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David Copperfield
David Copperfield
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E-book1.270 pagine19 ore

David Copperfield

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Info su questo ebook

Introduzione di Mario Martino
Traduzione di Franco Prattico
Edizione integrale

È la storia di un giovane che ripercorre la sua vita, dall’infanzia infelice alla scoperta della vocazione letteraria e al successo come romanziere. Orfano di padre, attraverso mille difficoltà, David arriverà a realizzarsi senza dimenticare gli amici che lo hanno aiutato e accompagnato. Il pregio principale di questo romanzo, “figlio prediletto” di Charles Dickens in ragione degli spunti autobiografici, è la vastissima costellazione dei personaggi minori, come sempre nelle opere di Dickens, indimenticabili: il crudele patrigno Murdstone e la sua degna sorella, l’amorevole governante Peggotty, il compagno Steerforth, la spigolosa ma affettuosissima zia, il raccapricciante Uriah Heep (la cui descrizione è quasi una galleria di sintomi patologici), e il tragicomico Mr Micawber, vero gioiello della letteratura caricaturale.


Charles Dickens

nacque a Portsmouth nel 1812. Trascorse l’infanzia a Chatham e poi seguì il padre in un traumatico trasferimento a Londra. Della metropoli in cui visse fece il centro ispiratore della sua arte, il centro di un quadro vivo e mobile, un caleidoscopio armonico e colorato di personaggi, conflitti sociali, umori e fermenti della sua epoca. Morì nel 1870. La Newton Compton ha pubblicato Le due città, Grandi speranze, Oliver Twist, Tempi difficili e, nella collana Mammut, David Copperfield e I grandi romanzi.
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854140370
Autore

Charles Dickens

Charles Dickens (1812-1870) was one of England's greatest writers. Best known for his classic serialized novels, such as Oliver Twist, A Tale of Two Cities, and Great Expectations, Dickens wrote about the London he lived in, the conditions of the poor, and the growing tensions between the classes. He achieved critical and popular international success in his lifetime and was honored with burial in Westminster Abbey.

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    Anteprima del libro

    David Copperfield - Charles Dickens

    370

    Titolo originale: David Copperfield

    Traduzione di Franco Prattico

    Prima edizione ebook: aprile 2012

    © 2011 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella Postale 6214

    ISBN 978-88-541-4037-0

    www.newtoncompton.com

    Edizione elettronica realizzata da Gag srl

    Charles Dickens

    David Copperfield

    Introduzione di Mario Martino

    Traduzione di Franco Prattico

    Edizione integrale

    Newton Compton editori

    Introduzione

    David Copperfield, ottavo romanzo scritto da Dickens, è pubblicato alla metà precisa di quel secolo, l’Ottocento, di cui costituisce una delle testimonianze più vitali. Fu pubblicato a fascicoli mensili dal maggio del 1849 al novembre del 1850 dagli editori Bradbury and Evans, e corredato - consuetudine per i romanzi dickensiani - delle illustrazioni dell’incisore H.K. Browne (più noto con lo pseudonimo di Phiz che egli adottò per corrispondere al Boz che fu lo pseudonimo di Charles Dickens). Ma non è solo la simbologia storica che fa di David Copperfield un romanzo particolare; anche agli occhi dell’autore, e per più personali motivi, costituisce qualcosa di speciale secondo quanto si legge nella prefazione alla ristampa del 1869 (la Charles Dickens Edition): «come tanti genitori amorevoli, anch’io nel profondo del cuore ho un figlio prediletto. Risponde al nome di David Copperfield».

    Per spiegare perché proprio David Copperfield sia il figlio prediletto dobbiamo guardare alla genesi del romanzo, che si lega ad un periodo di crisi produttiva che investe il periodo intorno alla metà degli anni ’40. Essa si manifesta come disagio avvertito durante un soggiorno in Svizzera, che è parte di un tour (in cui è incluso anche un soggiorno in Italia, sulla costa ligure) intrapreso da Dickens per recuperare il ritmo creativo che gli era stato proprio fino ad allora. Da lì egli scrive al suo amico e biografo J. Forster che gli mancano le strade di Londra, città definita una lanterna magica senza la quale ogni tentativo di scrittura è per lui una «fatica immensa». Uno dei critici dickensiani più acuti, Steven Marcus, ha però mostrato il rapporto strettissimo tra l’esplorazione spaziale che Dickens condusse della metropoli londinese con un più o meno esplicito percorso interiore a ritroso nel tempo. «Per lui lo scrivere era misteriosamente e definitivamente connesso con l’epoca della sua vita in cui egli, solo, vagava letteralmente per la città».

    La crisi si lega dunque alla esistenza di un nodo irrisolto nel proprio passato, pure continuamente, subliminarmente toccato da tutta l’opera narrativa. Un caso manifesta a Dickens la necessità di tornare con consapevolezza su esperienze cruciali e rimosse della propria infanzia-adolescenza, quali il trasferimento dalla idillica campagna a Londra, la frantumazione della propria famiglia per le difficoltà economiche, il trovarsi solo e sperduto, all’età di undici anni, a Londra, l’incarcerazione del padre, e il visitarlo nel carcere di Marshalsea; e, soprattutto, l’essersi sentito abbandonato dai genitori - nell’ottica del bambino, del tutto ingiustificatamente e crudelmente - a un umiliante lavoro in una fabbrica per lucido da scarpe a Hungerford Stairs, sulle sponde di uno squallido e degradante Tamigi, in compagnia di coetanei di cui avverte, risentito, solo la volgarità, frantumate e anzi derise tutte le speranze di gentility e distinzione sociale che dapprima era stato incoraggiato a nutrire. C’è un episodio che con brutale casualità fa riaffiorare il nodo più dolente di questo passato: accade infatti che un amico del padre, Charles Wentworth Dilke, accenni a Forster che aveva veduto Dickens ragazzo in quel luogo di lavoro allorché si accompagnò a John Dickens in una visita, e avendogli allora regalato una mezza corona, ricevette in cambio un profondo inchino. Quando Forster chiede conferma a Dickens della veridicità di quell’episodio, si rende conto d’aver «toccato senza volerlo un angolo doloroso della sua memoria». Inizialmente infatti Dickens nega tutto; solo successivamente ammette la conoscenza di Dilke, e solo successivamente ancora, a distanza di giorni, Forster riceve il racconto-confessione di quella fase della sua vita. E ancora: nessun altro tranne Forster viene a conoscenza di quei particolari, non esclusa la moglie, e il frammento autobiografico relativo che Dickens consegna all’amico è pubblicato solo postumo.

    Ma, a dispetto delle reticenze, queste casuali sollecitazioni della vita invitano e portano Dickens a scandagliare più profondamente il proprio io. Da ciò nasce l’idea di scrivere la propria autobiografia (databile attorno agli anni 1845-6), avviando quella sorta di autoanalisi in cui il ricordo è in funzione di una guarigione, e la scrittura vale per la sua qualità terapeutica. Tuttavia questo progetto rimane poco più che un frammento dell’infanzia, e i blocchi psichici si rivelano essere più di uno, come scrive il biografo E. Johnson: «Dopo essercisi affannato per un certo tempo Dickens trovò che era troppo penoso e l’abbandonò. La parte che tratta della sua infanzia, fino ai giorni della fabbrica di lucido da scarpe e fino ai giorni di scolaro alla Wellington House Academy, egli la dette da leggere a Forster. Ma quando giunse alle umiliazioni del suo disperato amore per Maria Beadnell trovò insopportabile l’idea che qualcun altro oltre a lui la leggesse e non fu capace neanche di proseguire».

    L’autobiografia interrotta è così l’immediato antecedente del David Copperfield, riconsiderazione fittizia del proprio passato da parte dell’omonimo protagonista, le cui iniziali, come J. Forster fece notare all’allibito autore, invertono quelle del nome e cognome Charles Dickens (e in tal senso, si osservi come per tutto il romanzo c’è un continuo gioco con la lettera D e con i nomi, tendente a ribadire che si parla sempre, obliquamente, di Dickens stesso).

