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Damasco: Damasco
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E-book351 pagine4 ore

Damasco: Damasco

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Info su questo ebook

Cosa succede quando ami una persona e ancora non lo sai? Quando quello che credevi fosse il tuo migliore amico, si rivela l’anima gemella, la ragione della tua stessa vita.

Per qualcuno l'amore ha la potente distruttività di una palla demolitrice: ti colpisce all'improvviso, togliendoti il respiro e sconvolgendo la tua mente. Da quel momento la tua vita non è più la stessa.

Per altri, invece, l’amore si costruisce giorno dopo giorno: è un sentimento che raccoglie in sé calma, pienezza, protezione, sicurezza e confidenza. Hai la certezza di poter contare su quella persona con cui decidi di intraprendere un cammino. E così, di punto in bianco, ti scopri innamorato.

…ma spesso si capisce ciò che si ha, solo quando lo si perde.

E se, dopo aver incontrato il vero amore, capitasse di perderlo?

Come potrebbe la vita continuare ad avere senso quando la sua stessa ragione non esiste più?

Come riuscire a sopravvivere quando il cuore perdere la ragione che gli permette di battere?

LinguaItaliano
Data di uscita22 nov 2019
ISBN9781071514719
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    Anteprima del libro

    Damasco - Jull Dawson

    Damasco

    Jull Dawson

    Tutti i diritti riservati.

    ISBN-10: 1544812426

    ISBN-13: 978-1544812427

    Diritti del libro elettronico di Jull Dawson

    Copia vietata senza autorizzazione.

    Copertura: E-Design SLG

    La licenza di questo libro appartiene esclusivamente all'acquirente originale. La duplicazione o la riproduzione con qualsiasi mezzo è illegale e costituisce una violazione della legge internazionale sul copyright. Questo e-book non può essere preso in prestito legalmente o dato ad altri. Nessuna parte di questo e-book può essere condivisa o riprodotta senza l'espressa autorizzazione del suo autore o editore.

    A Diepi, per essere molto più che la mia anima...

    "Spuntava dai suoi occhi una lacrima

    e dalle mie labbra una frase di perdono;

    parlò l’orgoglio e si asciugò il pianto,

    e la frase sulle mie labbra spirò.

    Io vado per un cammino, lei per un altro;

    ma pensando al nostro mutuo amore,

    io dico ancora: — Perché tacqui quel giorno?

    E lei dirà: — Perché io non piansi?"

    GUSTAVO A. BÉCQUER

    RINGRAZIAMENTI

    A mio marito Diego, per essere il sole dei miei giorni e la luna delle mie notti, per essere il mio riflesso e la mia metà; per condividere con me quest’avventura.

    Alle mie figlie Zoe e Emma, per l’amore di ogni giorno, per rendere il mondo un luogo meraviglioso soltanto con la loro presenza.

    A Mayte, mia consigliera costante, per il suo inestimabile aiuto in questo bellissimo viaggio, per la sua amicizia e per l’affetto che non conosce distanze e frontiere.

    A Moni, per il suo appoggio incondizionato in questo progetto, per il suo affetto a distanza.

    A Ned e a tutta la squadra, per averlo reso possibile.

    A voi, per condividere con me un piccolo pezzo delle vostre vite leggendo queste pagine.

    1

    "Cavoli! In ritardo il primo giorno... è tardissimo! Perché proprio oggi?" continuava a ripetere Emma, mentre si precipitava dalla camera da letto in cucina, alla ricerca di caffeina per riprendere del tutto conoscenza.

    Mezza tazza di caffè e una fetta di pane tostato più tardi, arrivò alla stazione José Hernández – metro D – solo per vedere il treno allontanarsi. Sospirò rassegnata, sperando che anche il professore fosse in ritardo.

    A quanto pare, gli astri erano dalla sua parte quella mattina. Il treno successivo arrivò poco dopo, permettendole di recuperare qualche minuto. Ora doveva solo attraversare a piedi gli otto isolati che separavano la fermata della metropolitana   dalla facoltà, ma, viste le circostanze, meglio prendere un taxi. Quando aprì la porta dell’aula nella quale si sarebbe svolto il corso di Fisica Applicata 1 erano arrivati solo gli altri alunni e cercò un posto libero dove sedersi.

