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Missione impossibile
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E-book366 pagine5 ore

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Un autore da oltre 1 milione di copie

Un grande romanzo storico

Nel pieno della seconda guerra dacica, il re dei daci Decebalo rapisce uno dei più stretti collaboratori dell’imperatore Traiano, il generale Longino. Un giovane tribuno di illustre famiglia chiede al sovrano di affidargli un pugno di uomini per andarlo a liberare. La missione si prospetta ai limiti dell’impossibile: si tratta di attraversare le linee nemiche in pieno inverno, tra fortezze e guarnigioni barbare, fino al cuore del regno dacico. Lo stato maggiore imperiale individua cinque uomini che non hanno più niente da perdere: cinque soldati sacrificabili, ma anche disposti a tutto pur di recuperare l’onore e la dignità compromessi. Il drappello parte senza sapere che un uomo si è lanciato al suo inseguimento. È Gaio Messio, il centurione più decorato dell’esercito, disposto a disertare per compiere la sua vendetta su uno dei componenti del commando. La missione si rivelerà presto un viaggio nell’inferno nel quale ogni soldato è costretto a confrontarsi con i propri demoni, oltre che con i nemici…

Un autore da oltre 1 milione di copie

Un’avventura oltre i confini dell’impero
Un unico obiettivo: sopravvivere

Hanno scritto dei suoi romanzi:

«Andrea Frediani accompagna i lettori non esperti a conoscere una civiltà straordinaria. Senza perdersi in luoghi comuni e tenendo fede alla correttezza della ricostruzione storica.» 
Il Venerdì di Repubblica

«Uno dei maestri del romanzo storico.»
Il Messaggero

«Frediani è abile nell’immergere il lettore dentro le battaglie, nell’accendere emozioni, nel ricostruire fin nei minimi particolari paesaggi e ambienti, nel portare i lettori in prima linea.»
Corriere della Sera
Andrea Frediani
È nato a Roma nel 1963; consulente scientifico della rivista «Focus Wars», ha collaborato con numerose riviste specializzate. Con la Newton Compton ha pubblicato diversi saggi (tra cui Le grandi battaglie di Roma antica; I grandi generali di Roma antica; I grandi condottieri che hanno cambiato la storia; Le grandi battaglie di Alessandro Magno; L’ultima battaglia dell’impero romano, Le grandi battaglie tra Greci e Romani, Le grandi battaglie del Medioevo, La storia del mondo in 1001 battaglie) e romanzi storici: Jerusalem; Un eroe per l’impero romano; la trilogia Dictator (L’ombra di Cesare, Il nemico di Cesare e Il trionfo di Cesare, quest’ultimo vincitore del Premio Selezione Bancarella 2011); Marathon; La dinastia; Il tiranno di Roma; 300 guerrieri, 300. Nascita di un impero e I 300 di Roma. Ha firmato la serie Gli invincibili, una quadrilogia dedicata ad Augusto (Alla conquista del potere, La battaglia della vendetta, Guerra sui mari, Sfida per l’impero). L'ultimo pretoriano e L'ultimo Cesare inaugurano la serie Roma Caput Mundi. Il romanzo del nuovo impero, incentrata sulla controversa figura di Costantino. Le sue opere sono state tradotte in sette lingue.
LinguaItaliano
Data di uscita7 set 2017
ISBN9788822712967
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    Anteprima del libro

    Missione impossibile - Andrea Frediani

    I

    Rufo Sita fissò incredulo i quattro astragali depositati per terra, nel ristretto spazio tra le sue gambe incrociate e quelle del suo avversario. Avevano proprio tutte le facce diverse. Poi spostò lo sguardo ai sesterzi che si erano ammucchiati al loro fianco nel corso della partita.

    Non poteva credere che fosse accaduto.

    «Incredibile… Non mi era mai successo… Il colpo di Venere! Gli dèi mi amano!», esclamò entusiasta la giovane recluta che Rufo aveva individuato come pollo da spennare; e adesso, invece, era quell’imbecille a spennare lui. Neppure ricordava il suo nomen, accidenti… Lo aveva scelto proprio per quell’espressione ebete, tipica della recluta cresciuta nella bambagia, di buona famiglia e con ampie disponibilità economiche, ancora fiduciosa nella lealtà dei camerati, disposta a credere che tutti i soldati si aiutassero e si rispettassero in ogni circostanza. Ma soprattutto perché nessuno voleva più giocare con lui, sapendo che i suoi astragali erano truccati e che era uno spiantato incapace di onorare i propri debiti.

