L'empatia degli opposti: Ovvero il chirurgo dell'anima
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Originale è l’intreccio tra le due voci narranti: il paziente, archeologo subacqueo che ha girato il mondo finché il cancro non lo ha costretto a fermarsi, e il curante, con le sue conoscenze tecniche e lo stupore di chi scopre che, nell'atto di prendersi cura di un soggetto condannato a morte, sta guarendo le proprie ferite, da sempre tenute latenti per dedicarsi agli altri.
Tra viaggi introspettivi, delicata ironia, ricordi, tumultuosi dialoghi, sogni vividi, sms e flashback, quest’opera consegna una chiave di gestione del presente, un passpartout intellettuale a chiunque non abbia ancora avuto prova che l’empatia è il più potente strumento di cura.
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Anteprima del libro
L'empatia degli opposti - Tiziana Cavalli
accadde.
Sotto il segno dei Pesci
Wake of the flood
"Pronto, dottoressa? Buonasera…scusi il disturbo... un’informazione: io…dovrei smettere, sì, mi assillano perché smetta di fumare e… lo vorrei, insomma. Può aiutarmi? L’agopuntura reca benefici risolutivi in questi casi, vero? Ho letto il suo curriculum e le eccellenti recensioni dei suoi clienti sul portale dottori.it ...ecco, ma... visita prima del trattamento, o punge e via? Oh, ausculta il torace, bene... allora d’accordo".
Fu in un crepuscolo immerso in una bubbola frizzante sotto il segno dei Pesci il primo contatto tra me e il futuro Paziente. Giovedì 4 Marzo 2017. Avevo appena riattivato la suoneria del cellulare all’uscita dalla clinica fiorentina, dopo aver partecipato a un complesso intervento di chirurgia addominale. Ricordo bene il senso di stanchezza mitigato dalla soddisfazione di aver svolto il mio delicato lavoro con successo mentre, impacciata dal grecale che insolente spettinava la sciarpa, avvicinavo la fermata dell’autobus.
Vi sono talvolta momenti magici, di grande stracca e intensa eccitazione motoria. In quegli istanti di primo meritato relax, ecco piovere una raffica di squilli. Nuovo numero. Chissà, qualcuno che vuole indicazioni sull’utilizzo dell’agopuntura?
Azzardai. Il mio sesto senso non tradiva. Quella voce però mi suonò insolita: era quella di un uomo, mentre almeno tre quarti della popolazione aperta alla medicina olistica è donna. Il linguaggio era forbito, educato, interrotto da continui colpi di tosse stizzosa, il timbro nasale, tono pacato ma inquinato da uno stato di ansia palpabile. L’affabile signore aveva stretta urgenza d’aiuto, e io non glielo avrei negato, anzi dovevo incoraggiarlo affinché non cedesse più alla tentazione di tenersi aggrappato a quel vizio pernicioso.
Consultai la fitta agenda e non senza qualche difficoltà proposi una data, la prima disponibile, per non lasciare a lui il tempo di un ripensamento, e al caso la possibilità di creare un imprevisto.
Quel flusso di fonemi prese a frullare senza sosta nella selva oscura del mio animus, sommergendomi di una corrente enigmatica. La paura latente di quel giovane sfregò gli strati più profondi del mio subconscio minacciando di travolgermi, e lasciando dietro di sé la scomoda eredità di inseguire le mie immagini interiori.
Avrei appreso solo in seguito che quella giornata di un’apparenza routinaria e tranquilla avrebbe acceso al suo imbrunire, per me poco più che trentenne, il motore di un nuovo percorso professionale e di vita.
Ora che questo 2017 infarcito di celebrazioni abbraccia le pietre miliari di cinquant’anni fa e cede il passo, il mio racconto sarà fedele alla realtà, o almeno al mio ricordo personale, che è poi la stessa cosa. I fatti sono recenti, ma so che è costume letterario inserire dettagli di circostanza ed enfatizzare. Meglio non anticipare troppo.
Ero un detrito trascinato da un torrente in piena che non conosce soste né destinazione. Ero guasto, ebbene guasto come una carretta abbandonata in uno sfasciacarrozze, e completamente sfinito. Gli anatomisti gridano al miracolo quando parlano del corpo umano. Ma di quale miracolo cianciano? Un’accozzaglia complicata, zeppa di imperfezioni. Un uomo malato, bizzarro, è un uomo generoso: in fondo nessuno è più generoso di chi distrugge sé stesso. Se tutti vedessimo quello che è sottopelle, così come accade ai chirurghi, rabbrividiremmo al solo impatto visivo. Tutta quella magnificenza
è solo linfa e sangue, umori e bile. Se si pensa a ciò che si nasconde nelle narici, nella gola e nel ventre, non si troverà che schifezza. La meraviglia è sorella del timore; cosa da uomini veri, non da babbei.
