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La filosofia nel boudoir. La bibbia dell'erotismo
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E-book261 pagine3 ore

La filosofia nel boudoir. La bibbia dell'erotismo

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A cura di Claudio Rendina
Introduzione di Mario Praz

La filosofia nel boudoir esce nel 1795, e rappresenta un vero e proprio manifesto del libertinaggio e dell’erotismo. Della natura del libro dice già tutto l’autore con la dedica «Ai libertini» che qui vogliamo riprodurre nella sua interezza:
«Voluttuosi di ogni età e sesso, dedico quest’opera a voi soli: nutritevi dei suoi principii, favoriranno le vostre passioni! E le passioni verso le quali certi freddi e piatti moralisti v’incutono terrore, sono in realtà gli unici mezzi che la natura mette a disposizione dell’uomo per raggiungere quanto essa si attende da lui. Obbedite soltanto a queste deliziose passioni! Vi condurranno senza dubbio alla felicità. Donne lascive, la voluttuosa Saint-Ange sia il vostro modello! Secondo il suo esempio, disprezzate tutto ciò che è contrario alle leggi divine del piacere che l’avvinsero tutta la vita. Fanciulle rimaste troppo a lungo legate ad assurdi e pericolosi vincoli d’una virtù fantasiosa e di una religione disgustante, imitate l’appassionata Eugénie! Distruggete, calpestate, e con la sua stessa rapidità, tutti i ridicoli precetti che vi hanno inculcato genitori imbecilli! E voi, amabili dissoluti, voi che fin dalla giovinezza avete come unici freni i vostri stessi desideri e come uniche leggi i vostri stessi capricci, prendete a modello il cinico Dolmancé! Spingetevi agli estremi come lui se, come lui, volete percorrere tutti i sentieri in fiore che la lascivia aprirà al vostro passaggio! Convincetevi, alla sua scuola, che solo ampliando la sfera dei piaceri e delle fantasie, solo sacrificando tutto alla voluttà, quell’infelice individuo conosciuto sotto il nome di uomo, scaraventato suo malgrado in questo triste universo, potrà riuscire a spargere qualche rosa tra le spine della vita.»


D.-A. François de Sade
Donatien-Alphonse-François de Sade, noto come «il divin marchese», nacque nel 1740 a Parigi. La sua condotta immorale e una serie di condanne penali ne hanno fatto un personaggio leggendario. Trascorse più di trent’anni della sua vita in carcere o in manicomio. Accusato di empietà, oscenità e perversione in seguito alla pubblicazione del romanzo Juliette, venne dapprima imprigionato e poi rinchiuso nell’ospedale dei pazzi di Charenton, dove morì nel 1814. Di Sade la Newton Compton ha pubblicato Justine ovvero Le sventure della virtù, La nuova Justine ovvero le sciagure della virtù, Le 120 giornate di Sodoma e il volume unico I romanzi maledetti (Le sventure della virtù; Justine ovvero le disgrazie della virtù; La nuova Justine ovvero le sciagure della virtù; Juliette ovvero le prosperità del vizio; Le 120 giornate di Sodoma).
LinguaItaliano
Data di uscita16 dic 2013
ISBN9788854157316
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    Anteprima del libro

    La filosofia nel boudoir. La bibbia dell'erotismo - Donatien

    La madre ne prescriverà la lettura alla figlia.

    Titolo originale: La philosophie dans le boudoir, traduzione di Claudio Rendina.

    Introduzione

    «No, no, Juliette» (possiamo ben cominciare con questa citazione dalle voluminose opere del marchese di Sade, nonostante il fatto – o proprio per questo che in tal modo ci si richiama alla memoria il titolo d’una famosa commedia musicale inglese degli anni Venti, No, no Nanette, dal momento che l’effetto involontario di quelle opere è d’una colossale, raccapricciante forza o parodia) – «No, no Juliette, possiamo ignorare il fatto che la Natura ci dà i nostri bisogni e le nostre passioni?».