    O quel tizio la sapeva più lunga di quanto lasciasse credere, oppure il suo era stato davvero un imprevedibile colpo di fortuna.

    In entrambi i casi, non poteva permettersi di perdere tutti quei soldi. Doveva ancora molto denaro a chi gli aveva fatto credito, ed era certo che non lo avrebbero lasciato arrivare vivo alla fine della guerra se non avesse pagato.

    Il ragazzo allungò le braccia verso il denaro con espressione compiaciuta. D’istinto, Rufo gli afferrò un avambraccio e lo bloccò. «Mi sa che qui gli dèi non c’entrano nulla. Non hai detto che non avevi mai giocato agli astragali?», disse, guardandolo con astio.

    «È così, infatti. Giusto qualche volta con mio fratello…», rispose il ragazzo con aria meravigliata. Sembrava che stentasse a crederci anche lui. O era un attore eccellente, o era proprio vero che ai ricchi andava sempre bene.

    Vibio Messio… Il riferimento al fratello permise a Rufo di ricordare il nome del rivale. Si era fatto un gran parlare del fresco arruolamento del giovanissimo fratello di Gaio Messio, il centurione che si era guadagnato numerose onorificenze nella precedente guerra contro i daci e che stava confermando il suo valore nel conflitto in corso, con imprese degne di un eroe omerico. Tutti davano per scontato che il giovane avrebbe fatto una rapida carriera, sotto l’ala protettiva di Gaio, al di là delle sue capacità. Proprio la gente che Rufo odiava di più: i signorini con la strada spianata, che non avevano bisogno di dannarsi l’anima per scalare le gerarchie e raggranellare una paga migliore. Per questo aveva pregustato la prospettiva di togliergli non solo il salario, che per un individuo come quello erano solo spiccioli, ma anche parte del suo patrimonio. Fino a quel momento era andato tutto alla grande: lo aveva indotto ad alzare sempre di più la posta, finché sul piatto il giovane non aveva calato anche la promessa di cedergli, in caso di sconfitta, una proprietà intestata a lui in Campania o l’equivalente in denaro secondo le stime del mercato corrente. E attendeva solo che quel damerino mettesse in gioco un altro pezzo del suo patrimonio per lanciare i suoi astragali truccati, con gli angoli smussati in modo tale che cadessero come voleva lui.

    Invece, il colpo di Venere lo aveva fatto Vibio. Rufo si maledisse per non essersi fermato in tempo. Ma non poteva prevedere che i suoi astragali favorissero qualcun altro.

    «E allora non è possibile che ti siano venute tutte le facce diverse», dichiarò con sguardo minaccioso, cercando di metterlo in soggezione.

    Ma il ragazzo non parve per nulla intimorito. Non abbassò gli occhi e con l’altra mano cercò di liberarsi della stretta. E neppure si guardò intorno in cerca di aiuto: erano in un angolo appartato del campo, la gran parte dei legionari era già in tenda, nelle proprie brande, e la luce delle torce sugli spalti e dei fuochi del bivacco li sfiorava appena. «Perché non dovrebbe essere possibile? Ogni tanto succede, ed è successo a me», replicò, facendosi improvvisamente serio. Per un istante, Rufo vide nella sua espressione i tratti fieri del fratello.

    «Io invece dico che non poteva succederti. A meno che…», insinuò. La sua mano rimaneva arpionata all’avambraccio del giovane, che non riusciva a togliersela di dosso. Se non altro, Rufo sapeva di essere molto più forte: nelle risse che seguivano le sue partite, infatti, prevaleva sempre, sebbene di rado ciò gli consentisse di recuperare il denaro perso.

    «A meno che?», lo sfidò il ragazzo. Decisamente non era uno che si lasciava intimorire. Tronfio come ogni ricco, evidentemente.

    Doveva andarci giù pesante. «A meno che tu non abbia barato. Mi sono distratto un attimo guardando altrove. Scommetto che con qualche rapido movimento hai aggiustato le facce…», lo provocò.

    «Ma se hai sempre guardato qui! Cosa stai dicendo?». Il ragazzo non si faceva mettere i piedi in testa. Stava diventando tutto più difficile del previsto.

    «Mi stai accusando di mentire? Vuoi andare a piagnucolare dal tuo centurione?», lo sfidò.

