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La dinastia
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E-book1.286 pagine19 ore

La dinastia

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Info su questo ebook

Avidità. Lussuria. Ira. Superbia. Una dinastia consacrata al vizio.

Il romanzo dei cinque imperatori

Tutti i peccati portano a Roma

30 a.C. Il giovane Ottaviano, reduce dalla vittoria di Azio, si macchia di un atroce delitto contro il suo stesso sangue, attirando su di sé una maledizione che segnerà il destino dell’intera stirpe dei Giulio-Claudi.
Né lui, né i suoi eredi avranno mai pace, travolti dalla brama di potere e decimati nel tempo da malattie, congiure e lotte intestine. Con il passare degli anni, quella che era sembrata solo una vaga minaccia assume infatti i contorni di una terribile profezia: la sorte si accanisce contro la dinastia fondata da Ottaviano, divenuto nel frattempo imperatore con il nome di Augusto, e ogni erede prescelto a succedergli muore in circostanze misteriose. Alla sua corte si susseguono scandali e intrighi per stabilire quale ramo della famiglia prenderà il sopravvento: quello giulio dell’imperatore o quello claudio di sua moglie Livia? Una faida senza fine, che continua ad avvelenare anche il regno di Tiberio, figliastro di Augusto, portando altre morti, cospirazioni e omicidi. Il successore, Caligola, si rivela ben presto inadeguato al grande compito: i suoi eccessi seminano malcontento e terrore. Quando subentra il debole Claudio, vittima delle trame di potenti liberti e di donne ambiziose, né i senatori, né i pretoriani sono in grado di fermare Agrippina: anche lei, come Livia a suo tempo, riesce a imporre sul trono il figlio Nerone, con cui si estingue la casata imperiale.
Tra scandali sessuali, tradimenti e complotti, Andrea Frediani racconta tutti i retroscena più oscuri e perversi della dinastia che ha creato l’impero romano e che, nell’arco di un secolo e in un crescendo di follia e abiezione, ha conosciuto una rapida ascesa e un bruciante declino.


Andrea Frediani

è nato a Roma nel 1963. Laureato in Storia medievale, ha collaborato con numerose riviste specializzate, tra cui «Storia e Dossier», «Medioevo» e «Focus Storia». Attualmente è consulente scientifico della rivista «Focus Wars». Con la Newton Compton ha pubblicato, tra gli altri, i saggi Gli assedi di Roma, vincitore nel 1998 del premio Orient Express quale miglior opera di Romanistica; Le grandi battaglie di Roma antica; I grandi generali di Roma antica; Le grandi battaglie del Medioevo; I grandi condottieri che hanno cambiato la storia; Guerre, battaglie e rivolte nel mondo arabo e L’ultima battaglia dell’impero romano. Ha scritto inoltre i libri 101 segreti che hanno fatto grande l’impero romano e 101 battaglie che hanno fatto l’Italia unita, e i romanzi storici 300 guerrieri; Jerusalem; Un eroe per l’impero romano; la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011), Marathon e La dinastia. I suoi romanzi sono tradotti in cinque Paesi. Il suo sito è www.andreafrediani.it
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854140103
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    Anteprima del libro

    La dinastia - Andrea Frediani

    PRIMO EPISODIO

    MALEDETTO

    1

    Roma, un anno dopo

    Nella radiosa estate dell’impero, per il terzo giorno consecutivo Cesare Ottaviano – il vincitore, il restauratore della libertà, il pacificatore – sfilava sotto un sole pieno, il faro che illuminava la celebrazione della fine delle guerre civili.

    Il trionfatore era consapevole di non rappresentare, agli occhi del popolo, del senato e dei magistrati, solo l’ennesimo comandante di cui si celebravano le vittorie. Dal suo cocchio, in attesa appena fuori dalla Porta Trionfale, poteva sentire le urla della gente all’interno delle mura. E, voltandosi all’indietro, poteva vedere le espressioni sospettose dei magistrati, dei senatori e di Valerio Messalla, l’altro console: contrariamente alla tradizione prevista dal cerimoniale, Ottaviano aveva preteso che sfilassero tutti alle sue spalle.

    Sapeva che quelle grida esprimevano la felicità dei Romani, e non solo per il denaro che aveva fatto distribuire al popolo nei giorni precedenti. I cittadini erano contenti perché la guerra era finita. Ed era stato lui a porvi fine, con la sconfitta di Cleopatra. Non più Mario contro Silla, lo Stato contro Catilina, Cesare contro Pompeo, Ottaviano e Antonio contro Bruto e Cassio, Ottaviano contro Sesto Pompeo, Ottaviano contro Cleopatra… e Antonio. Adesso era rimasto solo lui, e tutti erano consapevoli del fatto che non esisteva nessun altro con il fegato, i mezzi e il potere per minacciare ancora una volta la stabilità dell’impero.

    Del suo impero.

    E le espressioni sospettose degli aristocratici esprimevano proprio questo timore. Che lo considerasse il suo impero. Che lo governasse secondo la sua volontà. Evidentemente non erano bastati il suo rifiuto della dittatura e la sua presa di distanza da Giulio Cesare per fugare i loro dubbi. Ma perfino i patrizi erano così stanchi di guerre civili, proscrizioni, carestie, campagne militari che avrebbero accettato chiunque garantisse un po’ di pace e prosperità.

    Forse perfino un re.

    Allo stesso tempo, però, temevano che un monarca li sottoponesse a giudizi arbitrari, senza altra motivazione che il suo capriccio.

    Stupidaggini. E glielo avrebbe dimostrato presto. Certo, non aveva combattuto quindici anni seguendo le orme di suo padre Giulio Cesare, stabilizzando le frontiere, eliminando tutte le minacce, esterne e interne, per consegnare il potere a uomini incapaci di gestirlo. E non avrebbe nemmeno permesso che la fragile repubblica degli ultimi decenni crollasse di nuovo. No, la vera risorsa per mantenere la prosperità dell’impero erano la saggezza e la moderazione.

    Doveva usarle entrambe. Anzi, doveva imporle.

    Giulio Cesare era stato moderato, ma non saggio. E ora i senatori sospettavano del suo erede proprio perché avevano sperimentato la protervia del suo predecessore. Cesare non aveva rifiutato alcun onore, alcun titolo. Al contrario, li aveva pretesi, inducendo gli aristocratici a sospettare che mirasse alla monarchia.

    Lui non avrebbe commesso lo stesso errore.

    «Non voglio venire! Non ci vengo!», urlava Giulia stringendo i pugni, rossa in viso, sfuggendo alle mani che cercavano di ghermirla.

    «Basta!», le urlò la sua matrigna, Livia Drusilla. «Hai dieci anni e sei la figlia dell’uomo più importante di Roma e del mondo intero. Non puoi sottrarti a certi obblighi. Piantala di fare storie!».

    «Ma ci sono già stata ieri e l’altroieri. Mi fanno ancora male i piedi», continuò a lamentarsi la bambina, nascondendosi dietro una colonna della casa di Ottaviano sul Palatino.

    «Tuo padre ci tiene molto, dobbiamo far vedere che la gens Giulia e la gens Claudia sono una sola stirpe, unita e solidale. Insieme, siamo il fulcro di Roma, attorno a cui tutto ruota. E non dirmi che ti faccio discorsi da grande, perché ormai sei grande». Mentre parlava, Livia si stava avvicinando alla bambina e tentava di afferrarla prima a destra, poi a sinistra della colonna.

    Per tutta risposta, Giulia le sferrò un calcio. Ma la matrigna era abituata a quelle manifestazioni della figliastra e si scansò in tempo, così il piedino avvolto in un piccolo sandalo bianco mancò il suo bersaglio. La donna alzò gli occhi al cielo. Avrebbe voluto torcerle il polso e farle del male, per costringerla a ubbidire. Tuttavia, l’ultima volta alla bambina era rimasto un livido, e a Ottaviano non era piaciuto. Non che l’avesse picchiata, ma che le avesse lasciato dei segni.

    Poteva solo sperare che arrivasse la sola persona in grado di farla ragionare.

    «Siete pronte? Non vorrete farmi perdere l’entrata del cocchio! Sarà un trionfo più spettacolare di quelli dei giorni scorsi!». A parlare era stata una voce appena più profonda di quella di Giulia. Livia si voltò e vide il figlio maggiore, il tredicenne Tiberio, seguito da suo fratello Druso, di quattro anni più giovane.

    «Sai quanto me ne importa!», fu la risposta scontata della piccola.

    No, Livia non si aspettava che fossero i suoi figli a farla ragionare. Giulia li detestava entrambi, e in particolare Tiberio, quello che aveva parlato. Alla piccola andavano a genio i ragazzini svegli, brillanti, solari. Tiberio aveva tanti pregi, ma era tetro, serioso, puntiglioso. Sembrava fin troppo maturo, per la sua età. Livia aveva sperato che quella bambina capricciosa imparasse ad apprezzare almeno Druso, che tutti trovavano più simpatico. Ma Giulia lo detestava per principio, probabilmente solo perché era fratello di Tiberio.