    Un mostro o un martire, o entrambi, un Minotauro in agguato nel labirinto dei suoi sofismi, e perseguitato dalla spada del legislatore Teseo, Donatien Alphonse François de Sade non fu certamente il primo a essere dotato di un fiuto eccezionale circa le faccende del sesso, ma il secolo dei lumi lo armò della torcia della ragione, le flambeau de la philosophie, e dell’opinione circa l’infallibilità delle leggi della Natura (già Diderot, uno dei maggiori araldi del Système de la Nature, nel suo Supplément au Voyage de Bougainville, scritto nel 1772, nell’intento di mostrare «la sconvenienza d’annettere idee morali a certe azioni fisiche che non le comportano», si dilungava sui costumi dei beati abitanti di Tahiti, che ignoravano le nozioni di fornicazione, d’incesto, di adulterio, e nel Rêve de D’Alembert, scritto nel 1769, faceva dire a D’Alembert: «L’uomo non è che un effetto comune, il mostro un affetto raro; entrambi del pari naturali, del pari necessari, del pari nell’ordine universale e generale»), codesta esplorazione divulgata dai libri dei viaggiatori che il Sade compulserà febbrilmente, gli dimostrava che la sua disformità dai sentimenti dei suoi contemporanei (una peculiarità emotiva che Simone de Beauvoir ha sottilmente analizzato nel saggio Dobbiamo bruciare Sade?) era, effettivamente, non una deficienza, ma bensì un privilegio: lui era consapevole della voce della Natura come nessun altro intorno a lui; egli era dunque il latore di un messaggio, il più audace di tutti i filosofi. «Ci si conceda per un momento d’illuminare le nostre menti con la sacra luce della filosofia!».

    Il suo senso di essere un individuo a parte, il suo complesso d’inferiorità trovava così un terreno propizio per una supercompensazione; quando venne la Rivoluzione, si sentì autorizzato a parlare con il Mosè, il legislatore della nuova Repubblica: «Français, encore un effort si vous voulez être républicains» – con queste parole ha inizio il suo gran manifesto, di cui Dolmancé dà lettura ad alta voce nella Philosophie dans le boudoir, ove è inserito con un prolisso excursus, meritevole ciononostante d’esser letto, per una certa chiaroveggenza politica su cui torneremo più oltre, notandone intanto la data, 1795. Un nuovo governo avrebbe reso necessario un nuovo modo di vivere, una totale revisione dei doveri dell’uomo verso l’Essere Supremo, verso i suoi simili, verso se stesso. Libertà: una volta spezzate le catene d’una religione assurda, non era più questione di doveri verso un mito. Non c’era più da preoccuparsi della religione, perché chi offende una chimera non offende niente. Ma allora che voluttà potrà il sadico ricavare dalla profanazione e dalla bestemmia? Dal camminare sui crocifissi e dal «commettere degli orrori con le ostie», che gusto nella messa nera se non si è convinti nella transustanziazione? La risposta del Sade è che la voluttà in questi casi è provocata dall’orrore che questi atti destano nei credenti: si gode insomma della tortura morale inflitta al credente, nell’immaginazione. E se nessun credente, come è logico, è presente a quegli atti, si gode al pensiero della mera potenziale carica di offesa di questi atti. Una vicarietà tipicamente masturbatoria.