    Vari episodi della vita dell’autore sono quindi più o meno fedelmente trasposti in David Copperfield. Ad esempio, la cruciale esperienza di sfruttamento e umiliazione lavorativa patita dal Dickens alla Warren’s House, rivissuta accentuando lapiccolezza di David e anche la lunghezza del periodo lì trascorso, nei capitoli in cui questo, per volontà del patrigno, è messo a lavorare da Murdstone and Grinby. Quel culmine di infelicità del giovane protagonista è messo pienamente in rilievo dalla narrazione, che mostra quanto egli fosse estraneo persino a sentimenti di solidarietà con gli altri ragazzi con cui si trova a condividere il lavoro. E anzi, non solo non v’è sollievo in un sentimento di amicizia, ma quei compagni sono visti quasi ugualmente colpevoli: colpevoli di trascinarlo in una degradazione, di involgarirne la gentility. Totalmente egoistiche dunque le ragioni e le pulsioni del piccolo David e forse perciò totalmente credibili alla luce della psicologia infantile, e totalmente coerenti con le ragioni ultime della narrazione, che traccia il formarsi di uno scrittore: non è un caso che in rapporto ai poveri incolti che gli sono accanto David soffra soprattutto di essere stato sottratto alla scuola e agli amati libri. Questi fattori di credibilità mi pare rendano ingiusto rimproverare a Dickens il non aver messo sulla penna del David maturo nessuna nota di riprovazione per quell’atteggiamento del piccolo David, il non aver affiancato nessuno sguardo maturo a quello dell’infanzia; va pure considerato che sentimenti e convinzioni del genere sono plausibilmente sempre vivi in uno scrittore quanto mai sensibile allo sfruttamento minorile fin da Oliver Twist (1838) e alle condizioni del lavoro in fabbrica in Hard Times (1854) e alle ingiustizie sociali e vuote pretese di distinzione e gentility in Grandi Speranze (1860). Vero è anche che già in Oliver Twist Dickens rivive con tale inconscia intensità quell’episodio da attribuire il nome del ragazzo che più degli altri aveva cercato di aiutarlo e difenderlo dalla gang, Fagin, al capo e principale sfruttatore della gang di piccoli delinquenti dai quali Oliver viene irretito e reso prigione.

    Altri episodi seguono da vicino la vita di Dickens: il difficile percorso di elevazione sociale e di conquista di un mestiere, l’apprendistato di David nell’ambiente dei Collegi di legge londinesi; l’impiego dagli avvocati Spenlow and Jorkins; l’apprendimento della stenografia per divenire reporter parlamentare e giornalista, inizio della avventura di scrittore. Altri ancora però si presentano notevolmente trasformati. L’improvvido ma generoso carattere paterno, ad esempio, è attribuito al signor Micawber, presso la cui famiglia David va ad alloggiare quando si trova sperduto e solo a Londra. Il periodo di carcerazione del padre e le visite a lui nel londinese carcere per insolventi di Marshalsea si ritrova nella reclusione di Micawber; l’innamoramento per Maria Beadnell e le frustrazioni dell’essere rifiutato dalla famiglia di lei sono trasformate nel rapporto con Dora Spenlow, che egli riesce a conquistare e sposare, ma con cui poi ha un critico ménage familiare, lei incapace di comprendere le aspirazioni del marito e di reggere l’economia domestica. In realtà, dunque, il ricordo autobiografico di Dickens, pur necessario come operazione terapeutica, è subordinato alla dimensione estetica del racconto e alla necessità di risolvere il trauma personale in una dimensione più ampia.

    Intorno a questi nuclei biografici, a tratti anche profondamente modificati, facendo di Copperfield il centro e il punto di focalizzazione di una intera società, Dickens costruisce una vasta impresa narrativa-rappresentativa. Intorno, e lungo la storia di David, infatti, altre se ne dipartono o vi convergono, spesso appena abbozzate, sviluppabili in altro narrabile, e tali da rimandare a ogni possibile zona dell’esperienza, a ogni possibile tipo umano e sociale. Quanto all’ambiente, che pure spazia dagli idilli di Blunderstone e di Dover, all’Italia in cui si consuma il disonore della piccola Emily, alle romantiche Alpi evocatrici dei grands tours, esso è principalmente, ancora, quello tipico della modernità: la metropoli, Londra, quintessenza del secolo e dello sviluppo borghese. Come affermava Pavese, in questa ambizione totalizzante, l’ottica dickensiana, come quella di Balzac, è profondamente ingenua. Ma l’associazione con Balzac è in parte fuorviante: quell’intento enciclopedico, che nel coevo narratore francese è quasi preludio alla poetica naturalista, è estraneo a Dickens e qui, forse, più che in altre sue opere, poiché tutto è infine subordinato all’unico carattere del protagonista. Più vera è in questo caso la città, proprio perché soltanto accennata, ricordata in particolari non troppo esplicati e che presumono un lettore competente nella geografia urbana, nella storia dell’Inghilterra del XIX secolo (Murdstone e Grinby sulle rive del Tamigi, il Monte dei pegni, l’ambiente avvocatesco e dei Collegi di legge, le stanze in affitto, i teatri, la Londra aristocratica, e quella che David attraversa fuggendone, o tornandovi). O per dirla altrimenti, Dickens implica un lettore (moderno) che sia passato attraverso il suo corpus narrativo, e abbia già acquisito le immagini dell’Inghilterra del suo tempo, di Londra e dei suoi misteri, mediate dai successivi narratori impersonali.

    David Copperfield non si attarda su Londra quanto sulle figure che hanno popolato il suo passato, i coprotagonisti della sua storia. Se sezionassimo i passaggi descrittivi, li troveremmo certo in percentuale molto minore, rispetto alle parti dialogate o a quelle narrative, di quanto non accada in altri romanzi. Numerosi personaggi rimangono indelebilmente impressi nella memoria, evocati scenicamente, con taglio di commediografo o drammaturgo, nella cura con cui ne è riportato il modo di enunciare. Il ricordo di David caratterizza qui attraverso il linguaggio, attraverso le peculiarità enunciative e discorsive di ciascun personaggio: il signor Micawber, infatuato delle sue parole e orazioni scritte o declamate, la sua avvedutezza teorica e sprovvedutezza pratica nel campo dell’economia; la zia Betsey Trotwood, irruenta, tagliente, quanto soccorrevole e generosa; Dick, il pazzo che da indicazioni (domestica sibilla) di straordinario e lapalissiano buon senso e fa volare aquiloni di parole sulla scogliera di Dover; la materna e illetterata domestica Peggotty; l’untuoso e ambizioso Uriah Heep votato alla umbleness (umiltà, affettata sopprimendo la h iniziale); la ormai proverbiale coppia di avvocati Spenlow and Jorkins, nella loro commedia dei ruoli; il leale compagno di scuola Traddles, e tante altre figure che, pur minori, non sono tuttavia meno memorabili, come la vedova Gummidge, il vetturaio Barkis, il patetico maestro Mell, di Salem House, licenziato perché la madre vive in un pensionato per poveri, il truce Creakle, preside di Salem House, il Dr. Strong, l’avvocato Wickfield, e Omer, impresario di pompe funebri (si ripete qui uno degli episodi più memorabili anche dell’infanzia di Oliver Twist) con l’assistente, partner e poi genero Joram, la cui comicità contempera l’occasione luttuosa in cui David conosce lui e la tristezza del suo mestiere. E poi ancora Mowcher, Crupp, Maldon, Pidger, Sophia, Clarissa... Personaggi tratteggiati - a volte quasi soltanto nominati - con umana simpatia e con straordinaria forza comica, da un David maturo, affezionato e grato al proprio passato e agli altri eroi che hanno preso parte alla sua storia.

    Altri come Ham, Little Emily, Dan, Rosa Dartle (ribelle, come e più di Emily, e perciò singolare e plausibile ritratto di donna) e Steerforth e Littimer, che volgono al melodrammatico, opponendo alla trama comica principale, per cui tutto trova infine una felice o giusta risoluzione, una trama cupa, in cui gli errori si pagano e la morte è irreparabile. Essi, afferma M. Praz, danno vita a una sorta di romanzo nel romanzo.