    E figlio della sua matrigna, naturalmente. Della donna che aveva sottratto il padre a sua madre Scribonia, la prima moglie di Ottaviano.

    «Finché non arriva Ottavia, è inutile muoversi. Vostro padre vuole che lo raggiungiamo tutti insieme», rispose Livia. In realtà, i due ragazzini erano figli del suo primo marito, Tiberio Claudio Nerone, ma Ottaviano li aveva adottati: sarebbero stati loro a raccogliere l’eredità del patrigno. Su questo, Livia non aveva alcun dubbio.

    Marco Cherea era un uomo felice. Non solo perché era il più giovane centurione dell’esercito romano, con i suoi ventitré anni. Non solo perché si era guadagnato sul campo il grado acquisito grazie all’influenza del padre, decurione a Narni. E non solo perché Ottaviano lo teneva in gran conto, tanto da averlo voluto con sé durante l’incontro con Cesarione e avergli lasciato l’onore di sgozzarlo.

    Marco Cherea era felice perché i suoi uomini, finalmente congedati e arricchiti dalla generosità del console, erano soddisfatti. E soprattutto era felice perché, dopo decenni di tirannia, sarebbe stata restaurata la repubblica.

    Il console aveva promesso che avrebbe posto fine alle guerre civili per ripristinare il mirabile equilibrio di poteri che aveva retto lo Stato romano per secoli, prima che esso precipitasse in una lotta senza quartiere tra aspiranti tiranni. Ottaviano era il difensore della libertà, e Cherea era stato ben contento di servirlo e di aver contribuito a eliminare la sola minaccia che si frapponeva al ritorno della pace: il figlio di Cleopatra e del tiranno Giulio Cesare.

    C’era bisogno di un uomo che si assumesse il gravoso compito di restaurare la repubblica. Ottaviano si era fatto carico di consolidarne e migliorarne la struttura costituzionale, negli anni in cui aveva avuto mano libera, quelli di guerra dichiarata ma non combattuta con Marco Antonio. E non aveva ancora finito. Un po’ di tempo ancora, quello necessario per eliminare i difetti residui, gli elementi di debolezza del sistema, e poi quell’uomo straordinario avrebbe lasciato che la repubblica riprendesse il suo corso, che il senato e il popolo di Roma si riappropriassero della cosa pubblica, come era sempre stato quando tutto funzionava a dovere.

    Cherea guardò verso l’ingresso alla città, cercando con gli occhi il suo comandante Ottaviano, che riuscì a scorgere in piedi sulla sua quadriga, oltre una selva di teste: aveva il viso dipinto di rosso minio per incarnare il divino Giove. Uno schiavo, accanto a lui sul carro, gli stava tenendo sulla testa una corona d’alloro. Le sue vesti trionfali, intarsiate d’oro, brillavano alla luce del sole. Il suo carro disponeva di un piano rialzato all’interno perché il trionfatore spiccasse su tutti gli altri partecipanti al corteo; interamente rivestito di materiali preziosi e con ornamenti a rilievo, luccicava anch’esso, e vari amuleti pendevano dall’assale contro la sfortuna. I quattro cavalli bianchi erano di un’eleganza e di una regalità senza eguali.

    Poi Marco Cherea guardò Agrippa, che seguiva il trionfatore, davanti a tutti i più alti magistrati della repubblica e ai senatori. Ed era giusto che fosse così: aveva contribuito più di ogni altro alle vittorie di Ottaviano e al ripristino della legalità; aveva rappresentato il braccio fedele di quella mente eccelsa, vincendo le battaglie navali contro Sesto Pompeo a Nauloco e Marco Antonio e Cleopatra ad Azio. Era lui il più importante generale vivente, quasi al pari di Scipione, Pompeo Magno e – gli seccava ammetterlo – Giulio Cesare.

    Agrippa era un’altra garanzia di stabilità e di buona fede, come Ottaviano. Erano quelli i due uomini su cui bisognava puntare, per restaurare gli antichi valori. E Marco era felice di aver fatto la scelta giusta. Sentì la necessità di inneggiare a quei due comandanti straordinari.

    «Soldati!», gridò agli uomini della sua centuria. «Salutate il nostro imperator Cesare Ottaviano! Salutate il suo braccio destro Agrippa! Ave, Cesare, Ave Agrippa! Gli dèi vi siano sempre propizi!».

    Il coro ripeté immediatamente: «Ave, Cesare, Ave Agrippa! Gli dèi vi siano sempre propizi!», attirando l’attenzione dei civili, sia di quelli che facevano parte del corteo, sia dei semplici curiosi che si erano radunati ai lati della porta. E spinse al tributo anche le altre unità che, una dopo l’altra, levarono il loro grido. Ottaviano e Agrippa alzarono il braccio destro, in segno di saluto e di ringraziamento.

    , pensò Marco Cherea, è l’inizio di una nuova età d’oro, di libertà e di conquiste. Al pari di Furio Camillo, Ottaviano sarebbe stato ricordato come il nuovo fondatore di Roma. E lui sarebbe stato al suo fianco.

    Marcello e Antonia scesero dalla lettiga davanti alla madre Ottavia. Prima ancora che gli schiavi avessero il tempo di poggiare a terra il palanchino, i due bambini avevano già raggiunto i figli di Livia. La sorella di Ottaviano, invece, si incamminava verso il portico, con il suo incedere lento e cadenzato, che rifletteva in pieno la sua natura schiva.

    «Forza, che fino alla Porta Trionfale è lunga!», disse Marcello, con una voce decisamente più autorevole di quanto avrebbero lasciato supporre i suoi tredici anni.

    «Meno male che sei arrivato! Forse potrai convincere la piccola Giulia a venire. Non ne vuole sapere…», disse Livia, allargando le braccia, con un sorriso forzato.

    Si fece avanti Antonia, che di anni ne aveva solo sette. In realtà, era la sorellastra di Marcello: i due erano figli di padri diversi. Ottavia aveva avuto il maschio dal suo primo marito Claudio Marcello, la femmina da Marco Antonio, cui era stata legata prima che lui la ripudiasse per Cleopatra.

    «Giulia! Non vuoi vedere Marcello che monta uno dei cavalli della quadriga di tuo padre? Io non voglio perdermelo!», disse Ottavia.

    Livia rimase di sasso. «Come? Cos’è questa novità?». Ogni traccia di cordialità scomparve dal suo viso. Se non altro, aveva finalmente l’espressione che le riusciva più naturale.

    «Ma certo, Giulia! Non vuoi venirmi a vedere mentre sfilo accanto a tuo padre?», Marcello fece eco alla madre.

    «Troppo forte!», esclamarono pressoché all’unisono Druso e Tiberio, mentre Giulia faceva capolino da dietro la colonna, con l’elaborata pettinatura in parte scomposta e la veste stropicciata.

    «Ti guarderanno tutti, perché tutti guarderanno Ottaviano! Sei proprio fortunato!», aggiunse Tiberio, senza invidia e sinceramente contento per il cugino.

    «Qualcuno mi vuole spiegare cosa significa questa storia?». Livia era rigida come una statua.

    «Non lo so esattamente», intervenne Ottavia. A differenza del fratello, la donna non aveva nulla che attirasse l’attenzione. Nella migliore delle ipotesi, la si sarebbe considerata graziosa. Aveva la stessa pettinatura di Livia: capelli raccolti sulla nuca, il ciuffo sulla fronte in una spirale. Ma il viso delle due donne differiva di molto: i tratti della moglie di Ottaviano erano duri ma regolari, quelli di sua sorella più delicati, eppure ricordavano troppo il console.

    «Ieri sera ci ha detto di preparare Marcello perché avrebbe sfilato con lui, su uno dei cavalli della quadriga».

    Livia tacque, corrucciata. In compenso, finalmente parlò Giulia. «Allora vengo!», disse la piccola con un ampio sorriso. «Non voglio proprio perdermi la scena di te che cadi di sella e vieni calpestato dai cavalli!», aggiunse rivolgendosi a Marcello.

    Il suo improvviso cambio di umore suscitò l’ilarità generale: erano tutti consapevoli del fascino che il ragazzo esercitava su quella bambina bizzosa. Intanto una schiava, su cenno della matrigna, si mise a riassettarle l’acconciatura e le vesti. E lei, stavolta, si lasciò docilmente risistemare. In parte anche perché si sentiva in imbarazzo per essersi fatta trovare in disordine da Marcello.

    Livia fu la sola a non unirsi al loro divertimento. Pensierosa, senza curarsi di celare il proprio fastidio, disse a Ottavia: «È il caso di andare. Non voglia Giove che Ottaviano sia costretto a partire senza il suo cavaliere…».