    Quanto ai doveri che legano l’uomo ai suoi simili «è una spaventosa ingiustizia pretendere che uomini di temperamenti differenti si pieghino alle medesime leggi: ciò che fa per l’uno non fa per l’altro. Convengo che non possono emanarsi tante leggi quanti sono gli uomini; ma le leggi possono essere così dolci, così poche di numero, che tutti gli uomini, di qualunque carattere essi siano, possano facilmente piegarvisi», e quindi anche un uomo dai gusti peculiari del ci-devant marchese di Sade non se ne sentirebbe imbarazzato. L’uomo può aver ricevuto dalla natura le impressioni che possono fargli perdonare l’atto dell’assassinio; la legge, per contro, sempre in opposizione alla natura, e non avendo ricevuto da lei nessuna impronta, non può essere autorizzata a permettersi gli stessi trascorsi: non avendo gli stessi motivi, non può arrogarsi gli stessi diritti. Anzi, lo Stato dovrebbe provvedere i mezzi per soddisfare le inclinazioni naturali di ognuno, con l’istituzione di «vari stabilimenti sanitari, dove tutti i sessi, tutte le età, tutte le creature possibili vengano offerti ai capricci dei libertini che desiderano piaceri». Inoltre, in una società che ha l’Eguaglianza per suo motto, il furto, che tende alla ridistribuzione della ricchezza, non è un gran male, anzi il contrario. La nazione dovrebbe punire non già chi ruba, ma chi è stato derubato, per insegnargli a custodir meglio la sua proprietà. Il possesso non può esercitarsi che su un immobile o su un animale, mai su un nostro simile; si può costringere una donna a sottomettersi in nome del godimento, ma non del possesso. L’amore, che può chiamarsi la «follia dell’anima», non ha più titoli del pudore per legittimare la costanza delle donne; non soddisfacendo che due individui, l’essere amato e l’essere amante, non giova alla felicità degli altri, ed è per la felicità di tutti e non per una felicità egoista e privilegiata, che ci sono state date le donne. «Tutti gli uomini han dunque un eguale diritto di godimento su tutte le donne». Le donne debbon perciò esser obbligate a servire in bordelli pubblici, e saranno punite se non ci si sottomettono, e a tutti i capricci degli uomini. D’altronde anche le donne potranno abbandonarsi alle loro tendenze lussuriose, ben più violente di quelle degli uomini. I figli nati da queste unioni avventizie saranno figli della Repubblica, e, non conoscendo i genitori, ameranno di più la patria. Sistemati così due degli slogan della neonata Repubblica, Libertà ed Eguaglianza, resta ancora ancora Fraternità. «Oso affermare», sostiene il Sade, «che l’incesto dovrebbe esser la regola sotto ogni governo basato sulla Fraternità». Non volevano tutti i Francesi imitare i repubblicani greci? Dunque bisognava evitare i loro costumi sessuali: la sodomia era una virtù eroica presso i Greci. I difensori delle Termopili erano sodomiti… (Osserviamo che anche nel famoso quadro di David, Leonida alle Termopili, 1814, alcuni guerrieri, di solito un barbuto e un imberbe, stanno abbracciati).

    Il manifesto di Sade ai Francesi, che si conclude con l’augurio che «le leggi che noi promulghiamo non abbian per fine altro che la tranquillità del cittadino, la sua felicità, e lo splendore della repubblica», ha tutta l’aria d’una colossale parodia; anzi, tutta l’opera di Sade, con le sue in-dicibili atrocità, sembra seguire la truce tradizione del Modest Proposal di Jonathan Swift «per impedire che i figli dei poveri divengano un peso ai propri genitori o al Paese, e per renderli di pubblica utilità», in cui pel bene pubblico si consigliava il cannibalismo. Ma la parodia è involontaria, perché Sade credeva nella voce della Natura e per lui tutti coloro che porgevano ascolto a quella voce erano saggi, e stolti erano coloro che la soffocavano.

    Prima di proseguire, riportiamo l’unico passo in cui in quel manifesto Sade si rivelava profeta, accettando che questo testo sia del 1795: «Quando il nemico sarà dall’altra parte del Reno, credetemi, Francesi, presidiate le vostre frontiere e restate a casa vostra… ma se, pel vano onore di portar lontano i vostri principii, abbandonate la cura della vostra propria felicità, il dispotismo, che non è che addormentato, rinascerà, lotte intestine vi lacereranno, avrete esaurito le vostre finanze e i vostri soldati, tutto questo per tornare a baciare le catene che vi imporranno i tiranni che vi avranno soggiogati durante la vostra assenza». In nota si legge che «la guerra esterna non fu mai proposta se non dall’infame Dumouriez». Sicché, ancor prima che sorgesse l’astro di Bonaparte, Sade avrebbe previsto il corso degli eventi: guerre fuori dei confini, esaurimento, ritorno dei Borboni. E in un altro punto Dolmancé è profeta, nel dichiarare la guerra al sentimentalismo: «Che questa perfida sensibilità non vi inganni, Eugénie; essa non è, siatene certa, che la debolezza dell’anima»: ma per trovare applicazione, questa massima dovrà attendere più d’un secolo, quando, dopo l’orgia vittoriana di sentimentalismo, cominciò quella reazione che dura tutt’oggi, e che dichiara scandaloso non più quello che è osceno, ma quello che è sentimentale.