    Certo, quanto più memorabili questi personaggi tanto più schematici (Murdstone e sorella, ad esempio, sono una versione dei cattivi e basta, senza nessuna articolazione psicologica). Riserve si appuntano oggi su questo tipo di caratterizzazione, che discendono dal valutare Dickens col metro di poetiche che hanno piuttosto badato allo sviluppo interiore del personaggio e che gli sono evidentemente estranee (ma tante - scriveva giustamente Cesare Pavese in un saggio premesso alla sua traduzione del romanzo - sono le strade che conducono alla poesia). Altri lettori e critici, sulle orme di G.K. Chesterton, hanno reso un truismo ormai che del romanzo siano soprattutto straordinari i primi capitoli, dove Dickens «sembra avviato a raccontare la viva verità di un vivo ragazzo e uomo» e dove l’io narrante, che spesso affiora sulla pagina, ricorda sopra tutti il se stesso di un tempo, quasi come fosse un altro personaggio (ma non si tratta solo di un ricordo volontario, per cui il bambino è presentato nelle sue peculiari meraviglie, intuizioni, sofferenze e anche limitatezze dal narratore che sa e che ha già vissuto interamente la sua storia; che, quindi, lo controlla e lo giudica. Si tratta anche di un ricordo che diventa spesso totale immedesimazione nell’io di un tempo, sicché il tono peculiare della narrazione risulta essere quasi un proustiano rivivere, e la memoria, l’unica e vera, secondo il narratore francese, farsi involontaria).

    In questa ottica, superata la fase infantile, con la nettezza, precisione e verità delle impressioni, la capacità di avvertire con peculiare forza alcuni aspetti delle cose, il romanzo diviene meno interessante. Il personaggio maturo di David che dovrebbe restarne saldamente il centro, è relativamente scialbo, sicché per converso, le figure di contorno assumono sulle loro fragili spalle il peso della narrazione. Tale giudizio limitante non tiene conto però delle peculiarità della scrittura dickensiana, ed è condizionato da una chiave interpretativa autobiografica che a volte non funziona. Vanno infatti esplorate e messe in rilievo, nel discorso obliquo dell’immaginazione, le procedure orchestrative di Dickens. Basti ad esempio vedere in che modo il tema dei rapporti familiari, paradigmaticamente impostato dalla esperienza infantile di David, organizzi e unifichi l’intera narrazione. C’è qualcosa di fondamentale e fondante (le fairy tales significano con pari nettezza), persino di mitico, nel fatto che David nasca orfano di padre, che veda la madre dapprima corteggiata e poi sposa succube del truce Murdstone (grande tema edipico) e, subito morta, lasciarlo in totale balia del patrigno e della arcigna sorella... Al paradiso perduto di Blunderstone, ad un mondo fattosi improvvisamente, prematuramente ostile, si oppone il cottage di Dover dove vive la zia Betsey: qui abbiamo un concentrato di maltrattamenti che i singoli componenti della casa hanno subito all’interno delle rispettive famiglie di provenienza, che cercano riscatto in una comunità di affinità elettive, a contatto con una natura vasta e ariosa. Betsey è li riparata a condurre vita da single dopo che s’è separata da un marito crudele, ma tiene la storia sepolta finché lui non muore. Questo nascosto spiega a posteriori il carattere di lei, apparentemente scontroso e inflessibile; spiega il suo protofemminismo , comicamente esposto quando, saputo dell’imminenza del parto di Clara, si reca a Blunderstone e poi lascia sdegnata la casa perché, al posto della femmina che nelle sue attese sarebbe necessariamente dovuta nascere, nasce invece David; oppure quando, meno capricciosamente, disapprova il matrimonio di David con Dora, cosi come aveva disapprovato il matrimonio del padre di David con una pupattola (e si noti qui, come esempio, quali gerarchie di rapporti il romanzo istituisca al suo interno: nell’ambito della tematica familiare, infatti, ecco che David, nella sua prima scelta matrimoniale, ripete esattamente l’errore paterno e sposa la persona che più ricorda la madre perduta prematuramente). Quanto a Dick, ancora più forte è stato il tormento che ha dovuto patire dalla sua famiglia, culminato nell’esito di follia e nella intenzione di rinchiuderlo in manicomio: evento scongiurato appunto dall’intervento di Betsey.

    Se perciò il secondo matrimonio di David con l’angelica, devota e assennata Agnes, può infine apparirci edulcorato nella sua stabilità e soddisfazione borghese - versione dell’ideale matrimoniale e femminile che si usa emblematizzare nell’opera L’angelo del focolare del vittoriano Coventry Patmore, quasi che questa fosse la voce rappresentante del secolo - è anche vero che tutto il resto del David Copperfield sembra raccontare altro. È quasi una costante delle famiglie dickensiane il loro essere scombinate, mancanti, disarmoniche e alla base di numerosi rapporti familiari tratteggiati vi sono psicopatologie più o meno nascoste. La casa degli aristocratici Steerforth, ad esempio, condannata in quanto aristocratica, ci rappresenta uno smodato amore materno per il figlio che favorisce, se non determina, la tragica fine di lui. È lo sfregio sulla guancia della parente che convive con madre e figlio, Rosa Dartle, nell’ambiguo ruolo di sorella e figlia acquisita e di mantenuta, testimonia di un odio sepolto, sempre vivo, per il giovane che gliel’ha procurato in una esplosione di irritazione e violenza. Sul versante opposto della scala sociale, il povero e ambizioso Uriah è limitato al rapporto esclusivo con la madre. Questa volta è il figlio che è quasi incestuosamente devoto, sicché sterile e presuntuoso risulta il suo ambire ad Agnes; e vittorianamente incestuoso è il legame di Murdstone con la sorella, di puritano utilitarismo che spiega il tipo di rapporto che egli istituisce con la giovane madre di David: si passa dall’uno all’altro, in un deterministico trasferirsi di una patologia precedente ad un’altra seguente: poco angelici questi focolari domestici.

    L’autobiografia fittizia di David Copperfield è dunque più che mai un romanzo orchestrato, di cui va colta la molteplicità dei rapporti interni. A questa legge non sfugge neanche il personaggio principale, che tutto sembra condizionare e a sé subordinare. Una ulteriore prova di ciò va colta proprio in rapporto alla narrazione che il protagonista fa di sé in quanto scrittore. David Copperfield è infatti uno straordinario «romanzo dell’artista» e si collega da un lato al Prelude di W. Wordsworth, il cui sottotitolo potrebbe in certi limiti riadottare, fatta salva una necessaria variazione, in «The growth of a novelist’s mind»; dall’altro, per l’alta considerazione che ha dello scrittore borghese, a T. Carlyle, alla visione dello scrittore come eroe (a Carlyle Dickens dedica un suo romanzo, Hard Times).

    Se, con peculiare nota, rievocando la sua formazione, David ci si presenta anche sotto il più pedestre e vittoriano aspetto del selfmade man, l’uomo che si è fatto da sé, che si è elevato nella società, e attraverso la letteratura ha riconquistato in essa un posto, una gentility, originariamente posseduta (non è perciò il ritratto di artista cui ci hanno abituato i romanzi del Novecento), l’infanzia del protagonista, e la sua prima educazione, propongono un rapporto quanto mai originale e vivido di David con la scrittura. Basti in tal senso riandare al primo confronto con l’alfabeto: «Posso persino debolmente ricordare quando imparavo le lettere dell’alfabeto sulle sue [della madre] ginocchia. Ancora oggi, quando guardo le lettere grosse e nere del sillabario, la divertente novità delle loro forme e la bonarietà della O, della Q e della S, mi si ripresentano alla mente come allora» (IV, p. 75); o al ribaltarsi della prima fascinazione delle lettere in angoscia quando l’educazione è quella coercitiva del patrigno Murdstone e di sua sorella: «le parole che con infinita fatica ho infilate nella mia testa, cominciano a scivolar via, e ad andarsene non so dove» (ibidem); o alle solitarie, ardenti letture in un ambiente domestico intristito, in una stanzetta al piano superiore della casa (episodio che ripete vicende analoghe nella biografia dickensiana): «Roderick Random, Peregrine Pickle, Humphrey Clinker, Tom Jones, il Vicario di Wakefield, Don Chisciotte, Gil Blas e Robinson Crusoe, uscirono - una corte gloriosa - per tenermi compagnia» (IV, p. 77), e sentendo i coetanei giocare fuori, «io seduto sul letto, leggendo come se si fosse trattato d’una questione di vita o di morte» (IV, p. 78); sono solo i primi tratti del filo rosso tematico sulla scrittura legato specialmente al personaggio David. Ad un giudizio che scorge nel David maturo un personaggio scialbo si deve perciò opporre la sorprendente diramazione degli atti e modelli di scrittura che riflettono da particolari angolazioni sull’attività di David, la arricchiscono e la variano, secondo quella che giustamente è stata definita procedura contrastiva della scrittura dickensiana.