    «Io non vado a piagnucolare da nessuno. Con un pezzente come te me la vedo da solo», fu la sorprendente risposta della recluta. Evidentemente, avere un fratello famoso gli aveva dato alla testa. Si credeva anche lui un grande eroe.

    Be’, gli avrebbe dimostrato che era solo un pivello. La sua risposta sprezzante gli fece ribollire il sangue. «Un pezzente? Uno che si è fatto da solo, con valore e con coraggio. Non un raccomandato che non deve fare niente di più che fregare i commilitoni, per avere una carriera di alto profilo…», lo provocò.

    «Togli questa mano», gli intimò il ragazzo con espressione minacciosa.

    «Altrimenti?», lo sfidò con un sorriso beffardo.

    Silenzio, per qualche istante. Gli sguardi si ancorarono l’uno all’altro, Rufo fremeva di indignazione: un ragazzino che non aveva paura di un veterano era intollerabile. Ma non poteva ritrovarsi in un’altra rissa: il suo centurione lo avrebbe consegnato e avrebbe perso anche la prossima paga, oltre all’opportunità di guadagnarsi qualche gratifica con le imprese belliche. Alla fine fu lo stesso veterano a rompere il silenzio: «Te lo dico io: altrimenti, capirai subito quanto è stupido provocare Rufo Sita», si sentì costretto a dire.

    Il ragazzo si divincolò dalla sua stretta e strinse entrambi i pugni, dimostrando di non essere tipo da tirarsi indietro, se si trattava di fare a botte. Rufo non riuscì più a contenere l’ira. Ci mancava solo che quel ragazzino sbruffone lo facesse finire nei guai. Detestava chi non aveva paura di lui. Detestava i ricchi. Detestava i raccomandati. E Vibio Messio era tutte quelle cose insieme. Quindi lo odiava. Quasi senza rendersene conto, la sua mano corse all’impugnatura del pugio che teneva alla vita. Estrasse il pugnale e, con un rapido movimento dal basso verso l’alto, sferrò un fendente che tagliò di netto la gola al ragazzo.

    Il collo del giovane si squarciò, eruttando sangue che innaffiò gli astragali. Poi il suo corpo crollò di fianco e la sua testa, toccando terra, sfiorò il cumulo di denaro. Rufo osservò con disprezzo l’espressione attonita di Vibio, gli occhi spalancanti, la bocca gorgogliante, finché non lo vide immobile. Quindi raccolse gli astragali e i soldi, li mise in una sacca, si alzò, si guardò intorno e si avviò verso la propria tenda. I primi soldati che incontrò non si erano accorti di nulla: ne aveva notato le sagome in lontananza ma la loro attenzione era rivolta altrove. Lo salutarono distrattamente e continuarono a parlare tra loro.

    Percorse tutto il decumano finché non raggiunse il proprio settore. Girò tra le tende in cerca di quella del suo contubernio e, quando la intravide, si accorse di una figura umana ritta in piedi accanto ai tiranti. Rallentò il passo e si ricompose, nascondendo la sacca sotto il mantello, trasse un profondo sospiro e si avvicinò con cautela.

    «Rufo Sita, ti stavo aspettando. Devi venire con me. Immediatamente», disse l’uomo, che riconobbe come un attendente dello stato maggiore imperiale.

    Rufo sentì una morsa allo stomaco. Che qualcuno lo avesse visto? «Cosa vuoi da me a quest’ora?», rispose diffidente.

    «Non io. L’imperatore in persona. Ha bisogno di te», replicò l’altro.

    «Allora, Cecilio Avito… Come sta la tua donna? Se la spassa, mentre sei via?»

    «E tuo figlio? Chissà quanti uomini vede entrare e uscire dal letto della mamma…».

    Cecilio Avito guardò il suo giovane amico Curzio Musio, che scosse la testa. Cecilio sapeva bene cosa significava: niente stupidaggini. Sarebbe stata l’ennesima rissa in cui finivano coinvolti e non era il caso di farsi consegnare di nuovo.

    «Mi sa che ormai la tua donna è più combattiva di te, Cecilio», proseguì il commilitone che aveva deciso di prenderlo di mira. «Tu te ne stai qui a piagnucolare di quanto ti manca, rinunciando a spassartela con queste puttane daciche, lei, invece, fa i fatti…».

