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La casa dei profumi dimenticati
La casa dei profumi dimenticati
La casa dei profumi dimenticati
E-book433 pagine6 ore

La casa dei profumi dimenticati

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Info su questo ebook

Un romanzo da non perdere

Nella California degli anni Cinquanta, Caterina e Santo, un giovane italiano cresciuto con lei nella tenuta vinicola di Milles Étoiles, consumano una notte di passione dopo la quale lei si scopre incinta. Respinta dalla famiglia e dalla società per aver scelto di tenere la figlia illegittima, Caterina decide di partire per l’Italia, dove si trova il casale ricevuto in eredità da una vecchia zia. Una volta giunta a Montalcino, Caterina scopre un mondo nuovo e allo stesso tempo antico, fitto di misteri e intrighi che coinvolgono tutta la famiglia, e in particolare suo padre Luca e lo stesso Santo. Tra l’armonia delle colline toscane, i lussureggianti vigneti della California e la magia della Ville Lumière, prende vita una vicenda familiare intricata, ricca di passioni, segreti e verità nascoste che coinvolge e seduce fino all’ultima pagina. 

Una storia familiare intricata e appassionante, ambientata tra i vigneti della California e della Toscana, inebriante come un bicchiere di vino rosso

«Jan Moran è la nuova regina del romanzo sentimentale.»
USA Today

«Ho adorato La casa dei profumi dimenticati. Una storia assolutamente irresistibile e intrigante dall’inizio alla fine. Un romanzo da non perdere.»
New York Times
Jan Moran
Si è laureata presso la Harvard Business School e ha frequentato le Università di California e Los Angeles studiando narrativa, saggistica e sceneggiatura. È autrice di numerosi romanzi bestseller tra cui Scent of Triumph e Fabulous Fragrances. La casa dei profumi dimenticati è il primo romanzo tradotto in Italia.
LinguaItaliano
Data di uscita15 mar 2016
ISBN9788854194236
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    Anteprima del libro

    La casa dei profumi dimenticati - Jan Moran

    EN1234-la-casa-dei-profumi-dimenticati-jan-moran.jpg

    1234

    Questo libro è un’opera di fantasia.

    Nomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell’immaginazione dell’autrice o sono usati in maniera fittizia.

    Qualunque somiglianza con fatti, luoghi o persone, reali, viventi o defunte è del tutto casuale.

    Titolo originale: The Winemakers

    Copyright © 2016 by Jan Moran.

    First published in the United States of America by St. Martin’s Press, 175 Fifth Avenue, New York, N.Y. 10010

    All rights reserved.

    Traduzione dall’inglese di Anita De Stefano e Marta Lanfranco

    Prima edizione ebook: giugno 2016

    © 2016 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-9423-6

    Realizzazione a cura di The Bookmakers Studio editoriale, Roma

    www.newtoncompton.com

    Jan Moran

    La casa dei profumi dimenticati

    Newton Compton editori

    Indice

    Capitolo 1

    Capitolo 2

    Capitolo 3

    Capitolo 4

    Capitolo 5

    Capitolo 6

    Capitolo 7

    Capitolo 8

    Capitolo 9

    Capitolo 10

    Capitolo 11

    Capitolo 12

    Capitolo 13

    Capitolo 14

    Capitolo 15

    Capitolo 16

    Capitolo 17

    Capitolo 18

    Capitolo 19

    Capitolo 20

    Capitolo 21

    Capitolo 22

    Capitolo 23

    Capitolo 24

    Capitolo 25

    Capitolo 26

    Capitolo 27

    Capitolo 28

    Capitolo 29

    Capitolo 30

    Capitolo 31

    Capitolo 32

    Capitolo 33

    Capitolo 34

    Capitolo 35

    Capitolo 36

    Nota dell’autrice

    1

    Agosto, 1956

    San Francisco, California

    «F irmi qui, signorina Rosetta». L’avvocato fece scorrere dei documenti battuti a macchina sulla sua enorme scrivania in quercia. Nella mano tesa e nodosa, piena di macchie senili, teneva un’appuntita penna stilografica color madreperla.

    Seduta dall’altra parte della scrivania, Caterina si toccava nervosamente il collo sudato. Come posso farlo?. Quella penna avrebbe potuto tranquillamente essere un pugnale nel cuore.

    Caterina si sventolò con un ventaglio in carta di fiori di ciliegio comprato a Chinatown.

    Dov’è andata a finire la brezza della baia di San Francisco?. Era una giornata terribilmente umida, tanto rovente da rallentarle i pensieri. O forse era solo una scusa per non prendere la decisione per cui le mancava il coraggio?

    Rovistò nella borsa e tirò fuori un fazzoletto stropicciato su cui aveva ricamato le sue iniziali.