    Numerosi altri personaggi scrivono autobiograficamente in David Copperfield. Iniziamo da Uriah Heep, non a caso una sorta di alter ego di David per altri aspetti. Uriah è infatti l’oggettivazione di impulsi che David non vuole ammettere, e di pretese di avanzamento sociale condannate in quel pariah e ambiguamente giustificate nel solo protagonista. Indicativo, soprattutto, l’ambire di Heep alla mano della figlia del suo datore di lavoro, Agnes Wickfield (David con Dora Spenlow fa esattamente la stessa cosa: e peraltro, quando David colpisce Uriah per punirlo di tali pretese, denuncia nel contatto fisico una «odiosa complicità» con lui). Il desiderio di scalata sociale, e una strategia di finzione per raggiungere tale obiettivo si associano a un rapporto di Heep con la scrittura che mette evidentemente David (Dickens) in guardia da un’altra particolare scissione: quella tra i suoi falsi libri contabili pubblici e i real memoranda, su cui egli registra, solo per sé, le tracce degli inganni perpetrati ai danni di Wickfield. Lo stesso discorso vale per il processo di apprendimento, da autodidatta, e di lettura. Quello di Heep è caratterizzato come ripugnante, eppure egli adotta la stessa strategia di studio e di lavoro di David. David lo coglie a lume di candela, nel piccolo ufficio, e ne è perciò come affascinato e disgustato insieme: «leggeva un grosso librone, con una tale accanita attenzione che il suo indice ossuto seguiva riga per riga durante la lettura lasciando una traccia umida sulla pagina (o così credevo), come una lumaca».

    Importante perciò anche il momento dello smascheramento finale di Heep, oggettivazione delle paure di David di vedere derise e smascherate le sue proprie aspirazioni alla gentility (si veda come sia sempre a disagio e intimorito da Littimer, il maggiordomo-complice dell’aristocratico Steerforth). Insomma, Heep mette David di fronte ai segni ancora indecifrati della propria ambiguità, e ai nodi problematici del proprio mestiere, della propria scrittura. Quei personal memoranda evidentemente «non intesi per la pubblicazione» hanno un parallelo nel frammento autobiografico di Dickens, così come i registri pubblici falsificati lo hanno con la deriva fantastica, con la trasposizione immaginativa, la oratio obliqua del David Copperfield, e sottolineano l’esigenza di raccordare pubblico e privato, interiorità ed esteriorità.

    Micawber è un ulteriore esempio nella serie di variazioni paradigmatiche sul tema della scrittura. Come sottolinea Alan Horsman, «Il più grande dei personaggi per cui il David Copperfield è famoso emerge da questo interesse per l’artista. Micawber ha il suo completo trionfo nell’immaginazione, sotto l’influsso delle parole». Micawber vive del suo piacere di fare discorsi e poi, spostatosi in Australia, di scrivere lettere, «gioiosa parodia, equivalente ad una celebrazione, della natura dell’artista che lotta per esser libero e che, a suo modo, riesce». Micawber anche vuole liberarsi con le parole dalle ansie della vita quotidiana, evadere da una realtà spiacevole di povertà e sotterfugi trascendendola linguisticamente. Il principio di realtà fa difetto anche a questo fanciullo nell’uomo. Come Heep, Micawber attende ad un progetto di avanzamento sociale, vago e fallimentare il più delle volte, fiducioso comunque che «qualcosa verrà fuori». Ma la sua fiducia in un futuro migliore lo mette al riparo da errori irrimediabili, finché è coronata da successo nella sua nuova vita «disciplinata» della colonia australiana.

    Ciò che fa di lui uno specchio rivelatore, è che la sua scrittura, dopo quella di David, ha l’estensione più ampia all’interno della narrazione principale. Le sue lettere, cui vanno aggiunte quelle della moglie, sono collegabili in una sorta di romanzo epistolare. Ma, all’esatto opposto della visione retrospettiva di David, le lettere di Micawber sono tutte versate nel presente. Quanto all’aspetto di autoriflessione (egli compie a suo modo un’operazione autoanalitica e autorappresentativa), va notato un ulteriore legame di parentela con la scrittura di David, giacché le lettere di Micawber mettono in campo una dislocazione simile a quella che ha luogo nella narrazione principale. Micawber si riferisce a se stesso in terza persona, con «egli» obbiettivandosi in immagine deformata rispetto alla realtà; e mentre, in particolare, lo sguardo di David vede nel suo proprio «egli» di volta in volta un essere fragile, indifeso, ingenuo, che incorre in errori a non finire, degno di commiserazione e rimpiccolito, Micawber ingrandisce ed eroizza se stesso alle prese con le immani difficoltà della sopravvivenza economica. D’altra parte, la scrittura di Micawber si propone come assoluta diseconomicità e sperpero di parole. Diviene perciò immagine di fallimento possibile per David, e funziona da monito a trovare un’economia della circolazione sociale del discorso che lo renda vendibile. Ciò implica anche la ricerca di misura espressiva, come può vedersi dall’aperto contrasto tra l’epopea eroico-martirologica che Micawber disegna per sé e la prudenza con cui David mette in questione sia la sua centralità di personaggio, sia la sua statura eroica fin dalla prima frase della sua narrazione: «Queste pagine diranno se sono proprio io l’eroe della mia vita o se questo posto tocca a qualcun altro» (I, p. 29).

    Accanto alla retorica di Micawber è poi da collocare quella di un’altra scrittrice, Miss Mills, del cui diario sono direttamente riportate pagine all’interno della narrazione principale. Scrittura autobiografica in presa diretta sebbene il diario (come il personaggio) abbia un’importanza ridotta in termini di plot rispetto a Micawber e alla sua scrittura. Ciò che la associa alla retorica di Micawber è uno stesso tipo di copertura del reale, e di soddisfazione del desiderio nella parola. Miss Mills, che funge da intermediaria nel corteggiamento di David a Dora, anela ad un rapporto sentimentale e matrimoniale. Tale desiderio, che resta insoddisfatto nella realtà, trova compenso nel dialogo con se stessa che ella inscena nel diario, e nella romanticizzazione della propria figura. David comunque fa uso - plausibilmente ironico - del modello retorico in esame riferendosi a Dora in quanto «saldezza e àncora della mia navicella sballottata dai flutti» nel suo viaggio sul «mare della confusione»; e attraverso lei e il suo gioco di segretezza con la lettera D, a indicare l’amica Dora, rafforza l’insistito rimandare di quella lettera al Dickens stesso.

    Due altri personaggi offrono ancora variazioni del tema della scrittura, e cioè il Dr. Strong e Dick. Essi si rapportano direttamente a David; il primo, suo istitutore del periodo di Dover; il secondo, figura paterna vicaria sotto lo stesso tetto di Betsey Trotwood e lontano parente. Curiosamente, la data della rivoluzione inglese del 1649 unisce i due personaggi: al ritmo lento e sincopato della compilazione del dizionario del Dr. Strong, viene infatti calcolato che l’opera sarebbe stata completata in 1649 anni; e il memoriale di Dick non riesce ad andare avanti per l’ossessivo ritorno dell’immagine della testa decapitata di Carlo primo.