    «E tuo figlio si vergognerà, prima o poi, di aver avuto un padre che invece di combattere passava il tempo a fare la femminuccia al campo…», aggiunse il suo compare.

    «Ma non è che sta trovando consolazione tra le braccia di questo bel giovanotto?», osò dire un altro legionario che li aveva appena raggiunti nella taverna.

    Cecilio guardò di nuovo Curzio che, stavolta, faticò a contenere lo sdegno. Il suo viso si fece rosso e lanciò un’occhiata assassina al provocatore: quando era lui a essere chiamato in causa, le sue reazioni erano di ben altro tenore. Cecilio conosceva abbastanza l’amico per sapere che sarebbe bastata una sola altra parola per farlo scattare in piedi e dare inizio allo scontro.

    Toccò a lui, quindi, spegnere gli ardori. «Lasciali perdere. Non me l’hai appena detto? Ne vale la pena?», gli sussurrò, tendendo la mano lungo la superficie del tavolo e afferrandogli l’avambraccio per calmarlo.

    «Ma guardali, come si toccano… Tra poco si faranno anche le carezzine davanti a tutti! Allora è vero che c’è del tenero tra loro!», fu l’inevitabile commento di uno degli attaccabrighe.

    «Ma guardalo lì, il sognatore… Vuoi diventare come Alessandro Magno? Un grande condottiero con un debole per gli uomini? Almeno il macedone se la faceva con quelli della sua età come Efestione, tu con questo vecchio…», proseguì un altro, rivolgendosi a Curzio Musio.

    Cecilio capì che non sarebbe più riuscito a trattenere l’amico. I sogni di gloria di Curzio non erano un mistero per nessuno: se il ragazzo aveva un difetto, era quello di esibire in continuazione le sue sfrenate ambizioni di fare carriera e di diventare un eroe, e questo lo esponeva spesso alle canzonature dei compagni, che non prendeva mai troppo bene.

    Si rassegnò. Gli sarebbe toccato passare un’altra notte in guardina. A entrambi.

    «Direi che uno come te, che si fa anche le pecore e le capre che trova tra questi pastori, non dovrebbe mai permettersi di giudicare i gusti degli altri…», sibilò Curzio alzandosi finalmente in piedi e guardando dritto negli occhi il legionario che aveva parlato per ultimo.

    Cecilio alzò gli occhi al cielo, consapevole di quello che stava per accadere. Dopo la fine della guerra, nella migliore delle ipotesi, sarebbe tornato dalla sua famiglia con la faccia segnata dai pugni presi nelle risse, invece che dalle ferite in battaglia. Tese il braccio verso l’esterno del tavolo, bloccando il prevedibile scatto in avanti del soldato, pronto ad avventarsi su Curzio. L’uomo si piegò su se stesso e, prima che potesse recuperare stabilità, Cecilio gli sferrò un pugno al basso ventre con l’altra mano, facendolo cadere in ginocchio a terra. Subentrò al suo posto un altro che non vedeva l’ora di menare le mani, ma a quel punto Curzio era avanzato di un passo ed era pronto a riceverlo come meritava: il giovane teneva molto a dimostrare di essere tipo da non tirarsi indietro di fronte a niente e nessuno; e in una guerra come quella, priva di battaglie campali dove poter sfoggiare il proprio valore e acquisire onorificenze, perfino una rissa da taverna era una buona occasione per dimostrare fegato davanti ai commilitoni.

    Cecilio fece una smorfia: la realtà era che i daci, con le loro tattiche elusive e la terra bruciata che facevano di fronte all’avanzata dei romani, evitando di affrontarli in battaglie regolari e con armate schierate, non davano modo agli invasori di sfogare la loro aggressività e i legionari finivano per manifestarla tra loro. Per lui era diverso: aveva una famiglia da cui non vedeva l’ora di tornare, delle persone da amare più della sua stessa vita, e aveva perso da un pezzo la voglia di massacrare e uccidere.

    Il suo amico sferrò un pugno sul viso dell’aggressore più vicino, mentre l’altro seguiva immediatamente alle sue spalle. Il colpo centrò il bersaglio facendo sprizzare sangue dal naso della vittima e l’uomo barcollò, andando a sbattere sul tavolo e facendo vibrare i bicchieri con il vino annacquato, che si rovesciò in parte sul legno. Curzio afferrò la brocca ancora piena e la scagliò contro il terzo attaccabrighe. Il contenitore raggiunse il legionario al petto, provocandogli un gemito di dolore, poi cadde a terra finendo in pezzi. Il primo provocatore che ancora gemeva per la botta al basso ventre, cercava nel frattempo di rialzarsi ma finì per scivolare sul vino sparso sul pavimento e mise la mano su uno dei cocci di terracotta, tagliandosi un dito e lanciando urla di dolore e di rabbia.