    "Non troppo avanti... non molto indietro... magari vicino alla finestra... Bingo!"

    In un banco di due posti c’era una sedia disponibile.

    Il suo compagno era immerso nella lettura di un libro enorme, completamente estraniato dal baccano infernale che si stava scatenando tutt’intorno. Mentre gli si avvicinava, Emma lo osservava curiosa: sembrava abbastanza alto ‒ le sue gambe lunghe si perdevano sotto il posto d’avanti ‒ aveva i capelli di un castano scuro pettinati all’indietro, e un accenno di barba, del tipo non mi rado da due giorni. Indossava una t-shirt bianca sotto una camicia a quadri; il suo zaino di pelle giaceva riverso sul pavimento. Non avrebbe voluto interromperlo, ma il posto libero era proprio dall’altro lato. Sfoderò il suo sorriso e gli toccò lievemente la spalla.

    Un paio di occhi castani, scuri, profondi come la notte, la guardano, sorridendo in risposta.

    «Ciao, scusa, mi lasceresti passare?» chiese Emma, sfilandosi lo zaino dalla spalla.

    «Ciao... sì, certo.»

    Si alzò, e sì, era decisamente alto. La sua mano accompagnò il movimento in maniera cavalleresca. Passandogli accanto, il profumo di lui la avvolse.

    Si sedettero entrambi, ma prima di poter dire altro, un professore robusto, con un paio di occhiali tondi ed economici, in completo azzurro, gilet e papillon, fece la sua comparsa, con una valigetta in una mano e un raccoglitore che strabordava di fogli nell’altra.

    Dario prese posto, fece un segno alla pagina del libro prima di chiuderlo e rimetterlo in borsa, e lo percepì subito: lei emanava un inebriante profumo di gelsomini. Sua madre adorava i gelsomini, e l’aroma lo trasportò immediatamente al ricordo di lei: erano trascorsi solo venti giorni dal suo ritorno nella Capitale per prepararsi all’inizio del semestre, e già avrebbe voluto andarsene. Gli costava molto vivere lontano dai suoi genitori e dai fratelli. Provò una fitta per la nostalgia di casa.

    «Buongiorno a tutti, sono il professor Guglielmo Morando, benvenuti a Fisica Applicata 1»

    La lezione fu come tutte le prime lezioni: materiali e libri da acquistare, programma e date degli esami.

    La campanella suonò e con essa arrivò la pausa. Tutti si alzarono contemporaneamente, e lui – con un gesto della mano – le cedette il passo, mentre Emma rimetteva lo zaino in spalla, prima di seguirla verso l’uscita, alla ricerca di un po’ di aria fresca e di una tazza di caffè. La prima di molte.

    Una volta in piedi, le disse:

    «Con l’arrivo del professore non abbiamo potuto presentarci: sono Dario Azán e tu sei...»

    «Emma García Garmendia.»

    Mentre camminavano verso la porta, Dario contemplò la ragazza in silenzio. Solo in quel momento poté osservare con attenzione colei che emanava quell’aroma così dolce. I suoi occhi castani lo catturarono in uno sguardo innocente e onesto, i capelli bruni stretti in una coda alta, vestiva in modo semplice: jeans nero, stivali alti alla cavallerizza e un golf di lana ampio, color crema, su una canottiera attillata e dalle bretelline sottili. La sua voce era bassa e pacata, parlava con lentezza, aveva modi soavi e le sue mani delicate stringevano saldamente i raccoglitori e gli appunti. Non portava un filo di trucco.

    «Bevi caffè?» chiese Dario, ammiccando.

    «Non riesco a sopravvivere senza» sorrise Emma, inclinando un po’ la testa.

    «Neanche io» rise lui.

