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Alla scoperta dei segreti dell'antico Egitto
Alla scoperta dei segreti dell'antico Egitto
Alla scoperta dei segreti dell'antico Egitto
E-book873 pagine12 ore

Alla scoperta dei segreti dell'antico Egitto

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Info su questo ebook

Tutti i misteri di una civiltà affascinante

C’è sempre stato un posto d’onore per la civiltà egizia nell’immaginario collettivo di tutti i tempi, a partire dagli antichi greci.

Fin da allora la cultura occidentale si è lasciata avvincere da mummie, piramidi, obelischi, sfingi, urei, maschere d’oro, zampe di leone, serpenti, ibis, teste di sciacallo, scarabei, papiri e molto altro ancora. Ma qual è il loro vero significato? Per scoprirlo vale la pena intraprendere un lungo viaggio nel passato alla ricerca delle “innumerevoli meraviglie” d’Egitto e spingersi a curiosare nelle dimore della gente comune o nella reggia di un faraone, nel cantiere di una piramide o nella tomba di un dignitario, lungo la via processionale di un dio o nel giardino di un tempio. Per conoscere davvero questa importante civiltà perduta, la sua lingua muta, la sua cultura estranea e i suoi protagonisti imbalsamati, va fatto uno sforzo di immaginazione. Le storie di vita privata e pubblica, estratte dalla creta, dal granito, dal papiro, possono così riprendere vita, come se fossero state liberate dopo millenni, per svelarci trame antiche, ma ancora oggi suggestive perché ammantate di mistero.

Geroglifici, faraoni, piramidi: il fascino di una storia millenaria e misteriosa svelato attraverso documenti, reperti e ricostruzioni

«Dai testi magici e religiosi alle narrazioni epiche, dalle sensazionali scoperte archeologiche alle pazienti ricostruzioni degli studiosi, questo volume vuole tracciare una mappa delle zone d’ombra nella storia di questo plurimillenario Paese.»

«Una ricerca sempre affascinante, in bilico tra storia e leggenda.»
Stefania Bonura
Si è laureata a Firenze in Scienze politiche. Nel 2006 ha fondato la XL edizioni, piccola casa editrice romana, che ha diretto fino al 2015. Oggi vive in Sicilia e, oltre a scrivere libri, si occupa di editing e grafica. Appassionata di storia antica e di storia delle donne, di recente ha pubblicato una biografia di Frida Kahlo. Con la Newton Compton ha pubblicato 101 misteri dell’antico Egitto che non puoi non conoscere, Le grandi donne che hanno cambiato il mondo, Le 101 donne più malvagie della storia e Alla scoperta dei segreti dell'antico Egitto.
LinguaItaliano
Data di uscita23 mar 2018
ISBN9788822718938
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    Anteprima del libro

    Alla scoperta dei segreti dell'antico Egitto - Stefania Bonura

    Indice

    Cover

    Collana

    Colophon

    Frontespizio

    Ringraziamenti

    Introduzione

    I. Lungo le sponde del Nilo

    Il lungo fiume

    Le Due Terre

    Capitali scomparse

    Oasi e sabbia

    La Valle

    Le vie dell’oro

    II. Alla ricerca delle origini

    La battaglia degli storici

    Di regno in regno

    Origini africane o asiatiche?

    La scuola di Petrie

    L’alba di una civiltà

    L’era dei proto-Stati

    Alla ricerca di Menes

    I primi sovrani

    Da Abido a Menfi

    III. Il pantheon egizio

    Totem e tribù

    L’ordine dal caos

    Il mito più amato

    Tra mito e filosofia

    Un raggio di sole

    IV. Ai tempi delle piramidi

    Le prime piramidi

    Verso la piramide perfetta

    Le piramidi di Giza

    Il mistero della costruzione

    Il complesso piramidale

    La custode della piana

    I figli del Re Sole

    Piramidi sconosciute

    Verso la fine

    V. Viaggio nell’oltretomba

    L’occidente della vita

    Corpi bendati

    I testi funerari

    Demoni e fantasmi

    VI. L’età di mezzo

    Nefasto caos

    La rinascita delle Due Terre

    Dopo i secoli bui

    Una nuova dinastia

    Gli stranieri

    La battaglia di Tebe

    VII. La vita al tempo degli egizi

    Vita e morte

    Non solo di pane

    Vita di campagna

    Lavoro e schiavitù

    Case e giardini

    Igiene e bellezza

    Musica, danza e canti d’amore

    VIII. L’impero

    Un nuovo regno

    Il regno del silenzio

    I Thutmosidi

    Amon versus Ra

    La rivoluzione dell’Aton

    Il luccichio dell’oro

    IX. La lingua degli dèi

    Da Rosetta a Parigi

    Sacre incisioni

    Un’antica grammatica

    Il mestiere più bello del mondo

    X. Apogeo e decadenza

    L’ascesa dei Ramessidi

    Il declino dei Ramessidi

    Gli ultimi faraoni

    I macedoni

    Appendici

    Tavola cronologica delle dinastie e principali faraoni

    Bibliografia

    Tavole fuori testo

    es

    557

    Prima edizione ebook: aprile 2018

    © 2018 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-1893-8

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Corpotre, Roma

    Stefania Bonura

    Alla scoperta dei segreti dell'antico Egitto

    Tutti i misteri di una civiltà affascinante

    omino

    Newton Compton editori

    Ai miei otto compagni di viaggio

    Mi accingo a sviluppare il mio racconto sull’Egitto perché,

    a preferenza di ogni altro paese,

    sono innumerevoli le meraviglie che contiene.

    Erodoto, Storie, ii, 35

    mappa1mappa 2

    ringraziamenti

    Rubo poco spazio per i miei ringraziamenti che vanno in primo luogo a mia sorella, Antonella, Fabrizio, Francesco, Ludovica, Patrizia, Ugo e Urbano, che hanno deciso alcuni anni fa di seguirmi lungo la Valle del Nilo in un viaggio che ancora oggi ricordiamo con grande entusiasmo. Questo libro nasce in memoria di quel viaggio. Colgo anche l’occasione di ringraziare, per le preziose informazioni sulla pianta del papiro e su come veniva utilizzata nellʼantichità, Corrado Basile con cui ho avuto modo di conversare piacevolmente nelle sale del Museo del papiro di Siracusa da lui fondato e curato con devozione. Sento infine il dovere di ringraziare storici, archeologi e studiosi dellʼantico Egitto di questo e dello scorso millennio. La lettura delle loro opere, fin dalla mia giovane età, ha dato vita a un mondo di suggestioni. Sono loro debitrice di tutte le mie conoscenze ed emozionanti esplorazioni.

    Introduzione

    L’antico Egitto ha sempre suscitato grandi passioni. Le divinità, i faraoni, il lento scorrere della vita lungo le sponde del Nilo, la costruzione di splendidi e straordinari edifici, le sculture colossali, i riti funebri e il Regno dei morti, le conoscenze mediche e astronomiche, la misteriosa scrittura geroglifica, le grandi avventure archeologiche. E c’è sempre stato un posto d’onore per questa millenaria civiltà nell’immaginario collettivo di tutti i tempi, a partire dagli antichi greci. Fin da allora la cultura occidentale si è lasciata avvincere da mummie, piramidi, obelischi, sfingi, urei, maschere d’oro, zampe di leone, serpenti, ibis, teste di sciacallo, scarabei, papiri e molto altro ancora. Ma qual è il loro vero significato? E dove vanno a collocarsi nella grande e nelle piccole storie? Molte sono ancore le convinzioni sbagliate e i luoghi comuni che permeano questo esotico universo, un retaggio antico, cui si aggiungono innumerevoli credenze dei giorni nostri.

    Ma se vogliamo veramente conoscere questa importante civiltà perduta, con la sua lingua muta, la sua cultura enigmatica e la sua popolazione mummificata, dobbiamo fare uno sforzo di immaginazione. La prima domanda da porci allora è: come doveva apparire a un egizio il mondo? Proviamo a vedere le linee geometriche che ogni giorno disegnavano un creato armonioso davanti ai suoi occhi. Allontaniamoci dal caos delle principali città del Nord, il Cairo e Alessandria, e avanziamo verso sud nella silenziosa valle del Nilo, fino alla prima cateratta, che segnava al tempo delle piramidi il confine con la Nubia: qui si può afferrare il sapore antico della lotta quotidiana tra il fiume e il deserto. Strisce di colori netti si dispongono simmetricamente per chilometri, blu, verde, nero, giallo, mentre il limite definito, esatto, tra cielo e terra si staglia sulla linea del tramonto. Di giorno il sole è così rovente da sciogliere l’orizzonte visivo, una palla infuocata che accende di rosa l’arenaria, ammanta di un bianco smagliante il calcare e ricopre d’oro le valli. I suoi raggi si riflettono come scaglie d’argento sull’acqua del fiume. Se volessimo veramente conoscere l’anima di un antico egiziano, basterebbe cercare con lo sguardo quel nastro sinuoso e lucente: il Nilo.