    Cecilio notò che tutti gli altri legionari seduti ai tavoli del locale continuavano a farsi i fatti loro. C’era chi guardava distrattamente, chi li fissava sorridendo e commentando con i compagni, chi continuava a parlare come se nulla fosse, e chi si sbronzava e basta. Meglio così: sarebbe finita prima. Si alzò a sua volta e sferrò una ginocchiata all’uomo piegato carponi sui cocci, mettendolo definitivamente fuori gioco. Adesso erano due contro due, e i loro avversari erano già ridotti a mal partito: sarebbe stato un gioco da ragazzi ridurli in condizione di non nuocere e fargli rimangiare i loro insulti.

    I due provocatori, infatti, esitarono a farsi ancora avanti. Ma strinsero i pugni: non intendevano mollare, soprattutto per non fare la figura degli idioti davanti ai loro commilitoni. Si guardarono e annuirono, pronti a riprendere la lotta.

    «Cosa sta succedendo qui?». Cecilio si voltò e vide che nella taverna erano appena entrati tre soldati. Quando si avvicinarono a loro si rese conto che erano dei pretoriani.

    «Niente. Chiacchiere tra amici», provò a dire per stemperare la tensione.

    Il più alto in grado tra le guardie del corpo imperiali si guardò intorno, puntò gli occhi sui cocci a terra e sull’uomo imbrattato di sangue che si stava rialzando a fatica, scosse la testa e dichiarò: «Be’, mi duole interrompere la vostra amena conversazione, ma l’imperatore desidera parlarvi».

    Cecilio e Curzio si guardarono meravigliati. «Chi di noi?»

    «Cecilio Avito e Curzio Musio. Siete voi, no?».

    Cecilio vide Curzio deglutire, per la prima volta veramente spaventato da quando era iniziata la rissa. Per uno che aspirava a diventare un eroe, essere chiamato dall’imperatore perché passava per un attaccabrighe era il viatico peggiore per la gloria.

    Pareva che qualcuno se le stesse dando di santa ragione. Per la prima volta da quando era entrato nella taverna, Quinto Furio Clemente provò a fissare qualcosa che non fosse il puro vuoto. Ma ormai aveva bevuto più vino di quanto fosse abituato a reggerne e le immagini gli apparvero indistinte. Sagome umane debolmente illuminate dalle torce appese alle pareti urlavano parole incomprensibili e si muovevano a scatti, dall’altra parte del locale. Una rissa, gli parve.

    Be’, non lo riguardava e non si sarebbe lasciato trascinare.

    O forse sì. Forse gli avrebbe fatto bene scaricare un po’ di tensione, di frustrazione e di delusione per la piega che aveva preso la sua vita.

    Fece per alzarsi, intenzionato a prendere a pugni chiunque gli fosse capitato a tiro, ma non poté fare a meno di ricadere pesantemente sulla sedia. La testa gli girava vorticosamente, non era in grado di controllare i suoi riflessi e aveva l’impressione di aver smarrito il senso delle proporzioni. Insomma, lo avrebbero atterrato subito, se non lo avesse fatto da solo, e non avrebbe potuto sfogarsi in alcun modo. Meglio smaltire l’ennesima sbornia in un cantuccio, per poi svegliarsi il mattino seguente con le viscere in fiamme, per il vino scadente che passava l’esercito, e la rinnovata sensazione di trascinarsi in un’esistenza inutile e stanca.

    Aveva sperato tanto che la guerra servisse a dimenticare. Che uccidere daci, distruggere villaggi, conseguire falere e corone, premi e gratifiche di ogni sorta, l’ammirazione dei compagni e dei subordinati, la stima dei superiori, l’attenzione dell’imperatore, gli permettesse perlomeno di accantonare il dolore. Ma in quella guerra contro dei fantasmi non c’erano battaglie da combattere, eserciti da affrontare sul campo, nemici da uccidere. L’attività principale, quando le legioni non erano in marcia, era la perlustrazione e la ricerca di vettovagliamento, che i daci avevano sottratto all’armata d’invasione distruggendo tutto ciò che si trovava sulla linea d’avanzata dei romani. E il paesaggio di desolazione in cui erano costrette ad avanzare le colonne, con boschi bruciati e villaggi ridotti in macerie, non faceva altro che gettarlo ancor più nello sconforto.