    Salirono i due piani di scale fino alla caffetteria, scambiandosi pareri sul professore. A Emma era parso un signore adorabile, aveva un modo tranquillo di parlare, che le ricordò immediatamente suo padre, e dal quale traspariva la passione per l’insegnamento. Dario lo conosceva già e le dette ragione: era uno dei professori preferiti dagli studenti.

    Erano in fila per il caffè e commentavano le varie scelte:

    «Che preferisci Emma? Lungo, macchiato, cappuccino, espresso...» elencava, mentre leggeva il menù sulla bacheca.

    «Si potrebbe avere un espresso con latte?» Dario si girò verso il suono di quella voce e si scontrò con lo sguardo curioso degli enormi occhi castani della ragazza.

    Si costrinse a smettere di fissare la sua collega e fissò invece la targhetta della signora che doveva servirli. Sorridendo disse: «Buongiorno Estela, vorremmo due espressi, uno lungo e uno con latte, da portar via per favore.»

    Emma stava controllando il telefono, estranea alla conversazione, quando un paio di scarpe nere dalla punta bianca apparvero nel suo campo visivo. Bloccò il cellulare, lo ripose nella tasca del pantalone e alzò lentamente la testa, giusto in tempo per vedere le mani di Dario trasportare un vassoio con i bicchieri usa e getta, un cucchiaino, delle bustine di zucchero e altri dolcificanti, e qualche tovagliolino.

    «Andiamo verso quel tavolo?» indicò alzando il mento.

    Emma notò una fossetta spuntare in mezzo alla barba incipiente.

    Quando appoggiarono il vassoio sul tavolo, Emma zuccherò il suo caffè, lo girò un paio di volte col cucchiaino e – nonostante avesse la fascetta di cartoncino – avvolse il bicchiere fumante in un paio di tovagliolini. Lui lo bevve lungo e amaro.

    Dario la guardava in silenzio. Le mani di quella creatura lo affascinavano: quelle dita lunghe e bianche, senza accessori, le unghie corte e pulite, si muovevano sopra le cose come fragili farfalle.

    Visto che era il suo primo giorno, lui la invitò a fare un giro dei vari edifici della Facoltà: ai piani superiori si trovavano le aule, mentre il pian terreno era completamente diverso.

    Con le finestre che davano sul davanti dell’edificio, si ergeva la biblioteca: la parete laterale in lucido legno scuro, sembrava brillare alla luce del lampadario centrale. Emma alzò la testa per osservare meglio quell’enorme grappolo d’uva di cristallo che scendeva orgoglioso dal centro del soffitto. Quel luogo era un sogno. Dario la seguiva da vicino e in silenzio, lasciandole spazio per apprezzare tanta bellezza. Sorrise sommessamente quando la vide girare in tondo, osservando con stupore tutto ciò che la circondava. Su quella stessa parete erano appesi alcuni quadri, ma ad attrarre la sua attenzione era il camino in pietra grigia che si ergeva al centro. Disposte in semicerchio, un paio di poltrone erano collocate intorno a bassi tavolini, in un chiaro invito alla lettura. Le altre tre pareti della sala erano ricoperte, dal pavimento al soffitto, di scaffali pieni di tutta la letteratura non tecnica. Un vaso straripante di peonie, in cima ad un rotondo tavolo di legno, era la ciliegina sulla torta. Dario si appoggiò ad uno degli schienali e attese paziente che l’espressione di stupore di Emma si tramutasse in parole.

    «Questo luogo è magico!» disse, sfoderando un enorme sorriso, poi abbassò lo sguardo sul suo caffè e ne prese un sorso.

    «Sì, lo è. È uno degli edifici più antichi della città, qualche anno fa lo hanno restaurato completamente. È un gioiello architettonico. Hanno fatto un lavoro incredibile» la voce di Dario era carica di sicurezza e ammirazione.

    «E cosa c’è da quella parte?» chiese Emma, indicando con la mano nella quale stringeva il bicchiere.

    «Girando a sinistra c’è il settore dedicato agli studi» rispose lui. Con un colpo di bacino si staccò dallo schienale e si incamminò in quella direzione.

