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Hitler. L'ascesa al potere
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E-book529 pagine7 ore

Hitler. L'ascesa al potere

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Info su questo ebook

Un'opera fondamentale

Un grande documento storico

L'ascesa del dittatore, raccontata attraverso lo sguardo di chi l'ha vissuta

Come si viveva in Germania mentre il Paese scivolava nel suo periodo più buio? Come giudicarono e interpretarono l’ascesa di Hitler gli stranieri che furono testimoni delle atrocità del nazismo?

Andrew Nagorski – noto giornalista e politologo statunitense, già autore di autorevoli saggi sulla seconda guerra mondiale – tratteggia il passaggio dalla Repubblica di Weimar al Terzo Reich attraverso le testimonianze di diplomatici, militari, intellettuali, atleti americani che si trovavano all’epoca in Germania. Tra oppositori del nazismo e qualche sporadico sostenitore, tra spie dell’occidente e osservatori casuali, nella straordinaria galleria di personaggi descritta da Nagorski possiamo ritrovare, ad esempio, lo scrittore Thomas Wolfe, il famoso aviatore Charles Lindbergh e il grande atleta Jesse Owens. Ognuno con una storia unica da raccontare, che merita di essere conosciuta perché i tragici errori del passato non possano più ripetersi.

Tradotto in 8 Paesi

Un libro unico, un'opera fondamentale

«Un affascinante resoconto di una fase storica cruciale.»

Henry Kissinger

«Andrew Nagorski ha scritto una cronaca avvincente. Il lettore resterà sconvolto a conoscere la facilità con cui la situazione precipitò allora.»

The Economist

«Uno studio appassionante di un periodo reso ancor più interessante dall’analisi retrospettiva.»

Kirkus Reviews

«Affascinante.»

Washington Post

Andrew Nagorski

Giornalista pluripremiato, attualmente è vicepresidente e direttore della sezione politiche pubbliche dell’EastWest Institute, un think-tank con sede a New York. Nella sua lunga carriera giornalistica, ha lavorato per anni al «Newsweek», guidando le redazioni estere di Hong Kong, Mosca, Roma, Bonn, Varsavia e Berlino. È autore di diversi libri, tra cui ricordiamo The Greatest Battle.
LinguaItaliano
Data di uscita8 apr 2014
ISBN9788854166608
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    Anteprima del libro

    Hitler. L'ascesa al potere - Andrew Nagorski

    234

    Titolo originale: Hitlerland. American Eyewitnesses to the Nazi Rise to Power

    All rights reserved

    Copyright © 2012 by Andrew Nagorski

    Traduzione dall’inglese di Daniele Ballarini

    Prima edizione ebook: aprile 2014

    © 2014 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-541-6660-8

    www.newtoncompton.com

    Edizione digitale a cura di Librofficina

    Progetto grafico: Carol Gullo

    Realizzazione: Alessandro Tiburtini

    Foto © Thinkstock

    Andrew Nagorski

    Hitler

    L’ascesa al potere

    Per la generazione più giovane:

    Christina, Katia, Maia, Sydney, Caye e Stella,

    e come sempre,

    per Krysia.

    Introduzione

    Fra tutti gli americani che inviarono articoli e dispacci dalla Germania fra le due guerre mondiali, nessuno era più adatto al compito di Sigrid Schultz. Nata a Chicago nel 1893 da genitori di origine norvegese, a partire dagli otto anni trascorse in Europa gran parte della sua giovinezza. Suo padre era un celebre pittore che viveva perlopiù a Parigi, e ciò la portò a frequentare scuole francesi. Quando gli commissionarono il ritratto del re e della regina del Württemberg, Sigrid dovette frequentare per diversi mesi le scuole tedesche, il che le permise di imparare la lingua nazionale e di capire precocemente atteggiamenti e comportamenti teutonici.

    «Allora erano pochi i pittori che venivano invitati presso le corti germaniche e le altre ragazzine cercavano di essere gentili con me», rammentava Sigrid. «Però era evidente che non essere tedeschi era un difetto. Tutti gli stranieri che non si facevano abbagliare e impressionare dalla Kultur o dall’efficienza locale erano, nel migliore dei casi, oggetto di commiserazione».

    Poi studiò diritto internazionale alla Sorbona, dopodiché si trasferì a Berlino coi genitori. In quel periodo assistette agli eventi della prima guerra mondiale dalla parte degli sconfitti. Nel 1917, quando gli Stati Uniti entrarono nel conflitto, doveva recarsi ogni giorno col padre e la madre al posto di polizia per registrarsi come «stranieri nemici», anche se le permettevano di proseguire i corsi all’università berlinese. Nel primo dopoguerra, venne assunta dal «Chicago Tribune» e cominciò a collaborare insieme al corrispondente, Richard Henry Little, stupito dalle sue abilità linguistiche. Comunque, poco dopo aver preso servizio, nei primi mesi del 1919, Sigrid dimostrò pure notevoli capacità giornalistiche, spartendosi le cronache con Little.

    Insieme intervistarono decine di ufficiali tedeschi per coglierne lo stato d’animo dopo la disastrosa sconfitta. Questi erano in gran parte amareggiati, ma il più contrariato era «un ometto stizzoso e sgradevole, vestito di blu scuro, che rispondeva al nome di Raeder», scrisse Sigrid. Ecco cosa disse l’ufficiale della Marina tedesca ai due giornalisti: «Voi americani non dovete essere fieri. Al massimo fra 25 anni i nostri Paesi saranno di nuovo contrapposti in una guerra. E stavolta vinceremo, perché saremo preparati meglio di voi».