    Erano soli. Nonostante fossero la più grande armata di conquista che la storia di Roma ricordasse, non c’erano scontri che cementassero la solidarietà tra camerati, battaglie che rendessero necessari quei ranghi compatti nei quali ciascuno collaborava con il compagno a fianco. Al contrario, si litigava per il poco cibo che si riusciva a scovare, ci si annoiava in giornate interminabili di attesa, e ciascuno aveva tutto il tempo di abbandonarsi ai propri ricordi, o di farsi tormentare dalle proprie ferite.

    E i suoi ricordi erano particolarmente dolorosi, le sue ferite assai recenti.

    Sapeva che si sarebbe fatto male, eppure cercò di mettere a fuoco l’immagine di lei, che si faceva di giorno in giorno più sbiadita. Qualcuno gli aveva detto che avrebbe fatto bene a dimenticarla del tutto, se voleva tornare a essere l’eroe di guerra che era stato nel precedente conflitto con i daci. Ma era terrorizzato dal vuoto interiore che ne sarebbe derivato e si sforzava ogni giorno di ricordare i suoi tratti, il suo carattere e i momenti felici trascorsi insieme. Aveva vissuto per lei, dalla fine della guerra e nei tre anni successivi, dimenticandosi delle proprie imprese, degli onori e della gloria che aveva conseguito in battaglia. E continuava a rivivere il loro primo incontro, durante il trionfo per le vie di Roma, quando l’aveva notata tra la folla festante, in prima fila, e lei aveva notato lui, tra tanti ufficiali che marciavano alle spalle dell’imperatore sul suo cocchio trainato dai quattro cavalli bianchi. Si era chiesto, per tutta la durata del corteo, come poter rivedere quei magnifici occhi verdi che spiccavano come gemme splendenti nella calca, quei capelli corvini che rilucevano al sole, quella figura statuaria che sembrava sovrastare tutte le altre, come se fluttuasse su una nuvola; e all’improvviso, proprio ai piedi del Campidoglio, dove Traiano era andato a sacrificare a Giove Capitolino, l’aveva rivista, gli si era avvicinato e l’aveva baciato sulla guancia, facendogli provare un brivido di piacere in ogni spanna del suo corpo.

    Aveva fatto in tempo a chiederle dove abitava, prima di riprendere a muoversi, e la sera stessa era andato a trovarla; padre e madre della ragazza gli avevano riservato un’accoglienza degna di un eroe di guerra, trattandolo come un figlio, ma presto avevano dovuto cambiare idea. Terminati i festeggiamenti a Roma, infatti, era dovuto tornare al quartier generale della sua legione, sul Danubio in Mesia, e al momento del commiato lei aveva deciso di seguirlo. Non le era importato delle proteste dei genitori, né della dura vita da concubina di un soldato che la attendeva in una provincia estrema dell’impero; non aveva esitato un istante ed era partita con lui, accasandosi nel borgo adiacente al forte dove Quinto Furio prestava servizio come centurione.

    Ed era stato solo l’inizio del loro sogno. Mai un istante, nei tre anni successivi, lei aveva mostrato di essersi pentita della sua scelta; mai un istante aveva rinunciato a farlo felice, ad amarlo con un’intensità che Quinto Furio non avrebbe mai creduto possibile. Figli non ne erano venuti, ma nessuno dei due aveva dato tanto peso a quella mancanza: erano talmente felici insieme da essere sufficienti a se stessi, e lui si era convinto che gli dèi gli avessero riservato il destino più invidiabile tra gli esseri umani: amato dalla creatura più adorabile della terra, stimato da tutto l’esercito. E non avevano esitato un istante, quando era giunta comunicazione del rinnovo delle ostilità con la Dacia, decidendo di non separarsi neppure in quella circostanza. Lui, grazie al prestigio di cui godeva, le aveva procurato un posto come vivandiera dell’esercito d’invasione, in modo tale da rimanere insieme anche durante il conflitto, che si preannunciava anche più lungo e duro del precedente.

    Ma poi, proprio alla vigilia della partenza, la tragedia. E da allora, non era stato mai più lo stesso.