    Il lino aveva il dolce profumo di latte della sua bimba di un anno. Marisa. Si asciugò scollatura e viso, cercando di rimandare l’inevitabile. Sistemò fazzoletto e ventaglio sulla leggera gonna di lana e cercò di calmarsi.

    Nell’altro ufficio il ritmo discontinuo di una macchina per scrivere la stava facendo impazzire, ogni battuta un colpo alla sua stabilità mentale.

    «Signorina Rosetta, dobbiamo risolvere questo come prima cosa, i miei clienti stanno per perdere la pazienza». Harold Exeter raddrizzò il busto sbilenco e si fermò in piedi alle sue spalle. «Ho bisogno della sua firma oggi».

    Oggi.

    Quello era l’ultimo giorno con sua figlia. L’indomani mattina, Caterina avrebbe abbracciato Marisa, e poi l’avrebbe baciata e salutata per l’ultima volta. Le si strinse la gola e prese ad ansimare.

    Mandò giù il groppo che aveva in gola e si sforzò di sollevare il polso che si era fatto pesantissimo, ma non ci riuscì.

    In preda all’orrore si accorse che l’avvocato le aveva afferrato la mano, le aveva avvolto le dita tremanti attorno alla penna e l’aveva posata sul contratto. Con l’altra mano le bloccava le spalle. All’improvviso l’aria nell’ufficio divenne pesante. Respirava a fatica.

    La stretta ossuta dell’avvocato sulla sua mano si irrigidì. «Ha già accettato la loro offerta».

    Sì, lo aveva fatto. Ciò nonostante si liberò dalla sua presa, gettò la penna e spinse via i documenti come fossero contaminati. L’inchiostro scuro schizzò come vino sulle pagine ordinate che minacciavano di distruggere l’unica gioia della sua vita.

    «È perché vuole più denaro?». La voce del signor Exeter aveva un’acutezza che non aveva notato prima.

    Caterina afferrò la sua borsa, tirò fuori l’assegno spiegazzato dell’avvocato e lo lanciò sulla scrivania.

    «Non ho mai voluto i soldi che mi avete dato», urlò. Sconvolta, si coprì il volto con le mani e cominciò a singhiozzare.

    «Quell’assegno era per le spese mediche e l’affitto». L’avvocato spostò il peso da un piede all’altro mentre aspettava che lei riprendesse il controllo. Era già successo una volta, e lui aveva aspettato con calma su una sedia lì accanto. I suoi modi si ammorbidirono.

    «Signorina Rosetta, sono padre e nonno. Mi rendo conto di quanto sia difficile per lei. Ma l’adozione è la miglior alternativa. Se ama sua figlia, perché condannarla a una vita di vergogna?».

    Gli occhi di Caterina si fecero lucidi e un gemito le sfuggì dalle labbra. Non c’era nulla che potesse fare per Marisa. Eppure l’istinto materno e la ragione lottavano dentro di lei.

    «Vuole che porti il peso dell’illegittimità per tutta la vita?». Fece una pausa. «Non lasci che sia sua figlia a pagare per i suoi sbagli. Ha bisogno di una famiglia».

    Caterina era d’accordo. E aveva anche cercato di farlo, eppure non ci riusciva. Faith, la donna gentile che gestiva la piccola casa per ragazze madri dove aveva vissuto, l’aveva avvertita. Più tempo avesse fatto passare prima di affidare la sua bambina, più difficile sarebbe stato.

    Ma Caterina sapeva, senza ombra di dubbio, che quella era la scelta migliore per Marisa. E tuttavia non riusciva a farsene una ragione. Stringendo il fazzoletto, si asciugava le lacrime che le scendevano dagli occhi. «Devo incontrarli».

    «Cosa?»

    «La nuova… coppia», riuscì a dire, invece di genitori. Le venne la pelle d’oca.

    «Temo che non sia possibile».

    Caterina infilò ventaglio e fazzoletto nella borsa, e si alzò di scatto dalla sedia.

    Immediatamente il signor Exeter le bloccò il braccio con una mano. «Va contro le regole».

    Scosse la testa brizzolata, come se fosse la peggior cosa da fare. «Ma posso chiedere».

    Diede un’occhiata all’orologio. «Non ci rimane molto tempo. Ha intenzione di firmare i documenti oggi?».

    Caterina si morse le labbra. «Se loro mi piaceranno».

    «Mia cara, sono persone eccezionali. Dovrebbe invece chiedersi Ameranno e si prenderanno cura di mia figlia?. Le posso assicurare che lo faranno. Ad ogni modo, proverò a fargli questa insolita richiesta. In ogni caso, per testimoniare la sua buona fede, è necessario che lei prima firmi». Raccolse i documenti. «Se aspetta alla reception le porterò la prima pagina pulita».