    Per comprendere, tuttavia, questa semplice evidenza, cioè che l’Egitto è prima di tutto un fiume, come affermava Erodoto, bisognerebbe andare in Egitto. Ma il Nilo di oggi ha perso in un certo senso il suo spirito, il suo humus leggendario che lo faceva assomigliare a un dio. Il Nilo di oggi è un gigante addormentato, regale e maestoso come uno dei colossi di Ramses crollato al suolo. I vasti campi limacciosi che fino a cinquant’anni fa a ogni ciclo di stagione emergevano dall’acqua come collinette appena fecondate, oggi sono fasce di terra verde coltivata a fatica da vecchi aratri e buoi rinsecchiti. La porta dell’inondazione, come veniva chiamata Assuan dagli egizi, è adesso uno sbarramento composto da più dighe. Gli egiziani hanno avuto il loro ultimo allagamento nel 1971, quando è stato creato il lago Nasser, un immenso bacino artificiale che, nella sua furia invasiva, ha rischiato di portarsi via i templi più belli della Nubia.

    Bisognerebbe allora sforzarsi di immaginare come poteva essere l’Egitto quando le piene del Nilo segnavano l’arrivo del nuovo anno, carico di speranze e di paure, che tuttavia oscillavano tra i margini, propizi o nefasti, di una stabilità millenaria: l’eterna ricomparsa del sole, dopo il suo viaggio notturno, e il sopraggiungere violento dell’acqua ad ogni stagione estiva. Ed ecco ripartire un nuovo ciclo: sempre uguale da poter confidare nella saggia mano del sovrano con il suo esercito di scribi, architetti e ingegneri, sempre diverso da doversi affidare alla protezione di dèi e demoni.

    Intraprendere un lungo viaggio nel passato significa spingersi a curiosare ancora più a fondo, immergersi nelle dimore della gente comune o nella reggia di un faraone, nel cantiere di una piramide o nella tomba di un dignitario, lungo la via processionale di un dio o nel giardino di un tempio, in un campo di battaglia o in una barca carica di oli ed essenze, in una capitale del Delta o in un piccolo villaggio del Medio Egitto, in una scuola per scriba o nella bottega di un artigiano; scoprire particolari semplici o stravaganti e lasciarsi sorprendere dalle storie comuni e straordinarie che ebbero luogo cinquemila anni fa.

    Queste storie, estratte dalla creta, dal granito, dai papiri, sembrano allora riprendere vita, come se fossero state liberate dopo millenni per svelarci trame antiche: azioni, convinzioni, sogni, pensieri, conquiste, delusioni, sentimenti vivi e ancora oggi suggestivi, in alcuni casi perché ammantati di mistero, in altri perché così sorprendentemente vicini a noi. La storia e le storie dell’antico Egitto, infatti, sono inevitabilmente legate agli oggetti, agli edifici, ai documenti rinvenuti dagli archeologi e dagli storici, ed è proprio questo che le rende affascinanti, come parte di un thriller che sembra non finire mai. Ogni scoperta, ogni segreto svelato corrispondono a un nuovo segreto, una nuova sfida per gli studiosi del passato e una nuova storia per chi scrive e per chi legge.

    In questo volume sono stati selezionati numerosi personaggi, vicende, curiosità e raggruppati in grandi temi, dalla storia alla geografia, dalla religione alla vita quotidiana, cercando di rispettare comunque un ordine cronologico e una successione narrativa, per fornire al lettore una visione ampia e gli strumenti necessari a comprendere gli eventi e l’evoluzione di un popolo antico nell’arco di un periodo molto lungo. Ogni capitolo, inoltre, si arricchisce di innumerevoli aneddoti, avventure archeologiche, racconti di viaggiatori e pionieri del passato, capolavori dell’arte e dell’architettura, bizzarrie e mode egittizzanti, tutti parte di un unico flusso, di un unico lungo viaggio che inizia dalla cosiddetta epoca predinastica (5000-3000 a.C.) e giunge fino alla fine dell’epoca tolemaica (332-30 a.C.), e della civiltà egizia.

    I. Lungo le sponde del Nilo

    Se il primo e più lampante dato geografico è che l’Egitto, come sosteneva Erodoto, è un dono del Nilo, la più importante conseguenza storico-culturale è che il Nilo è l’ossatura su cui venne eretta la civiltà dei faraoni. Mai un fiume poté vantare un rapporto così simbiotico con un popolo, tanto da divenire la sua stessa coscienza collettiva. Neppure le grandi civiltà che nacquero in Mesopotamia, bagnata dal Tigri e dall’Eufrate, giunsero mai a identificarsi completamente con i due fiumi che pure ne garantirono sopravvivenza e prosperità.

    Il Nilo è un lunghissimo giunco che immerge le sue intricate propaggini in mare. Su questo fusto si stratificarono tre millenni di storia egizia, come una pelle che con il passare del tempo si ispessisce, muta forma, elasticità, colore, ma che rimane sempre ancorata al suo scheletro. Ogni aspetto della mentalità egizia fu forgiato fin dalle origini dal fiume. Seguiamone il percorso lasciandoci trasportare dalla corrente e facendoci guidare da uno dei più eminenti storici e viaggiatori del passato.

    Il lungo fiume

    L’amico dei barbari

    Nel v secolo a.C. Erodoto, uno scrittore greco di Alicarnasso, se ne andava a zonzo per l’Egitto, ascoltando, osservando e annotando dati e impressioni. Il suo scopo era registrare notizie, fatti. Voleva impedire, come egli stesso racconta, che si perdesse il ricordo «delle cose avvenute da parte degli uomini». Voleva che si desse legittima gloria alle «opere grandi e meravigliose, compiute sia da Elleni sia da Barbari». Per Erodoto i barbari erano i persiani, sconfitti dai greci dopo due lunghe guerre. Aveva, infatti, intrapreso il suo viaggio per il Mediterraneo orientale alla ricerca delle ragioni profonde di questo grande conflitto, che era stato un vero e proprio scontro di civiltà tra Occidente e Oriente. Quando verso il 450 Erodoto attraversava la valle del Nilo, l’Egitto era una satrapia persiana da più di cinquant’anni e lo sarebbe stata un altro secolo e mezzo. Barbari, dunque, erano anche gli egizi che erano entrati a far parte del sistema culturale persiano, il quale era diventato un vasto regno multietnico a partire dalle guerre espansionistiche di Ciro il Grande. L’asservimento dei faraoni a una potenza straniera, tuttavia, nulla levava al fascino irresistibile che questa terra esercitava sullo storico greco. Traspare dalle pagine delle sue Storie. L’ammirazione e il rispetto per una cultura così antica non lo abbandonarono mai nella sua lunga permanenza in Egitto. In quattro mesi Erodoto esplorò città, templi, piramidi e villaggi. Registrò gli stravaganti usi e costumi, interrogò sacerdoti e scribi sul loro passato, intrecciò relazioni con i suoi compatrioti che da generazioni si erano insediati nel Delta, ascoltò fatti di cronaca e leggende, e osservò minuziosamente il paesaggio. Sua è ancora oggi la definizione più riuscita dell’Egitto. A chiunque sia dotato di intelletto, scrisse all’inizio del secondo libro della sua opera, basta uno sguardo per capire che l’Egitto «è un’aggiunta di territorio fatta agli Egiziani, un dono del fiume».

    Per questo suo appassionato racconto venne aspramente criticato dai suoi conterranei. La sua curiosità nei confronti di un mondo altro era il sintomo di una tolleranza inaccettabile. Ma il suo voler narrare, persino come un prosatore esperto, tutto quello che vedeva e di cui veniva a conoscenza, era il primo piccolo passo per affermare una mentalità aperta nella ricerca storica, di cui i posteri avrebbero beneficiato. Oggi è considerato il padre di tutti gli storici. Quello che vide e udì, inoltre, fu alla base di un lungo percorso di ricostruzione della storia dell’antico Egitto che ancora oggi prosegue.

    La terra rossa

    L’Egitto non è stato sempre come lo vediamo oggi. Prima di diventare un’oasi lineare, per usare una felice espressione di Toby Wilkinson, nel gran mare di sabbia del deserto, era una regione interamente verde in mezzo a terre altrettanto lussureggianti.