    Ma la cognata non badava alle sfumature. Aveva troppo sofferto a causa dell’umiliazione subita da Marco Antonio, che aveva sinceramente amato nel breve periodo in cui erano stati insieme, per curarsi delle minuzie. Da allora aveva accentuato la sua naturale riservatezza, centellinando i rapporti con gli adulti, da cui temeva di patire nuove delusioni, e dedicandosi quasi esclusivamente ai bambini. Quando, dopo l’uccisione di Cesarione, il fratello aveva riportato dall’Oriente gli altri figli che Antonio aveva avuto da Cleopatra, Ottavia non aveva esitato a prenderli con sé come fossero suoi.

    Strinse dunque con dolcezza la mano di Antonia e la ricondusse sulla sua lettiga. Poi si rivolse a Giulia: «Vuoi venire con noi, così giocate insieme durante il tragitto?».

    La bambina annuì e, istintivamente, scattò in avanti, ma la schiava la tenne ferma per completare il lavoro con il calamistrum, il pettine riscaldato con il quale le stava per l’ennesima volta arricciando i capelli. Giulia sapeva di averne bisogno, ma poi, non appena ritenne di essere a posto, spinse via la schiava con astio, come a volerla punire per essersi permessa di trattenerla a forza.

    Livia avrebbe voluto riprendere la cognata perché non le aveva chiesto di portare con sé la bambina. Ma poi lasciò stare: aveva altro per la testa, ora. Doveva prepararsi il discorso per Ottaviano.

    La città era deserta. Tutti erano confluiti nelle vie da cui sarebbe passata la sfilata. A quanto pareva, i cittadini non ne avevano ancora abbastanza, di trionfi. Bene, pensò Marcello, nessuno a Roma si perderà la mia cavalcata insieme all’uomo più potente della repubblica. Anzi, davanti a lui.

    Il ragazzo era felice. Quale onore gli stava tributando lo zio! Ottaviano lo aveva sempre gratificato con attenzioni speciali, ma Marcello non si sarebbe mai aspettato di poter già cavalcare al suo fianco, per giunta nel giorno del suo trionfo personale. Tutti sapevano che, in realtà, le vittorie celebrate nel primo giorno di festa erano di Gaio Carrina, che aveva sconfitto i Morini, i ribelli della Gallia Belgica; e nonostante la ormai proverbiale modestia di Agrippa, nessuno ignorava che il successo nella battaglia navale di Azio era opera di quel plebeo.

    Ma quello sull’Egitto era il trionfo personale di Ottaviano, e la vittoria che aveva procurato a Roma le maggiori ricchezze e una provincia prestigiosa, ambita da secoli. Sarebbero sfilate dozzine di carri ricolmi di beni preziosi: oro, argento e gemme, da cui il popolo era ansioso di farsi abbagliare, consapevole che avrebbero rappresentato più benessere per tutti.

    E in quella speciale occasione, Ottaviano aveva voluto Marcello accanto a sé.

    Il palanchino uscì dalle mura attraverso la Porta Flaminia e costeggiò il breve tratto che la separava da quella Trionfale. Il ragazzo si sporse ben presto dalla lettiga, ansioso di vedere. Giulia, che si sentiva trascurata, mise il broncio, e Ottavia si premurò di distrarla, tenendo allo stesso tempo d’occhio il figlio, la mano pronta ad afferrarlo, nel caso minacciasse di cadere.

    «Eccoli! Eccoli! Guarda quanti soldati!», gridò il ragazzo, agitandosi tanto da far sobbalzare la lettiga. Il suo entusiasmo, adesso, lo faceva sembrare più piccolo della sua età.

    Marcello cercò con lo sguardo i cugini, li chiamò, e i due sbucarono entrambi dai tendaggi del loro palanchino, che procedeva accanto al suo. Le manifestazioni di gioia di Druso, come sempre, furono più evidenti di quelle del fratello, e non solo perché era il minore: Tiberio conteneva sempre le sue emozioni, o meglio, non esplicitava mai quelle positive. Ma anche lui era chiaramente affascinato da ciò che vedeva.

    Poi Marcello notò lo zio. Saltò giù e corse verso il cocchio trionfale, senza badare ai deboli richiami della madre, che peraltro si spensero quasi immediatamente. Antonia, di solito, andava dove andava il fratello, e saltò giù anche lei, mentre Giulia, sentendosi sempre più ignorata, continuava a tenere il broncio. A quel punto, Ottavia non poté fare a meno di scendere a sua volta per inseguire la figlia. Fece qualche passo, rischiando di inciampare nella lunga stola che indossava sopra la tunica, poi si fermò: stava lasciando sola la nipotina.

    «Mettete giù la lettiga e vedete di non farla uscire», disse agli schiavi portatori, vestiti con una sorta di livrea multicolore. Poi riprese a inseguire Antonia, che però aveva già un buon vantaggio. La intravedeva, piccola e minuta, tra la selva di gambe che si agitavano avanti e indietro: gli inservienti impegnati negli ultimi preparativi, la gente comune venuta a curiosare, i soldati allontanatisi dalla colonna per svuotare la vescica.

    Erano davanti al settore dei legionari, le cui unità non avevano ancora assunto la formazione di marcia. Man mano che si avvicinava ai soldati, la folla andò diradandosi, e Ottavia riuscì finalmente a distinguere meglio la figlia. Antonia aveva perso di vista il fratello, diretto verso la porta dove si trovava il trionfatore con tutti i magistrati. In quello spazio, la donna non avrebbe avuto difficoltà a raggiungere la figlia, che si era quasi fermata e si stava guardando intorno alla ricerca di Marcello.

    Era sul punto di afferrarle la mano, quando si sentì tirare per la stola.

    «Cosa ti è saltato in mente? Hai lasciato Giulia sola in questo caos? Ottaviano se la prenderà con me!». Livia la guardava con occhi di ghiaccio.

    «Ma… ho detto agli schiavi di badare a lei. Dovevo seguire mia figlia, in questa calca…».

    «Niente affatto. La figlia del console è la priorità e te ne sei assunta la responsabilità. Non sono domestici, quelli, e non sanno badare ai bambini. E poi Giulia fa sempre di testa sua».

    Ottavia ebbe un moto di ribellione: «E allora perché non sei rimasta da lei, invece di inseguire me nella folla?».

    Livia non era abituata a quel genere di reazioni da parte della cognata. Ma stavolta aveva a che fare con una madre spaventata. E una madre spaventata trova dentro di sé delle risorse inaspettate. Ottavia le afferrò il polso e cercò di staccarle la mano dalla propria veste, ma Livia serrò la stretta.

    La donna si voltò e vide che Antonia si era allontanata. Era a pochi passi dai soldati e continuava a guardarsi intorno, spaesata. Stava piagnucolando. Ma un carro enorme, con un gigantesco cartellone raffigurante Cleopatra che si dava la morte con i serpenti, era a pochi passi da lei.

    E procedeva nella sua direzione.

    «Lasciami andare! Non vedi che la bambina sta piangendo?», disse, tentando di divincolarsi dalla stretta della cognata.

    «Tu hai lasciato sola Giulia. Puoi fare lo stesso anche con tua figlia».

    Ottavia fremette. Avrebbe voluto schiaffeggiarla, ma si rendeva conto che avrebbero dato spettacolo. Niente sarebbe stato più intollerabile, per il trionfatore, di sentir dire che sua moglie e sua sorella si erano accapigliate a pochi passi da lui durante la cerimonia. E sarebbe stato un danno enorme anche per il buon nome della famiglia.

    Vide che il carro non rallentava. E Antonia, guardando in direzione opposta, non si era accorta del suo arrivo.

    «È in pericolo», sussurrò.

    «Ci penseranno gli dèi a proteggerla».

    Ottavia le strinse ancor più forte il polso, ma l’altra non mollò la presa, guardando altrove. Gli occhi di Ottavia, invece, erano fissi sulla figlia. Antonia piangeva forte, adesso. Si sentiva abbandonata, frastornata dai rumori, oppressa dalla soldataglia che stazionava accanto a lei. D’improvviso, si sentì sollevare di peso, ebbe l’impressione di volare, sentì un vuoto allo stomaco e si ritrovò a un’altezza incredibile dal suolo. Ci mise un po’ per rendersi conto che un uomo grande e grosso la stava tenendo in braccio. Si strofinò gli occhi per asciugarsi le lacrime, tirò su con il naso e lo osservò. Aveva l’elmo e una poderosa armatura, e due occhi intensi che la guardavano con dolcezza.

    Era l’uomo più bello che avesse mai visto.

    «Antonia!», gridò Ottavia, e solo allora Livia la lasciò andare.