    Tornando a ciò che il Sade sosteneva, essere saggi tutti coloro che seguono la Natura, e sciocchi tutti gli altri, può osservarsi che gli uomini possono essere variamente classificati come saggi o sciocchi a seconda del punto di vista da cui ci si mette; pei Santi Padri coloro che posponevano la felicità oltremondana ai godimenti terrestri, erano sciocchi; per Sade, pel quale non c’era Dio (e Simone de Beauvoir ha ragione di vedere in Sade un ateo genuino), e neanche esisteva il minimo accenno dell’imperativo categorico di Kant, tutta la storia dell’umanità civilizzata era un errore, e bisognava tornare alla condizione della santa Natura. La Natura insegnava la distruzione, l’assassinio, la promiscuità sessuale: e fin qui Sade aveva ragione. Ma la teoria del peccato originale non ammetteva questo implicitamente? E non era tutta la storia dell’umanità uno sforzo per superare lo stato caotico della natura per creare una società in cui si potesse vivere? Sade avrebbe voluto che si tornasse alla vendetta privata per l’assassinio, alla prostituzione di giovani e di ragazze, all’incesto, e simili stadi e pratiche di cui si aveva tuttora esempio presso i popoli primitivi. «La crudeltà altro non è che l’energia dell’uomo che la civiltà non ha ancora corrotta: è dunque una virtù, non un vizio». D’altra parte, aggiunge due pagine dopo, c’è una crudeltà che nasce dalla stupidità e assimila l’uomo alla bestia feroce, e un’altra crudeltà che «è frutto dell’estrema sensibilità degli organi e che non è conosciuta che dagli esseri estremamente delicati, e gli eccessi a cui essa porta non sono che raffinamenti della loro delicatezza; ed è questa delicatezza, troppo prontamente smussata a causa della sua finezza eccessiva, che, per risvegliarsi adopera tutte le risorse della crudeltà». Ma chi è più vicino alla natura, le bestie feroci, o Nerone, Tiberio, Eliogabalo, il maresciallo de Retz che Sade porta a esempio? Bisogna dire che la logica di Sade dormitat, zoppica talvolta. E quanto a quelle pratiche dei popoli primitivi, non si tratta forse di cose che l’umanità doveva scartare se voleva sopravvivere? Il Settecento, attraverso le opere di Sade, vide la reductio ad absurdum del ritorno alla Natura; poiché tutto il progresso dell’umanità è consistito nell’allontanarsi sempre più dalla Natura, nel creare uno stato etico, nell’evolvere un nuovo ordine di valori, tanto artificiali quanto lo è una città in confronto della palude che in origine ne occupava il sito. Nel suo io più profondo, difettoso, squilibrato, Sade non era che un caso di ritorno atavico come sono i più degli anormali e dei criminali; lui credeva di brandire la torcia della ragione, e non era che uno scandaglio nella remota taverna degli stadi primitivi dell’uomo.