Credevo di avere una banale influenza, al limite una bronchite da fumenta e Vicks Vaporub. Ve lo giuro. Non capivo un accidente del mio male. Del resto, quel ventaglio di sintomi non spiegava granché, e lasciava spazio a una miriade d’interpretazioni. Non mi curavo né mi ero mai curato, anche se la medicina e i dottori – quelli veri – io li ho sempre rispettati. Nossignori, non mi voglio curare, e non lo voglio appunto per cultura. Ecco, forse questa cosa voialtri non vi degnerete mai di capirla. Be’ io invece la capisco. Ovviamente non so spiegarvi a chi di preciso intenda far dispetto; so benissimo che nemmeno ai dottori medesimi potrò in alcun modo farla sporca
, col mio secco diniego ad andar da loro; e so meglio di chicchessia che così sto danneggiando unicamente me stesso. Cionondimeno, se non mi curo alla maniera allopatica è giustappunto per cultura. Il mio polmoncino soffre? Bene, che soffra pure, e ancora di più!
Ovunque andassi, con chiunque avessi a che fare ero uno schiaffo al DNA, la pietra dello scandalo, un torero d’arte. Il viso pennellato dal maquillage d’ordinanza: glabella corrucciata, pupilla allucinata e mascella contratta. In bocca l’amaro, il fiele del mio travagliato passato. Ma l’anonimo malanno era sempre lì, torbido acquitrino. Tutto era cominciato – ma quando, esattamente? La mia stessa cronaca è lacunosa, lascia supporre, ma doveva essersi trattato di qualche giorno, tutt’al più un paio di settimane, altrimenti non sarei sopravvissuto sotto la micidiale sferza, io animale nottivago per naturale difetto – forse con una sensazione di fiatone, accompagnata da un’intensa irritazione alla gola. Se mi sbaglio, pazienza: la storia non cambia.
Il Drago, così lo appellerò, un congegno mentale e plastico tanto superbo e divino, tornò a galla. S’accrebbe silente e traboccò, sì, invase con prepotenza gran parte dei mitocondri conquistando una vasta zona della pleura sinistra. Un nucleo si divide e due sono le vite, e quattro e otto ancora in giusta progressione. Un processo di magia forse cieco o forse illuminato da una memoria senza passato. Un nucleo si divide, l’errore lo intralcia e dentro il meccanismo un velo che si chiama caso. E in questo affanno senza remissione, un rantolo senza aria da salvare, un punto interrogativo da portare sulle spalle come il peso di una croce, annaspavo, affogavo.
Ero certamente di costituzione gracile, per quanto ne intuisco anche ipocondriaco – se pure con giudizio –, infermiccio, il collo innaturalmente teso e beninteso febbricitante. Dirò che anche agli occhi soffrivo da tempo di un forte astigmatismo ereditario, ma suggerisco mi si fossero vieppiù indeboliti causa una forma di irritazione forse acutizzata da traumi psicologici. Il caro vecchio Jung ne avrebbe volentieri stilato un illuminante trattato.
Qualsiasi creatura che nella propria fanciullezza sia stata testimone di cotanto non può non rimanerne segnata tutta la vita e vedremo presto come il mio destino sia stato deciso dalla sua attrazione verso ciò che gli era stato negato. D’altra parte non è questo il capitolo, ve ne saranno altri a parlare propriamente.
Nelle pagine che seguono non indulgerò a descrizioni di persone – se non quando l’espressione di un volto o un gesto non appariranno come segni di un sottaciuto ma eloquente linguaggio.
Volato via pure quello stupido Febbraio, mi teneva immobile nei limiti l’ossessione. Mi sentivo profondamente infelice ma in modo autistico, come se la mia vita appartenesse, sensazione fin troppo tipica e cruda, ne convengo, a qualcun altro. Ma non ghignate, per cortesia. Giammai tenere in malo conto la tristezza o il pessimismo. Io sono tifoso del pessimismo, con esso si sono scongiurate e costruite delle cose. L’ottimismo di contro è funesto, ha generato solo stragi e distruzioni.
Si fa presto a dire smetta di fumare
. Ti mettono l’etichetta addosso, ti fanno la paternale e addio. Poi tu fai le orecchie del sordo. Ma è mai possibile? Confesso che il modo con cui i bacchettoni stigmatizzano il vizio altrui non mi induce a pensieri virtuosi.