    I cronisti non se la presero, anzi. «Ricordo che in quella giornata del 1919 eravamo dispiaciuti per il piccolo, vendicativo Raeder», osservò la Schultz. «Aveva preso molto male la sconfitta. Ci sembrava che si stesse rodendo per l’odio represso».

    Nel 1926 Sigrid divenne corrispondente capo del «Chicago Tribune» per l’Europa centrale, così che rimase a Berlino fino al 1941. Allora ebbe modo di far colpo sui tanti giornalisti americani, quasi tutti di sesso maschile, che si succedettero al suo fianco: la sua conoscenza del tedesco e la sua tenacia nel cercare storie interessanti erano eccezionali. In Germany Will Try It Again, il libro che scrisse e pubblicò durante la seconda guerra mondiale, ripercorse le esperienze fatte sostenendo che il rancore di Raeder era condiviso dai suoi connazionali, e anche il suo desiderio di vendicare la sconfitta nel precedente conflitto mondiale.

    Ovviamente, a quel punto Sigrid sapeva a cosa avesse condotto quel rancore, e ci possiamo chiedere se le sue conclusioni fossero dovute alla dietrologia. Eppure, nel caso dell’intervista a Raeder da lei riesumata, aggiungeva solo un commento finale per sottolineare l’accuratezza della sua previsione: «Quasi ventidue anni dopo, quando Adolf Hitler dichiarò guerra agli

    USA

    , l’uomo al comando della Marina tedesca era il grandammiraglio Erich Raeder».

    Si è scritto molto sugli americani che, nel periodo fra le due guerre, abitarono in Francia e in Gran Bretagna, e ci sono anche parecchi volumi sui loro connazionali che vissero allora in Unione Sovietica. Invece, per vari motivi, poche attenzioni si sono concentrate su quelli che risiedettero, lavorarono o viaggiarono in Germania al tempo in cui Hitler stava progettando di prendere il potere, per fondare poi il Terzo Reich. La Schultz e i suoi colleghi sono stati pressoché dimenticati. Oppure li si ricorda, come il diplomatico George Kennan, ma non per le loro esperienze tedesche. La parte della vita che passarono in Germania è stata oscurata da altri periodi delle loro esistenza per cui divennero famosi: nel caso di Kennan, la sua importante opera nella conduzione della Guerra Fredda coi sovietici, come la volevano i presidenti che si succedettero a capo degli

    USA

    .

    Di conseguenza, gli americani finiscono spesso per avere l’impressione che il crollo della Repubblica di Weimar e la successiva caduta nel terrore nazista, fino al precipitare nella guerra, siano avvenuti in uno strano e isolato Paese. Pochi si soffermano a chiedersi chi erano gli statunitensi che poterono testimoniare direttamente, sul posto, gli eventi che stavano accadendo, e come li percepivano e riferivano, sia tra chi doveva farlo per lavoro sia come semplici, curiosi turisti. Né ci si chiede quale impatto ebbero i loro resoconti sull’idea che gli americani si fecero allora della Germania.

    Oggi si ritiene generalmente che le intenzioni di Hitler fossero perfettamente chiare fin dall’inizio e che la sua politica non avrebbe potuto che sfociare nella seconda guerra mondiale e nell’Olocausto. Molti non riescono a immaginare che negli anni Venti, e per buona parte del decennio seguente, i giornalisti, i diplomatici, gli artisti, i sociologi, gli studenti, e altri americani che vissero o transitarono nel Paese tedesco, non potessero accorgersi subito di quanto stava succedendo sotto i loro occhi. In fondo, avevano un posto in prima fila, da cui erano in grado di osservare bene gli eventi più traumatici del

    XX

    secolo. Alcuni di loro ebbero non solo la possibilità di vedere Hitler da lontano, ma anche di incontrarlo e di parlargli, sia quando era ancora un agitatore locale, a Monaco di Baviera, sia quando divenne il dittatore assoluto a Berlino. Per loro, non era l’astratta incarnazione del male, bensì un politico in carne e ossa. Alcuni statunitensi lo valutarono piuttosto bene fin dall’inizio, altri gli presero le misure solo dopo che salì al potere. E peraltro anche chi non ebbe queste occasioni poté prevedere le conseguenze delle sue azioni.

    Sennonché, differiva enormemente la loro interpretazione di ciò che stava avvenendo in Germania e di quel che rappresentava Hitler. C’era chi, avendolo incontrato, ammetteva che il Führer era dotato di una energia selvaggia e possedeva l’arcana capacità di attingere alla rabbia e all’emotività del popolo tedesco; altri invece lo svilivano, considerandolo un personaggio grottesco che sarebbe scomparso dalla scena politica altrettanto rapidamente di come vi era entrato. Altri ancora, almeno inizialmente, vedevano con simpatia il movimento nazista, alcuni addirittura lo approvavano. E c’erano quelli che, mossi dai primi timori istintivi, si resero conto in un breve arco di tempo che occorreva dare l’allarme, riconoscendo in Hitler una minaccia sia per la Germania sia per il mondo intero.