    Circa novantamila anni fa, il fiume, molto diverso da quello attuale, non era l’unica fonte idrica per gli uomini e gli animali che popolavano l’area. La vegetazione era diffusa in tutto il Paese e in tutta l’area sahariana. La piovosità garantiva la vita non solo lungo le sponde del Nilo o a ridosso delle oasi, come è oggi e come era quando la civiltà egizia ebbe origine. Tutto il Nord Africa era ricoperto di foreste e praterie. Diverse specie di animali transitavano cibandosi dei frutti che la terra generosa offriva. Elefanti, ippopotami, giraffe, antilopi, scimmie, struzzi e bovini trovarono qui il loro habitat ideale per millenni prima di trasferirsi a sud. Fiumi e laghi erano ricchi di pesci e gli uccelli solcavano di continuo i cieli. Leoni, leopardi, lupi, iene e altri predatori, compresi gli uomini, potevano cacciare e cibarsi a sazietà.

    Durante il Paleolitico (tra novantamila e diecimila anni fa), i rovesci si ridussero progressivamente fino a stabilizzarsi in un’alternanza di aridità e piovosità stagionali che trasformarono radicalmente l’ambiente. La vegetazione cominciò a concentrarsi solo in alcune zone, a ridosso dei bacini che si formavano durante le estati piovose.

    Finché la radiazione solare d’estate e d’inverno fu abbastanza contrastante, l’Egitto e tutta l’area del Sahara poterono beneficiare di una circolazione monsonica che si traduceva in abbondanti piogge estive. Un lieve cambio di inclinazione del nostro pianeta rispetto al piano di rotazione generò drammatiche conseguenze per la fauna e per la flora sahariane, e ovviamente per i pastori seminomadi che abitavano l’area. L’alternanza di stagioni secche e piovose che aveva garantito per millenni la vita creando un habitat simile a quello delle attuali savane del Centro Africa, lasciò il posto nel giro di pochi secoli a un’unica stagione di siccità. Le piante inaridirono, i bacini si prosciugarono, gli animali trasmigrarono, confluendo verso sud e verso le aree fertili, come la valle del Nilo. E qui rimasero finché un massiccio incremento demografico non costrinse a ulteriori graduali transumanze. In epoca faraonica ancora si hanno testimonianze della presenza di ippopotami, gazzelle, leoni, babbuini.

    Circa seimila anni fa, il verde abbandonò definitivamente il Sahara, tranne che in alcune oasi alimentate da canali d’acqua sotterranei. La desertificazione trasformò il Nord Africa in una vasta regione desolata, la più arida della terra, con tassi di piovosità al di sotto delle medie più basse. Furono proprio gli egizi a coniare il termine desheret, terra rossa, da cui deriva appunto deserto: la landa sabbiosa o rocciosa, sterile, dove la vita è un miraggio, che siamo abituati a riconoscere quando vediamo un cammello ancheggiare sulla cresta di una gigantesca duna.

    Durante l’accentuarsi della desertificazione, il Nilo divenne l’unica fonte stabile di acqua e di nutrimento e cominciò a richiamare lungo le sue sponde i primi gruppi umani stanziali. Fu l’inizio di una grande storia.

    Il miracolo della vita

    Con i suoi 6800 chilometri, il Nilo è uno dei fiumi più lunghi della terra. Erodoto fu il primo ad accorgersi, o quantomeno a registrare, che la civiltà egizia doveva la sua fortuna, la sua prosperità, la sua stessa esistenza e la sua longevità a questo fiume. La piena annuale, infatti, concimava naturalmente la vallata ricoprendola di un limo nero molto fertile e assicurando la crescita rigogliosa delle messi. Ma gli abitanti dell’antico Egitto non riuscivano a immaginare quali forze potessero scatenare la piena. E non avevano la minima idea di quanta strada dovesse compiere l’acqua del Nilo prima di bussare alle porte di Assuan.

    Tutto iniziava nell’attuale Etiopia con l’arrivo delle piogge estive. Per effetto delle precipitazioni di giugno il Nilo Azzurro si dilatava e cominciava a scivolare impetuoso verso nord. All’altezza di Khartum, odierna capitale del Sudan, veniva raggiunto da un’altra massa d’acqua, il Nilo Bianco, proveniente dai grandi laghi dell’Africa centrale e, dopo circa trecento chilometri di viaggio, anche l’Atbara, che scendeva dagli altipiani etiopici, si immetteva nel suo letto. Il fiume carico continuava a percorrere migliaia di chilometri in direzione del Mediterraneo travolgendo argini, terra e vegetazione e trascinandosi dietro detriti e fango, quel famoso limo che andrà a depositarsi alla fine del suo percorso in Egitto. In Nubia, tortuose anse di arenaria rossa e sbarramenti di roccia vulcanica costringevano il Nilo a cadute violente e burrascosi balletti. Per ben sei volte, il fiume doveva superare gli ostacoli delle cateratte prima di fare il suo trionfale ingresso in Egitto. Era Assuan a salutare per prima il nuovo arrivato, ad aprire le porte all’inondazione. Dopo aver investito l’isola Elefantina e allagato i suoi argini di granito rosso, il fiume indomito continuava la corsa in un letto troppo stretto, delimitato sul lato occidentale dalle gialle dune del deserto libico e su quello orientale dalle alte e rugose rupi del deserto arabico. Per seicento chilometri il Nilo invadeva la striscia verde che tracciava gli ampi margini alluvionali dell’Alto Egitto, dove oggi svettano smussati i piloni e gli obelischi dell’antica Tebe e, più a nord, le sacre colonne dei templi di Dendera e di Abido. Infine giungeva nel Basso Egitto, che iniziava a nord dell’odierno Cairo, dove un tempo sorgeva Eliopoli (Iunu). Prima di unirsi al Grande Verde (uadj-ur), come veniva definito il mar Mediterraneo, si schiudeva in un ventaglio di rami e ramoscelli che si immergevano nell’acqua salata dopo aver allagato un immenso triangolo di terra, chiamato dai greci Delta, la pianura più fertile di tutta l’antichità.

    Per circa sette millenni, gli egiziani hanno visto il ripetersi inalterato dell’inondazione annuale del Nilo. Durante la stagione estiva, l’acqua cominciava a salire finché non usciva fuori dal suo letto per riversarsi sulla striscia di terra che costeggiava gli argini. La vallata veniva interamente inondata, e quindi irrigata, rinnovata e fertilizzata. Questo evento, così importante perché da esso dipendeva l’agricoltura e la sopravvivenza stessa della popolazione, ha ritmato il ciclo dell’esistenza di ogni egiziano fino al secolo scorso. Ma per gli antichi era qualcosa di più. Significava assistere ogni anno ai prodigi misteriosi di una volontà divina. Dal 2500 a.C. questo potere magico ebbe un nome. Il dio Hapi, infatti, che compare in questo periodo, divenne l’incarnazione dell’esondante potenza fluviale che annualmente trovava il suo sfogo sul suolo egiziano e del miracolo della vita. Il dio si presentava, infatti, come un ibrido uomo-donna: forme androgine mescolate a un ventre prominente e a mammelle, tutti i simboli della fertilità maschile e femminile sommati su un corpo verdastro o bluastro inghirlandato di papiri per evocare il suo legame con l’elemento acquatico. Hapi era il padre e la madre dell’Egitto. Si era dato vita da sé, come da sé sembrava arrivare quel dono di abbondanza e gioia. Il fiume «arriva da solo ad irrigare i campi», dice Erodoto, «li irriga» e «se ne ritrae», lasciando all’egiziano solo l’onere della semina e l’attesa del tempo della mietitura.

    Ma il fiume, che veniva chiamato anche iteru nella sua accezione geografica, non serviva soltanto a irrigare la terra e a dissetare i suoi abitanti. La grande quantità di limo, che veniva trasportata dagli altipiani dell’Etiopia, si depositava sulle due sponde creando degli argini naturali e soprelevando il terreno oltre il livello normale dell’inondazione. Le ampie pianure alluvionali, infatti, avevano assunto col passare dei millenni una forma convessa, poiché dal letto del fiume che esondava declinavano i sedimenti fino ai margini delle coltivazioni dove si formavano delle alture. Questa particolare morfologia consentì agli egizi di fondare insediamenti più sicuri e di usufruire di bacini naturali. Le acque, infatti, venivano intrappolate nella pianura e condotte in una fitta rete di canali che consentivano un accesso immediato ai porti fluviali necessari per lo spostamento di uomini e merci. Inoltre, il fango accumulato era immediatamente utilizzato sul posto per la costruzione delle abitazioni e i sedimenti argillosi servivano per fabbricare il vasellame. Superata la miracolosa fascia circoscritta dal limo, oltrepassato il dominio del dio Hapi, la vegetazione scemava e si entrava in un regno di solitudine e morte.