    Caterina si sentiva soffocare. «Ho bisogno di prendere una boccata d’aria, aspetterò fuori».

    Una volta uscita, avanzò con fatica e si appoggiò al muro di un edificio di mattoni inspirando l’aria densa di umidità. Osservò il vapore che saliva in ondate dal pavimento. Quella terribile calura estiva assomigliava alla temperatura della Napa Valley, ottima per far maturare l’uva, ma rarissima a San Francisco.

    Sebbene avesse un buon lavoro in città, le mancava la splendida vista dell’alto vigneto della madre, il profumo della ricca terra di campagna, perfetta per produrre il vino migliore, e il cinguettio degli uccelli nella fresca brezza della sera. Era cresciuta al vigneto, era un ottimo posto per un bambino.

    Ma lei non poteva farvi ritorno con Marisa. Illegittima. Perché la società puntava tutto il suo odio su una bambina innocente? Perché le famiglie dovevano essere derubate dei loro preziosi bambini, in nome del decoro?

    Marisa. Improvvisamente Caterina ebbe un’idea. Si asciugò le lacrime salate dalle guance.

    Sentì un brivido percorrerla. Marisa ha bisogno di me. Come in uno stato di trance si voltò e cominciò ad andare verso la macchina.

    Dentro di sé sapeva che la cosa più logica da fare era aspettare lì e firmare i documenti per l’adozione. «È la cosa migliore», le aveva detto Faith la mattina in cui aveva lasciato la casa per ragazze madri. Caterina aveva annuito. Non era una di quelle giovani donne che soccombono di fronte al proprio dovere, per quanto duro. Alla casa per ragazze madri aveva visto altre giovani donne dare in adozione i figli appena qualche ora dopo averli partoriti. Alcune ragazze avevano sofferto come avessero il cuore spezzato, mentre altre resistevano con coraggio, felici di essersi liberate del prodotto di uno stupro o di un incesto. In ogni caso aveva visto lacrime e dolore impressi sul volto di tutte quelle donne dopo aver consegnato i loro minuscoli bambini a un’infermiera, con la consapevolezza che non li avrebbero rivisti mai più. Non ne avrebbero più sentito il battito contro il petto durante la notte, non avrebbero visto il loro primo adorabile sorriso, né ascoltato la prima volta in cui avrebbero pronunciato il nome: «Mam-ma».

    I loro singhiozzi disperati le risuonavano ancora nelle orecchie.

    C’è qualcosa di terribilmente sbagliato in tutto questo. Con il cuore in gola, Caterina accelerò il passo, sfiorando la gente sul marciapiede affollato.

    Tanto per cominciare, non aveva intenzione di dare Marisa in adozione, e sperava di sentire la stessa cosa dal padre della bambina, ossia dall’uomo che amava. Prega per un miracolo.

    «Hai aspettato troppo», le aveva detto Faith qualche mese prima. «Devi prendere una decisione per il bene della bambina».

    Caterina annusò l’aria, in cerca del profumo del temporale. Le nuvole oscurarono il sole.

    «Scusate». Spintonò un gruppo di studenti che passeggiava. Scese dal marciapiede e schivò un taxi che girava l’angolo. Le si strinse il cuore. La macchina era parcheggiata nell’isolato successivo, giù lungo la collina. Si tolse la giacca e cominciò ad allungare il passo.

    Respirando a fatica aumentò la velocità. Doveva raggiungere Marisa. Era istinto materno? Ormai agitata, Caterina corse giù per la strada ripida con la borsa che le sbatteva sul fianco e i tacchi alti che risuonavano contro il marciapiede.

    Raggiunse l’auto e spalancò lo sportello della sua Chevrolet Bel Air turchese con il retro affusolato e il paraurti con le alette. La madre le aveva dato quell’auto quando si era trasferita a san Francisco per frequentare il college. Girò la chiave nel blocchetto di accensione e schiacciò l’acceleratore. Doveva raggiungere Marisa il più presto possibile. Non sapeva perché, ma sapeva che era urgente.

    Un’enorme goccia di pioggia cadde sul parabrezza, poi un’altra e un’altra ancora. Caterina azionò i tergicristalli e spinse la grande berlina più veloce che poteva per le strade della città. Quando arrivò alla casa per ragazze madri, la pioggia cadeva abbondante sulla macchina.

    Parcheggiò lungo la strada, corse nella pioggia superando le vecchie case vittoriane, che fiancheggiavano la strada simili a tanti colorati macarons. Girato l’angolo, si precipitò su per le scale e passò sotto un arco intagliato e dipinto di fresco in giallo limone, verde menta e blu fiordaliso. L’ansia le stringeva la gola. Spalancò la porta e salì a passi pesanti i gradini, lasciando una scia di acqua sulla traiettoria.