    «Visto?», fece la cognata con tono freddo. «Te l’avevo detto che ci avrebbero pensato gli dèi».

    Ottavia non le badò e raggiunse la piccola, che l’uomo cullava tra le braccia, accarezzandole il viso, senza osare toccarne l’elaborata acconciatura.

    «Grazie, centurione. Se non era per te, mia figlia sarebbe finita sotto quel carro», gli fece, indicando il mezzo che procedeva verso la testa della colonna, senza che il conducente si fosse accorto di nulla.

    «Signora, noi soldati non siamo così rudi come ci dipingono. E una bambina del genere farebbe tenerezza anche al più rozzo dei commilitoni», disse l’ufficiale in tono rispettoso.

    Ottavia avanzò ancora e tese le braccia. Il soldato le passò la piccola, che continuava a guardarlo incantata.

    «Mi assicurerò che il console sappia che hai salvato sua nipote. Qual è il tuo nome, centurione?», gli chiese sorridendo. Quando sorrideva appariva perfino bella, nonostante il trucco non riuscisse a cancellare gli anni in più che il suo viso sfiorito dimostrava.

    «Il console? La nipote?». L’uomo sembrava impressionato, e si dimenticò di rivelarle il proprio nome.

    Ottavia poggiò delicatamente a terra la bambina. «Digli chi sei, piccola», le suggerì.

    Antonia dimostrò tutta la fierezza che i suoi sette anni le consentivano. Si mise a elencare i suoi antenati, perché le avevano insegnato che doveva andarne orgogliosa: «Io sono Antonia, figlia del triumviro Marco Antonio e di Ottavia, sorella del console Cesare Ottaviano, conquistatore dell’Egitto. E tu come ti chiami?».

    «Tu… sei Ottavia?». Il soldato era stupefatto ed emozionato.

    La donna annuì.

    L’uomo chinò il capo in segno di rispetto. «Io… mi chiamo Marco Cherea. Sono centurione posterior dell’VIII centuria della II coorte della V legio macedonica. E sono orgoglioso di essere uno dei più fedeli subalterni di tuo fratello, che mi ha onorato più volte della propria attenzione. Aver fatto qualcosa per la sua famiglia, seppur inconsapevolmente, mi riempie di gioia».

    «Puoi star certo che ti onorerà ancora della sua attenzione, centurione», disse Ottavia, prendendo la mano della figlia e tirandola via.

    «Un momento», fece Antonia, piantandosi dov’era. «Marco Cherea. Hai detto che sei fedele a mio zio. Quindi adesso lo sei anche a me. Vuoi essere mio servitore per sempre?». Gli occhi le scintillavano.

    Il centurione guardò la madre, sorridendo. Ottavia fece un cenno del capo. Cherea si accucciò, il viso all’altezza di quello della bambina. «Ma certo, mia signora. Sarò il tuo fedele servitore finché avrò vita, e veglierò su di te ogni volta che ne avrai bisogno».

    «Giuralo sui tuoi Lari».

    Il giovane ufficiale fissò di nuovo la madre, che annuì ancora. La sua aria di sufficienza lo dispensò dal dover prendere sul serio quella promessa estorta da una bambina.

    «Lo giuro. Lo giuro sui miei Lari. Che io possa raggiungerli presto, se non terrò fede a quanto ho detto».

    Antonia si ritenne soddisfatta. Aveva fatto la sua prima conquista. Solo allora si lasciò portare via dalla madre.

    E Marco Cherea fu felice come non lo era mai stato prima di allora.

    Marcello si sentiva in cima al mondo. E lo era, in effetti. Stava sul dorso di uno dei cavalli bianchi della quadriga di Ottaviano nel giorno della celebrazione della sua principale vittoria, e quindi al centro dell’attenzione di tutta Roma. Si trovava nel mezzo dell’evento più importante dell’anno, forse dell’intera epoca che si era inaugurata con la morte di Giulio Cesare. Anzi, ancor prima, con le lotte tra Mario e Silla. L’epoca che avrebbe deciso se Roma sarebbe diventata una grande potenza, la più grande che fosse mai stata ricordata sulla Terra, o uno dei tanti regni caduti in rovina per conflitti interni.

    Anche Marcello avrebbe fatto parte di questa nuova era. Il ragazzo si voltò, lanciando uno sguardo di gratitudine e di affetto nei confronti dello zio, la cui espressione era impenetrabile dietro il rosso intenso con cui si era dipinto il volto. Era chiaro che Cesare Ottaviano aveva una speciale predilezione nei suoi confronti, e questo gli avrebbe permesso di entrare a far parte del vertice dello Stato molto, molto presto. Sarebbe stato tra i pochi cui sarebbe spettato decidere il destino di Roma, le sue direttrici di espansione, le sue forme di governo. Tribuno della plebe? Tribuno militare? Questore? Pretore? Console? Senatore? Legato e comandante di legione? Governatore provinciale? Era destinato a rivestire tutte le cariche del cursus honorum, forse iniziando prima ancora di svestire la toga pretesta e di togliersi la bulla da ragazzo; e il suo nome sarebbe stato legato a qualche legge o conquista importante, ricordato dalle generazioni successive al pari di Scipione l’Africano, Tiberio Claudio Nerone, Manio Curio Dentato, o il suo stesso avo Claudio Marcello, il solo che fosse riuscito a infliggere qualche sconfitta ad Annibale prima di Scipione.

    Il ragazzo si sentì sfiorare la gamba. Guardò in basso, e vide Giulia che gli sorrideva maliziosa. Accanto a lei, i cugini Druso e Tiberio.

    «Voglio salire anche io», disse la bambina.

    «Ti prometto che domani ti porterò a cavallo con me», le rispose.

    «Non è la stessa cosa! Io voglio venirci adesso, durante il trionfo!».

    Marcello sorrise. Sua cugina era una bella bambina. Se non fosse stata sua stretta parente, non gli sarebbe spiaciuto sposarla, da grande.

    «E cosa avresti fatto tu per meritarti di sfilare in trionfo?», le disse Druso, ridacchiando e facendole il solletico sotto le ascelle.

    «Perché, lui cosa ha fatto?», rispose prontamente Giulia, indicando Marcello.

    Druso fece un sorriso forzato, ma non rispose. Guardò Tiberio, che voltò la testa dall’altra parte. Toccò al cugino dire qualcosa per trarli d’impaccio: «Tuo padre mi ha concesso un grande onore, che spero di potermi meritare in futuro. Ha fiducia in me, ma sono sicuro che ci saranno molte altre occasioni, e allora verrà il vostro turno, ragazzi. Io sono il primo in linea di sangue».

    Tiberio si riscosse dalla sua apparente abulia: «È così, infatti. È proprio un paradosso: io sono suo figlio, ma tu sei il suo parente più stretto. Ed è giusto che su quel cavallo ci stia tu». Fece un sorriso amaro. Ma i sorrisi di Tiberio erano sempre amari: erano proprio i suoi lineamenti scavati e il naso aquilino a impedirgli di esprimersi in franchi e aperti sorrisi, qualunque fosse il suo stato d’animo.

    «No, non è giusto per niente, invece!». La voce di Livia, dovunque e comunque arrivasse, dava sempre nuovo impulso alla conversazione, e in genere ne alzava i toni. Marcello aprì la bocca ma non ne uscì nulla; Tiberio, dal canto suo, avrebbe voluto minimizzare, ma vide che la madre andava dritta verso il marito, e preferì tacere.

    La donna parlò ad alta voce, in modo che potessero sentire anche i ragazzi: «Ottaviano, hai quattro cavalli. Perché utilizzarne uno solo? Hai tre figli, oltre a tuo nipote, no?».

    Tutti cercarono di decifrare l’espressione del trionfatore. Ma lui non si lasciava interpretare facilmente, e stavolta era perfino avvantaggiato dalla maschera di minio.

    La corona di alloro sulla sua testa iniziò a tremare. Lo schiavo avrebbe voluto essere altrove, in quel momento. Ottaviano gli fece cenno con la mano di scendere dal carro, e invitò la moglie a salirvi.

    «Vuoi mettermi in imbarazzo?», le sussurrò.

    «Niente affatto. Difendo i diritti dei miei figli, come ogni madre che si rispetti. Dei ragazzi che, ora, sono anche i tuoi figli». E non si preoccupò di abbassare il tono della voce.

    Ottaviano, invece, continuò a sussurrare: «Se facessi salire Druso su quei cavalli, confermerei la diceria secondo cui è il mio figlio naturale…».

    Livia rifletté per un istante. «E allora lascia montare a cavallo Tiberio. Ha la stessa età di Marcello. Nessuno troverebbe strano che tu faccia sfilare con te il tuo primogenito e tuo nipote…». Stavolta lo disse a bassa voce.

    Ottaviano rimase in silenzio. Livia scese dal carro e si andò a mettere tra i due figli, abbracciandoli e fissando il marito.

