanti libri che si compongono a benefizio universale, e che sono schivati da tutto il mondo. Dunque, se anche la marmaglia vuol leggere, si serva. Sarà come quando si passa per via presso una cucina da signori, d'onde emani un soave odore di squisite vivande, che si resta là su due piedi per qualche istante a deliziarsi almeno con la immaginazione e col naso. Aggiungete che siffatta lettura potrebbe essere un fausto preludio, quasi un preparamento a un più lieto avvenire. In questo mondo non si sa mai che cosa possa nascere: un'eredità inattesa, un terno al lotto, dei grassi negozii, qualche bricconeria lucrosa, che so io? Insomma non è raro il caso, che uno passi dalla categoria degli affamati all'altra tanto rispettabile e filantropica di quei che mangiano bene e fanno mangiare. Ed ecco che a buon conto sarà prudente consiglio di far precedere la teoria alla pratica, per non trovarsi poi imbarcati su di un pelago affatto sconosciuto. La speranza è il dolce conforto di tutta la vita: e il proverbio, che la sa lunga, ci dice netto e preciso: Impara l'arte e mettila da parte.
Il mio discorso poi non s'attaglia per nulla al ceto alto. Grandi e potenti della terra, ricchi nati, aristocratici, gente di puro sangue, anche di mezzo sangue, anche di nessun sangue, ma distinti per modi e abitudini signorili, come se aveste un sangue, voi non avete bisogno del mio libro; anzi, il mio libro avrà bisogno di voi, poiché sarà dai vostri esempii che io trarrò i più sani e indeclinabili precetti di un'arte che in voi è natura. Perciò voi sarete le mie fonti di erudizione, i miei testi venerati, i miei classici autori: vos exemplaria graeca6. Se dunque per ozio o passatempo vorrete abbassare un occhio benigno su questo mio trattatello elementare, abbiate bene per inteso che non avrete nulla da apprendere; bensì rileverete la vera distanza che vi separa dal resto de' mortali. Fors'anche troverete buono