    Poi afferrò la maniglia della porta della nursery della vecchia casa affacciata sulla baia. Una mezza dozzina di box con dentro i bambini delineavano il perimetro della stanza. Disegni di giraffe, scimmie ed elefanti decoravano le pareti, e la prendevano in giro con le loro espressioni allegre. Marisa cercava di tirarsi su attaccata al bordo del box, traballando sulle piccole gambe robuste. Una coppia ben vestita di mezza età stava accanto al suo box e le parlava dall’alto.

    «Cosa state facendo?», chiese Caterina, scostandosi i capelli umidi dalla fronte. Sono arrivati troppo presto. La paura si impadronì di lei. Non era pronta.

    Faith O’Connell le si avvicinò con un’espressione imbarazzata sul viso arrossato. «Questi sono il signore e la signora Anderson. Volevano venire oggi mentre non c’eri. Sei tornata prima», aggiunse con tono di scuse, mentre armeggiava con il primo bottone del grembiule verde a quadretti.

    Una donna con dei capelli biondi pettinati e curati si voltò di scatto e gelò Faith con lo sguardo. «Avevi detto che non ci sarebbe stata». Poi spostò lo sguardo fulminante su Caterina. Le labbra le si strinsero in un’espressione di disprezzo non appena sia accorse che Caterina aveva le scarpe bagnate e i capelli umidi.

    Caterina si scostò le ciocche umide attaccate alle guance arrossate. Si liberò della stretta di Faith, ma prima che potesse raggiungere Marisa la signora Anderson prese la bambina.

    Caterina ebbe un tuffo al cuore.

    «Come stai, piccola?», sussurrò la donna mentre baciava Marisa sulla guancia. «Ti piacerebbe venire a casa nostra?».

    Il labbro inferiore di Marisa cominciò a tremare e i suoi occhi cercarono Caterina.

    «Si allontani da lei, sono io la madre». Caterina, in preda alla rabbia, attraversò la stanza a grandi passi con l’intenzione di strappare la sua splendida bambina con i capelli scuri dalle braccia pallide della donna.

    Il signor Anderson indossava un abito color carbone e aveva un’espressione severa. «Siamo qui per adottare la piccola. Possiamo offrirle una vera casa. Non vuole fare ciò che è meglio per lei?».

    Caterina strappò la figlia alla donna e se la strinse al petto. Diede le spalle alla coppia, per riparare Marisa dai loro occhi indiscreti. Non poteva lasciarla andare. «Sto già facendo ciò che è meglio per lei».

    Si era agitata e agitava i riccioli rossi. Faith le si avvicinò. «Un bambino ha bisogno di un padre e di una madre, cara».

    «Volevamo una bimba con i capelli biondi, ma prenderemo lei», disse la signora Anderson. «Ha un sorriso così carino e gli occhi blu più brillanti che abbiamo mai visto».

    «Ed è dolce» aggiunse il marito. «Abbiamo adottato un maschio l’anno scorso, e questa bimba è per mia moglie. Oggi è il suo compleanno».

    Caterina era livida di rabbia. «Un bambino non è un regalo di compleanno. E sicuramente non lo è mia figlia».

    «Il signor Exeter ci ha assicurato che avremmo trovato una soluzione». Il signor Anderson agitò un dito per aria. «Deve ragionare. Come farà a prendersi cura di lei?», disse mentre la guardava con disprezzo.

    «Ho studiato al college e ho un buon lavoro», disse con orgoglio Caterina. «Sono sommelier al St Francis Hotel».

    «Quindi una specie di barista?». La signora Anderson socchiuse gli occhi e si ritrasse con disgusto.

    «Sono sicuro che ti sbagli. Nessun posto assume un sommelier donna».

    Caterina ignorò l’insulto. «In ogni caso non darò mia figlia in adozione, e questo è deciso». Marisa cominciò a piangere percependo il suo nervosismo e Caterina le batté sulla schiena. «Non è nulla, amore mio, la mamma è qui».

    «Oh, cara», disse Faith torcendosi le mani. «Dovete capire che la signorina Rosetta è sconvolta».

    «Rosetta? Ah, un’italiana passionale. Ora si spiega tutto». La donna osservò Caterina. «Vieni, Fred, non credo che questa bambina vada bene per noi dopotutto. Probabilmente crescerà e diventerà capricciosa come la madre».

    «Fuori», disse Caterina a denti stretti.

    La donna afferrò la sua grande borsa di pelle e oltrepassò Caterina, i suoi tacchi appuntiti risuonarono sul pavimento di legno interrompendo il pianto di Marisa.

    Il marito le stava dietro mentre guardava torvo Caterina. «Sappia che ci ha rovinato il compleanno. E che si pentirà di questa decisione».

    Dopo che gli Anderson se ne furono andati in preda alla rabbia, Caterina cominciò a piangere. Cullava Marisa tra le braccia per calmarla.