    Un pozzo senza fondo

    A lungo gli egizi ritennero che le acque del Nilo sgorgassero da una voragine sotterranea posta da qualche parte lungo lo sbarramento della prima cateratta. Assuan (Siene), la prima città egiziana al di qua del confine tra Egitto e Nubia, era infatti definita la porta dell’inondazione. Probabilmente, i salti del fiume, soprattutto nell’impeto della piena, e i boati e i violenti rigurgiti dell’acqua che cozzava contro i massi sporgenti, riuscivano a creare la suggestione di un’emersione. In quest’antica ottica, una parte dell’acqua saliva dagli abissi e si riversava a nord, verso l’Egitto, l’altra parte se ne scendeva a sud, verso l’Etiopia.

    Secondo Erodoto, nessuno in Egitto, né egiziano, né libico, né greco, era in grado di indicare dove esattamente originava il fiume. Uno scriba di Sais gli aveva rivelato che le sorgenti del Nilo andavano cercate in mezzo a due cime aguzze situate tra la città di Siene e di Elefantina, ma che erano inesplorabili. A questa conclusione sarebbe giunto Psammetico, faraone della xxvi dinastia (672-525 a.C.), il quale avrebbe fatto intrecciare una corda e l’avrebbe calata in quel punto per parecchie migliaia di orgie (unità di misura greca corrispondente a 6 piedi), senza riuscire a toccare il fondo.

    E si pensava che proprio in una delle caverne, nascoste tra i massi della prima cateratta, vivesse il dio Hapi con i suoi due vasi, uno con l’acqua celeste per gli dèi e l’altro con l’acqua terrestre per gli uomini, e che ad aprire le porte della caverna una volta l’anno era Khnum, il dio a testa di ariete venerato a Elefantina, che si credeva avesse forgiato il mondo con il fango. Era lui il guardiano delle sorgenti. Era lui che spingeva Hapi fuori dalla caverna, che scatenava cioè la piena ciclica, e ne regolava la portata dell’acqua tenendo in mano il chiavistello della porta e spalancandola o meno a suo piacimento.

    Venti, oceano, piogge, nevi…

    A questa storia del Nilo che si gonfiava per cento giorni l’anno a cominciare dal solstizio d’estate, per poi ritirarsi e restare povero d’acqua per il resto dei giorni fino al solstizio dell’anno successivo, Erodoto desiderava in ogni modo trovare una spiegazione. Perché mai, si chiedeva, il Nilo si comportava in modo così anomalo rispetto agli altri fiumi? Se gli egiziani gli avevano fornito una soluzione religiosa, i greci gli proponevano tre ipotesi più scientifiche, che tuttavia Erodoto valutò bene prima di bocciarle tutte. Una delle tre era invece corretta!

    La prima ipotesi era che il «rigonfiamento del fiume dipendeva dai venti Etesii» (di tramontana), i quali, spirando da nord-ovest per diversi giorni nel corso dell’estate, «impedivano al Nilo di riversarsi in mare». Per Erodoto era un’assurdità perché tutte le volte in cui il vento non tirava, il fiume si comportava allo stesso modo, né altri fiumi colpiti dagli stessi venti reagivano come il Nilo.

    La seconda ipotesi, per quanto affascinante, non aveva bisogno di commenti. Si sosteneva che il Nilo dava origine a quel fenomeno perché derivava dall’oceano, il quale secondo un’antica credenza greca era un dio-fiume che circondava la terra.

    La terza ipotesi era per Erodoto la più inverosimile, poiché affermava che il Nilo proveniva «dalla fusione delle nevi». Chi aveva dato questa spiegazione doveva sembrare ad Erodoto un po’ troppo eccentrico. Come si poteva sostenere una cosa così contraria alla logica, visto che il Nilo proveniva dalle regioni più calde dell’Africa, dove spiravano solo venti caldi, dove era impossibile che una sola goccia cadesse dal cielo, dove le popolazioni avevano la pelle arroventata dal sole e dove gli uccelli si rifugiavano per svernare?

    Ebbene, Erodoto non aveva previsto che le montagne potessero essere presenti anche in territorio africano e che lo scioglimento delle nevi influiva, insieme alle piogge estive, sul rigonfiamento di uno dei due fiumi che dava vita al Nilo. Ma all’epoca le origini del Nilo non erano state ancora scoperte.

    Come riporta Diodoro Siculo, secondo Agatarchide di Cnido, un filosofo alessandrino del 200 a.C., sulle montagne etiopi pioveva continuamente tra il solstizio d’estate e l’equinozio d’autunno. Era in questo intervallo di tempo che il fiume si ingrossava con il contributo dei torrenti. Quello che sconcertava ancora nel i secolo a.C., l’epoca del geografo greco, era il fatto che il Nilo si ingrossasse proprio d’estate e si ritirasse invece di inverno, un comportamento del tutto contrario a qualsiasi logica. Su questo Diodoro Siculo riportava un’altra stravagante teoria dei filosofi menfiti, che cioè il mondo era diviso in tre aree: la nostra, il nord; una zona intermedia, desertica e inabitabile; infine una zona meridionale, dove le stagioni marciavano in senso inverso alla nostra: l’inverno lì corrispondeva alla nostra estate e viceversa. Questo spiegava perché il Nilo, che aveva origine in quel terzo mondo, esondava nel corso della nostra estate. Ma neanche questa spiegazione parve abbastanza convincente.

    Le Montagne della Luna

    I saggi della corte alessandrina, soprattutto gli spiriti più avventurosi e gli amanti del mistero, si divertivano a immaginare un paese, al di là della zona desertica, dove il Nilo potesse avere le sue sorgenti, un luogo inimmaginabile, di grandi laghi e montagne piovose. Per altri, tuttavia, si trattava solo di leggende. In effetti, le spiegazioni delle origini del Nilo e del suo bizzarro comportamento erano state fino ad allora solo di ordine teorico, poiché nessuno ancora si era spinto fino in fondo, cioè fin nel cuore dell’Africa. Alcune testimonianze romane di spedizioni, ai tempi di Nerone, ci sono pervenute tramite Seneca. Il filosofo affermava che una in particolare aveva come obiettivo quello di scoprire le fonti del Nilo (caput Nili). Anche Plinio il Vecchio riporta una spedizione simile, probabilmente la stessa, ma non si ha nessuna prova né dell’una né dell’altra.

    Fu Claudio Tolomeo, un geografo alessandrino del ii secolo d.C., il primo ad affermare che nell’Africa equatoriale dovevano esserci grandi laghi che alimentavano il fiume sacro ai piedi di montagne innevate, che battezzò Montagne della Luna (Lunae Montes). Ma per secoli nessuno, neanche qualcuno dei pellegrini che raggiungeva la Terra Santa, osò mai avventurarsi così a sud, oltrepassando deserti e terre ignote. Bisognerà infatti attendere l’inizio del Seicento, più di un millennio, perché un gesuita spagnolo, padre Páez, inviato in missione in Etiopia per convertire la Chiesa ortodossa etiope al cattolicesimo, potesse vedere la fonte del Nilo Azzurro. Era il primo europeo ad avercela fatta. «Confesso che mi sento fortunato e felice», appuntò sul suo diario, «perché Alessandro Magno, Giulio Cesare, Ciro e Cambise l’hanno sempre desiderato senza mai riuscirci». Era il 1618.

    Un secolo e mezzo dopo un commerciante scozzese, James Bruce, console ad Algeri per il governo britannico, dopo aver viaggiato per sette anni attraverso il Nord Africa e il Vicino Oriente, si convinse che le famose Montagne della Luna fossero in Abissinia. Nel 1768, partì alla volta del porto di Massaua e si inoltrò verso l’interno raggiungendo le rive del lago di Tana. Poiché da qui risalì il Nilo Azzurro fino a Khartum, laddove si univa a un affluente, si convinse di aver scoperto nel lago la sorgente del Nilo. Ebbene, quell’affluente in realtà era il Nilo Bianco! Esso aveva le sue sorgenti molto più a sud. Era quella la lunga strada per trovare le origini del grande fiume.