    Ed ecco qui l’anello che connette quest’uomo isolato, questa curiosa reliquia d’una preistoria sepolta e dimenticata, con l’umanità del suo tempo e del nostro. I suoi scritti sono come l’osceno scarabocchio che si legge in un orinatoio, colla segreta insinuazione: «Hipocryte lecteur, non semblable, mon frère!». Perché chi di noi non è stato Sade almeno una volta nei suoi sogni? Cosicché le profonde caverne e i passaggi sotterranei degl’inaccessibili castelli in cui gli eroi di Sade inscenano le loro inverosimili orge sono più che un simbolo della sua «estraneità», dell’isolamento delle sue ossessive fantasmagorie; essi non sono né più né meno che un simbolo dell’uomo delle caverne la cui voce può udirsi debolmente nel linguaggio di sogno di ogni Mr Earwicker, le cui azioni a ogni momento possono, nel bel mezzo d’una metropoli civilizzata, farci sussultare, in un immaginario Mr Hyde o in un Mr Christie reale. Ed ecco perché, nonostante la sua monotonia, la sua mancanza del distacco necessario per ricreare la realtà, e dell’abilità nel raccontare le sue assurde storie, i suoi miserandi clichés e le sue banalità «filosofiche», ecco perché Sade può venire salutato come uno scrittore unico e un gran moralista che, diversamente da quanto poteva immaginarsi, ha contribuito al «progresso dell’illuminismo»: egli ha lacerato il tessuto di astrazioni che l’uomo è venuto fabbricando faticosamente attraverso millenni, e lo ha presentato in uno specchio deformante, che ciononostante contiene la sua sconvolgente immagine autentica. Egli ha registrato e reso articolata per noi la voce dell’uomo delle caverne, quella specie estinta che ancora persiste nel fondo delle nostre anime, e che non infrequentemente, in questi nostri torbidi tempi, viene alla superficie. Questa peculiare qualità di Sade che concepisce l’atto libero come un atto libero da ogni sentimento, lo rende curiosamente moderno: si pensi al metodo atonale di Schoenberg, la costruzione musicale perfettamente vuota dell’eroe del Dottor Faust (che era anche lui un diavolo) di Thomas Mann.

    Non è però a simili raccostamenti che pensa Gilbert Lely, il noto studioso di Sade, nella sua prefazione all’ultima edizione francese della Philosophie dans le boudoir, ma addirittura a Shakespeare: «Spesso qualche eroina di Sade ci è apparsa come la versione proibita d’un’amorosa di Shakespeare. Più che qualunque altra delle sue opere, La Philosophie dans le boudoir, per la sua forma dialogica, invita un simile raccostamento: le frasi d’una raggiante oscenità che pronunziano Madame de Saint-Ange e Eugénie de Mistival, è un colmo di sogno immaginarle nella bocca di Cressida o di Rosalinda durante l’esaltazione del piacere». Ora non si vorrà negare che, trasportata sulla scena, la Philosophie dans le boudoir possa offrire uno spettacolo anche più riuscito di quello allestito da Giuliano Vasilicò per Le 120 giornate di Sodoma. I sintagmi erotici potrebbero rendersi in figure di danza da disgradarne i gruppi di bronzo e di marmo di Francesco Bertos e le marmoree piramidi di guizzanti figurette del suo seguace Agostino Fasolato, di cui scriveva Herman Melville nel suo diario di viaggio, durante il soggiorno a Padova: «Al Palazzo Papafava a vedere Satana e la sua legione: intricato come un mucchio di vermicelli». Ma perché poi Shakespeare? Non bastano Io e lui di Moravia, Il protagonista di Luigi Malerba, Portnoy’s Complaint di Philip Roth, per trovare le sorelle nella decadente opera consumistica delle scatenate marquises della decadente società aristocratica settecentesca?

    Che mai avrebbe detto Thomas De Quincey se avesse letto Sade, lui che faceva dell’ironia moralistica sulle «abbominevoli» licenziosità del Wilhelm Meister de Goethe! «I nostri cervelli inglesi son presi da vertigini al pensiero dei cicli e degli epicicli, dei vortici, delle curve osculatorie, che descriverebbero» le coppie a catena ricordate in un discorso di Filina («Aurelio insegue il suo infedele garzone, tu lei, io te, il fratello di lei me» – situazione che il Goethe stesso può aver preso proprio da un’opera inglese, né più né meno che il Sogno d’una notte d’estate, e qui la citazione shakespeariana calza).