    Il Dr. Strong entra in rapporto con David Copperfield (con l’autore) senz’altro, attraverso le allusioni alfabetiche, in quanto il suo dizionario, quando ne vediamo rilevato per sempre lo stato di avanzamento, è fermo alla lettera D. Ma il Dr. Strong è innanzi tutto una parodia, è la figura comica del pedagogo e dell’erudito. L’assenza di disciplina nel lavoro lessicografico, per lo meno, si oppone alla dedizione assoluta di David al proprio lavoro di scrittura. Non è un caso se una significativa accelerazione del ritmo di compilazione si ha solo in concomitanza con l’arrivo di David. Corollario di tale dilettantismo, e altro indice di disvalore che David dovrà imparare ad evitare, è la confusione delle carte, l’assenza di un ordine o di un metodo. Il distacco dalla realtà di Miss Mills e di Micawber è caratteristico anche del Dr. Strong, la cui perenne distrazione e pensosità è attribuibile «al fatto che era sempre occupato a cercare radici greche; il che, nella mia ingenuità e ignoranza, supposi essere una specie di furore botanico del dottore, specie perché egli guardava sempre per terra quando passeggiava, finche appresi che si trattava di radici di parole» (cap XVI, p. 238). Tale spiegazione sottolinea un ulteriore punto di contatto con David, poiché anche la scrittura del Dr. Strong ha a suo modo a che fare col passato: è una ricerca di radici, sebbene in senso filologico. Pertanto, ad un David che improvvisamente deve ridisegnare il suo futuro scoprendosi povero , il soccorso del Dr. Strong giunge come offerta di collaborare al dizionario anche se, in seconda istanza, è lo stesso lessicografo a scorgerne i limiti formativi per l’allievo. In aggiunta, nel coadiuvare alla compilazione del dizionario, a David si offre una ulteriore immagine polarizzata di sé in Jack Maldon, segretario del Doctor e seduttore della moglie del lessicografo. David osserva che: «le sue carte erano un poco in disordine, dato che mr. Jack Maldon aveva ultimamente offerto i suoi servigi occasionali di amanuense» (XXXVI, p. 491); e che questi «non s’era limitato a fare numerosi errori, ma aveva altresì, disegnato tanti soldati e tante teste di donna, sul manoscritto del dottore che spesso mi trovai sperso in labirinti di oscurità» (ibidem). Questo villain, nel paradigma di Steerforth o Heep come attentatore dell’onore femminile, è contestualmente anche un villain della parola.

    E veniamo infine a Dick, un personaggio che si richiama alla tradizione letteraria del folsage. Dick rinvia a David per le iniziali, ma più direttamente a Dickens perché il suo nome abbrevia il cognome dell’autore, mentre al nome Charles rinvia attraverso l’ossessiva immagine del re decapitato Carlo primo che continua a interrompere la redazione della sua autobiografia. La testa decapitata di Carlo e la figura della follia di Dick, personaggio che offre quindi una quanto mai interessante variante di scrittura memoriale, giacché essa costituisce una sorta di painkiller, di terapia della follia, e questa è caratteristicamente originata nella colpevole negligenza parentale o della famiglia:

    «È un memoriale sulla sua storia, che sta scrivendo zia?»

    «Sì, bambino», disse mia zia, stropicciandosi di nuovo il naso. «È un memoriale al Lord Cancelliere, o al Lord Qualcosa o Qualcosaltro... uno di quelli, insomma, che sono pagati per ricevere memoriali... sulle sue faccende. Suppongo che lo spedirà, uno di questi giorni. Finora non e stato capace di stenderlo senza introdurvi quel modo di esprimersi; ma ciò non significa nulla: lo tiene occupato» (XIV, p. 209).

    Va notato poi che, in linea con l’autobiografia di Dickens e col dizionario del Dr. Strong, il memoriale va fatalmente in stallo, e non riesce a superare il punto di frattura; finché, finalmente, la scrittura come terapia prende a funzionare e Dick, guidato da David, recupera equilibrio personale e utilità sociale. Gli basta, appunto, allontanarsi dalla lettera del memoriale per scrivere di qualcos’altro da sé:

    Su un tavolo accanto alla finestra a Buckingham Street ponemmo il lavoro che Traddles gli procurava - che consisteva nel fare non ricordo quante copie di un documento legale sul diritto di passaggio - e su un altro tavolo spiegammo l’ultimo incompleto originale del grande memoriale. Ammonimmo mr. Dick che doveva copiare esattamente cio che aveva davanti a se, senza mai discostarsi dall’originale; e che quando sentiva la necessita di fare la piu piccola allusione a re Carlo primo, doveva rivolgersi al memoriale (XXXVI, p. 495).

    Come Dickens, dunque, Dick supera in qualche modo il blocco che impedisce il confronto col proprio passato nella scrittura: lo rimuove spostando il proprio lavoro in un’altra scrittura, oggettivata eppure emblematicamente, indissolubilmente vicina, sul tavolo di lavoro, a quella memorialistica.

    MARIO MARTINO

    Nota biobibliografica

    CRONOLOGIA DELLA VITA E DELLE OPERE

    1812. Charles Dickens nasce a Portsmouth il 7 febbraio.

    1815. John Dickens, padre di Charles, impiegato all’ufficio paghe della Marina, viene trasferito a Londra.

    1817. John Dickens è trasferito a Chatham, dove il piccolo Charles trascorre il periodo più felice della propria infanzia.

    1821. Scolaro alla William Giles’s School, Charles scrive, «alla matura età di 8-10 anni», la tragedia Misnar, the Sultan of India.

    1822. John Dickens è di nuovo trasferito a Londra, e va ad abitare al 16 di Bayham Street, Camden Town.

    1824. Mentre la sorella Fanny è iscritta alla Royal Academy of Music, il piccolo Charles, anche su pressioni della madre, viene «abbandonato» al lavoro in una fabbrica di lucido da scarpe, Warren, sulle sponde del Tamigi. Questo gli dà il senso di una contaminazione col mondo «basso» e criminale. Il padre è rinchiuso nella prigione per debitori di Marshalsea. Charles alloggia presso una famiglia di amici, prima a Camden Town e poi a Lant Street, più vicino alla prigione del padre. Dopo pochi mesi, uscito John Dickens di prigione, la famiglia si trasferisce a Somers Town.

    1825. Charles Dickens si iscrive alla Wellington House Academy.

    1826. John Dickens ottiene un impiego giornalistico.

    1827. Charles si impiega presso lo studio legale Ellis e Blackmore. Per evadere dalla routine degli impieghi legali, studia stenografia da autodidatta.

    1830. Si invaghisce di Maria Beadnell, la cui famiglia tratta snobisticamente il giovane e lo induce ad interrompere il rapporto, nel 1833. Ottiene l’impiego di reporter parlamentare grazie anche allo zio.

    1832. Tenta il mestiere dell’attore.

    1833. «The Monthly Magazine» pubblica il suo primo racconto: A Dinner at Poplar Walk.

    1834. Giornalista a «The Morning Chronicle». Conosce la futura moglie, Catherine Hogarth. Pubblica altri bozzetti su «The Monthly Magazine».

    1836. Escono Sketches by Boz, First Series, e Sketches by Boz, Second Series, i suoi primi volumi. Si sposa e conosce John Forster che rimarrà forse il suo più fedele amico e primo, importantissimo biografo. Inizia a pubblicare Pickwick Papers in parti mensili, metodo a cui rimarrà sostanzialmente fedele per il resto della sua opera.

    1837. Inizia la pubblicazione in 20 fascicoli, mensili, di Oliver Twist.

    1838. Inizia la pubblicazione in 20 fascicoli, mensili, di Nicholas Nickleby.

    1840. Assunta la direzione di una nuova rivista, «Master Humphrey’s Clock», su di essa inizia la pubblicazione, in 40 puntate, settimanali, di The Old Curiosity Shop.

    1841. Su «Master Humphrey’s Clock», inizia la pubblicazione, in 40 puntate, di Barnaby Rudge.

    1842. Esce American Notes, risultato del suo primo viaggio negli Stati Uniti, e inizia la pubblicazione di Martin Chuzzlewit.

    1843. Scrive il racconto natalizio, archetipo di un genere, A Christmas Carol (a cui seguono, fino al 1848: The Chimes, The Cricket on the Hearth, The Battle of Life, e The Haunted Man).

    1844-5. Visita l’Italia.

    1846. Esce Pictures from Italy. Prende avvio Dombey and Son, in 20 puntate, che dà inizio alla sua fase matura dopo la crisi produttiva degli anni precedenti.

    1849. Inizia la pubblicazione di David Copperfield (in 20 puntate).

    1850. È direttore di una nuova rivista, «Household Words», che attraverserà tutti gli anni Cinquanta.