    «E sia», fece infine il trionfatore. «Marcello, spostati sul cavallo di destra. Tiberio, sali su quello di sinistra».

    I ragazzi apparivano disorientati. Soprattutto Tiberio, che guardava la madre con aria interrogativa. Livia gli fece cenno di attendere e si girò di nuovo verso il marito.

    «Tiberio è tuo figlio. Deve stare lui a destra, no?», gli sussurrò.

    Ottaviano, stavolta, lasciò trasparire i propri pensieri, nonostante la maschera rossa. E non erano positivi: «Adesso basta. A destra starà chi è del mio stesso sangue. Figlio o non figlio. Sia fatto come dico».

    Livia desistette. Sapeva bene che il marito le concedeva solo ciò che non considerava importante. Per il resto, neanche lei poteva smuoverlo dalle sue convinzioni. Era già tanto che le chiedesse consiglio e ascoltasse i suoi suggerimenti. E la donna non intendeva perdere un simile privilegio, superando i limiti. Tornò dai figli.

    «Tiberio, fai come ha detto tuo padre», disse al maggiore, sospingendolo verso il cavallo di sinistra.

    Il ragazzo, ancora frastornato, esitò, guardò Ottaviano, che annuì con decisione, infine il suo volto si aprì in un parco sorriso. Si diresse al cavallo e vi montò.

    Marcello allungò la mano per stringergliela. Ma c’erano due cavalli in mezzo ai ragazzi, e il loro sforzo di toccarsi risultò vano. Solo allora ciascuno di essi si compenetrò nel proprio ruolo, assunse una posizione perfettamente eretta sulla sella e si sforzò di mantenere un atteggiamento distaccato, imitando il trionfatore, che nel frattempo aveva richiamato lo schiavo sul carro. Tiberio, tuttavia, ebbe bisogno di qualche istante in più, rispetto al cugino, per abituarsi all’idea di essere al centro dell’attenzione. Schivo com’era, non si trovava affatto a suo agio in quel ruolo. Ma si sentì pervadere da un’ebbrezza che non aveva mai provato prima. E non gli dispiacque affatto.

    Marcello, dal canto suo, era troppo felice per concentrarsi sulla presenza del cugino al proprio fianco. Aveva visto che la zia aveva dovuto insistere per farlo stare lì, e tanto gli bastava. Il preferito era lui e il tempo lo avrebbe provato. Livia non sarebbe potuta intervenire sempre in favore del figlio. E comunque, Tiberio non sembrava interessato a mettersi in competizione con lui, né a rivestire incarichi di prestigio. Ecco perché potevano essere amici e rimanerlo ancora a lungo.

    Il nipote del trionfatore sentì un brivido di eccitazione corrergli lungo la schiena quando vide che toccava a Cesare Ottaviano fare il suo ingresso in città. Ormai da tempo erano entrati i trombettieri ad annunciare il corteo, poi era stata la volta dei carri con il bottino – una fila interminabile e accolta da clamori e boati – e infine dei mezzi con i cartelloni su cui erano raffigurate le imprese della campagna sul Nilo. Ottaviano si era ben guardato dal mettere in rilievo il suicidio di Marco Antonio, suo ex cognato e collega nel triumvirato, nonché cugino e comandante insieme a lui nella campagna di Filippi e nella spartizione dell’impero in epoca più recente; in compenso, aveva dato ampio risalto alle immagini di Cleopatra e al suo regno, mostrando non solo la morte della regina – sdraiata sul divano con i serpenti in mano – ma anche le Piramidi, il Nilo e i suoi soldati. Pur non essendo considerati in senso stretto delle prede di guerra, nel corteo c’erano anche gli ultimi due figli della sovrana egiziana, ormai affidati alle cure di Ottavia.

    Molti ricordavano ancora Cleopatra dal suo oltraggioso soggiorno a Roma al fianco di Giulio Cesare. Anche allora aveva sfilato in trionfo, ma da regina, come se fosse stata vincitrice al pari del generale; se non avesse posto fine alla sua vita, a quindici anni di distanza, i Romani l’avrebbero vista passare su quella via da prigioniera. Invece dovevano accontentarsi della sua gigantografia, che svettava su tutte le altre nel corteo trionfale. Marcello scosse il capo: per quanto venerasse la memoria del suo illustre avo, non riusciva a capacitarsi del disprezzo cui il dittatore aveva sottoposto le istituzioni e le tradizioni romane esibendo al proprio fianco una sovrana straniera, pur avendo una moglie vivente e fedele, per giunta. D’altronde, quella donna aveva fatto perdere il senno anche a Marco Antonio, un tempo un bravo romano, a quanto gli raccontava la madre. Ma Ottaviano aveva dimostrato di essere immune ai malefici di Cleopatra, e non sarebbe mai caduto vittima di ammaliatrici orientali o straniere. Era un uomo di sani princìpi morali, il cui obiettivo primario era di restaurare gli antichi mores. E Marcello l’avrebbe aiutato: sapeva di essere stato prescelto proprio per restaurare i costumi dei padri e scongiurare nuove derive.

    Osservò le espressioni delle persone in mezzo alle quali passava, compiacendosi della loro attenzione. Un’attenzione che, se ne rendeva conto, in parte stava sottraendo al protagonista di quella cerimonia. Grazie alla sua presenza, e forse anche a quella di Tiberio, Ottaviano non era oggetto di interesse assoluto ed esclusivo. I due ragazzi – fu questo che più colpì Marcello – attestavano alla plebe che non un solo uomo ma un’intera famiglia avrebbe vegliato su Roma: i Giulio-Claudi.

    Ottaviano non l’aveva voluto con sé solo per affetto. Stava preparando il terreno per fare dei membri della sua stirpe il fulcro politico di Roma. E dell’impero, forse.

    Lo zio era ancor più abile di quanto avesse immaginato…

    2

    Tiberio diede inizio all’agone. Lo schiavo nomenclatore continuava a sussurrargli all’orecchio i nomi dei componenti delle squadre, e a descrivergli il loro abbigliamento per permettergli di riconoscerli. Il ragazzo non li ricordava tutti e non intendeva fare brutte figure al momento della premiazione, dando così al padre adottivo un nuovo pretesto per disprezzarlo. Sua madre, il giorno prima, aveva praticamente estorto al console la sua presenza accanto al carro trionfale su uno dei quattro cavalli bianchi. E probabilmente c’era sempre lo zampino di Livia nella decisione di fargli presiedere, pur così giovane, i ludi troiani, i giochi per i ragazzi aristocratici che si tenevano a margine delle festività del trionfo.

    Un grande onore, senza dubbio. Nell’arco di due giorni il ragazzo, schivo e timido, era stato catapultato all’attenzione generale, quasi rubando la scena all’uomo più importante di Roma. Avrebbe dovuto esserne contento: Ottaviano lo prendeva finalmente in considerazione, e poco importava se vi era stato indotto. Tiberio aveva sempre percepito l’istintiva diffidenza che il patrigno provava nei suoi confronti e la sua predilezione per Druso. D’altronde, suo fratello era sempre vissuto nella casa sul Palatino del console, fin dalla nascita. Lui, invece, vi si era trasferito da quando era morto il suo vero padre, quattro anni prima, e tuttora vi si sentiva un estraneo.

    E Ottaviano non aveva fatto molto per farlo sentire a suo agio. Non amava il figliastro, ma questi non si sarebbe mai aspettato il contrario: lui non piaceva a nessuno. Di rado i ragazzi lo invitavano a giocare con loro, e la situazione era appena migliorata da quando era diventato il figlio dell’uomo più importante di Roma. Le ragazze, poi, non amavano parlare con lui, né Tiberio sapeva divertirle come erano capaci di fare molti dei suoi coetanei. Non avrebbe saputo dire a cosa fosse dovuto lo scarso riscontro di cui godeva presso gli altri. Si riteneva educato, rispettoso delle regole e delle esigenze altrui, sempre pronto a soddisfare i desideri delle persone e a non prevaricarle. Ma non poteva dire che gli altri si comportassero nello stesso modo nei suoi confronti. Gli mancavano di rispetto con una facilità che lo lasciava sconcertato, noncuranti di dettagli che avrebbero potuto ferirlo. Fondamentalmente, lo ignoravano. Nessuno gli mostrava lo stesso affetto di cui erano oggetto suo fratello Druso o, ancor più, Marcello. Eppure loro due violavano spesso le regole e facevano molte più bizze di lui.