    Un secolo dopo due esploratori della Royal Geographical Society, Richard Francis Burton e John Hanning Speke, decisero di cominciare le ricerche della famosa sorgente andando più a sud e partendo da un lago. Nel 1858 erano alla volta del Tanganica. Avrebbero dovuto semplicemente trovare un corso d’acqua e risalirlo, un po’ come aveva fatto Bruce con il lago di Tana, per verificare che si trattasse della sorgente del Nilo Bianco. Tuttavia, sembrava che dal Tanganica non partisse alcun fiume. Ferito a una gamba, Burton fu costretto a interrompere le ricerche. Speke invece continuò e fu lui a trovare il lago Nyanza, che subito battezzò con il nome della sua sovrana. Il lago era talmente vasto che era impossibile vederne la riva opposta. «è enorme quanto l’Impero britannico», disse. «È per questo che l’ho chiamato Vittoria». Stando a quello che dicevano gli indigeni, a nord della distesa d’acqua scorreva un fiume. Speke era convinto: aveva trovato le mitiche sorgenti del Nilo ed era tornato in patria acclamato dalla Royal Geographical Society. Ma Burton non era affatto d’accordo con le sue conclusioni e non era il solo.

    Nel 1860, la Royal Geographical Society finanziò Speke per una nuova spedizione. Questa volta l’esploratore era accompagnato da James Augustus Grant, un ex ufficiale scozzese dell’esercito indiano. Dopo un anno, dei due esploratori si persero le tracce, finiti chissà dove e prigionieri di qualche tribù ignota. Fu Samuel White Baker, un eccentrico avventuriero inglese, che nel 1861 si mise alla ricerca dei due sventurati. Era accompagnato dalla sua giovane moglie di origine ungherese che si diceva avesse liberato dalla schiavitù. Nel 1862 i due raggiunsero Speke e Grant, ancora vivi, subito dopo la loro liberazione e dopo che avevano raggiunto le cascate del lago Vittoria. Speke era ormai convinto di aver trovato le famose sorgenti, e rientrò in patria, senza verificare la scoperta. Nel 1864 toccò a Baker scoprire un altro grande lago, il Louta N’zigé, già segnalato da Speke come una seconda sorgente del Nilo. Egli, colpito dalla sua immensità, lo battezzò lago Alberto, in memoria del principe appena deceduto. Proprio come Speke con il lago Vittoria, non poté seguire il corso d’acqua che partiva da lì, ma si convinse che fosse il Nilo Bianco. Nel 1865 anche Baker rientrò in patria, senza alcuna prova.

    Fu poi la volta di David Livingstone, che venne inviato dalla Royal Geographical Society in Africa nel 1866 per verificare le scoperte dei suoi colleghi e porre fine a una lunga diatriba tra geografi. Dopo tre anni si erano perse le sue tracce. Ad andare alla sua ricerca fu Henry Stanley, un giornalista americano del «New York Herald». Lo ritrovò stanco e afflitto sulle sponde del Tanganica. Quando gli andò incontro, nel bel mezzo di una foresta, gli porse la mano e gli disse: «Il dottor Livingstone, suppongo», come se si trovassero in un caffè del centro di Londra. Questa battuta divenne leggendaria per il popolo inglese e proverbiale per il suo perfetto aplomb. Quando nel 1873 Livingstone morì, fu proprio Stanley a continuare le ricerche. Nel 1888, finalmente, individuò nei monti innevati del Rwenzori (tra Uganda e Congo), i famosi Monti della Luna di Claudio Tolomeo. Tra il 1898 e il 1937, infine, furono scoperte tre sorgenti del Nilo negli attuali Ruanda e Burundi, grazie agli esploratori Richard Kandt e Burckhard Waldeker. Speke, Baker e Livingstone erano giunti tutti molto vicini al traguardo.

    A misura di Nilo

    Per gli egizi, era il fiume che decretava se un anno poteva dirsi buono o cattivo, in base al livello della piena. Se questo era troppo alto poteva far marcire i raccolti, se era troppo basso poteva farli seccare. I due eccessi potevano rivelarsi entrambi dannosi, se non catastrofici, per le coltivazioni. Il bisogno di equilibrio divenne un principio di fondo nella tradizione egiziana che si espresse in vari ambiti, nella cultura materiale, nell’arte, nella religione, nella letteratura.

    Per prevenire inondazioni catastrofiche era stato creato un sistema di controllo delle acque. Sfruttando la potenza dell’inondazione, infatti, si potevano raggiungere anche le zone più a ridosso del deserto e ampliare notevolmente l’estensione dei terreni coltivabili. Lo stato centralizzato del faraone, con il suo esercito di scribi e ingegneri, vigilava su tutte le operazioni di sgombero e interveniva per far defluire le acque e convogliarle nei bacini di raccolta (pehu). Fin dalle origini dello stato egiziano, il sovrano aveva garantito quest’ordine e lo aveva fatto attraverso un’accurata organizzazione della forza lavoro e una puntuale amministrazione delle risorse collettive, degne di uno stato-nazione contemporaneo. Anche nei casi di piena insufficiente, che era uno spauracchio costante per l’agricoltura, il potere centrale era riuscito a intervenire per prevenire e sanare, incanalando ogni singola goccia d’acqua e accumulando scorte di cereali per fronteggiare i momenti più difficili.

    Fin da subito gli egizi trovarono il modo di misurare il livello della piena. Conoscendo in anticipo la sua potenza, infatti, era più facile attenuarne gli effetti disastrosi. Per questo scopo furono creati i nilometri e disposti lungo il Nilo. Ancora oggi ad Assuan (Siene), è possibile vederne uno di Epoca tarda composto di novanta gradini. Si trattava di pozzi di pietra situati sulla riva del fiume che attraverso una scala graduata potevano rilevare in cubiti (unità di misura corrispondente a circa quarantacinque centimetri) l’altezza massima, minima e media delle acque. Secondo Strabone, storico e geografo greco del i secolo a.C., questo serviva sia al razionale sfruttamento della piena attraverso un capillare sistema di canali e di chiuse, sia per il regime di riscossione delle tasse, visto che «quando le inondazioni erano maggiori, maggiori erano anche i tributi imposti».

    Piene al di sotto della soglia minima, nella scala del nilometro, potevano tradursi in gravissime crisi sociali e politiche. Una delle più terribili carestie si verificò durante l’Antico Regno (2650-2125 a.C.). Poco si sa di questo funesto evento che ebbe di sicuro gravi ripercussioni sulla stabilità dell’Egitto e l’unica stele che arriva a descriverlo in modo dettagliato è un falso storico. La Stele della carestia, infatti, fu composta in epoca tolemaica (309-30 a.C.), mentre i fatti di cui parla risalgono a due millenni prima. Si presenta come un decreto regio emesso dal faraone Djoser della iii dinastia (2650-2620 a.C.) in cui venivano donati al dio Khnum dei territori che si estendevano da un lato all’altro della prima cateratta per ringraziarlo di aver posto termine a una carestia di sette anni. In realtà, la concessione venne fatta da Tolomeo iv Filopatore ai sacerdoti di Elefantina che evidentemente avevano approfittato della debolezza del sovrano per rivendicare il controllo di una vasta area della bassa Nubia. Probabilmente Tolomeo pensò di attribuire il decreto al suo glorioso antenato per colmare un suo difetto di autorevolezza. Djoser era un re entrato nella leggenda. Era stato lui a far edificare la prima piramide d’Egitto ed era famoso per saggezza e compassione.

    «Il mio cuore era in grande pena perché il Nilo non era venuto a tempo per un periodo di sette anni», esordiva il finto Djoser.

    Il grano era poco, i vegetali erano secchi, tutta la roba da mangiare era scarsa, ognuno era privo di risorse. Si arrivava a non poter più camminare; il bimbo piangeva, il giovane era indebolito; i vecchi avevano il cuore abbattuto, stavano con le gambe piegate, seduti per terra, le mani strette al corpo. Anche i cortigiani erano in stato di bisogno, i templi erano chiusi, i santuari sotto la polvere. Tutto quello che esiste era nell’afflizione.

    L’iscrizione, che terminava con l’intervento divino del dio Khnum e con la generosa offerta di Djoser al suo tempio, è un valido esempio, pur nei suoi accenti volutamente drammatici, di come gli egizi vedessero lo spettro della carestia. Non così incombente, tuttavia, come si potrebbe dedurre da questo racconto. In genere il Nilo garantiva messi abbondanti e le magre del fiume erano eventi rari e isolati.