    Ma non erano solo gli americani a non sapersi orientare davanti al Führer o a non aver analizzato la sua sedicente filosofia. Otto Strasser, uno dei primi seguaci del leader nazista, con cui avrebbe poi rotto i ponti, fuggendo dalla Germania, avrebbe ricordato una cena con diversi funzionari in occasione di un congresso del partito, tenutosi a Norimberga nel 1927. Si era subito capito che nessuno aveva letto fino in fondo il Mein Kampf, la lunga e noiosa autobiografia del capo, perciò decisero di chiedere a qualsiasi nuovo iscritto di farlo, quasi come costrizione. «Nessuno aveva letto il Mein Kampf, quindi ognuno doveva pagare dazio», ricordava Strasser.

    Analizzati oggi, in retrospettiva, gli eventi storici che si sarebbero susseguiti appaiono inevitabili, ma il giudizio degli americani che assistettero al loro svolgimento si basava su una serie di fattori, fra cui le inclinazioni personali e le svariate porzioni di realtà che potevano osservare, magari decidendo di vedere solo quello che a loro pareva, a prescindere da ciò che segnalassero i fatti. Per corroborare la sua tesi, la Schultz decise di mettere l’accento sui commenti fatti da Raeder, nel 1919, allorché Germania e Stati Uniti erano di nuovo diventati nemici: così, per lei le azioni di Hitler erano l’esito logico dell’odio fomentato dalla sconfitta tedesca nel conflitto precedente. Tuttavia, altri americani evidenziavano l’accoglienza calorosa ricevuta alla fine del conflitto e volevano credere che il numero di vittime e le devastazioni fossero state talmente enormi da fungere inevitabilmente come una lezione salutare. Edgar Allen Mowrer, corrispondente a Berlino per il «Daily News», l’altro quotidiano di Chicago, ricordava che negli anni Venti «gran parte degli statunitensi in Germania coltivava la legittima speranza secondo cui la sconfitta, l’umiliazione e l’inflazione tedesca, unite ai disordini interni, avessero convinto la maggioranza dei cittadini a ritenere folle un nuovo tentativo di egemonizzare l’Europa».

    Giornalisti come Mowrer e la Schultz, e diplomatici come Kennan e parecchi altri suoi colleghi, non erano affatto inesperti: avevano studiato e lavorato anche altrove, in Europa; ma molti americani che si trovavano allora in Germania erano invece assai giovani, quasi ingenui. Questo ne condizionava naturalmente le percezioni e le reazioni. Essi erano alternativamente affascinati, sbalorditi o ipnotizzati di fronte alla combinazione tedesca della rigidità da Vecchio Mondo e il nuovo estremismo moderno, sia nei comportamenti politici sia in quelli sessuali.

    In base al ruolo specifico svolto dal loro Paese, gli americani in Germania si trovavano in una posizione speciale; gli Stati Uniti avevano partecipato alla prima guerra mondiale, ma solo negli ultimi anni. Nessuno di loro aveva più alcun desiderio di farsi coinvolgere in un nuovo conflitto europeo, e ciò rifletteva il prevalere dei sentimenti isolazionisti in patria. Gli americani in Germania appartenevano a una categoria diversa rispetto agli altri vincitori del conflitto: li si reputava quasi neutrali, molto meno vendicativi dei francesi, in particolare, e generalmente più disposti a concedere il beneficio del dubbio agli sconfitti, i tedeschi. In quanto osservatori, erano in grado di elevarsi al di sopra delle rivalità e di stare alla larga dalle inimicizie continentali.

    Inoltre conducevano di solito un’esistenza privilegiata: osservavano le privazioni materiali e le crescenti violenze, da cui erano però abitualmente esclusi a livello personale. Socializzavano spesso fra loro, celebravano il giorno del Ringraziamento e le altre feste nazionali, godendosi liberamente le vacanze e lo stile di vita da emigrati, pur assistendo all’infuriare degli eventi. Louis Lochner, che ricoprì a lungo il ruolo di inviato per l’Associated Press, menzionava casualmente la vita della «colonia americana» per accentuare «l’invidiabile cameratismo» fra i nostri corrispondenti, «perfino tra quelli che sono accaniti concorrenti nella professione».

    In realtà, c’erano contrasti fra chi cominciava a nutrire idee molto diverse su Hitler e sui nazisti, con tutto quel che implicava il loro riarmo militare. E poi c’erano le gelosie e le tensioni personali. L’ambasciata americana a Berlino era un avamposto molto più esiguo di quello che sono le ambasciate odierne, e il personale oberato di lavoro si ritrovava spesso, insieme alle rispettive mogli, a litigare per divergenze politiche o meschini risentimenti. Fioccavano anche le controversie fra gli ambasciatori, che erano di nomina politica, e il personale della burocrazia diplomatica, oltre che con gli attaché militari. Aggiungiamoci il comportamento scandaloso, o presunto tale, di una figlia dell’ambasciatore, e ci sono tutti gli ingredienti per un vero dramma. Questo sarebbe potuto accadere in qualsiasi avamposto diplomatico, ma a Berlino gli eventi venivano amplificati dalle incessanti tensioni comuni sotto il regime hitleriano.

    Per converso, i corrispondenti americani in città erano molto più numerosi di oggi: verso la metà degli anni Trenta raggiunsero la cifra massima di circa cinquanta. Quelli erano giorni in cui le agenzie di stampa, le catene e i quotidiani di tutta una serie di metropoli statunitensi, non solo di Washington e New York, inviavano i corrispondenti all’estero, lasciando loro ampia libertà di sbizzarrirsi nella ricerca di notizie. E in breve sarebbero entrati in campo anche i radiogiornalisti.