    1852. Inizia la pubblicazione di Bleak House (in 20 puntate).

    1854. Esce Hard Times, in numeri settimanali.

    1855. Inizia la pubblicazione di Little Dorrit (in 20 puntate).

    1855. Acquista la casa di Gads Hill, nei pressi di Chatham, ammirata nelle passeggiate dell’infanzia assieme al padre. I giri di letture delle proprie opere, iniziati per beneficenza e poi trasformati in vere e proprie iniziative commerciali, acquistano ritmi più intensi.

    1859. Assume la direzione della nuova rivista «All The Year Round», dove pubblica A Tale of two Cities.

    1860. Su «All the Year Round» inizia la pubblicazione di Great Expectations.

    1864. Inizia la pubblicazione di Our Mutual Friend (in 20 puntate), ultimo suo romanzo concluso.

    1865. Coinvolto in un incidente ferroviario, rischia che sia scoperta la sua relazione extraconiugale con l’attrice Ellen Ternan.

    1868. Pubblica su «The Atlantic Monthly» il racconto George Silverman’s Explanation.

    1870. Inizia la pubblicazione di The Mistery of Edwin Drood, del quale solamente sei numeri sono pubblicati, dei dodici previsti. Provato da una serie di stressanti letture pubbliche, muore a Gad’s Hill, il 9 giugno.

    BIBLIOGRAFIA

    Segnaliamo alcune fondamentali opere bibliografiche. Sulle opere di Charles Dickens, cfr. PHILIP COLLINS, New Cambridge Bibliography; e JOHN FENSTERMAKER, Charles Dickens, 1940-1975: An Analytical Subject Index to Periodical Criticism of the Novels and Christmas Books, London, Prior, 1979.

    Su David Copperfield, cfr. R. DUNN e A. TANDY, David Copperfield: An Annotated Bibliography, I: 1981-98, New York, AMS Press, 2000. Per una rassegna della critica si veda, in italiano, a cura di C. PAGETTI e M. T. CHIALANT, Dickens e la critica, in IID., La città e il teatro. Dickens e l’immaginario vittoriano, Roma, Bulzoni, 1988, pp. 13-39. Si vedano inoltre in Victorian Fiction: A Guide to Research, 1964 (a cura di LIONEL STEVENSON) la rassegna di ADA NISBET; e in Victorian Fiction: A Guide to Research, 1978 (a cura di GEORGE FORD), la rassegna di PHILIP COLLINS.

    La biografia oggi più accreditata è quella di EDGAR JOHNSON, Charles Dickens: His Tragedy and Triumph, London, Allen, 1977 (1952¹). Imprescindibile però quella dell’amico di Dickens, JOHN FORSTER, Life of Dickens, London, Chapman, 1872-4, 3 voll. Si vedano anche Letters of Charles Dickens, volumi 1, Pilgrim Edition, a cura di MADELIEN HOUSE, GRAHAM STOREY, KATHLEES TILLOTSON, K.J. FIELDING, Oxford, Oxford U.P., 1965.

    Selezione di studi in inglese su Charles Dickens e David Copperfield:

    AAVV., Dickens: The Craft of Fiction and the Challenges of Reading, Milano, Unicopli, 2000.

    M. BAUMBGARTEN e H.M. DALESKI, Homes and Homelessness in the Victorian Imagination, New York, AMS, 1998.

    HAROLD BLOOM (a cura di), Charles Dickens: Modern Critical Views, New York, Chelsea House, 1987.

    HAROLD BLOOM (a cura di), Victorian Fiction, New York, Chelsea House, 1989.

    H. BOLTON PHILIP Dickens Dramatized, London, Mansell, 1987.

    M. BROWN JAMES, Dickens: Novelist in the Marketplace, London, Macmillan, 1982.

    J. BURR e K. TILLOTSON, Dickens at Work, London, Methuen, 1957.

    JHON CAREY, The Violent Effigy, London, Faber, 1973.

    A.O.J. COCKSHUT, The Imagination of Charles Dickens, London, Collins, 1961.

    PHILIP COLLINS, Dickens and Crime, London, Macmillan, 1962.

    PHILIP COLLINS, Dickens and Education, London, Macmillan, 1963.

    PHILIP COLLINS (a cura di), Dickens: The Critical Heritage, London, Routledge, 1971.

    STEVEN CONNOR, Charles Dickens, Oxford, Blackwell, 1985.

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    H.J.DYOS e M. WOLFF (a cura di) The Victorian City, 2 voll., London, Routledge, 1973.

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    MONROE ENGEL, The Maturity of Charles Dickens, Cambridge, Mass., Harvard U.P., 1959.

    JOSHUA KENNETH FIELDING, Charles Dickens: A Critical Introduction, London, Longmans, 1958.

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    Principali studi critici in italiano su Dickens e in particolare su David Copperfield:

    ROSSANA BONADEIi, Paesaggio con figure. Intorno all’Inghilterra di Charles Dickens, Milano, Jaca Book, 1996

    MARINA BONDI PAGANELLI, Dickens e il discorso politico, Bologna, Cappelli, 1989.

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    CARLO IZZO, Autobiografismo di Charles Dickens, Venezia, Neri Pozza, 1954. , Dickens e la crisi della scrittura, Bari, Adriatica, 1996.

    MARIO PRAZ, La crisi dell’eroe nel romanzo vittoriano, Firenze, Sansoni, 1981 (1952).

    ROMOLO RUCINI, Illusione e paura nel mondo borghese. Da Dickens a Orwell, Bari, Adriatica, 1968.

    GIORGIO SPINA, Charles Dickens. L’uomo e la folla, Genova, E.R.S.U.,1985.

    FRANCESCO MARRONI, Disarmonie vittoriane, Roma, Carocci, 2002.

    Una interessante interpretazione tra testo e figura - che rinnova il peculiare rapporto tra la narrativa dickensiana e l’illustrazione attraverso quelle storiche di Phiz e altri - è offerta oggi dall’opera dell’incisore MIRANDO HAZ (Cfr., ad esempio, Un albero di Natale, Milano, All’insegna del pesce d’oro, mcmlxxxi; e anche L’opera incisa, Milano, Nuages, 1999).

    Principali traduzioni in italiano di David Copperfield:

    David Copperfield (trad. di S. Spaventa Filippi), Milano, Sonzogno, 1914 e 1933.

    David Copperfield (trad. di C. Pavese), Torino, Einaudi, 1939.

    David Copperfield (trad. di O. Previtali), Milano, Rizzoli, 1957.

    David Copperfield (trad. di E. Piceni), Milano, Mondadori, 1965.

    David Copperfield (trad. di F. Prattico), Roma, Editori Riuniti, 1966.

    David Copperfield (trad. di G. Grasso), Messina-Firenze, D’Anna, 1968.

    David Copperfield (trad. di E. Beccarini Crescenzi), Firenze, Vallecchi, 1968.

    David Copperfield (trad. di U. Dettore), Milano, Garzanti, 1977, 2 voll.

    M.M.

    David Copperfield

    Il frontespizio dell’edizione originale di «David Copperfield», 1850.

    Prefazione dell’Autore

    Rilevai, nella prefazione originale a questo libro, che non mi riusciva facile allontanarmi abbastanza da esso, appena dopo averlo terminato, per giudicarlo con il distacco che questa formale presentazione richiederebbe. Il mio interesse ad esso era così recente e così forte, e la mia mente era così divisa tra il piacere e il rimpianto - il piacere di avere realizzato un lungo progetto, rimpianto per la separazione da tanti amici - che rischiavo di annoiare il lettore con confidenze personali ed emozioni private.

    A parte ciò, tutto quello che posso dire su questa storia, in ogni modo, ho cercato di dirlo in essa.

    Forse interesserebbe poco al lettore sapere come a malincuore si deponga la penna dopo due anni di lavoro di immaginazione; o che un Autore ha la sensazione di avere abbandonato una parte di sé in un mondo di ombre, quando una folla di creature del suo cervello si allontana da lui per sempre. Così, non ho null’altro da dire, sebbene, invece, debba confessare (il che deve essere anche meno importante) che nessuno potrà mai credere in questo racconto nel leggerlo più di quanto ci abbia creduto io nello scriverlo.