    E che spettacolo da Folies Bergère avrebbe potuto offrire il tableau seguente: «Montre à mesyeux ce chef-d’oeuvre, Augustin…» – è Dol-mancé che parla – «que je le baise et caresse un quart d’heure! Viens, bel amour, viens, que je me rende digne, dans ton beau cul, des flammes dont Sodome m’embrase. Il a les plus belles fesses… les plus blanches! Je voudrais qu’Eugénie, à genoux, lui suçât le vit pendant ce temps-là! Par l’attitude, elle exposerait son derrière au chevalier qui l’enculerait, et Mme de Saint-Ange, à cheval sur les reins d’Augustin, me présenterait ses fesses à baiser; armée d’une poignée de verges, elle pourrait au mieux, ce me semble, en se courbant un peu, fouetter le chevalier, que cette stimulante cérémonie engagerait à ne pas épargner notre écolière (La posture s’arrange). Oui, c’est cela; tout au mieux, mes amis! en veritè, c’est un plaisir de vous commander des tableaux; il n’est pas un artiste au monde en état de les exécuter comme vous!».

    Dolmancé mette nel montaggio di queste piramidi umane tutto l’impegno che un pâtissier pittoresque metterebbe nella decorazione di un gâteau:

    «Il me semble qu’il devrait entrer deux ou trois vits de plus dans le tableau que vous arrangez, madame; la femme que vous placet comme vous venez de le dire ne pourrait-elle pas avoir un vit dans la bouche et un dans chaque main?

    Mme De Saint-Ange: Elle en pourrait avoir sous les aisselles et dans les cheveux, elle devrait en avoir trente atour d’elle s’il était possible; il faudrait, dans ces moments-là, n’avoir, ne toucher, ne dévorer que des vits autour de soi, être inondée par tous au même instant où l’on déchargerait soi-même.

    Così l’educanda e già espertissima Eugénie, che può immaginarsi simile alla fanciulla della Cruche cassée di Greuze, vien trasformata in una sorta di Diana d’Efeso, circondata da membri virili anziché da mammelle, e tutti zampillanti a mo’ di barocca fontana. La composizione di questi quadri viventi fa pensare, oltreché al Bertos e al Fasolato, all’Arcimboldi, che combinava un impasto dei corpi degl’innocenti a formare il volto di Erode.

    A proposito di crudeltà osserva Gilbert Lely che di tutte le opere di Sade questa è d’assai la meno crudele: eccetto che nelle ultime pagine, dove si assiste al supplizio di Mme de Mistival, l’emozione erotica provata dal lettore non si trasforma mai in terrore, come all’aspetto degli orribili tableaux della Nouvelle Justine e di Juliette. Capovolgendo la premessa rousseauniana della benignità della Natura, il Sade si rappresenta una Natura assetata di distruzione, per seguire le cui leggi è necessario distruggere: così facendo le si offre materia per le sue ricostruzioni. Di che colpa si macchia l’assassino? Che valore possono avere, per la Natura, degli individui che non le costano la minima pena e la minima cura? Non avendo la possibilità di annientare le opere della natura, la sola cosa che facciamo, abbandonandoci alla distruzione, è di operare una variazione nelle sue forme. «La Natura» dichiara un passo di Justine – «marcia rapidamente al suo fine, dimostrando ogni giorno a coloro che la studiano che essa non crea che per distruggere, e che la distruzione, la prima delle sue leggi, perché senza questa essa non giungerebbe a creazione alcuna, le piace assai più che la propagazione, che una setta di filosofi greci chiamava con molta ragione il risultato degli assassina». E altrove: «La Natura non può riprodursi che attraverso distruzioni… Bisogna che si conservi l’equilibrio e questo può solo avvenire per mezzo dell’assassinio». E ancora: «Come l’astro sublime, il sole, è il rigeneratore dell’universo, così l’assassinio è il centro di tutti i fuochi morali che si accendono».

    Tale è il cardine della vicenda prolissamente narrata in Justine, di cui questa è la premessa:

    «È, non lo celiamo più, a sostegno di questi sistemi, che noi abbiamo dato al pubblico la storia della virtuosa Justine. È essenziale che gli sciocchi cessino d’incensare questo ridicolo idolo della virtù, che non li ha fin qui ripagati che d’ingratitudine, e che le persone di spirito, che comunemente s’abbandonano per principio ai deliziosi trascorsi

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