    Faith cominciò: «Mia cara, devi pensare al bene di Marisa. Ha un anno ormai. Se aspetterai ancora sarà molto difficile affidarla a una nuova famiglia. Gli Anderson erano brave persone. L’avrebbero cresciuta con amore».

    «Anch’io la amo. Basto io per lei».

    «Devi guardare in faccia la realtà. Una ragazza adorabile come te può ricominciare e sposare un bravo ragazzo. Nessun uomo vuole il figlio di un altro». Faith fece una pausa. «Non hai più saputo nulla del padre?».

    Il padre. Caterina scosse la testa, sentiva che il suo cuore aveva sopportato anche troppo.

    Per anni erano stati migliori amici d’infanzia, felici di stare insieme, complici. Poi in tempi recenti, diventati adulti, avevano ceduto a quella nuova passione. Ma ormai Marisa era tutto ciò che rimaneva del loro desiderio. «Mia madre era vedova e mi ha cresciuta da sola. Posso farlo anch’io».

    «La società considera in modo diverso una vedova e una ragazza madre. Pensa all’umiliazione. È questo quello che vuoi per tua figlia?».

    Caterina guardò la bambina. Le lacrime si erano asciugate e le era spuntato un sorriso sul volto. Il cuore di Caterina si sciolse come miele dolce. Gli intensi occhi blu della sua bimba erano rotondi e innocenti, e identici a quelli del padre. Non poteva lasciarla andare. Marisa era tutto ciò che le restava dell’uomo che avrebbe amato per sempre. «Lei resta con me».

    «Vogliamo solo il meglio per te». Faith sospirò.

    Caterina riempì Marisa di baci, felice di essere arrivata in tempo. Faith e Patrick O’Connell erano molto corretti con le ragazze madri che andavano da loro, e Caterina sapeva che non avrebbero mai permesso agli Anderson di prendere Marisa senza il suo permesso – a differenza di altre soffocanti case famiglia che conosceva – e tuttavia il solo pensiero che degli estranei potessero ronzare attorno a Marisa le diede la nausea.

    Caterina si ripromise di non lasciare mai più che qualcuno provasse a portarle via Marisa. Avrebbe fatto tutto il possibile per tenere la bambina e, per quanto le riguardava, la cosiddetta società e i suoi odiosi pregiudizi potevano andare dritti all’inferno.

    «Non è che non amiamo te e Marisa». L’espressione di Faith era sincera. «Ma hai esaurito tutte le possibilità, cara».

    Marisa socchiuse gli occhi e guardò Faith. Quelle parole le facevano male. Faith in passato era stata una suora, e la sua missione nella vita era essere al servizio degli altri. Ma Caterina semplicemente non riusciva ad affrontare quel dilemma.

    Così chiuse gli occhi e si godette il calore e il peso del corpo di Marisa contro il suo. Il suo dolce profumo di talco le regalava sempre una ventata di gioia, ma quel giorno si sentiva a pezzi. Una ciocca di ondulati capelli neri, morbidi come le piume di un anatroccolo, si posò sulla guancia olivastra di Marisa. Caterina accarezzò delicatamente con le dita la pelle della sua bimba. «La mia preziosa bambina», sussurrò. Marisa chiuse gli occhi e si strinse al suo petto. Caterina le accarezzò i capelli, soffocando un lamento. Come ho potuto pensare di lasciarla?

    Faith le poggiò una mano sulla spalla. «Se non vuoi darla in adozione, perché non torni a casa nel vigneto a Napa? Forse tua madre si addolcirà conoscendo Marisa».

    Caterina scosse la testa con forza. «Tornare a casa a Mille Étoiles sarebbe un disastro. Mia madre non mi perdonerà mai». Anni prima, quando Caterina era diventata donna, era stata messa in guardia dalla madre riguardo ai guai che una ragazza poteva combinare. Sesso prima del matrimonio, gravidanza, figli illegittimi. Decisamente imperdonabili. Le parole della madre le risuonavano nelle orecchie. Aveva sentito i suoi rimproveri migliaia di volte. «Ti rinnegherò se dovessi mai combinare qualcosa del genere. Solo la feccia si comporta in questo modo. Quel genere di ragazze poi devono dare i loro figli in adozione, è l’unica cosa dignitosa da fare. Non c’è nulla di peggio che essere costretti a sposarsi».

    Faith accarezzò Marisa e le baciò la fronte. «Se solo tua madre potesse vedere questi occhi felici che la fissano. Penso che se ne innamorerebbe all’istante, non credi?»