    Emma lo raggiunse e percorsero insieme i pochi passi che li separavano dal cuore della biblioteca.

    Il banco della reception era vuoto. Si vedevano i libri disposti in file ordinate, i tavoli immacolati, le sedie accostate. Un unico studente occupava uno degli ultimi tavoli sul fondo, intento a battere freneticamente sulla tastiera del suo notebook, lo sguardo che rimbalzava dal libro allo schermo.

    Dario appoggiò una mano al centro della schiena di Emma. Avvicinando la bocca al suo orecchio, sussurrò:

    «Andiamo?»

    «Sì» fu tutto ciò che Emma riuscì a pronunciare.

    Continuarono a camminare lungo il corridoio, sorseggiando i loro caffè. Poco dopo si ritrovarono davanti al laboratorio di informatica, che apriva dopo mezzogiorno.  Erano arrivati fuori orario e non poterono entrare.

    «È stata solo una mia impressione o la biblioteca ti è piaciuta?» le chiese Dario divertito, conoscendo già la risposta.

    «Oh potrei trascorrere delle ore lì! È così bella, così magica...» e accompagnò quelle parole con un profondo sospiro.

    «Bene signorina, in tal caso, oggi è il suo giorno fortunato. Venga» e la condusse verso il cortile del piano terra.

    «Andiamo nel mio posto preferito in assoluto di tutto l’edificio» le confessò, prendendo l’ultimo sorso di caffè e gettando il bicchiere in un cestino per la carta. «Pochi studenti conoscono questo angolino e cerchiamo di non farlo sapere in giro.»

    Emma comprese subito il perché: era il posto perfetto per gli amanti della lettura. Delle panchine, simili a quelle che si trovano nei parchi, erano distribuite attorno ad una fontana scolpita in marmo di Carrara non in funzione, ma il bellissimo cherubino al centro, continuava fiero a scagliare frecce con il suo arco. Il selciato era coperto di sassolini e in ogni angolo c’erano aiuole fiorite e fitte di foglie verdi. Il giardino veniva curato con dedizione e lei lo notò subito. In questo angolo di Paradiso si respirava aria pulita, e tra tutti i presenti sembrava esserci il tacito accordo di non alzare la voce.

    «Ti ringrazio per averlo condiviso con me. Ci sediamo?»

    «Di niente e certo. Hai finito il tuo caffè?»

    «Non ancora» rispose, alzando il bicchiere a mo’ di brindisi.

    Mentre godevano di quegli ultimi istanti di pausa, parlarono dei corsi che avrebbero seguito quel quadrimestre. Sia per Fisica Applicata 1, che per Matematica 1 e nel Laboratorio Integrale di Architettura 1 erano nella stessa classe, quindi formavano già un gruppo di studio, solo per Storia dell’Architettura 1 non avrebbero seguito la stessa cattedra. Le aule erano su piani diversi, ma gli studenti erano sempre gli stessi.

    I giorni di studio si susseguivano uno dopo l’altro. Emma e Dario presero l’abitudine di incontrarsi ogni volta che avevano un minuto libero e le loro conversazioni erano sempre gradevoli. Fu così, in uno dei loro momenti privi di interruzioni, che Emma venne a conoscenza del fatto che Dario abitava da solo a Buenos Aires da un paio di anni.

    «I tuoi genitori invece vivono in campagna?» gli domandò.

    «Sì, mio padre si occupa di allevamento ed esportazione di cavalli andalusi. È da una vita che gli piacciono. I miei nonni paterni e i miei zii vivono a Damasco. Quasi venticinque anni fa lui venne qui con suo fratello per affari e incontrò il suo sogno» ricordò con dolcezza.

    «Il suo sogno?» chiese Emma, e nella sua mente aveva già più di un’idea romantica su cosa potesse essere quel sogno.