    Si chiedeva cosa gli mancasse per suscitare lo stesso interesse nella gente. Non si considerava brutto, né stupido, ed era un personaggio importante, ora. Eppure, gli altri non lo trovavano simpatico, e se voleva compagnia doveva essere lui a prendere l’iniziativa; ma poiché era timido e orgoglioso, si ritrovava molto spesso da solo. Anche adesso, sul palco del piccolo stadio nel Campo Marzio, era circondato esclusivamente dagli schiavi; non aveva chiesto a nessuno di accompagnarlo, ben sapendo che avrebbero trovato qualche scusa per non andare o che lo avrebbero fatto perché era il figliastro del console. E a queste condizioni, preferiva star solo.

    Lo schiavo nomenclatore gli ricordò che i concorrenti attendevano il suo segnale di inizio. Tiberio si chiese se i ragazzi che partecipavano alla competizione lo avrebbero voluto in squadra, qualora non avesse dovuto presiedere le gare. Forse sì, ma solo perché era il figliastro di Cesare Ottaviano. Poi levò il braccio e lo abbassò. Era il segnale. Le due squadre, di dieci cavalieri ciascuna, partirono all’attacco, mentre la terza rimaneva in attesa del proprio turno. Le spade di legno fendettero l’aria, i giovani lanciarono urla di guerra troppo acute per essere credibili. I concorrenti si gettarono in una serie di evoluzioni equestri, che servivano a dimostrare la propria destrezza nel far compiere dei movimenti al cavallo, non per combattere davvero. Tutti badavano alla compostezza e all’eleganza, come mai avrebbero fatto in uno scontro reale, e qualcuno riusciva perfino, nonostante la giovane età, a far impennare il proprio animale.

    Tiberio si sentì subito assalire dalla noia. Non era mai stato un fanatico dei ludi circensi, ma almeno quelli cruenti avevano un altro sapore. Il loro realismo li accomunava ai combattimenti veri e propri, i cui resoconti avevano costituito una parte massiccia delle sue variegate letture. Talvolta gli veniva in mente che si sarebbe trovato bene tra i soldati, in una campagna militare, e non vedeva l’ora di avere l’età per divenire tribuno. Lì le amicizie sarebbero nate sul campo, grazie alle azioni concrete e a valori come coraggio, competenza e determinazione, a prescindere dalle simpatie o antipatie che era in grado di suscitare. Non sognava, come Marcello e Druso, di diventare un grande conquistatore, ma anelava la vita da soldato come rifugio da quella civile, che gli si prospettava avara di soddisfazioni sotto l’aspetto umano.

    Eppure gli venne il timore che non avrebbe avuto molte possibilità per comandare le truppe in una campagna bellica, né di parteciparvi come ufficiale subalterno. Il suo padre adottivo, proprio in quel momento, stava celebrando la pace con un cerimoniale solenne, tenutosi solo altre due volte nel lungo corso della storia di Roma. Ottaviano, infatti, si apprestava a proclamare la fine di ogni guerra, e chissà quanto tempo sarebbe passato prima che se ne verificasse un’altra. Il console teneva a quella manifestazione pubblica forse ancor più che al trionfo, e aveva intenzione di darle la massima visibilità possibile: sapeva bene che il suo ruolo di pacificatore gli conferiva un’auctoritas superiore a ciascun generale, console o proconsole prima di allora. Ogni guerra non aveva fatto altro che portare a un’altra, e il popolo ne aveva abbastanza. La guerra che aveva vinto lui, invece, era quella che aveva posto fine a tutti i conflitti. Ecco perché aveva voluto accanto a sé, in quel solenne momento, l’intera famiglia: tutti i parenti, perfino quelli meno prossimi.

    Tutti, tranne lui.

    Marco Vipsanio Agrippa lo sapeva bene: era questo il momento che Ottaviano attendeva più di ogni altro. Non i trionfi dei giorni precedenti, non i riconoscimenti, spontanei o meno, del senato, ma la chiusura del Tempio di Giano Quirino. Era accaduto solo due volte, all’epoca di Numa Pompilio e dopo la prima guerra punica. E ora il suo amico e signore, due secoli dopo l’ultima volta, si accingeva a ripetere il solenne cerimoniale.

    Il console teneva in particolar modo al rituale perché non intendeva essere ricordato solo come un grande conquistatore. Da un conquistatore, i cittadini pretendevano solo soldi e ricchezze, o almeno benessere, ma da un pacificatore come Ottaviano si sarebbero aspettati la felicità, e questo li avrebbe resi più pazienti e fiduciosi. La gente non è disposta ad aspettare per arricchirsi, ma lo è per raggiungere, se non la felicità, almeno la serenità. E acclama volentieri chi la illude.

    E non c’era modo migliore per ricordare la pace perpetua che chiudere le porte del Tempio di Giano. Il rito, deliberato dal senato fin dall’inizio dell’anno, aveva un significato ben preciso. Agrippa, rude guerriero, lo conosceva bene fin da ragazzo: voleva dire che Roma non aveva più bisogno dell’aiuto del dio Giano, intervenuto nei tempi remoti durante la guerra sabina, rovesciando dal suo tempio un torrente di acqua bollente sugli assalitori penetrati in città attraverso la Porta Janualis. Da allora, la cittadinanza aveva ritenuto opportuno lasciare sempre aperti quei due archi che costituivano il sacrario, per favorire l’intervento del dio in caso di necessità.

    Finora, almeno. Forse sarebbe stato riaperto presto, ma intanto il significato simbolico della chiusura era di enorme portata, per il suo amico. E anche per lui. Qualunque cosa fosse importante per Ottaviano, lo diventava anche per Agrippa, che aveva contribuito a farlo arrivare fino a lì. Non era millanteria, la sua. Era lo stesso console a riconoscerlo, e a considerarlo uno dei più grandi condottieri di tutti i tempi. I successi di Nauloco e Milazzo su Sesto Pompeo, quello di Azio su Marco Antonio e Cleopatra, quelli in Illiria e in Dalmazia, erano vittorie sue, e Ottaviano non gliene aveva mai negato il merito.

    A sua volta, Agrippa riconosceva all’amico di aver offerto a lui, individuo di bassa estrazione sociale, la possibilità di distinguersi come generale e di ascendere ai vertici dello Stato. Se c’era un uomo, al mondo, al quale valeva la pena essere leale, era proprio Ottaviano. Era giusto accontentarsi di venire subito dopo di lui. Anche perché ciò significava essere il secondo uomo di Roma. Ovvero, il secondo uomo del mondo.

    Ma la loro non era solo amicizia. Agrippa ne era consapevole. Era anche una società di mutua assistenza: Ottaviano aveva bisogno di lui per guadagnarsi quei riconoscimenti militari che i suoi limiti fisici e la sua scarsa attitudine bellica gli avrebbero altrimenti negato, e Agrippa aveva bisogno del console per ottenere quella considerazione che l’aristocrazia non avrebbe mai dato a un plebeo.

    Erano destinati a dominare l’Urbe, insieme. Ottaviano alla luce del sole, lui più nell’ombra, ma non senza conquistarsi una smisurata popolarità. Ed era proprio ciò che Agrippa aveva intenzione di fare. Il console aveva grandi progetti per Roma e per l’impero. Le prospettive belliche non si erano esaurite con la conquista dell’Egitto, e c’era ancora molta gloria da conquistarsi sui campi di battaglia per consolidare le frontiere. E l’Urbe aveva bisogno di tanti, tantissimi interventi per diventare la capitale del più importante regno conosciuto: acquedotti, stadi e arene, santuari, templi, strade, servizi.

    Avevano appena cominciato, loro due. Finora, si era dovuto fare i conti con sempre nuovi avversari: i Cesaricidi, Marco Antonio, Sesto Pompeo, Cleopatra e ancora Antonio… Ora non c’era più nessuno a contrastarli, e anche i senatori più refrattari al loro predominio – troppo esausti per ribellarsi, troppo pavidi per protestare – avrebbero accettato di buon grado di lasciare nelle loro mani la responsabilità di risollevare Roma dal suo stato di declino e di consolidare un impero cresciuto troppo in fretta e troppo disordinatamente.

    Lui era il braccio, Ottaviano la mente, e insieme costituivano l’uomo perfetto. Mentre osservava il console procedere a grandi passi verso l’arco, gli augurò una lunga vita: il proprio destino, oltre a quello di Roma, era legato alla sua sopravvivenza. Senza di lui, cosa ne sarebbe stato dell’Urbe?

    Agrippa strinse la mano di sua moglie, Claudia Marcella, poi accarezzò la testa di sua figlia Vipsania Agrippina. La bambina, di sette anni, era nata dalle sue prime nozze con Pomponia Cecilia Attica. Ottaviano l’aveva indotto a ripudiare la legittima consorte, per spingerlo a sposare sua nipote, così da legarlo più strettamente alla famiglia. Sulle prime, Agrippa aveva provato vergogna per quel che aveva fatto alla prima moglie, ma l’idea di un matrimonio con un’aristocratica di altissimo lignaggio – una giulia – aveva fugato qualsiasi rimorso. Il carattere amabile della nuova sposa, poi, aveva fatto il resto: Marcella era gentile e affettuosa come la madre Ottavia, ma più bella, e Agrippa aveva imparato ad amarla e a rispettarla. E sebbene Vipsania vivesse prevalentemente con la vera madre, quando era con la matrigna non aveva alcuna ragione di rimpiangere Pomponia.