Vedete questa cappa di sofismi della quale sono stato vestito sino ad oggi? Tentazioni, certo, superbia della mente. Questa mi grava e pesa come avessi la Tour Eiffel o le Piramidi di Giza sulla groppa, quasi fossi uno sherpa himalayano. E questa pena m’è stata inflitta per la mia vanagloria, per aver creduto il mio corpo un luogo di delizie, aver supposto di sapere più degli altri, e per l’essermi dilettato di sostanze tossiche che hanno prodotto ingenti danni all’interno del mio organismo. Detto ciò, ora con essi dovrò fare i conti.
Mossi una mano come a scacciare un pensiero molesto. Ho voglia di fumare
dichiarai accendendo la Tv. Ho voglia di fumare una sigaretta e di farmi una pasta. Bucatini all’amatriciana con il guanciale e il pecorino romano
.
Invano la mia carne aveva dimenticato il piacere, intenso, peccaminoso e passeggero (cosa vile) che mi aveva dato la primigena congiunzione a lei, la sigaretta; ma la mia anima non aveva obliato, e non riusciva a sentire perverso quel ricordo. Temevo di non saper più distinguere. E che conta? Il vizio è ottuso, segue un ritmo nelle sue insidie e seduzioni, ripete i propri riti a brevissima distanza, è sempre lo stesso.
Dev’essere stata la forza della disperazione o l’istinto ad avermi fatto toccare quel fondo di barile, ma era tempo che avevo intenzione di prendermi un anno sabbatico. Mi rendevo ora conto che, in modo più imprecisato, meno teatrale, vissuto attraverso piccole angosce quotidiane, quel senso di riposo negato l’avevo già avvertito nel Caucaso e poi in Bolivia, prima ancora che le acque e il destino decidessero per me.
Avrei desiderato sostare ogni tanto per prendere respiro, lasciare scorrere lo sguardo, io esploratore di vestigia, su un picco o un lago, senza un criterio di scelta, perché non vi erano ancora città sepolte e rovine alle falde dell’uno o sulle rive dell’altro.
Sì. In teoria meritavo di restarmene pacioso per un po’, e me lo stavo proprio ripetendo, così educato ai tormenti, quel martedì mattina, mentre salivo a passo deciso e riluttante sul treno Alta Velocità Frecciarossa 1000 9528 delle 12:20 per il capoluogo gigliato, col cuore al galoppo e una caldaia nei polmoni.
Pari a un generale che, la notte prima della battaglia, dispone i movimenti che le sue truppe compiranno nel giorno a venire, e non solo si raffigura le difficoltà e gli accidenti che potrebbero disturbare il suo piano, ma si immedesima finanche nella mente dell’avversario per prevederne mosse e contromosse, così io pesavo i mezzi e i risultati, le cause e gli effetti, i pro e i contro.
In stazione. Migliaia di persone parlavano all’unisono e nessuno prestava attenzione l’un l’altro, né tantomeno agli slogan imperanti sui cartelloni pubblicitari affissi in gran mostra. Dovevano essere lì già da parecchio, giacché la carta che li componeva appariva lacera in più parti. L’atmosfera era resa assordante dal mantra di informazioni-cantilena trasmesse a volume esagerato dagli altoparlanti.
In passato avevo accompagnato a Termini molti amici che andavano in vacanza o a lavoro, ma adesso che era il mio turno non c’era nessuno a salutarmi.
Uno dopo l’altro gli sportelli dei vagoni si chiusero con morbido impeto; forse credetti a quel che dicevano gli antichi: se ti pieghi ti conservi, ciò che è spezzato e consumato diventerà intero e nuovo, il curvo diventerà diritto. Erano forse concetti vacui?
Fiscale, il capotreno sventolò bandiera verde. Strattoni violenti scoppiarono di carrozza in carrozza. Il convoglio iniziò lentamente sotto il Dinosauro
– la lunga pensilina in cemento armato –, uscì dal cappello d’ombra coi fanaloni accesi dagli ovattati rumori di Via Giolitti. Si srotolò a spire d’anaconda tra il labirinto di traversine, scambi e case cantoniere, fino al silenzio delle campagne addormentate della Via Tiburtina, ove trovò il ritmo, la via, la folle velocità.
Ma era come se quegli strattoni fossero serviti di richiamo al fuggire, al chiudersi la porta alle spalle. Ognuno ha innanzi le sue rotaie, che le veda oppure no. L’arte di viaggiare è ancora ignota, eppure – a dar retta a certi sapientoni – un giorno si andrà su Marte, come si è giunti nelle Americhe. E come saranno gli abitanti di altri pianeti e galassie? Feroci come il Kublai-Khan, ma assai più spirituali di noi? Di che grandezza vedranno i loro soli? Come ne potranno sopportare la luce? Forse laggiù i metalli si fondono in natura e scorrono a fiumi? Ma sul serio ci sono infiniti