    «Mia madre. Al viaggio che avevano pianificato all’inizio, aggiunsero un tour in Patagonia, di quelli che propongo sempre le agenzie, che sarebbe terminando nella Terra del Fuoco. E lì la conobbe, letteralmente alla fine del mondo. I miei nonni materni avevano dei terreni agricoli a Brandsen e anche loro si trovavano lì in vacanza. Dopo circa una settimana, tornarono insieme a Buenos Aires. Dopo un’altra settimana trascorsa senza vederla e senza riuscire a togliersela dalla testa, mio zio tornò a Damasco con le buone notizie e mio padre decise di restare. Lui è un tipo molto formale, fissò un incontro con il suo futuro suocero e senza tergiversare chiese la mano di mia madre. Se a lei mancava qualcosa per innamorarsene completamente, fu quella proposta» Dario si voltò a guardare Emma e la trovò con un fazzolettino di carta stropicciato in una mano e le lacrime agli occhi.

    «È così romantico! E tu non vuoi continuare con i cavalli?»

    «Mi piacciono, infatti a casa ognuno ha il proprio.»

    «Hai fratelli? Che bello!»

    «Sì, due più piccoli. Cyro ha 19 anni e Malie ne ha 16. Io ne ho 22 e sono il maggiore. Mi piacciono i cavalli, potrei trascorrere ore cavalcando attraverso i campi, senza una meta ben precisa, e in quei momenti nella mia testa appaiono solo case e edifici, ponti e strade. Magari è un pensiero piuttosto utopico, ma credo che questo mondo avrebbe bisogno di più ponti e strade. E tu?»

    «Siamo solo mia madre ed io, non ho fratelli. Ti prego, non farmi la solita battuta sui figli unici» disse, scherzando.

    «No, è meglio di no.»

    «Mio padre era un architetto. Víctor García Santos, di sicuro lo conoscerai. Vederlo trascorrere tante ore sui suoi progetti, mi ha fatta appassionare. Nei fine settimana, era solito spostare il suo tavolo da disegno nel nostro giardino, così trascorrevamo il pomeriggio tutti e tre insieme: mia madre con le sue piante e i suoi fiori, mio padre con i suoi progetti mentre io costruivo e smontavo la mia casetta delle bambole fatta con i Lego.»

    Wow... La figlia dell’architetto García Santos! Incredibile... pensò Dario, con ammirazione. L’architetto in questione era famoso anche fuori dal loro Paese per aver progettato diversi edifici importanti, sia civili che governativi, in Argentina, Cile, Uruguay e Brasile.

    ***

    Il venerdì della prima settimana di corsi arrivò subito. Emma aveva tante cose da assimilare, compagni ancora da conoscere, orari da organizzare. Senza dubbio, in aula si sentiva la mancanza di una presenza: era l’unico giorno della settimana che Dario non frequentava con lei. Che strano pensò. Grazie al suo carattere affettuoso, creava facilmente legami e il suo istinto si sbagliava di rado, per questo era sicura che sarebbero diventati grandi amici. Eppure, aver trascorso tutta l’ora di lezione a pensare al sorriso di Dario, la sorprese, ma attribuì l’episodio al sentirsi a suo agio quando si trovavano insieme. In effetti, al suo fianco si sentiva protetta – era questa la parola giusta – nonostante si trovasse in un posto nuovo, tra persone sconosciute. Non provava questa sensazione gradevole dalla morte di suo padre, con Dario si sentiva a casa.

    Non che con sua madre non si sentisse accudita, lei era la luce degli occhi di Inés. Erano compagne, non avevano segreti, più che madre e figlia, erano amiche. Ciò nonostante, il suo animo romantico desiderava un cavaliere dalla scintillante armatura. E benché non fosse ancora arrivato, aspettare un altro po’ non le costava nulla, aveva tanto altro da fare.

    Inés e Víctor avevano cresciuto Emma con amore e determinazione, coccolandola il più possibile, ma insegnandole anche il giusto valore delle cose, ponendole dei limiti dove necessario e appoggiandola incondizionatamente. Sapeva di poter contare sul sostegno dei suoi genitori – ora solo di Inés in realtà – per spiccare il volo, per incoraggiarla nei suoi progetti e superare le sue paure, senza trattenerla. Ascoltavano i suoi problemi, la aiutavano a prendere decisioni e, soprattutto, avevano piena fiducia della loro figlia. Se le avessero dato la possibilità, non avrebbe scelto genitori migliori. Come figlia unica avrebbe potuto essere una bambina viziata e iperprotetta, ma al contrario, era dolce e generosa, aveva un carattere incredibilmente deciso ed era di una gentilezza rara da incontrare. Da suo padre aveva ereditato l’ordine e la costanza, da sua madre l’empatia e la precisione. Si sentiva davvero fortunata.