    Così sincere sono queste dichiarazioni, oggi, che posso ora solo fare al lettore un’altra confidenza. Di tutti i miei libri, quello che più amo è questo. Si potrà credere facilmente che sono un padre amoroso per ogni figlio della mia fantasia, e che nessuno può amare questa famiglia più teneramente di quanto l’ami io. Ma, come molti genitori amorosi, ho nel cuore del mio cuore un figlio preferito. E il suo nome è David Copperfield.

    Londra, «la moderna Babilonia», mappa disegnata da Chris Barlow.

    I. Sono nato

    Queste pagine diranno se sono proprio io l’eroe della mia vita o se questo posto tocca a qualcun altro. Per cominciare dall’inizio la mia storia, registrerò qui il fatto che nacqui (come mi dissero e come credo) di venerdì, a mezzanotte. Venne notato che l’orologio cominciò a suonare e io a piangere, simultaneamente.

    In considerazione del giorno e dell’ora della mia venuta al mondo la levatrice ed alcune sagge comari nostre vicine, che si erano interessate vivamente di me parecchi mesi prima che potessimo conoscerci di persona, dichiararono che, in primo luogo, ero destinato ad una vita infelice; secondo, che avrei avuto il privilegio di vedere spiriti e fantasmi: essendo queste capacità, secondo la loro opinione, inevitabilmente collegate agli infelici bambini d’ambo i sessi nati nelle ore piccole di una notte di venerdì.

    Non ho bisogno di dir nulla sul primo punto, perché nulla più della mia stessa storia può dimostrare se questa predizione venne poi più o meno verificata dai fatti. Per quanto riguarda la seconda questione, voglio solo notare che, salvo che non abbia usufruito di questa parte della mia eredità quando ero ancora in fasce, non l’ho ancora ricevuta. Ma non è che sia molto spiacente di essere privato di questa proprietà: e se qualcuno ne sta godendo al posto mio, gliela cedo di tutto cuore.

    Nacqui con una cuffia¹ che venne offerta in vendita, attraverso il giornale, al modico prezzo di quindici ghinee. Non so se i marinai fossero in quel periodo a corto di denaro o di fede, preferendo perciò cinture di salvataggio. Ciò che so è che vi fu una sola offerta, da parte d’un procuratore interessato in affari di cambio, che offrì due sterline in contanti e il rimanente in sherry, ma rifiutò di garantirsi dall’annegamento per un prezzo più elevato. Perciò l’avviso venne ritirato in pura perdita (perché quanto allo sherry, la mia povera cara mamma stava cercando a sua volta di vendere il suo) e dieci anni dopo la mia cuffia venne messa in una riffa che si tenne dalle nostre parti, tra cinquanta membri, a mezza corona a testa, il vincitore essendo obbligato a sborsare altri cinque scellini.

    Ero io stesso presente, e ricordo di essermi sentito piuttosto imbarazzato e confuso nel vedere disporre in tal modo di una parte di me. La cuffia fu vinta, ricordo, da una vecchia signora con un manicotto, dal quale, con molta riluttanza, estrasse i cinque scellini pattuiti, tutti in mezzi penny, e consegnando due penny e mezzo in meno. Venne spesa invano una grande quantità di tempo ed un notevole sforzo aritmetico venne prodotto nel vano tentativo di provarglielo.

    Fu ricordato a lungo, da quelle parti, che ella non annegò mai, anzi morì trionfalmente nel proprio letto, a novantadue anni. Ho sentito dire che fino all’ultimo ella era orgogliosissima di non essere mai stata sull’acqua, tranne che attraversando un ponte, e che, bevendo il suo tè (a cui teneva molto) fino all’ultimo era solita esprimere la sua indignazione per l’empietà dei marinai e di chiunque avesse l’audacia di andare «vagabondando» per il mondo. Invano mai le si faceva notare che alcune cose utili, compreso probabilmente il suo tè, erano dovute a questa discutibile pratica. Ogni volta replicava, con grande enfasi e con una istintiva fiducia nella forza della sua obiezione: «Non vagabondiamo!».

    Per non vagabondare a mia volta, tornerò alla mia nascita.

    Sono nato a Blunderstone, nel Suffolk, o «da quelle parti», come si dice in Scozia. Ero un figlio postumo. Gli occhi di mio padre si erano chiusi alla luce di questo mondo sei mesi prima che io aprissi i miei. Ancora adesso mi sembra strano il pensiero che non mi vide mai; e v’è qualcosa di ancora più strano nell’oscuro ricordo che ho dei miei primi puerili pensieri sulla sua bianca pietra tombale, nel cimitero della chiesa, e della indefinibile compassione che sentivo per il suo giacere solo nell’oscura notte, quando il nostro salottino era caldo e luminoso per il fuoco, e per le candele, e le porte di casa erano - a volte mi sembrava quasi con crudeltà - chiuse e sprangate, ad escluderlo.

    Una zia di mio padre, e quindi una mia prozia, della quale parlerò più estesamente in seguito, era il personaggio principale della nostra famiglia. Miss Trotwood, o miss Betsey, come la chiamava la mia povera madre quando vinceva abbastanza il suo timore reverenziale verso questo formidabile personaggio da nominarlo (il che accadeva di rado), era stata sposata ad un marito più giovane di lei, che era molto bello, tranne che nel senso indicato dal familiare adagio: «È bello colui il cui agire è bello». Perché v’e- rano forti sospetti che avesse picchiato spesso miss Betsey, e anche che una volta, durante una disputa per una questione d’interesse, avesse fatto frettolosi ma energici tentativi di lanciarla da

    una finestra, al secondo piano. L’evidente incompatibilità di carattere indusse miss Betsey a dargli dei quattrini per ottenere una separazione consensuale. Lui si recò in India col suo gruzzolo e qui, secondo una singolare leggenda di famiglia, fu visto una volta cavalcare un elefante insieme ad un babuino: ma io penso piuttosto che si trattasse d’un Babu o di una Begun².

    Ad ogni modo, dopo dieci anni giunse dall’india notizia della sua morte. Nessuno sa che effetto facesse su mia zia; perché subito dopo la separazione ella aveva ripreso il suo nome di ragazza, acquistato un villino in un villaggio sul mare piuttosto remoto, e vi si era stabilita avendo con sé solo una donna come domestica. Si diceva che vi vivesse come una reclusa, in un inflessibile ritiro.

    Mio padre era stato una volta il suo preferito, credo. Ma essa era rimasta mortalmente offesa dal suo matrimonio, nella convinzione che mia madre non fosse altro che una «bambola di cera». Non l’aveva mai vista, ma sapeva che non aveva ancora vent’an- ni. Da allora mio padre e miss Betsey non si erano più incontrati. Mio padre aveva il doppio dell’età di mia madre, ed era di salute delicata. Morì un anno dopo, come dissi, sei mesi prima ch’io venissi al mondo.

    Così stavano le cose il pomeriggio di quel venerdì che potrò essere perdonato se chiamo un venerdì importante e ricco di eventi. Ovviamente io non potevo sapere, allora, come stavano le cose, né ho alcun ricordo, fondato sulla evidenza dei sensi, di ciò che accadde.

    Mia madre sedeva accanto al fuoco, piuttosto malandata e molto depressa, con gli occhi velati dalle lacrime, chiedendosi cosa sarebbe stato di lei e di quel piccolo estraneo orfano, la cui prossima venuta in un mondo che non sarebbe stato per niente emozionato dal suo arrivo era già annunziata da alcune dozzine di profetiche spille da balia al piano di sopra; mia madre, dicevo, sedeva al fuoco in quel limpido e ventoso pomeriggio di marzo, triste e spaventata, dubbiosa d’uscir viva dalla prova che l’attendeva, quando alzando gli occhi per asciugarli scorse una strana signora che attraversava il giardino.

    Alla seconda occhiata mia madre fu sicura che si trattava di miss Betsey. Il sole al tramonto illuminava, al di là della siepe del giardino, la strana donna, ed essa avanzava verso la porta con un piglio così rigido e pieno di contegno che non avrebbe potuto essere scambiata con nessun’altra.