    Negli anni Ottanta e Novanta, quando ero corrispondente estero per «Newsweek», mi sembrava di vivere nell’età dorata del giornalismo, specie se pensiamo ai tagli che vengono fatti oggi nelle spese per le notizie sui media. Invece, i miei predecessori a Berlino se la passavano molto meglio di me. Mowrer, per esempio, aveva aperto un ufficio del «Chicago Daily News» proprio sopra il Kranzler Eck, un celebre caffè nel centralissimo incrocio tra Friedrichstrasse e Unter den Linden. Esso vantava una sala per i visitatori americani al secondo piano, dove si poteva chiacchierare, leggere i giornali in lingua inglese e, a volte, perfino dettare qualcosa alla segretaria in ufficio. Era molto più che un locale d’intrattenimento all’interno di una redazione: sembrava una piccola missione diplomatica.

    Affluivano un mucchio di americani, inclusi alcuni di famiglia altolocata, che ci capitavano per capire cosa fosse questa Germania e cosa vi succedesse: gente come gli scrittori Thomas Wolfe e Sinclair Lewis, l’architetto Philip Johnson, il grande giornalista Edward R. Murrow, l’ex presidente Herbert Hoover, lo storico e sociologo di colore W.E.B. DuBois, e ovviamente anche l’aviatore Charles Lindbergh. Forse la cosa può sorprendere, ma per gli americani, o per altri stranieri, non era un’impresa andare a esplorare quel mondo strano e oscuro: «Ci si dimentica spesso di quanto fosse facile allora viaggiare in Germania», dice lo storico Robert Conquest, che nel 1938 percorse l’Europa intera coi suoi amici d’università (Oxford), fermandosi appunto anche nella nazione tedesca. «Era meno difficile di quanto lo sarebbe stato poi nei Paesi comunisti»¹.

    Sono sempre stato attirato da questo periodo storico, volevo capire come mai Hitler e i suoi scherani avessero potuto conquistare tanto velocemente il controllo completo della Germania, con tutte le conseguenze che ne derivarono. Ciò ha avuto anche un impatto diretto sulla storia della mia famiglia, nonché su quella di milioni di altre persone. I miei genitori erano cresciuti in Polonia e mio padre combatté nell’esercito polacco prima di passare con gli Alleati, unendosi alle truppe slave agli ordini degli inglesi. Io sono nato a Edimburgo, dopo la guerra. In seguito, i miei genitori sono emigrati negli Stati Uniti per cominciare una nuova vita da profughi politici. Ecco perché sono nato americano, e non polacco.

    Per il mio lavoro di corrispondente all’estero, sono stato inviato per due volte in Germania: il primo a Bonn negli ultimi anni della Guerra Fredda, il secondo a Berlino negli ultimi anni del secolo; in tali occasioni mi è capitato spesso di scrivere sulla maniera in cui i tedeschi scendevano a patti col retaggio del passato nazista. Devo però confessare che ne sapevo pochissimo sugli americani che avevano lavorato a Berlino in quei tempi drammatici. Ovviamente c’erano delle eccezioni. Io e i miei colleghi sapevamo tutto su William Shirer, l’autore di Storia del Terzo Reich, e sapevamo che l’albergo Adlon – ricostruito e riaperto dopo la riunificazione tedesca – era stato il luogo di ritrovo preferito di Shirer, Dorothy Thompson e altri giornalisti di grido di quel periodo. Ciononostante, non potevo affermare di aver approfondito le loro vicende personali.

    Quando iniziai a farlo per questo libro, mi accorsi subito che esistevano un sacco di storie dall’ampio spettro di interesse, che non fornivano solo un modo per comprendere cosa comportasse lavorare e viaggiare nella Germania di allora, ma anche una prospettiva particolare sugli eventi destabilizzanti che stavano accadendo. Grazie a queste esperienze, mi sembrava di rivivere un’epoca già molto analizzata, ma con un’intensità e un’immediatezza che spesso mancano altrove. Ogni volta che era possibile, ho attinto di prima mano dai loro resoconti (diari, appunti, lettere, articoli, o interviste coi rari testimoni ancora vivi), così da presentare al lettore il loro punto di vista.

    Qualcuno di questi racconti era già stato pubblicato, ma era ormai dimenticato, mentre altri li ho riesumati da manoscritti inediti, da lettere archiviate in biblioteche remote, talora su suggerimento degli stessi figli degli autori. Nel caso di Jacob Beam, per esempio, il giovane diplomatico che servì l’ambasciata americana a Berlino nella seconda metà degli anni Trenta, è stato suo figlio Alex, un caro amico dei tempi in cui eravamo entrambi corrispondenti a Mosca, a darmi una copia del suo manoscritto inedito. Altri dettagli pittoreschi sulla vita in Germania li ho dedotti dagli scritti inediti di Katharine (Kay) Smith, moglie del capitano Truman Smith, giovane attaché militare quando fu il primo ufficiale americano a incontrare Hitler.

    È importante tenere presente che qui traccio la storia come la vedevano i testimoni oculari, senza il vantaggio di sapere dove avrebbero condotto quegli eventi. La conferenza del Wannsee in cui si stilarono i piani per l’Olocausto era ancora un futuro lontano (20 gennaio 1942, per la precisione). Quando gli americani rimasti in Germania lasciarono il Paese, in seguito all’attacco di Pearl Harbour e alla dichiarazione di guerra agli

    USA

    fatta da Hitler, l’esercito tedesco stava soltanto cominciando ad andare incontro alle prime, gravi battute d’arresto sul fronte orientale. In effetti, gli americani avevano avuto parecchie occasioni di vedere le persecuzioni degli ebrei e di chiunque fosse considerato un nemico del nuovo regime, o di averne sentito parlare, per tacere della prima serie di conquiste hitleriane, stragi comprese. Alcuni di loro dimostrarono un coraggio notevole e una grande capacità di previsione, ma altri non vollero prendere posizione, o si limitarono a volgere altrove lo sguardo; qualcuno collaborò perfino strettamente col regime nazista.