    A tempo di Nilo

    Secondo Erodoto, furono gli egizi «i primi del mondo a scoprire il giro dell’anno», avendo suddiviso il ciclo delle stagioni in dodici parti. E l’avevano scoperto, stando a quello che gli raccontavano i sacerdoti di Menfi, attraverso «l’osservazione degli astri». In effetti, gli egizi si accorsero che la stella Sirio (Sopedet), la più luminosa, appariva e scompariva ciclicamente e, attraverso l’osservazione di questo astro, compresero che la sua prima comparsa, dopo un periodo di tempo, sull’orizzonte corrispondeva all’inizio dell’estate e dunque a una nuova ondata del Nilo. Da qui l’abitudine di festeggiare l’inizio di un nuovo ciclo, quando la luce brillante della stella Sirio cominciava a illuminare la volta celeste dell’Egitto. Cinquemila anni fa, questo fenomeno si inverava a metà luglio. Gli egizi fecero corrispondere questa data con il capodanno. Il loro calendario, infatti, suddivideva l’anno (Renpet) in tre stagioni, ognuna di quattro mesi di trenta giorni, e la prima era chiamata, appunto, Akhet, l’inondazione. Andava da metà luglio a metà novembre ed era il periodo in cui i campi venivano sommersi dalla piena del Nilo. In questo periodo era impossibile lavorare la terra e ci si dedicava ad altre attività, come la caccia e la pesca, lavori edili, l’organizzazione di feste. Ai contadini non restava che attendere Peret, la stagione successiva, che andava da metà novembre a metà marzo, quando l’acqua si ritirava e la terra riemergeva. Con le loro zappe di legno e gli aratri aggiogati ai buoi scendevano nei campi concimati dal limo per dissodarli e seminarli. Quando, infine, arrivava Scemu, la stagione secca, che comprendeva i restanti giorni di primavera-estate tra marzo e luglio, nel momento cioè in cui l’acqua mancava, era tempo di raccolta. Sotto il sole cocente gli agricoltori andavano a mietere i cereali, che avrebbero sfamato le loro bocche e ingrassato le casse statali.

    Akhet, Peret e Scemu erano composte ognuna di centoventi giorni e andavano a formare un anno di 360 giorni. Ogni stagione si suddivideva, infatti, in quattro mesi e ogni mese in tre settimane da dieci giorni. Il giorno era composto da dodici ore di sole e dodici ore di oscurità. Ovviamente non in tutti i periodi dell’anno le ore diurne uguagliavano quelle notturne, ma per gli egizi poco contava. La necessità di dare un ordine cosmico al mondo terreno soverchiava ogni contrastante evidenza empirica.

    La stessa cosa succedeva con il calendario. Per avvicinarsi il più possibile all’anno solare, gli egizi aggiungevano 5 giorni supplementari all’anno civile. Venivano introdotti prima dell’inizio del nuovo anno ed erano dedicati a festeggiare la nascita di cinque importanti divinità: Osiride, Horo, Seth, Iside e Nefti. I greci chiamavano queste centoventi ore aggiuntive epagomeni e servivano a portare a 365 i giorni del calendario. Secondo Erodoto, questo modo di calcolare era più esatto di quello dei greci, i quali, in vista delle stagioni, introducevano ogni due anni un mese intercalare. Gli egizi, invece, «calcolano ogni mese di trenta giorni, aggiungendo ogni anno cinque giorni, e il giro delle stagioni torna esattamente».

    Erodoto non aveva torto, ma non aveva del tutto ragione. Il tempo impiegato dal sole per tornare nella stessa posizione di osservazione dalla Terra, infatti, necessitava di un quarto di giorno in più. Gli egizi non pensarono di introdurre nel calendario civile quello che noi chiamiamo anno bisestile, dunque ogni quattro anni si ritrovavano in ritardo di un giorno rispetto al calendario solare. I due calendari riuscivano a sovrapporsi perfettamente solo ogni 1460 anni. Questo non sembrò infastidire molto gli scribi egiziani, che continuarono a calcolare gli anni di regno dei loro sovrani sulla base di un calendario civile vago e mutevole. Il problema più che altro fu per gli storici. Ancora oggi i dibattiti sulla datazione di certi eventi rimangono aperti.

    Bisognerà aspettare l’arrivo dei romani per l’introduzione di una riforma e l’aggiunta correttiva di un sesto giorno ogni quattro anni, del tutto simile al nostro 29 febbraio.

    Le Due Terre

    Un mondo alla rovescia

    Se potessimo entrare nella mente di un egizio, vedremmo probabilmente un mondo alla rovescia. Anche Erodoto sosteneva che in Egitto tutto procedeva al contrario:

    Da loro le donne vanno al mercato e vendono al minuto, e gli uomini restano in casa a tessere. E mentre gli altri popoli tessono spingendo la trama verso l’alto, gli Egiziani la spingono in basso. I pesi gli uomini li portano sul capo e le donne sulla spalla. Orinano le donne all’impiedi e gli uomini seduti.

    Al di là dello stereotipo e del pittoresco, il dato più eclatante resta quello geografico. Per gli egizi, il Nord rappresentava la parte bassa del Paese (Ta-Mehu, il Basso Egitto) e il Sud la parte alta (Ta Shemau, l’Alto Egitto). Se provassimo a rovesciare la cartina geografica saremmo probabilmente molto più vicini alla mappa mentale di un egizio. Il motivo è semplice: per loro il punto di riferimento era il Nilo, e il Nilo scorreva da sud a nord.

    Se un turista avesse chiesto a un egizio come raggiungere le piste del deserto occidentale, sarebbe stato indirizzato sulla sponda destra del fiume, dove invece secondo la nostra mentalità ci aspetteremmo di trovare l’est. Se, viceversa, avesse voluto percorrere uno uadi orientale in direzione del Mar Rosso sarebbe stato spedito sulla riva sinistra, che per noi invece è associata all’ovest. I due punti cardinali erano ribaltati perché per un egizio il mondo iniziava dove nasceva il Nilo e finiva dove andava a morire. In quest’ottica il confine alto del Paese era la prima cateratta, all’altezza di Assuan mentre il Mar Mediterraneo segnava il confine basso.

    Anche l’assetto dei distretti in cui era suddiviso lo Stato faraonico rispecchiava la percezione geografica rovesciata che gli egizi avevano del loro Paese. I sepat, che i greci chiamavano nomoi, erano delle province, o divisioni amministrative, governate da funzionari che rispondevano al potere centrale. Si suppone che questa suddivisione territoriale riprendesse le zone di influenza delle antiche città-Stato che governavano separatamente e autonomamente in Egitto nei tempi precedenti l’unificazione. Gli storici definiscono questo periodo predinastico, ovvero prima che le dinastie dei faraoni iniziassero a regnare sull’intero territorio unificato. In effetti, le insegne di ogni tribù furono generalmente utilizzate per registrare il nome dei vari distretti reali. Tuttavia è interessante notare che in geroglifico il determinativo di sepat è una griglia che indica una terra suddivisa in parti uguali dai canali. E il termine adj-mer, che durante l’Antico Regno designava il nomarca, aveva il significato letterale di colui che scava i canali. In effetti, in qualità di agenti del re, questi funzionari assicuravano i prelievi fiscali sulla base del rendimento delle terre di loro giurisdizione e assicuravano la manutenzione dei canali di irrigazione.

    Il numero delle province variò nelle varie fasi storiche. Durante l’Antico Regno (2650-2125 a.C.), ce ne erano solo 38. Quando i capi dei distretti iniziarono a trasformare le province dell’Alto Egitto in principati ereditari, la corona reagì aumentando i sepat e riducendone le dimensioni. Nel Nuovo Regno (1539-1069 a.C.), si raggiunse la cifra di 42 distretti. Il Basso Egitto era suddiviso in 20 province che maculavano il Delta seguendo la spartizione territoriale dei rami secondari del Nilo. Il primo nomos era le mura bianche e corrispondeva al distretto di Menfi. I 22 sepat dell’Alto Egitto, invece, sezionavano ordinatamente la lunga Valle come gli anelli di una trachea. L’ordine numerico seguiva la corrente del fiume. Il primo nomos dell’Alto Egitto era infatti la terra degli archi presso la prima cateratta, dove sorgeva Assuan, l’ultimo era il coltello poco al di sotto di Menfi, al confine con il Basso Egitto. Va da sé che il numero di queste province, così come le loro capitali, i loro confini, e persino il loro nome, variarono ampiamente nel corso di tre millenni, a seconda della struttura politica e sociale del Paese.

    La Terra Nera

    Il termine Egitto (Aigyptos) nasce da una distorsione. I nomi di molte famose località egizie si devono ai greci, i quali spesso creavano toponimi identificando il luogo con l’elemento che più lo caratterizzava – come è il caso di Crocodilopolis, la città dove si venerava Sobek, il dio coccodrillo, presso l’oasi del Fayyum, che gli egizi invece chiamavano Shedet o Per Sobek (casa di Sobek). In altri casi, i greci trascrivevano semplicemente il nome utilizzando il loro alfabeto. Poiché molti suoni della lingua egiziana non avevano un corrispondente segno fonetico, spesso capitava che la trascrizione non fosse del tutto corretta. Questo fu il caso del nome del Paese.