    In breve, l’eroe della prima guerra dacica si era trasformato nello zimbello della seconda. Il più celebrato degli ufficiali era diventato il più disprezzato, il più coraggioso dei soldati appariva come il più vigliacco, indolente, apatico, svogliato; il più irreprensibile degli uomini era diventato il più dedito al vizio, sebbene fosse solo quello del bere. Per un po’, i commilitoni e i superiori gli avevano dato credito, lo avevano consolato e compatito; ma col trascorrere dei mesi si erano fatti meno comprensivi e tolleranti, finché non c’era stato più nessuno che non lo biasimasse per aver buttato via così la propria vita. Ormai tutti giudicavano il suo dolore eccessivo, irresponsabile, ingiusto, e forse era davvero così; ma che ne sapevano, loro, del legame che si era formato con lei? Cosa potevano capire di quel che accadeva nel suo animo lacerato e del vuoto enorme che aveva dentro? Nei pochi anni trascorsi insieme si erano pressoché fusi: lui era entrato a far parte di lei, e lei di lui; la sua scomparsa lo aveva quindi privato di una parte importante di sé. Si sentiva un mezzo uomo, ormai, e come tale non era più in grado di offrire il proprio contributo nell’esercito. Se ancora conservava il suo ruolo da centurione, era solo grazie alle benemerenze che si era conquistato in precedenza. Ma, ne era certo, non sarebbe durato ancora a lungo.

    Forse solo la morte gli avrebbe donato la pace. Ed era quello che aveva sperato di trovare in guerra. Ma le occasioni di affrontare a viso aperto il nemico, almeno fino ad allora, erano mancate. A quanto pareva, gli dèi avevano stabilito che non avesse neppure il diritto di morire con onore. Così si era lasciato andare, sprofondando in una depressione sempre più cupa.

    «Centurione Quinto Furio Clemente, vieni con noi». Gli parve di capire che qualcuno si stesse rivolgendo a lui. Sollevò lo sguardo dal bicchiere semivuoto che stringeva in mano e vide in piedi accanto a sé un uomo che gli parve un pretoriano.

    «No. Non sei in condizione. Oste, un secchio d’acqua!», aggiunse il soldato, che gli parve anzi un ufficiale.

    «In condizione… per cosa?», chiese, con una voce impastata che non gli parve di riconoscere come la sua. Un istante dopo, si sentì investito da un getto di acqua gelida, che lo stordì per un attimo, prima di renderlo più lucido e consapevole.

    «Per incontrare l’imperatore», gli rispose secco il pretoriano.

    «Non vedi niente, lì sotto?». L’occhiata in tralice che il cavaliere lanciò a Sittio Ingenuo non lasciava presagire nulla di buono.

    «Io… no, non vedo niente», rispose il giovane, fissando la paglia sparsa per terra nella postazione del cavallo che aveva appena finito di pulire. L’arrivo alle spalle del padrone della bestia lo aveva sorpreso proprio quando stava andando via, pregustando un bel bagno caldo, prima di premiarsi con un buon bicchiere di vino nella taverna del campo.

    «Niente? Sei cieco? Sei privo di olfatto? Non la vedi la merda che hai lasciato? E questo sarebbe pulire, secondo te?».

    Sittio strizzò gli occhi e non poté dare torto al soldato. In effetti, il pavimento era decisamente sporco. Si chiese come mai non ci avesse fatto caso: doveva avere la testa altrove, mentre puliva la stalla. «Però, devi ammettere che il tuo cavallo è strigliato per bene… Guarda che manto lucido…», provò a sdrammatizzare, sperando che l’uomo si ammorbidisse.

    «Può essere tirato a lucido quanto ti pare, ma se lo lasci a sguazzare nella sua merda tornerà presto come prima», obiettò il cavaliere. «Anzi, peggio: se prima era sporco di polvere e di fango, ora lo sarà di merda, per colpa tua. E io dovrei cavalcare una bestia che profuma di feci, secondo te?»

    «Io… mi dispiace. Ma rimedio subito», replicò umilmente Sittio, rassegnandosi all’idea di dover passare un’altra ora in quella stalla.

    Ma l’altro non sembrava per niente soddisfatto. Doveva essere di quelli che protestavano anche quando avevano torto; figurarsi quando avevano ragione. «Voi immunes siete proprio la feccia dell’umanità… Troppo stupidi per fare i soldati. Ma un immunis mezzo barbaro è la feccia degli immunes, quindi non mi stupisce che tu non sappia neppure spalare merda…», lo provocò.