    In ogni caso, buona parte del libro verte sulle idee e sulle esperienze di questo gruppo speciale di americani in Germania nel periodo che portò alla seconda guerra mondiale e all’Olocausto. Avendo io stesso avuto il privilegio di fungere da testimone dei grandi fatti più recenti che hanno condotto al crollo dell’impero sovietico e alla liberazione dell’Europa centrale, so bene quanto sia arduo discernere ciò che avviene proprio quando s’instaurano sconvolgimenti di portata storica, dovendo decidere in fretta quali siano le scelte etiche da compiere in tali circostanze. Allorché si è al centro di un ciclone, la vita quotidiana procede talvolta con ingannevole normalità, sebbene le anomalie, le assurdità e le ingiustizie siano fin troppo evidenti.

    Pertanto, anziché affrettarmi a dare un giudizio sugli americani che si trovarono a vivere nella Germania nazista, mi sono premurato di raccontare le loro storie, lasciando – se possibile – che parlassero da sole. La valutazione degli americani, avessero torto o ragione, fosse più o meno adeguata la loro condotta morale, dovrebbe conseguire dalle loro esperienze, non dalla nostra conoscenza privilegiata, che può permettersi il lusso di guardare indietro.

    1

    «Una crisi di nervi»

    La Berlino degli anni Venti è tuttora presa da molti a modello per una specie di test di Rorschach. Ci sono quelli che pensano immediatamente a una paralisi politica, a un periodo caotico in cui rivoluzionari e controrivoluzionari se le davano di santa ragione in mezzo alle strade. Ad altri viene subito in mente un’inflazione galoppante che azzerava i risparmi di una vita, gettando milioni di solide famiglie borghesi nella povertà più totale. C’è chi ci vede un’epoca di frastornante libertà sessuale o, a seconda di chi parla, un periodo di vergognosa perversione e depravazione. Altri ancora, infine, ricordano quel decennio per la straordinaria rinascita culturale, contrassegnata da un’esplosione di creatività nelle arti e nelle scienze, resa possibile da un autentico sistema democratico.

    La cosa strana è che tutte queste associazioni psicologiche sono esatte e rispecchiano una versione accurata della realtà.

    Sulla scia della prima guerra mondiale, la città di Berlino si ritrovò a essere il principale campo di battaglia della Germania, sovente nel senso letterale dell’espressione. Certo, i disordini si presentavano quasi in ogni metropoli tedesca, ma in nessun altro posto gli scontri infuriavano con l’intensità che assumevano nella capitale. Nel febbraio 1919, la neoeletta assemblea nazionale si riunì per redigere una nuova costituzione a Weimar, proprio perché c’era bisogno di isolarsi dalle violenze che caratterizzavano la città berlinese. Tuttavia, dopo la nascita della Repubblica, scoppiarono rivolte furiose da parte dei gruppi estremisti, di destra e di sinistra, i quali desideravano entrambi la morte dei nuovi governanti del Paese, responsabili di aver avviato l’esperimento della democrazia parlamentare. Demagoghi di ogni risma non faticavano a reperire reclute volenterose in una popolazione ancora obnubilata dalla cocente sconfitta bellica, dalle stupefacenti menomazioni (vittime, perdite enormi) e dalle clausole punitive degli accordi di pace firmati a Versailles.

    Il caos politico si aggravava anche per la crescente disperazione economica. Il marco tedesco si deprezzava drasticamente e, nel contempo, si abbassava il livello di vita di tutti quelli che avevano un reddito fisso. Gli acquisti quotidiani, per esempio le pagnotte di pane, richiedevano una spesa di migliaia, poi di milioni e miliardi di marchi. La mancanza di valore della moneta si rifletteva perfettamente nell’insegna del botteghino di uno dei teatri cittadini: «Poltroncine in prima fila, lo stesso prezzo di mezza libbra di burro. Sedie in ultima fila, due uova». E nella miseria diffusa, c’era anche chi, come sempre, faceva fortuna e campava nella maniera più stravagante.

    La sfrenatezza era particolarmente evidente nei costumi sessuali. Il commediografo Carl Zuckmayer riferì che, in una delle tante feste berlinesi cui era stato invitato, le giovani cameriere che servivano le bevande erano vestite solo «di mutandine trasparenti ricamate con foglie di fico argentate» e che, a differenza delle «conigliette» dei club americani, «le si poteva palpeggiare liberamente». Nella loro ricompensa per la serata era compreso anche quel divertimento. Il cartello su una parete recitava: «L’amore è la sciocca valutazione eccessiva della minima differenza fra un oggetto sessuale e un altro».

    Questo libertinismo era uno dei motivi per cui gli stranieri erano incuriositi e attirati dalla capitale tedesca, sebbene la sua maggiore attrazione fosse la fama di vivacissimo centro culturale. Essa poteva vantare personaggi del calibro di Bertolt Brecht, Albert Einstein, Marlene Dietrich e George Grosz, e divenne rapidamente una calamita per chiunque avesse del talento, fosse creativo, avventuroso o opportunista, e in questa schiatta non mancavano gli americani.