    Il termine Aigyptos nasce dalla trascrizione di Hut-ka-Ptah utilizzato dagli egizi per designare la zona di Menfi in cui sorgeva "la dimora del ka (forza vitale) di Ptah, cioè il tempio del dio Ptah. Più tardi il termine passò a indicare l’intera città di Menfi, in quanto sede del dio. I greci in sostanza affibbiarono l’attributo abitante di Menfi" a tutti gli egiziani. Questa estensione di una parte al tutto non rendeva giustizia al Paese, poiché era una realtà ben più complessa per poter essere rappresentata da un singolo centro, seppure tra i più importanti.

    Fin dalla sua nascita l’Egitto ebbe due anime: il Nord e il Sud. Questo era il motivo per cui spesso veniva designato dagli scribi come Taui, le Due Terre. Le due parti, diverse e distanti, erano state unificate dal faraone ma erano materialmente e spiritualmente tenute unite dal Nilo. Quando ogni anno, infatti, la terra inondata riemergeva dall’acqua, uno spesso strato di limo scuro ricopriva tutto il territorio dal Delta alla Valle, contrassegnando il limite tra la vita e la morte. Per gli egizi, dunque, l’Egitto, nell’accezione di amata patria, era Kemet, la terra nera: tutta la terra baciata dal Nilo da nord a sud. Analogo era l’uso di Ta mery, la terra coltivata. L’appellativo le due sponde sottolineava ancora una volta l’identificazione del Paese con le rive del fiume. Poiché Kemet coincideva solo con le terre alluvionali, gli egizi avevano escluso il deserto da questa definizione. Desheret, l’arida e sterile terra rossa che incorniciava il letto del fiume, entrava a far parte del paesaggio esistente, ma in contrapposizione alla fertile piana. La sua presenza minacciosa veniva accettata solo se tenuta ai margini delle due sponde.

    La strada maestra

    Il Nilo è sempre stato la principale via di comunicazione degli egiziani. Fin dall’antichità il complesso sistema dei canali per l’irrigazione fu utilizzato anche come mezzo di collegamento tra i numerosi insediamenti che si disponevano lungo la piana alluvionale. Moli di approdo venivano costruiti nei centri urbani, ma anche a ridosso di templi e necropoli per consentire il carico e scarico delle merci, l’immagazzinamento dei beni o il rifornimento dei cantieri di materiali da costruzione. Le persone potevano agevolmente spostarsi da una località all’altra attraverso leggere imbarcazioni di giunco, che si lasciavano trasportare dalla corrente quando navigavano verso il Delta e sfruttavano invece un leggero vento costante che soffiava da nord per navigare controcorrente.

    Il geroglifico con una barca a vela indicava appunto il viaggiare verso sud, poiché per andare in direzione della prima cateratta occorreva issare la vela e contrastare la volontà del fiume. Il geroglifico che indicava il viaggio nella direzione opposta era una barca a remi, poiché bastava la spinta leggera di una pagaia per andare dove andava il fiume.

    Le imbarcazioni furono il mezzo di trasporto più usato in Egitto, il più comodo e veloce, il più sicuro e versatile. Le barche, infatti, erano di vario tipo e grandezza. Si passava dai leggeri natanti di papiro usati dalla popolazione comune, alle raffinate imbarcazioni di legno dei notabili e della famiglia reale. Per il trasporto delle merci si usavano robuste navi di legno che erano in grado di caricare pesantissimi blocchi di pietra, come i massi di calcare per costruire le piramidi o gli obelischi di granito. Anche le navigazioni lunghe per gli scambi commerciali o le spedizioni militari necessitavano di barche solide di legno. In questi casi si usavano assi di cedro (ash) che venivano importate dal Libano. Per i piccoli battelli da diporto era sufficiente il morbido legno locale di palma (dum).

    Dove l’acqua non arrivava, ovvero nelle fasce desertiche, sulle alture e al limite delle coltivazioni, ci si spostava a dorso d’asino o a piedi. Il cavallo, che si diffuse durante il Nuovo Regno, non venne mai concepito come animale da traino. Fin da subito fu usato per le operazioni militari. I cavalli, infatti, appartenevano solo alle stalle reali e la popolazione poteva godere della loro eleganza unicamente nel corso delle parate.

    La frontiera alta

    Sul tratto della prima cateratta, di fronte ad Assuan, sorgeva Abu, la città dell’elefante, che più tardi i greci chiamarono Elefantina. Per alcuni fu la forma dell’isola a determinare il suo nome. I massi grigi e lisci su cui sorgeva il tempio del dio Khnum ricordavano il dorso di questi mammiferi. Per altri è più probabile che il luogo fosse così denominato perché costituiva un punto nevralgico di smercio dell’avorio che proveniva dal Sud. In effetti Elefantina, l’inizio dell’inizio o la provincia dell’inizio, come la definisce la stele della carestia, era l’avamposto dell’Alto Egitto e la capitale del i distretto. Qui le acque del Nilo sul lato meridionale erano «furiose per un miglio» e formavano ogni giorno un muro contro chi proveniva da lì. Posta al centro del Nilo, con i pinnacoli del tempio che proiettavano la loro ombra sugli argini di granito rosso, l’isola dava il suo commosso benvenuto solo ai marinai o ai soldati egiziani di ritorno dalle spedizioni commerciali o militari in Nubia.

    L’ostruzione delle rocce che affioravano nel letto del fiume costituiva un freno alla navigazione e consentiva agli egizi di controllare qualsiasi movimento in entrata e in uscita. Anche le piste carovaniere che attraversavano l’Egitto da nord a sud correndo parallele al Nilo, sul tratto di deserto occidentale, iniziavano e finivano qui. Da Elefantina si poteva vigilare sia sulla strada che correva sull’acqua, che costituiva la via di comunicazione più importante, sia sulle rotte commerciali transahariane, secondarie, ma non meno battute della prima. Ecco perché la barriera naturale della prima cateratta divenne una solida frontiera attraverso cui nessuno poteva passare inosservato, che le sue intenzioni fossero pacifiche o bellicose.

    Se la frontiera alta è sempre stata la prima cateratta del Nilo, i faraoni ebbero modo di spostarla più in alto nel corso della loro storia. Ai tempi di Thutmosi iii (1458-1425 a.C.), cioè nella sua fase di estensione massima, l’Egitto portò i suoi confini meridionali alla quarta cateratta, nell’attuale Sudan. Qui regnavano i signori di Kush (Alta Nubia), che ebbero la loro capitale, prima a Kerma sulla terza cateratta, e poi, dopo che questa venne attaccata dai faraoni, a Napata a ridosso della quarta cateratta. Napata nacque ai piedi del Gebel Barkal, la montagna pura, un’altura di arenaria con la cima piatta e le pareti a strapiombo. Gli egizi arrivarono fin qui per imporre la loro autorità su una terra che forniva tutta la quantità d’oro necessaria al loro fabbisogno di opulenza.

    Nei secoli precedenti i faraoni si erano limitati a imporre la loro presenza nell’area della Bassa Nubia (Uauat), cioè tra la prima e la seconda cateratta, nominando dei governatori che rispondevano all’autorità centrale, mentre nell’Alta Nubia Kush regnava in piena autonomia. La riduzione progressiva dei territori e delle risorse nubiani raggiunse i minimi storici con la xviii dinastia, quando venne imposto a Kush un viceré egizio. Dalla fine dell’epoca ramesside la tendenza fu inversa e i sovrani neri riuscirono a riappropriarsi dell’area tra la seconda e la quinta cateratta, fondando il regno di Meroe. Tuttavia, la lenta e costante penetrazione culturale aveva in un certo senso conquistato le menti nubiane, tanto che i faraoni finirono per considerarli egiziani a tutti gli effetti e ne cooptarono i guerrieri più valenti come parte del corpo di polizia statale.

    Ancora oggi il sito di Napata, pur nelle sue peculiarità, mostra i segni di questo assoggettamento. Gli egizi imposero i loro costumi e la loro religione così a lungo che, quando nel 728 a.C. i faraoni neri ebbero la loro fase di rivincita sull’Egitto, conquistandolo e governandolo per circa un secolo, ripristinarono quelle vecchie tradizioni con cui neanche gli egizi avevano più dimestichezza. Riportarono sulle Due Terre, ormai divise e fragili, l’istituzione della regalità egizia per come era stata concepita dai sovrani dell’Antico Regno. All’ombra della montagna pura, le piramidi nere della necropoli di Napata, più piccole di quelle del deserto occidentale egiziano e più slanciate, riprendevano la stessa antichissima concezione dell’aldilà elaborata dal culto solare di Eliopoli, che due millenni prima aveva dato vita alle prime piramidi a gradoni. Dal lato opposto della montagna, invece, sono ancora oggi visibili le tracce di un tempio dedicato ad Amon, il dio più venerato dai cusciti, quello stesso dio che a Tebe aveva la sua residenza, e per il quale i sovrani egizi avevano costruito a Karnak uno dei templi più grandi al mondo.