    «Tu non hai idea del rancore che può serbare Ava Rosetta». Caterina si accigliò. Sembrava che Faith volesse andare a parare da qualche parte, ma prima che Caterina potesse chiedere, Marisa la guardò e il suo cuore sobbalzò. Caterina aveva visto i brillanti occhi blu della figlia – gli occhi di lui – luccicarle alle spalle, pieni di fiducia, bisognosi, non poteva separarsi da lei. Quando aveva finalmente acconsentito a fare la cosa più ragionevole, come le chiedeva Faith, le era sembrato come se le avessero lacerato l’anima in due.

    Dare in adozione i propri figli poteva essere la giusta decisione per quelle ragazze a cui non interessava che qualcuno si prendesse davvero cura dei loro bambini, ma per lei non era la stessa cosa. Forse quelle ragazze erano più forti di lei, o forse si trovavano in una situazione disperata. Caterina avrebbe preferito strapparsi il cuore dal petto con un coltello. Era quella la sensazione che aveva provato quando le avevano chiesto di firmare i documenti per dare in adozione la figlia.

    Faith le posò la mano sul braccio. «Non devi andare a Napa questo fine settimana?».

    Caterina annuì. La madre le aveva chiesto di aiutarla a scegliere dei vini per l’organizzazione di una degustazione. Ava Rosetta era una famosa enologa con standard così alti che Caterina si era spesso chiesta come avrebbe fatto a eguagliare il livello di sua madre all’interno dell’azienda, o nella vita in generale.

    «Perché non porti anche Marisa? È casa tua».

    Perché no? Sentì il rimorso che le pungeva la base del collo. Ogni giorno che nascondeva la verità su ciò che aveva fatto, le bugie diventavano necessariamente più grandi e complesse. Era alla disperata ricerca di soldi e inventava elaborate scuse sul luogo in cui si trovava. Non avrebbe potuto continuare a lungo con quella farsa. Le sue storie erano finite in un vortice di bugie che le stava succhiando tutta l’energia. Ma oltre a questo, non era leale nei confronti di Marisa. Sapeva senza dubbio che prima o poi sarebbe arrivato il giorno in cui avrebbe dovuto scegliere tra l’amore per sua madre e quello per sua figlia. Quel terribile pensiero la tormentava.

    I riccioli rossi di Faith incorniciavano un volto lentigginoso e preoccupato. «Purtroppo tra due settimane arriverà un’altra ragazza, e avremo bisogno della tua stanza».

    Caterina ricacciò indietro le lacrime calde. «Glielo dirò questo fine settimana». Non poteva farne a meno, era arrivato il momento di pagare le conseguenze delle sue azioni. Doveva chiedere alla madre se poteva vivere a casa sua con Marisa, almeno finché il suo appartamento in subaffitto non fosse tornato disponibile. Strinse Marisa tra le braccia.

    Qualunque cosa sua madre dovesse dirle quel fine settimana sarebbe stato nulla in confronto a quello che Caterina aveva intenzione di rivelarle.

    2

    Napa Valley, California

    Ava aprì la porta di legno ad arco, e uscì dall’entrata principale del castello proprio nell’attimo in cui una brillante Corvette decappottabile rossa e bianca le sfrecciava accanto diretta verso l’uscita della tenuta, fiancheggiata da filari di altissimi cipressi italiani. Si stizzì, allarmata, Santo doveva essere venuto al cottage per far visita al vecchio cugino Raphael, che era come un padre per lui. Ha tutto il diritto di stare qui, ricordò a se stessa, ma la sua presenza la rendeva nervosa. Quantomeno non c’è Caterina.

    Mentre lo guardava, Ava fece scivolare le mani nelle tasche degli stretti pantaloni di cotone sforzandosi di sembrare indifferente. Ripensò alla discussione che avevano avuto appena due anni prima.

    Santo aveva pensato che fosse solo caparbia e intransigente, ma non sapeva quale fosse la vera ragione dietro alla sua decisione. E Ava non aveva la minima intenzione di riaprire le ferite del passato per dirglielo. Santo veniva raramente a Mille Étoiles, ma quando lo faceva loro due si tenevano a debita distanza.

    La ghiaia scricchiolò alle sue spalle e Ava si voltò.

    «Be’, che pensi di quella nuova stravagante auto?».

    Raphael camminava nella sua direzione con i pollici sotto le bretelle della salopette, la faccia abbronzata contrastava nettamente con la camicia bianca. Aveva zigomi marcati e una mascella ben definita, spalle ampie e un fisico muscoloso e atletico.

    Ava si riparò gli occhi dal sole con una mano. Appena lui le fu più vicino disse: «Bella macchina sportiva. Santo deve passarsela bene».

    «Sì». Raphael si fermò accanto a lei e le scostò una ciocca di capelli rimasta impigliata nei suoi discreti orecchini di brillanti. «Sono molto orgoglioso di lui».

    Il profumo di agrumi del bergamotto italiano lo avvolgeva come un’aura. Ad Ava piaceva quel buon profumo misto a quello della sua pelle riscaldata dal sole.