    «Ci si dimentica che, dopo la prima guerra mondiale, la più grande concentrazione di intellettuali e innovatori culturali non si trovava a Parigi, tantomeno a Londra o New York, ma a Berlino», ricordava Michael Danzi, un versatile musicista statunitense che suonava il banjo, il mandolino e ogni tipo di chitarra, e aveva trascorso parecchi anni tra le due guerre nella metropoli tedesca. «In effetti, Berlino era la capitale d’Europa, e tutte le linee ferroviarie da qualunque città europea convergevano lì».

    Fin dall’inizio, molti americani erano incuriositi soprattutto dall’anarchia economico-politica, poiché volevano capire quali forze si stessero scatenando nelle Germania del dopoguerra, e particolarmente a Berlino, chiedendosi a cosa si stesse preparando in futuro la nuova Repubblica di Weimar. Eppure, come nei racconti di Christopher Isherwood, e in Cabaret – il film e la commedia musicale tratti da esso – i ricordi di questo periodo straordinario sono spesso carichi di premonizioni sulle forze funeste che avrebbero in breve oppresso la Germania e quasi l’intera Europa.

    I nazisti, fin dai primi tempi in cui erano un piccolo movimento politico di Monaco, giudicavano Berlino come l’origine di tutti i mali, una città decadente, specie in confronto alla capitale bavarese, dove godevano di maggiore sostegno per le loro istanze. «Il contrasto [di Monaco] con Berlino era marcato», notava Kurt Ludecke, che entrò nel partito nazional-socialista negli anni Venti e divenne un ardente attivista, nonché incaricato di raccogliere fondi, anche per i viaggi negli

    USA

    . «Una era la Mecca del marxismo e degli ebrei, l’altra la cittadella dei loro nemici». Hitler non si fidò mai di Berlino e dei suoi abitanti, anche dopo aver preso il potere ed essersi insediato nella capitale tedesca.

    Per i primi americani che arrivarono nella Germania del primo dopoguerra, molto di quel che stava accadendo era affascinantissimo, e del tutto ingannevole. Ben Hecht, che sarebbe diventato un importante scrittore, regista e produttore a Broadway e Hollywood, giunse in Germania nel 1918 come giovane reporter (aveva 24 anni) per il «Chicago Daily News». Rimase nella capitale tedesca per due anni e descrisse «i buffoni politici, i cavillatori e gli avventurieri, irragionevoli e paranoici», che recitavano come se fossero in un teatro di strada, spiegando che «tutto era politica, rivoluzione e controrivoluzione». In una missiva indirizzata a Henry Justin Smith, il direttore editoriale di Chicago, concludeva così: «La Germania è sull’orlo di una crisi di nervi. Niente di buono da riferire».

    Se la maggior parte dei loro compatrioti era fin troppo contenta di lasciarsi alle spalle la prima guerra mondiale per tornare alle occupazioni quotidiane, una nuova generazione di diplomatici e attaché militari statunitensi si stava installando in Germania per riallacciare le relazioni ufficiali fra i due Paesi. Essi desideravano vedere sul posto come si sentivano i tedeschi, e capire se i nuovi governanti avessero qualche possibilità di superare le croniche agitazioni politiche, per portare a termine l’esperimento democratico.

    La situazione di Berlino durante e dopo la guerra aveva confermato a un giovane diplomatico come Hugh Wilson che il suo futuro avrebbe dovuto essere nel corpo diplomatico, non nel rimpatrio per riprendere gli affari di famiglia, lasciati a Chicago. Poco prima del conflitto, aveva deciso di vedere come sarebbero stati «alcuni anni di esperienza e diversivo» al servizio della diplomazia. Aveva superato l’esame per entrare nel corpo diplomatico, presumendo di poter sempre tornare alla vecchia vita, se si fosse stancato di quella nuova. Ma poi cambiò tutto il mondo.

    Dopo le prime assegnazioni in America Latina, Wilson fu trasferito all’ambasciata berlinese nel 1916. Rimase solo per pochi mesi nella città tedesca, che gli sembrava «in stato di assedio col mondo intero», dopodiché gli Stati Uniti entrarono nel conflitto e tutto il personale diplomatico venne evacuato su un treno speciale diretto in Svizzera. Quando lo riassegnarono nella Germania sconfitta, Wilson si era deciso a «ricorrere a ogni atomo di energia e intelligenza che io possa avere» per quel che riteneva sarebbe stato il mestiere della sua vita. Quella sarebbe stata la seconda delle sue tre missioni a Berlino. Durante la terza volta, verso la fine degli anni Trenta, fu l’ultimo ambasciatore americano a servire nella Germania nazista. Approdò a Berlino con sua moglie Kate nel marzo 1920, proprio mentre era in atto il Putsch destrorso di Kapp, davanti agli occhi del piccolo contingente americano in quella che era allora la sede dell’ambasciata

    USA,

    al numero 7 di Wilhelmplatz. Wolfgang Kapp, il nazionalista tedesco che era nominalmente a capo delle forze ribelli, aveva stabilito il suo quartier generale presso il palazzo Leopold, dall’altra parte della piazza, piena di postazioni con mitraglie e filo spinato. Il colpo di Stato si sgonfiò subito, ma Wilson ebbe modo di osservare tante altre esplosioni di violenza dalle tipiche caratteristiche tedesche. «Sembrava che le rivoluzioni fossero rigidamente circoscritte, come se ci fossero delle regole del gioco da rispettare assolutamente», notò.