    Dopo la morte di Víctor, la tristezza si era impossessata di Emma e Inés, fu in quel momento così buio che decisero di aprire un negozio di fiori. Il giardino di casa era stato così tante volte il loro luogo di incontro che sarebbe stato quasi come essere di nuovo tutti insieme. E lo chiamarono come il fiore preferito Víctor: Le Gardenie, così bianche, così profumate. Come quelle che non mancavano mai nel loro soggiorno.

    Nell’arredo del locale Emma aveva dato libero sfogo a tutta la sua fantasia, e Inés la lasciò fare. Il risultato: un piccolo angolo di paradiso sulla Terra.

    Sul retro del negozio si trovava il piccolo laboratorio di Inés, dal quale si accedeva a cortile grande quanto il laboratorio stesso. Lì Emma trascorreva tutti i suoi pomeriggi, tra fiori e sogni. E da una settimana a quella parte, anche tra i libri.

    Il venerdì giunse al termine. Emma raccolse libri e raccoglitori, ripose velocemente tutto nello zaino e, dopo aver salutato i suoi compagni di banco, si diresse alla caffetteria. Abbozzando un sorriso, salutò Estela.

    «Buongiorno Estela, vorrei un doppio espresso con latte da portare.»

    «Buongiorno tesoro. Sola soletta oggi?» commentò la donna, mentre preparava diligentemente l’ordinazione. Erano pochi gli studenti che la chiamavano per nome, per questo li ricordava tutti.

    «Sì, il venerdì io e Dario non seguiamo insieme» rispose Emma rassegnata. Pagò quello che aveva preso. «Passa un buon fine settimana. Ci vediamo lunedì»

    «Anche tu. A lunedì.»

    Arrivò alla stazione della metropolitana e scese sulla banchina. Prese il telefono, collegò gli auricolari e si accorse a malincuore di averlo scarico.

    Magnifico, oggi non me ne va una giusta pensò Emma.

    Avanzò assorta lungo il binario mentre elencava mentalmente la lista dei libri che le mancavano da comprare, alcuni articoli di cancelleria e aggiunse anche un paio di cose per il negozio. Era impegnata a ripassare l’ordine della cartoleria, quando all’improvviso lo vide: appoggiato alla parete, le gambe incrociate, lo zaino in spalla, una bottiglia in una mano, Dario stava controllando il telefono.

    Come se avesse percepito la sua presenza, alzò lo sguardo dal dispositivo e le sorrise. Si tolse gli auricolari e dandosi la spinta con un piede, si staccò dalla parete.

    Emma lo guardava, rivolendogli un timido sorriso. Quando si incontrarono a metà della distanza che li separava, Dario toccò lievemente il suo braccio destro all’altezza del gomito, si chinò in avanti e le lasciò un leggero bacio, casto e brevissimo, sulla guancia.

    «Buongiorno, sapevo che ti avrei trovata qui. Com’è stata la tua mattinata?» chiese in tono scherzoso.

    «Buongiorno! Ah sì? Credevo che non ci saremmo visti fino a lunedì» rispose lei, mentre il timido sorriso diventava enorme.

    «Con i ragazzi di Storia ci siamo visti in biblioteca per ripetere gli argomenti del primo Laboratorio e siamo rimasti lì finché, senza rendercene conto, si è fatta ora di uscire. Siccome io e te non ci siamo incontrati per il caffè, ho pensato che potevamo viaggiare insieme. Torni a casa, no?» mentre lui parlava, Emma lo osservava in silenzio, in preda ad un misto di emozione e attesa.