    Il condottiero si sentiva soddisfatto. Per sé e per la sua famiglia, di cui era fiero, per Ottaviano, per Roma. E per le loro prospettive, molto promettenti. Aveva ottenuto tanto dalla vita: più di quanto le più rosee aspettative di inizio carriera – quando aveva deciso di seguire l’amico d’infanzia nella sua apparentemente folle rivendicazione dell’eredità paterna – lasciassero supporre.

    Agrippa osservò tutti i convenuti all’evento. Una folla sterminata si era assiepata lungo l’Argileto, tra la basilica Emilia e il Comitium con i rostri. Ma lo spazio davanti al Tempio di Giano era riservato alla famiglia. Perché Ottaviano voleva che la gente associasse i Giulio-Claudi alla pace e attribuisse a loro la capacità di mantenerla anche in futuro. Il console era il più vicino agli archi, con il capo ricoperto dal lembo della toga, come si conveniva a un magistrato nell’esercizio delle sue funzioni religiose. Poco distante da lui c’era sua moglie Livia Drusilla, la donna alla quale aveva scelto di legarsi dopo averle parlato una sola volta e averne subito apprezzato il senso pratico e la lucida intelligenza. Forse l’amava, o forse no, ma poco importava: l’essenziale era che avesse visto in lei il naturale complemento della sua azione di governo, la compagna ideale da affiancare a un uomo di Stato. Proprio come aveva visto in lui, Agrippa, il perfetto sodale per le proprie ambizioni. Ottaviano faceva sempre ciò che reputava necessario: così, non aveva pensato due volte a ripudiare Scribonia e a indurre il marito di Livia, Tiberio Claudio Nerone, a fare lo stesso mentre la donna era incinta di Druso. Questi se ne stava impettito vicino alla madre, e sembrava un tipo sveglio. Prometteva bene e aveva voglia di farsi strada nella vita. E ne avrebbe avuto di sicuro la possibilità: Ottaviano e Livia, in nove anni di matrimonio, non erano riusciti a generare figli. D’altra parte, in giro non c’erano membri maschi della famiglia giulia di sangue puro, a parte Marcello, su cui Ottaviano non faceva troppo mistero di voler puntare.

    Se solo Agrippa fosse riuscito ad avere un maschio dalla figlia di Ottavia, avrebbe avuto la strada spianata… In ogni caso, Marcello pareva ben consapevole delle aspettative che lo zio riponeva in lui e, pur essendo appena entrato nell’adolescenza, faceva già progetti in grande, dimostrandosi ambizioso come chiunque altro. Agrippa lo osservò attentamente. Stava accanto alla madre e alla sorellastra Antonia, ma la sua attenzione era tutta rivolta allo zio e al rito che stava introducendo. Nonostante fosse solo un ragazzino, capiva perfettamente che Ottaviano lo stava facendo anche per lui.

    Tutto, nella vita di Marcello, sembrava preordinato dal fato. Ma era il console a determinare i suoi alti destini, al punto che avrebbe chiesto al senato di anticipare di un decennio il suo cursus honorum. Perfino la reciproca simpatia tra il ragazzo e la bizzosa Giulia sembrava frutto di un piano preordinato. Erano i due giuli di ultima generazione, quelli dal sangue più puro, ed erano destinati a unirsi in matrimonio. Non che questo fosse motivo d’invidia: la bambina prometteva di diventare una donna assai poco disposta ad accettare un ruolo subalterno. Un bell’ostacolo per un potente. Magari la piccola si comportava così perché Scribonia l’aveva messa contro il padre e la matrigna. O forse gli dèi avevano voluto che avesse quel carattere detestabile…

    In ogni caso, il suo ruolo era troppo importante perché le fosse lasciata libera scelta: la bambina, volente o nolente, sarebbe stata al centro di strategie politiche alle quali non avrebbe mai potuto sottrarsi. Il suo destino era segnato, in un modo o nell’altro, al pari di quello di Marcello.

    Ma perfino lei, in quel momento, appariva serena. Forse era solo perché si trovava accanto al cugino, per cui nutriva una sorta di venerazione. Marcello era felice, perché consapevole di ciò che lo attendeva. Druso era felice, perché anche per lui si aprivano prospettive che non gli si sarebbero mai presentate, se fosse rimasto con il vero padre. Livia era felice, perché l’ascesa del marito comportava anche la sua. E perfino Ottavia aveva raggiunto una tranquillità che per anni le era stata preclusa dalle umiliazioni subite da Antonio: il fratello l’aveva finalmente vendicata. La piccola Antonia aveva un carattere solare e non si era mai vista triste, a maggior ragione adesso. Claudia Marcella e Vipsania Agrippina non avevano motivo di essere scontente.

    Insomma, la famiglia era felice. E Roma era felice.

    I flauti iniziarono a suonare per intimare il silenzio alla piazza. Dopo qualche istante, Ottaviano levò le mani al cielo e si mise a parlare a voce alta perché almeno quelli nelle prime file udissero distintamente le sue sacre parole:

    Cantatelo, il padre degli dèi,

    supplicate il dio degli dèi.

    Oh, Sole, sorgi al mondo!

    Alla porta del cielo, oh tu che apri!

    Sei il gentile portiere,

    sei il buon Giano,

    sei il benefico generatore.

    Il rito aveva avuto inizio. Agrippa si sentì istintivamente portato a mettersi sull’attenti e a liberare la mente da altri pensieri che non fossero rivolti alla cerimonia. Ottaviano fece cenno a quattro cultrarii, i suoi assistenti, di avvicinarsi alle pesanti e massicce porte in legno rinforzate con borchie di metallo. Erano spalancate, come sempre, e tra gli archi si vedeva distintamente la statua bifronte del dio, rivolta a Oriente e Occidente, all’interno e all’esterno della città. Perché nulla sfuggiva a Giano, il dio che tutto vede e che su tutto veglia. Agli altri quattro assistenti, invece, il console ordinò di portare avanti il toro che, opportunamente drogato, si lasciò trascinare fino agli scalini di legno dell’altare; Ottaviano aveva voluto che il sacrificio fosse pubblico e celebrato nel foro, affinché tutta Roma potesse assistervi, e aveva fatto costruire un palco provvisorio con scalini larghi e bassi per facilitare l’arrivo della bestia sacrificale.

    L’animale, di colore chiaro come si conveniva per le offerte agli dèi superni, aveva le corna rivestite d’oro ed era inghirlandato e adornato con nastri di lana colorata. I cultrarii si divisero: due lo trascinarono su per le scale, altrettanti lo sospinsero da tergo. Giunto alla sommità del palco, il toro fu posto di fianco all’altare, poi gli assistenti presero l’anfora che giaceva a terra, la sollevarono e ne rovesciarono il contenuto sull’animale. Era vino, che per qualche istante rese più scuro il manto lucido della bestia.

    Intanto, gli altri quattro cultrarii avevano iniziato a occuparsi delle porte. Due per battente, sospingevano con tutta la forza di cui disponevano le pesanti ante, tentando di rimuoverle dal solco che secoli di immobilità avevano scavato. O almeno, così credeva la gente. Naturalmente, Ottaviano non intendeva dare ai Romani l’impressione di non godere del favore degli dèi, e la notte precedente aveva mandato una squadra di soldati fidati e ben pagati perché sollevasse le porte, ne oliasse i cardini, riempisse i solchi e spianasse il tratto di strada su cui avrebbero dovuto ruotare per richiudersi.

    Tuttavia, non accadde nulla per un bel po’. Agrippa sapeva che si trattava di una messinscena: nessuno avrebbe creduto che due soli uomini fossero in grado di spostare con facilità quelle porte tanto pesanti.

    Intanto, Ottaviano si concentrava sul cerimoniale. Un assistente vibrò un colpo di martello sul capo del toro, che barcollò ma rimase in piedi: proprio ciò che serviva. Invocando tutti gli dèi, oltre a Giano, l’officiante si lavò le mani nella bacinella che gli veniva offerta, poi prese dalla superficie dell’altare il coltello sacrificale e con la punta percorse il dorso dell’animale, dal collo alla coda, tracciando un segno. Il toro tentò una lieve reazione, ma il cultrarius lo percosse di nuovo sulla testa, e la bestia ritornò a essere docile.

    Intanto, però, il pubblico iniziava a mormorare. Le porte non si muovevano. Agrippa udì qualcuno sussurrare che forse Ottaviano si era dimostrato superbo pretendendo di spostare quegli enormi battenti solo con due uomini. Ma non c’era da preoccuparsi: la tensione montante tra il pubblico era proprio ciò che il console voleva, per procurarsi maggiore credibilità e fiducia quando, finalmente, le porte si sarebbero mosse.