    «Lo pagano bene, e lo hanno chiamato all’università per delle conferenze sulla viticultura. Mi ha detto che stava mettendo da parte dei soldi per il futuro, ma ha avuto un’entrata inattesa e ha deciso di spenderla comprando una macchina». Raphael parlava con accento italiano, la voce baritonale risuonava nell’ampio petto.

    «È un giovane intelligente. Proprio come te». Ava gli sorrise. Come avrebbe fatto senza di lui? Valido capomastro, esperto viticoltore di Montalcino, Raphael era un esperto nella coltivazione della vite e sapeva gestire i lavoratori del vigneto. Tempo prima aveva portato con sé al Mille Étoiles il giovane Santo. A causa di suo marito, Ava si era sempre sentita in colpa nei confronti del giovane orfano.

    «Che programmi hai per oggi, Ava?»

    «Supervisionare l’organizzazione per la festa del fine settimana». Annuì in direzione dell’imponente castello di pietra alle sue spalle. Mille Étoiles era stata progettata sul modello della casa di famiglia di Ava, a Bordeaux, in Francia. «Temo che l’edera avrà la meglio se non la spuntiamo subito. Hai qualcuno disposto a domare questo disordine selvaggio?». Gli insidiosi rami dell’edera si allungavano sulle torrette gemelle, ed erano arrivati fino alle alte finestre ad arco coronate da una volta in pietra. Avrebbe ricevuto ospiti importanti quel fine settimana. Tutto doveva essere perfetto. Mille Étoiles aveva una reputazione eccezionale e Ava aveva fatto di tutto per mantenerla tale.

    «Ce ne occupiamo noi», disse Raphael. «Hai un attimo per controllare la nuova attrezzatura?»

    «Certo». Su indicazione di Raphael, Ava aveva preso una nuova diraspa-pigiatrice e qualche pressa, in vista della vendemmia imminente. «L’abbiamo pagata parecchio questa macchina. È placcata in oro?».

    «È un buon investimento, Ava».

    «Lo so». Aveva chiesto un prestito consistente per la nuova attrezzatura. «Un paio di stagioni fortunate e la ripagheremo, ma se il tempo si guasta, Mille Étoiles sarà spacciata». Troppo sole, troppa pioggia o troppo gelo rovinavano il raccolto o la qualità del vino. Fino a quel momento il tempo era stato quasi perfetto per la stagione, ma tutto poteva cambiare in un istante. Ogni anno portava una nuova serie di sfide.

    «Chi fa vino deve avere i nervi saldi del giocatore d’azzardo. E tu hai giocato bene finora».

    «Sono sempre preoccupata, Raphael». Ava ammirava il panorama. Uno strato di nebbia marina del mattino si stendeva sotto il loro osservatorio montagnoso, oscurando in parte la vallata sottostante punteggiata di campi. Passeggiarono per la proprietà, sollevando la polvere con gli stivali, fermandosi a controllare i grappoli d’uva acerbi, meglio detti bacche. Gli intricati vigneti erano curati alla perfezione.

    A quell’altitudine il rigore della natura si faceva sentire sui grappoli, le bacche di cabernet sauvignon erano sode, il loro succo intenso, e il loro livello di tannini sorprendentemente alto.

    Ava e Raphael erano abbastanza soddisfatti. Più il terreno era aspro, più aumentavano le possibilità di avere un buon vino rosso, grazie al maggiore apporto della buccia sulla polpa.

    Controllarono l’attrezzatura e parlarono con un paio di lavoratori, soddisfatti di trovarli pronti per la vendemmia, proprio come desideravano. Ava lasciò Raphael nel vigneto e tornò alla casa.

    In cucina, pentole di rame lucido e le erbe essiccate appese a travi di legno, insieme alle piastrelle dipinte a mano, decoravano le mura di pietra. Perfino nei giorni più caldi quelle spesse mura mantenevano la temperatura interna fresca.

    La domestica, una paffuta donna messicana con capelli neri e un po’ ingrigiti raccolti in una spessa crocchia sulla nuca, era al bancone a pelare patate. Alzò lo sguardo e abbozzò un sorriso.

    «Hai di nuovo mancato per un pelo quel simpatico giovanotto di New York».

    «Ho i documenti che ha lasciato». Accigliata, Ava si versò un po’ d’acqua fresca da una brocca che stava sul tavolo. Nina lavorava a Mille Étoiles fin da quando Caterina era una bambina. Sua figlia, Juliana, era cresciuta con Caterina: erano come sorelle. Ava e Nina avevano coltivato il loro rapporto fidandosi sempre di più l’una dell’altra nel corso degli anni, soprattutto durante gli anni di magra della crisi.