    E poi aggiunse: «Io stesso ho potuto vedere i combattimenti su una strada con le mitragliatrici e su un’altra i fucili che luccicavano». Mentre a poche centinaia di metri di distanza la gente curava i suoi affari, come al solito. In un’altra occasione, dalla finestra dell’ambasciata scorse migliaia di spartachisti, come si chiamavano allora i comunisti, inscenare una manifestazione di protesta nella Wilhelmplatz, davanti alla sede della Cancelleria. I dimostranti erano «inferociti e ingiuriosi», ma nessuno scavalcò la bassa ringhiera che separava l’erba e i fiori delle aiuole: una cosa simile sarebbe stata contraria al senso dell’ordine.

    Per Wilson e altri americani che erano già stati in Germania, la caratteristica più stupefacente di Berlino era il suo aspetto fatiscente e impoverito. «Occorreva vedere l’incuria di Berlino in quel periodo per poterci credere… Ogni cosa aveva bisogno di essere riverniciata, si doveva ripulire tutto», ricordava il diplomatico. «Fu l’unica volta in cui vidi piena di sporcizie e cartacce questa capitale di una popolazione scrupolosamente pulita». Perfino l’edificio dell’ambasciata, al cui interno abitavano molti dei suoi dipendenti, versava in una condizione di squallore: dal tetto stillavano gocce d’acqua ogni volta che batteva la pioggia e si scioglieva la neve. Siccome le autorità di Washington respingevano le ripetute richieste di denaro per apportare le necessarie riparazioni, Wilson e i suoi colleghi pregavano affinché piovesse mentre erano in visita senatori o deputati, così avrebbero attestato la gravità della situazione.

    Ma questo era niente rispetto alle condizioni disperate in cui versavano i residenti locali, compresi i reduci mutilati che mendicavano per le strade. L’embargo bellico ai danni della Germania era stato prorogato per diversi mesi anche dopo la fine del conflitto, il che aveva aggravato la situazione. Wilson notava «tracce di malnutrizione e malattie infantili, specie il rachitismo, da tutte le parti».

    Katharine Smith, detta Kay, si accorse della povertà dilagante nel momento stesso in cui arrivò (giugno 1920) a Berlino insieme al marito, il capitano Truman Smith, che doveva prendere servizio come aiuto attaché militare. Al pari di altri americani, la giovane coppia, non tanto ben assortita (lei aveva 20 anni ed era alta un metro e 52 centimetri, lui 26 e un metro e 85), prese inizialmente alloggio al rinomato Adlon Hotel. La facciata dell’albergo era crivellata di proiettili, e fori analoghi erano presenti anche nell’atrio, ma nel complesso – riferì la donna – «gli interni sono lussuosi, gli addetti ai servizi sono molto cortesi e la hall è quasi sempre affollata di stranieri»¹. Tuttavia, a Kay bastò uscire in strada il primo giorno per capire quanto quel mondo fosse a se stante.

    Aveva deciso di fare una passeggiata, per cui volle assicurarsi di agghindarsi bene. «Indossai un lungo abito velato, blu e beige, una giacca beige con colletto di volpe marrone, e ballerine di velluto beige, oltre a calze dello stesso colore e a un cappellino blu scuro, come solevo fare a casa», registrò con grande scrupolosità. Uscì dall’albergo e s’incamminò sulla Unter den Linden, fermandosi ad ammirare le ceramiche nella vetrina di un negozio. All’improvviso, udì un mormorio dietro di sé, si voltò e vide un gruppo di persone vestite in modo sciatto che formava due file, la fissavano e borbottavano tra loro. «Probabilmente a loro sembrava che venissi da Marte», notava Kay.

    Una delle persone le domandò qualcosa che lei non comprese, al che replicò di essere americana. «Ah», fu la reazione. Allora fece un passo in avanti e il gruppetto si aprì rapidamente per lasciarla andare; così, tornò in fretta verso l’albergo, dove si cambiò subito, togliendosi quella tenuta «estremamente inadatta», per mettersi vestiti molto più semplici. «Fu un’esperienza bizzarra e assai istruttiva», concludeva.

    Altrettanto istruttiva fu l’esperienza del trasloco in un appartamento. Innanzitutto, c’era la battaglia con le pulci, ancora molto diffuse in città. Poi, Kay assunse una domestica e rimase sconcertata da una delle loro prime conversazioni. L’americana conservava un piatto coi resti di un uovo non finito da Truman e la domestica le chiese se potesse mangiarlo. «Mangiare quell’uovo freddo e sudicio? Perché?», esclamò stupita Kay. La donna le spiegò che non ne assaggiava uno dall’inizio della guerra. Quando Kay le disse che poteva mangiare tutte le uova che voleva, fu la domestica a stupirsi: nelle altre famiglie, le serve non erano autorizzate a consumare lo stesso cibo dei padroni, e poi gli alimenti venivano sempre tenuti sotto chiave.