    Quando raggiunse la casa diede un’altra prova della sua identità. Mio padre aveva spesso affermato che raramente essa si comportava come un qualsiasi cristiano; ed ora, invece di bussare, si avvicinò e guardò dentro, proprio da quella finestra, premendo con tanta forza contro il vetro la punta del naso che mia madre soleva dire che l’aveva vista diventare perfettamente schiacciata e bianca. Diede così un tale scossone a mia madre, che sono stato sempre convinto di dovere a miss Betsey l’essere nato di venerdì.

    Mia madre, agitata, aveva lasciato la sua poltrona e si era rifugiata in un angolo. Miss Betsey volse lo sguardo in giro per la stanza, lentamente e inquisitivamente, cominciando dalla parte opposta e girando gli occhi come una testa di Saraceno in un orologio olandese, finché raggiunse mia madre. Allora aggrottò le sopracciglia e fece cenno a mia madre, come una abituata ad essere obbedita, di avvicinarsi ed aprirle la porta. Mia madre eseguì.

    «Mrs. David Copperfield, credo», disse miss Betsey, con una sottolineatura che forse si riferiva agli abiti da lutto e alle condizioni di mia madre.

    «Sì», rispose questa debolmente.

    «Miss Trotwood», disse la nuova venuta, «ne avete sentito parlare, direi?».

    Mia madre rispose che aveva avuto quel piacere, ma con la spiacevole coscienza che la frase non sembrava implicare che s’era trattato d’un piacere molto grande.

    «Ora la vedete», affermò miss Betsey. Mia madre chinò la testa e la pregò di accomodarsi dentro.

    Entrarono nel salottino da dove era uscita mia madre, perché il fuoco non era acceso nel salotto buono, dall’altra parte del corridoio: non era stato acceso dal giorno dei funerali di mio padre.

    Quando si furono sedute, miss Betsey in silenzio, mia madre, dopo avere tentato invano in tutti i modi di trattenersi, scoppiò in lacrime.

    «Oh, no, no, no», esclamò in fretta miss Betsey, «non fate così! Su, su...».

    Ma mia madre non riusciva a dominarsi, e pianse finché ebbe da piangere.

    «Levatevi la cuffia, piccola», ordinò miss Betsey, «e lasciatevi vedere».

    Mia madre era troppo intimorita per sottrarsi a questa singolare richiesta, se pure ne avesse avuto voglia. Fece perciò come l’altra le aveva ordinato, e con gesti così incerti che i capelli (che erano folti e bellissimi) le ricaddero sul volto.

    «Diamine, Dio mi benedica», commentò miss Betsey, «siete proprio una bambina!».

    Mia madre aveva senza dubbio un aspetto eccezionalmente giovanile anche per la sua età. Abbassò il capo, come se si trattasse d’una colpa, poverina, e disse, singhiozzando, che temeva infatti di essere una vedova assai puerile, e che se fosse sopravvissuta sarebbe stata una mamma puerile. Nella breve pausa che seguì, le parve che miss Betsey le sfiorasse i capelli, e con mano non priva di gentilezza, ma rialzando lo sguardo con timida speranza, vide che la signora sedeva con la sottana rimboccata, le mani intrecciate sulle ginocchia e i piedi sugli alari, fissando severamente il fuoco.

    «In nome del Cielo», esclamò improvvisamente miss Betsey, «perché Rookery?»³

    «Vuol dire la casa, signora?», chiese mia madre.

    «Perché Rookery?», continuò miss Betsey. «Cookery⁴ sarebbe stato più adatto allo scopo, se voi altri, tutti e due, aveste avuto una idea pratica della vita».

    «Il nome fu scelto da mr. Copperfield», replicò mia madre, «quando comprò la casa, gli piaceva immaginare che vi fossero delle cornacchie qui attorno».

    Il vento della sera sibilò forte, proprio allora, fra alcuni vecchi e alti olmi in fondo al giardino, così forte che né mia madre né miss Betsey potettero trattenersi dal guardare in quella direzione.

    Gli olmi si curvavano l’un verso l’altro, come giganti che si sussurrano segreti, e dopo qualche attimo cominciarono ad agitarsi violentemente, sbattendo i loro lunghi rami, quasi che le confidenze ricevute fossero troppo amare per la pace del loro animo, e i rami più alti apparvero carichi di vecchi nidi di cornacchie, sbattuti dal vento, oscillanti come battelli naufragati in una tempesta.

    «Dove sono gli uccelli?», chiese miss Betsey.

    «Gli...», mia madre stava pensando ad altro.

    «Le cornacchie. Che è accaduto di loro?», domandò miss Betsey.

    «Non vi sono mai state, da che abitiamo qui», rispose mia madre. «Noi pensavamo... Mr. Copperfield pensava... che vi doveva essere una grossa colonia di cornacchie: ma i nidi erano molto vecchi, gli uccelli li hanno abbandonati da parecchio».

    «Tutto David Copperfield!», gridò miss Betsey. «David Copperfield dalla testa ai piedi! Chiamare una casa cornacchiaio quando non c’è una sola cornacchia nei dintorni, ed avere fiducia negli uccelli solo perché ha visto i nidi!».

    «Mr. Copperfield», replicò mia madre, «è morto, e se voi osate parlarne scortesemente...».

    La mia povera mamma, credo, aveva qualche momentanea intenzione di assalire e picchiare mia zia, che avrebbe potuto respingerla con una sola mano anche se mia madre fosse stata ben più preparata ad un simile scontro di quanto non fosse quel pomeriggio.

    Ma la sua azione si limitò a sollevarsi dalla poltrona; poi ricadde giù molto docilmente e svenne.

    Quando rinvenne, o quando miss Betsey la fece rinvenire, comunque fosse, la scorse ritta davanti la finestra. Il crepuscolo in quel momento scivolava verso l’oscurità, e si scorgevano indistintamente l’un l’altra solo per il fioco bagliore del fuoco.

    «Bene?», domandò miss Betsey, tornando alla sua poltrona come se avesse solo dato una occhiata casuale al panorama. «E per quando aspettate...».

    «Tremo tutta», balbettò mia madre, «non so cosa sia. Sto per morire, ne sono sicura...».

    «No, no, no», disse miss Betsey, «prendete del tè».

    «Povera me, povera me, pensate che mi farà bene?», pianse de-solatamente mia madre.

    «Certamente», affermò miss Betsey, «non è che una fantasia. Come chiamate la ragazza?»

    «Non so ancora se sarà una ragazza, signora», rispose innocentemente mia madre.

    «Benedetta creatura!», esclamò miss Betsey, involontariamente citando la seconda sentenza ricamata sull’appuntaspilli nel cassettone al piano di sopra, ma applicandola a mia madre invece che a me. «Non volevo dir questo. Intendevo la vostra domestica».

    «Peggotty», disse mia madre.

    «Peggotty!», ripetè indignata miss Betsey. «Volete dire, bambina, che esiste un essere umano ch’è entrato in una chiesa cristiana e s’è dato il nome di Peggotty?»

    «Èil suo cognome», spiegò fievolmente mia madre: «mr. Copperfield la chiamava così, perchè il suo nome di battesimo è lo stesso del mio».

    «Qui, Peggotty!», gridò miss Betsey, aprendo la porta del salotto. «Tè. La tua padrona non sta bene. Non bighellonare!».

    Avendo lanciato il comando con tanta energia come se fosse stata una autorità riconosciuta in casa fin da quando questa era una casa, ed avendo squadrato la stupefatta Peggotty, che attraversava il corridoio con una candela al suono di quella voce sconosciuta, miss Betsey chiuse di nuovo la porta e sedette come prima: i piedi sugli alari, la sottana tirata su e le mani intrecciate sulle ginocchia.

    «Parlavate d’una ragazza», disse poi: «io sono sicura che si tratta d’una bambina. Ho il presentimento che debba essere una bambina. Ora, piccola, dal momento della nascita di questa bambina...».

    «Forse sarà un bambino», osò interferire mia madre.

    «V’ho detto che ho il presentimento che si tratti d’una bambina», replicò miss Betsey, «non contradditemi. Dal momento della nascita di questa bambina, piccola, io voglio essere sua amica. Intendo farle da madrina, e vi prego di chiamarla Betsey Trotwood Copperfield. Non vi saranno errori, nella vita di questa Betsey. Nessuno scherzerà coi suoi sentimenti, povera cosetta. Dovrà

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