    Nel frattempo, il coltello iniziò a penetrare nella carne della vittima sacrificale. Il toro si agitò, emise un debole muggito, andò a sbattere contro il bordo dell’altare. Gli assistenti gli afferrarono le corna e cercarono di tenerlo fermo, mentre Ottaviano affondava la lama e iniziava a scavare nel corpo della bestia per allargare lo squarcio e proseguire lungo il dorso. Il sangue colò dalle ferite. Colò e basta.

    Non schizzava.

    Brutto segno.

    E gli altri cultrarii spingevano, paonazzi per lo sforzo, con i muscoli tesi allo spasmo, senza che i battenti si muovessero di un palmo.

    Ad Agrippa venne un dubbio: Ottaviano aveva davvero tutto sotto controllo?

    Il pubblico ammutolì. Calò il silenzio, il solo suono erano i sommessi lamenti del toro. Erano tutti impietriti, nel foro e lungo l’Argileto, in attesa di un segno degli dèi. Tutti paralizzati dal terrore che essi non volessero la pace per Roma. Tutti timorosi che Ottaviano non fosse quello giusto.

    Il console sollevò la testa e si guardò intorno. Nei suoi occhi, Agrippa lesse la consapevolezza del momento. Conosceva lo stato d’animo degli astanti. Si chiese fino a che punto ne fosse responsabile Ottaviano, e se lo stava ancora chiedendo quando, nel silenzio totale, udì uno scricchiolio.

    E poi un altro.

    Uno dei battenti si stava muovendo!

    Ottaviano riabbassò il capo, strinse il manico del pugnale, estrasse la lama dal dorso della bestia e la spostò più verso la base del collo. Poi affondò, vibrando un colpo deciso e tirando verso di sé. Il sangue inondò il suo viso, che tornò a essere rosso come il giorno precedente, durante il trionfo. Il liquido caldo invase la sua veste bianca, schizzando ovunque e irrorando il palco, la superficie dell’altare, gli assistenti. E il toro stramazzò a terra.

    Agrippa volse lo sguardo verso il Tempio di Giano. Anche l’altro battente era stato spostato. Una parte della monumentale statua del dio iniziava a essere nascosta dalle porte.

    La gente levò un grido unanime. Gli dèi erano con Roma. Con Ottaviano. Con la sua famiglia. Avrebbero aiutato il console nella sua missione. Lui si inginocchiò e continuò a squarciare quella che ormai era la carcassa della bestia. Poi sparì alla vista del pubblico, ma il sangue seguitava a zampillare a pioggia su di lui e sul palco, stendendo un velo rosso sull’intera scena. Alcuni schizzi arrivarono anche a lambire la prima fila, provocando qualche repentino scatto all’indietro. Marcello, più avanti degli altri, non si scansò, e la sua toga pretesta si colorò di rosso, suscitando un rispettoso stupore in chi gli stava intorno: un altro segno della benevolenza divina!

    Il sangue aveva impresso il suo sigillo purpureo sulla cerimonia e sui prescelti.

    E allora Agrippa capì: Ottaviano aveva predisposto tempi e modi del rito in ogni particolare, prolungando l’attesa e aumentando l’aspettativa, così che l’auspicio del pubblico diventasse una disperata speranza, una necessità assoluta. Li teneva in pugno, tutti. Già ai tempi delle guerre civili e delle proscrizioni, aveva deciso quanto sangue versare e quando. E aveva fatto lo stesso in questa circostanza: aveva inciso il corpo dell’animale proprio nei punti in cui scorreva più sangue, e in perfetta simultaneità con la chiusura dei battenti.

    Le porte vennero accostate, in attesa di essere sprangate dallo stesso console. Giano poteva rimanere dentro al tempio e disinteressarsi per un po’ delle faccende umane, pensò Agrippa. Nessuno minacciava più Roma. D’ora in poi, semmai, sarebbe stato l’impero a minacciare il mondo intero. Grazie a Cesare Ottaviano.

    E a lui.

    3

    Il ragazzo aveva gli occhi pesantemente truccati, e il nero che li cerchiava e ne ridisegnava i contorni accentuava il suo sguardo torvo. La sua testa ciondolava sul busto in modo del tutto innaturale, quasi fosse legata al collo da un filo invisibile, china sulla tunica rossa. Si avvicinava a grandi passi, brandendo un coltello insanguinato. Lui non poteva scappare: dei serpenti lo avvolgevano come corde ben strette intorno al corpo, dalle spalle alle caviglie, senza morderlo, ma protendendo le loro minacciose fauci verso il suo viso. Sfioravano le sue gote, il suo naso, gli accarezzavano i capelli, eppure non affondavano i loro denti aguzzi nella carne. Si limitavano a minacciarlo, in attesa che il ragazzo – loro signore e padrone – arrivasse a svolgere il compito per il quale era uscito dalla tomba.

    Intanto il giovane continuava ad avvicinarsi. La testa sobbalzò ancora e il mento si sollevò, e lui vide lo squarcio alla base del collo. Era profondo come una caverna, e ne sgorgava un fiume di liquido scuro, che si rovesciava sulla tunica rossa.

    Era sangue.

    Il ragazzo si lasciava alle spalle una lunga scia. Dal coltello cadevano schizzi di sangue, gocce che colavano dalla lama, come se l’arma affondasse continuamente dentro le viscere di un’ipotetica vittima. Lui provò a scappare, ma i serpenti lo strinsero ancora tra le loro spire. Perse l’equilibrio, cadde a terra, rotolò nella polvere, ciononostante nessun aspide mollò la presa. In un attimo, si ritrovò sopra il ragazzo. Lesse il desiderio di vendetta nel suo sguardo, si sentì investire dal fiume di sangue che fluiva dallo squarcio lungo il collo. Il coltello danzò a una spanna dal suo viso. Sentì gli schizzi di sangue che ancora cadevano dalla lama, poi la punta del coltello si avvicinò al suo collo. Percepì il gelido metallo incidergli leggermente la pelle, scorrergli lungo il petto e risalire verso il mento.

    Poi il ragazzo sorrise. Un sorriso glaciale, privo di allegria. Pieno di sadismo. Si rialzò, si spostò e dietro di lui apparve il toro.

    Dopo il sacrificio.

    Il manto lucido era coperto di sangue, che sgorgava copioso dall’incisione lungo il dorso. Eppure la bestia era in piedi, si muoveva, muggiva, scalciava, e lo guardava con due occhi da cui sembravano scaturire fiamme. Nel cranio era conficcato il coltello con cui lui aveva praticato il sacrificio. Era piantato proprio sulla sommità del capo, la lama immersa nella carne e l’impugnatura appena fuori. Dietro la bestia, ricomparve la testa del ragazzo, lo stesso sorriso feroce e sadico di poco prima. Gli stessi occhi fiammeggianti del toro. Ora era montato in groppa all’animale e lo guidava, ne aveva assunto il controllo, così come aveva fatto con i serpenti. Lo indusse a ergersi sulle zampe posteriori, come un cavallo imbizzarrito. Era impossibile, eppure ci era riuscito. Gli zoccoli della bestia si sollevarono, annaspando nell’aria, pronti a ricadere pesantemente a terra.

    Proprio su di lui.

    Ottaviano si svegliò madido di sudore. Si ritrovò sul bordo del letto, seduto, le braccia che annaspavano nell’aria, come se volesse ancora liberarsi dalle spire dei serpenti. Guardò il soffitto, come a voler verificare che nessun pericolo aleggiasse ancora sulla sua testa. Vi vide solo i magnifici affreschi floreali che decoravano il cubicolo della villa di sua moglie, nei dintorni dell’antica Veio, su una collina accanto alla Via Flaminia.

    «Sempre lo stesso incubo?». La voce rassicurante di Livia. Sì, era tornato alla realtà, in quel mondo di cui era padrone.

    Ottaviano annuì, gli occhi sbarrati, almeno fino a quando una goccia di sudore colata sulla pupilla non lo costrinse a chiuderli e ad asciugarseli con il dorso della mano.

    Livia si alzò, prese un telo e gli deterse la fronte.

    «Bisogna fare qualcosa. Non puoi andare avanti così», gli disse.

    «No. Non c’è nulla da fare. È la punizione degli dèi per aver ucciso chi era del mio stesso sangue. Ho mandato a morte decine e decine di persone, durante le proscrizioni, ma non ho mai avuto alcun senso di colpa. Neppure per Cicerone, che feci ammazzare solo per assecondare i desideri di Marco Antonio. O meglio, di sua moglie Fulvia».

    «Hai sempre fatto quel che ritenevi necessario per assicurare stabilità

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