    «Ci credi che ha detto di non aver mai assaggiato il guacamole? Ma di sicuro gli è piaciuto il mio». Il volto di Nina si illuminò di orgoglio.

    «Ha detto cosa voleva?». Non aveva voluto parlare con quell’investigatore. Dopo la prima visita, Ava aveva ignorato le sue chiamate. Si portò il bicchiere alle labbra. Caterina non doveva saperlo.

    «Ha detto che non aveva bisogno di parlarti di nuovo». Nina inclinò la testa in direzione di un biglietto da visita sul bancone. «Ha lasciato il suo biglietto da visita per Caterina. Ha detto qualcosa a proposito di un’eredità da parte della famiglia del padre. Non è fantastico?».

    Ava alzò le spalle, fingendo disinteresse. «Non credo che sarà un granché. Ma glielo dirò domani, quando arriva». Fece scivolare il bigliettino nella tasca e cambiò argomento. «Come procedono i preparativi per la festa?».

    «Non ti preoccupare, sarà tutto pronto», rispose Nina con un sorriso. «Sarà bello rivedere Caterina. Non abbiamo più sue notizie da un po’».

    Ava bevve un sorso d’acqua. Sperava che Caterina volesse ritornare a casa. Sperava che un giorno sarebbero stati lei e suo marito a occuparsi di Mille Étoiles.

    «Ted e i suoi genitori stanno arrivando», disse Ava. Ted e Caterina erano stati insieme quando frequentavano il college. Tutti pensavano che il loro matrimonio fosse già cosa fatta, ma inaspettatamente Caterina lo aveva lasciato. In seguito, era sempre stata vaga riguardo alle ragioni della rottura. Ava si chiedeva ancora perché non si fosse confidata con lei.

    Nina la guardò sorpresa. «Caterina sa che Ted sta venendo qui?»

    «Non ancora. Ma Ted è ancora pazzo di lei. Credo che fosse restia all’idea del matrimonio. Ma adesso che lavora, forse ha avuto il tempo di riflettere sulla questione». Quando la madre di Ted le aveva rivelato che lui aveva lasciato l’ennesima fidanzata e che parlava ancora di Caterina, Ava aveva cominciato a pensare di farli tornare insieme.

    Sperava che Caterina e Ted ricominciassero da dove si erano interrotti, per cui non era necessario un lungo fidanzamento. Ava sorrise tra sé. Caterina sarebbe rimasta incinta subito, e lei sarebbe diventata nonna. Sperava in una casa piena di bambini. A quel punto, il suo lavoro poteva dirsi compiuto.

    Nel frattempo, doveva bloccare quell’investigatore. Caterina non aveva bisogno di nulla dall’Italia.

    Dopo cena, Ava andò in camera da letto. Temeva che l’investigatore di New York non si sarebbe arreso. Ogni giorno pensava a come risolvere la questione.

    Si sedette davanti all’antico scrittoio francese. Aprì un cassetto e prese uno spesso foglio di carta da lettere color crema che aveva in rilievo l’impronta stellata della vite di Mille Étoiles. Scriverò all’avvocato per quanto riguarda il testamento, pensò stirando le labbra. Farò in modo che l’eredità di Caterina venga considerata nulla.

    Fuori dalla finestra della camera da letto la luna piena accendeva il cielo con una luce argentea che si rifletteva sulla sua scrivania. Ava sospirò. Caterina aveva tutto il diritto di essere arrabbiata. Eppure, se non avesse saputo la verità, non avrebbe sofferto.

    Come aveva sofferto lei.

    Ava aveva protetto Caterina dal dolore e dall’angoscia fin dal giorno della sua nascita. Perché mai Caterina – una giovane donna bella e moderna con tutta la vita davanti – avrebbe dovuto preoccuparsi di qualcosa che era accaduto tanto tempo addietro? In America, ognuno poteva cambiare la sua vita, al riparo dagli occhi degli antenati.

    E dai loro errori.

    La sua lucida penna stilografica volteggiava sulla carta. Caterina era venuta al mondo con un’ardente curiosità nei luminosi occhi verdi screziati d’oro. Dopo mamma e papà, le sue prime parole erano state domande. Perché? Dove? Come?

    Era dovere di Ava, in quanto madre, preoccuparsi di aiutarla a vivere la sua vita. Si passò una mano sul volto. Essere una ragazza madre era stata una sfida.

    Ava guardò fuori e vide Vino, uno dei maremmani di Santo, correre in cerchio e comportarsi in modo strano. Probabilmente aveva fiutato un topo che gironzolava per i campi.

    Ava realizzò a malincuore che era troppo tardi per annullare l’eredità di Caterina. Posò la penna e si massaggiò la mano che le doleva. Lavorare al vigneto era pesante. Caterina aveva lavorato con lei fin quando non era

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