    «Sì, vado a pranzo e poi a fare un po’ di compere, sai, i libri, devo andare in cartoleria...» gli rispose, mentre lo guardava spegnere l’iPod, pronto a prestarle tutta la sua attenzione.

    «Mmmm... Anche io dovrei comprare un paio di libri...»

    «Cosa ascoltavi?» gli chiese Emma, curiosa. «Il mio telefono si è scaricato.»

    «Un concerto dei The Cure... lo ascoltiamo insieme?» propose Dario, mentre le allungava uno dei due auricolari e ricollegava il cavo. Riaccese l’iPod e scorse col dito indice tutte le playlist, fermandosi a quella che aveva messo in pausa poco prima.

    «Mi piacciono» esclamò Emma.

    «Il venerdì non è lo stesso senza i The Cure» guardando verso il tunnel, scorse il treno che si avvicinava alla stazione.

    In piedi e vicinissimi ascoltavano le urla di Robert Smith e il treno gli si fermò proprio davanti.

    Emma stringeva i suoi raccoglitori e gli appunti, quando sentì la mano destra di Dario toccarle appena la schiena per guidarla verso il vagone. Trovarono due posti vicini e sedettero in silenzio per il resto del viaggio, godendo semplicemente della reciproca compagnia e della musica.

    ***

    Senza saperlo, Dario si trovò nella stessa situazione di Emma. Durante tutto il tragitto di ritorno alla fermata della metropolitana José Hernández, aveva meditato su quanto fosse diverso quel nuovo anno scolastico, rispetto ai precedenti.

    Viveva da solo a Buenos Aires da quando si era iscritto all’università quattro anni prima. E non era stato per nulla facile, abituato com’era alla vita di famiglia, in campagna, con i suoi fratelli. Ricordava con nostalgia tutti i chilometri percorsi in auto con suo padre, ogni mattina, per andare al liceo, gli scherzi e i capricci dei suoi fratelli, la vista di sua madre ferma sulla porta di casa finché l’automobile non spariva alla prima curva. Il confronto col silenzio e la solitudine che avvolgevano le sue mattine attuali, era disarmante.

    Prima o poi, lui, Cyro e Malie avrebbero dovuto occuparsi dell’attività di famiglia, sia a Damasco che a Brandsen – almeno dal punto di vista organizzativo – e per questo tutti, in vista del futuro che li aspettava, si sarebbero laureati in Commercio Internazionale. Per la felicità dei suoi genitori e la sua, poco meno di sei mesi prima, lui aveva concluso quel corso studi e ora si trovava dove davvero desiderava essere, alla facoltà di Architettura.

    La sua carriera in Commercio Internazionale era stata eccellente sul piano accademico, ma a livello personale lo aveva lasciato spossato.

    La solitudine non è una buona compagna e per esperienza personale sapeva quanto fosse facile prendere strade sbagliate. Per due anni aveva tentato in tutti i modi di evitare Paola, ma alla fine, come dice il famoso detto, tanto va la gatta al lardo che ci lascia lo zampino.

    In una delle tante uscite tra amici, si erano ritrovati soli e, una cosa tira l’altra, aveva finito per passare la notte intrappolato tra le lenzuola della ragazza... e si era risvegliato ufficialmente fidanzato. Non che lei non gli piacesse, era molto bella e andavano molto d’accordo, solo che aveva sempre immaginato una prima volta diversa, con amore e per amore, con la persona giusta, e non semplicemente per essersi lasciato trasportare dalla situazione. Sì, erano amici, si conoscevano, ma quello che provava per lei non amore e la loro era diventata un’amicizia con dei benefici, se qualcuno avrebbe davvero potuto trarre beneficio da quella situazione.

    Come era prevedibile, vista la mancanza di una base solida, la loro fragile relazione naufragò dopo otto mesi, con l’arrivo delle prime vacanze estive e della distanza che si portarono dietro. Tutto ciò che all’epoca sembrava tanto vuoto, ora non era nient’altro che la storia di una delle tante avventure avute in facoltà, di quelle che si collezionano per raccontarle prima o poi ai

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