    Fin qui dunque arrivarono gli egizi, ma non andarono mai oltre.

    Il Grande Verde

    A mille chilometri di distanza dalla prima cateratta, una grande massa di acqua verde costituiva il confine opposto di Kemet, la sua frontiera bassa. Il Mar Mediterraneo bagnava la costa settentrionale dell’Egitto e si riversava sulle terre basse del Delta mescolandosi all’acqua dolce della foce e formando grossi bacini salmastri. Inizialmente l’espressione Grande Verde (uadj-ur) fu utilizzato anche per i laghi e gli stagni e, in genere, per i bacini d’acqua sparsi in tutto il territorio. Dal Medio Regno in poi (2010-1630 a.C.) l’espressione fu riferita solo al mare, e in particolare agli unici due che bagnavano l’Egitto, il Mediterraneo a nord e il Mar Rosso a est.

    Il confine naturale del Mar Mediterraneo, che avrebbe potuto esporre gli egizi a numerose incursioni straniere, costituì invece per la sua morfologia una barriera invalicabile. In primo luogo, la corrente fluviale incontrandosi con il mare creava pericolose barre di foce che rendevano difficili gli approdi. Anche Erodoto si rese conto subito che il terreno alluvionale arrivava fino a un giorno di navigazione poiché quando veniva immerso uno scandaglio a una profondità di ben ventidue metri tirava su ancora del fango. La costa, inoltre, era inospitale per via delle paludi settentrionali. Gli eventuali invasori, infine, per penetrare nel Delta con le loro imbarcazioni avrebbero dovuto imboccare i due rami principali del Nilo, il Pelusico e il Canopico, la quale cosa era resa difficile dalle false bocche, cioè foci minori dai fondali bassi in cui era facile impantanarsi. Tanto meno era pensabile che uomini armati con pesanti carri al seguito potessero attraversare l’area a piedi. Il Delta, infatti, era solcato da una grande quantità di rigagnoli che partivano dai rami principali del Nilo e si perdevano nei campi o nei laghi. Chiunque avesse avuto l’ardire di irrompere in Egitto da questo lato si sarebbe ritrovato in un inferno di acquitrini e fango, in un labirinto di canali e isolotti, in una foresta intricata di canneti, in balia di insidie, assalti e agguati. Solo alle due estremità del Delta, dove passavano i due bracci principali, era possibile un’agibile via di percorrenza ma, ovviamente, gli egizi vi avevano costruito massicce fortificazioni.

    Dopo aver percorso migliaia di chilometri in un letto unico, il Nilo si scinde come una forcella, all’altezza del Cairo, in due possenti bracci. Da qui, i due canaloni si dirigono al mare percorrendo due strade opposte e tracciando i lati di un grosso triangolo, il Delta dei greci. In epoca faraonica, i due bracci principali erano il Pelusico e il Canopico, che traevano il nome dalle località che attraversavano. Dopo aver percorso duecento chilometri raggiungevano il mare su due punti opposti della costa e segnavano un arco di circa quattrocento chilometri. All’estremità orientale del Delta il porto di Pelusio con i suoi bastioni fortificati vegliava sulla più critica via di accesso all’Egitto. Da qui erano arrivati gli hyksos alla fine del Medio Regno e da qui giunsero i persiani nel vi secolo a.C. La cittadella rappresentò sempre un punto strategico per i sistemi di difesa dei faraoni, da cui respinsero o affrontarono gli attacchi in diverse occasioni. La fortezza occidentale del Grande Verde sorgeva nei pressi di Canopo, a ridosso di Alessandria. Con l’arrivo dei greci divenne uno scalo importante per i commerci con le isole del Mediterraneo, ma già gli egizi consideravano l’area un punto nevralgico per gli scambi. Il nome greco Canopo, infatti, deriva da Kah Nub, il luogo dell’oro, che era il modo in cui gli egizi denominavano parte del Delta nord-occidentale.

    Tra i due rami principali del Delta passavano una serie di sottorami che a loro volta si biforcavano o andavano a creare bacini, e inondavano e irrigavano tutto il triangolo. Nel tempo questi rami subirono modifiche. Alcuni canaloni si prosciugarono, altri si formarono o si scissero ulteriormente. Si registra, ad esempio, da un certo punto in poi l’esistenza di un grosso ramo centrale, il Sebennitico, che andava verso nord passando appunto da Sebennito e da Buto, uno dei centri più antichi del Delta. Alcuni rami vennero creati più tardi dai greci e dai romani. Per Erodoto erano cinque: il Canopico (da Canopo), il Saitico (da Sais), il Sebennitico (da Sebennito), il Mendesiano (da Mendes) e il Pelusico (da Pelusio). Altri autori classici registravano anche sette rami, tra cui il Tanitico (da Tanis) e il Fatnitico (ramo centrale).

    Anche oggi la foce è contrassegnata da due grossi rami, ma non corrispondono al Pelusico e al Canopico dell’antichità. Sono, infatti, leggermente arretrati verso il centro del Delta e passano dalla città di Damietta, a est, e da Rosetta, a ovest. Quest’ultimo ramo corrisponde invece all’antico Bolbitinico, riportato da Plinio il Vecchio.

    La Via di Horo

    All’inizio del Nuovo Regno (1530 a.C. ca.), subito dopo la cacciata degli hyksos dall’Egitto, le numerose guerre che impegnarono i faraoni nel Vicino Oriente costrinsero gli egizi a organizzare ed edificare un sistema avanzato di fortezze, in parte per la difesa da possibili future invasioni, in parte per condurre e fronteggiare logisticamente le operazioni militari di attacco, in parte per garantire vie commerciali sicure tra il Delta e la Palestina. Fu allora che venne costruita la cosiddetta Via di Horo, dal nome del dio falco protettore della regalità, una strada costellata di fortezze, guarnigioni e punti strategici, che partiva dal Nord del Sinai, a est del ramo Pelusico, e conduceva fino a Gaza. Le scoperte e gli studi legati a questo complesso sistema iniziarono nel 1920 ad opera dell’egittologo Alan Gardiner, il quale studiò approfonditamente una scena del lato settentrionale della sala ipostila del tempio di Karnak, fatta realizzare da Sethi i (1290-1279 a.C.) al ritorno dalle sue campagne in Asia. Nella scena era rappresentato il faraone alla guida del suo carro mentre riconduceva in patria dei prigionieri shasu, ovvero un’etnia di beduini che popolava le regioni desertiche del Sinai. La rappresentazione tuttavia era molto dettagliata, perché indicava tutto il percorso del faraone con l’iconografia delle varie fortezze incontrate dall’esercito egiziano lungo il cammino, con tanto di mura, fossati e canali. Gardiner ebbe fin da subito la certezza che la rappresentazione fosse una mappa della Via di Horo. Aiutato dal papiro Anastasi i, che elencava una serie di fortezze esistenti in quel periodo (la xix dinastia), lo studioso iniziò a individuare tutti gli avamposti della mappa, tra cui la fortezza di Tjaru, la fortezza di Migdol, citata anche dalla Bibbia e la fortezza del Leone.

    Il passo successivo fu ritrovare fisicamente queste fortezze sul territorio. Tjaru era sicuramente la più importante e la sua identificazione con Tell Abu Sefeh (nei pressi di al Qantara, a est del canale di Suez), operata da Gardiner, non era stata mai messa in discussione fino a una trentina di anni fa. Dal 2000 consistenti scavi sono stati effettuati nell’area e una decina di chilometri più a nord è saltato fuori un sito, Tell Hebua, che risaliva all’epoca degli hyksos. Dagli scavi venne fuori che durante l’epoca di Sethi i, l’insediamento era un’imponente postazione difensiva di cinquecento metri quadrati, cinta da due muri paralleli. Successivamente fu anche rinvenuta una statua di epoca ramesside sulla quale vi era iscritto il toponimo Tjaru. Pochi dubbi ci sono ormai che la roccaforte del più importante sistema difensivo egiziano ai tempi dell’impero sia da collocare qui e che questo punto costituiva lo snodo principale della Via di Horo. Da qui erano sicuramente passati i leggendari eserciti di Thutmosi iii in direzione di Megiddo e di Ramses ii alla volta di Qadesh! Di seguito furono individuati altri siti, come quello di Tell el-Borg che risultava essere stato distrutto agli inizi del xii secolo a.C. Poiché questo dato corrispondeva perfettamente al periodo in cui Ramses iii intraprese la famosa

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