    Sittio si guardò intorno senza sapere cosa fare. C’erano altri due cavalieri delle alae ausiliarie, ma nessuno sembrava badare troppo al loro siparietto. Né d’altra parte avrebbe potuto trovare comprensione tra gli altri soldati: tutti i combattenti disprezzavano gli immunes assegnati all’armata per svolgere i lavori meno edificanti. «Senti, fammi ricominciare da capo: avrai la postazione pulita in un attimo», provò a dire.

    «Visto che non sei riuscito a pulire con le mani perché non proviamo con la lingua? Magari a voi barbari riesce meglio», ribatté astioso il soldato, afferrandogli il collo con una mano che a Sittio parve un artiglio e spingendolo con la faccia a terra. Costretto a inginocchiarsi per non cadere violentemente faccia in avanti, il giovane si ritrovò con il naso a un palmo dalla paglia sporca degli escrementi del cavallo. Un fetore nauseabondo gli inondò le narici stordendolo all’istante. Tuttavia puntò le mani per terra, cercando di opporsi alla spinta del braccio del soldato per non finire immerso nelle feci. Subito dopo, si rese anche conto che rischiava di essere colpito da un momento all’altro dagli zoccoli del cavallo, il cui ventre si trovava proprio sopra la sua testa.

    «Forza, sporco dace, sguazza nel letame come meriti!», sibilò il soldato. E nessuno interveniva. Al contrario, Sittio sentì qualche risata risuonare all’interno della stalla.

    Il cavaliere era troppo più forte di lui. Un attimo dopo, l’immunis era con la faccia immersa nelle feci. L’uomo gliela tenne per qualche istante e poi, quando il giovane iniziò a boccheggiare, allentò la stretta e gli consentì di rialzare il capo. Solo allora il suo aguzzino si unì alle risate dei commilitoni. Sittio si accorse che lo guardavano tutti, perfino altri due immunes.

    Immunes sì, ma romani. Perfino loro guardavano con disprezzo un mezzosangue come lui.

    Si pulì il viso come poté, con lo stesso straccio con cui aveva strofinato il cavallo, e si rialzò. «Mio padre è romano quanto te, soldato», si ribellò. «Dovresti mostrare tutta questa baldanza contro il nemico, non con chi l’imperatore considera insostituibile. Perfino più insostituibile di un qualunque cavaliere…».

    Sittio si aspettò come minimo un pugno e si preparò a pararlo alzando le mani davanti al viso. Ma l’altro scoppiò in una crassa risata. «Sì, ma mia madre non era dace come la tua! E non era certo una schiava come la tua…», precisò.

    «Che ha detto questo idiota? Che un immunis, per giunta barbaro, sarebbe più utile di un cavaliere? Un servo più necessario di un combattente per l’imperatore? È proprio vero che i barbari sono tutti pazzi…». Un altro soldato si avvicinò fissandolo con astio.

    «Lascialo parlare… Uno che non sa neppure spalare merda è un ritardato. L’imperatore non sa che farsene di gente così…», aggiunse il precedente aguzzino, dandogli una spinta che lo mandò a sbattere contro il recinto della gabbia.

    «Questo qui crede che solo perché sa parlare la lingua di questi barbari ci può essere utile coi prigionieri e coi disertori…», precisò un terzo soldato, facendogli uno sgambetto quando ancora tentava di riprendere l’equilibrio, e mettendolo di nuovo in ginocchio.

    Il primo gli afferrò i capelli e lo costrinse a guardarlo negli occhi. «Ma sai che c’è, amico barbaro? Che qui daci non ce ne sono… Né prigionieri, né disertori… né da affrontare in battaglia!».

    «Già. Sono mesi che non ne vediamo uno. Poiché siete tutti vigliacchi, i tuoi amici scappano prima ancora del nostro arrivo. E dove andranno mai? Nel profondo dei boschi, a vivere insieme alle bestie selvatiche, come gli animali che sono…», precisò il secondo.

    Sittio trattenne a stento le lacrime. Purtroppo avevano ragione: la guerra languiva e i soldati si annoiavano. Un soldato annoiato diventava violento, feroce, frustrato, e se la prendeva con i più deboli. E lui era il più debole di tutti. Ancora una volta, maledisse la sua origine mista, come figlio

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