    Kay si dimostrò ben presto un’acuta osservatrice dei costumi sociali, e il marito si rivelò altrettanto abile nell’intuire le prospettive politiche tedesche, non solo la parte militare del suo lavoro. La cosa non deve comunque sorprendere, viste le sue considerevoli credenziali. Lui si era laureato nel 1915 a Yale (due suoi compagni degni di nota erano Dean Acheson e Archibald MacLeish), aveva combattuto la prima guerra mondiale nei ranghi della fanteria ed era stato decorato con la Stella d’argento per il coraggio dimostrato; nel frattempo, aveva studiato appassionatamente il tedesco, oltre che la storia e la politica della Germania. Come Wilson, aveva già servito nel Paese tedesco in qualità di consigliere politico dell’esercito americano, a Coblenza, dal marzo 1919 fino all’assegnazione a Berlino (giugno 1920); poi sarebbe tornato in Germania negli anni Trenta, quando Hitler aveva già preso il potere. Sua figlia Kätchen riteneva che sarebbe potuto diventare professore di storia, se non avesse dovuto abbreviare gli studi di specializzazione alla Columbia University per seguire quella che si sarebbe trasformata in una carriera militare trentennale².

    Per i primi arrivati del dopoguerra, come i Wilson e gli Smith, il crollo del marco significava che tutto era incredibilmente a buon mercato, purché gli stranieri spendessero in fretta i soldi, dopo averli cambiati. «Con la fine della guerra e la vittoria, ogni cosa per loro era spassosa, e la vita nel tempo libero era una pazza ricerca di divertimento», scrisse Wilson. E c’erano un sacco di stranieri che potevano godere della reciproca compagnia, benché la presenza diplomatica americana fosse esigua rispetto agli standard odierni. «Tutte le ambasciate avevano un personale enorme, tutte offrivano ricevimenti munifici, e i governi alleati mantenevano commissioni di controllo comprendenti centinaia di funzionari con le loro mogli», soggiungeva Wilson. «Nelle strade berlinesi, le divise degli Alleati erano molto comuni».

    Le lettere di Kay Smith alla madre e le sue memorie inedite descrivono un’attività frenetica fatta di feste ed eventi sociali in ambito diplomatico. Nel 1921 Wilson, sua moglie Kate e un altro collega organizzarono un ballo in maschera, sul cui invito si leggeva tra l’altro:

    Il 19 di marzo, vi invitiamo caldamente

    a venire in questa casa completamente

    privi di ogni scrupolo di dignità,

    di grado o di insegna,

    ma con un vestito di stoffa degna.

    Alle nove e mezza il jazz inizierà,

    e quando avrete danzato a sazietà,

    ci saranno libagioni di Schinken,

    da essen e trinken,

    con vino rosso e bianco.

    Gli americani non approfittavano della loro condizione speciale di vincitori per accedere a ciò che era garantito loro da una moneta stabile. Si resero ben presto conto che quelli che erano stati nemici in guerra, adesso riservavano loro un’accoglienza inaspettatamente calorosa. «Nel 1920, i tedeschi volevano rappacificarsi col mondo, in particolare fare amicizia con gli americani», scriveva Wilson. «Stranamente, mostravano così il loro istinto bellico. Infatti, una delle fonti di questa amicizia quasi patetica era la loro voglia di esprimere ammirazione per lo stupendo sforzo degli Stati Uniti nel 1917 e 1918, per lo spirito e il magnifico ardimento dei nostri soldati…».

    Forse Wilson sopravvalutava l’ammirazione per le truppe statunitensi, però aveva ragione nel rilevare un complessivo atteggiamento filoamericano. Kay Smith la metteva così: «La gente si predispone a essere gentile con gli americani». Truman aveva comprato un borsalino di feltro dalle larghe tese. Ciò lo rendeva ancor più riconoscibile, poiché svettava meglio sulla maggior parte della gente lungo Unter den Linden e le altre strade che frequentava. «Era diventato famoso come l’americano», ricordava orgogliosamente la moglie. «I tedeschi ne ammirano molto l’alta statura».

    Sembrava che gli statunitensi fossero i vincitori buoni.

    Il motivo (di questa loro fama) dipendeva in parte dal fatto che gli americani ricambiavano l’atteggiamento positivo verso i tedeschi. In effetti, condividevano la loro esasperazione nei confronti dei francesi, che apparivano i cattivi vincitori.

    Alla fine del conflitto, Parigi e Washington si erano trovati spesso in disaccordo sulla maniera in cui trattare la perdente Germania. Gran Bretagna e Stati Uniti erano disposti a concedere al nuovo governo di Berlino libertà d’azione per quanto riguardava il dispiegamento di truppe allo scopo di reprimere le rivolte degli estremisti (di destra o di sinistra), e specialmente gli americani disapprovavano quella che veniva ritenuta l’insistenza francese nel pretendere un esorbitante risarcimento dei danni. I francesi non ci stavano alle presunte violazioni del trattato di Versailles e se ne servivano come scusa per occupare altri territori germanici; per esempio, lo fecero subito dopo il Putsch di Kapp, invadendo le regioni renane, e poi insediandosi nella Ruhr industrializzata, nel 1923, per punire l’incapacità della Germania di risarcire i danni.

    «La Francia è la nazione più militarista d’Europa… non ha imparato niente da questa guerra», si lamentava Kay Smith in una lettera alla madre del 12 marzo 1920. «La Germania non provocherà una nuova guerra. Vuole stare dalla parte di Inghilterra e America, e fa di tutto per riadattarsi a questo scopo». In un’altra lettera scriveva che «i francesi sono terrorizzati da un’aggressione tedesca e la loro politica consiste nel mettere in croce il più possibile la Germania».

    Come rilevò Wilson, la Francia peggiorò ulteriormente la situazione facendo seguire l’invasione oltre i confini renani di quell’anno con l’insediamento di truppe senegalesi o di altri soldati di colore in Renania, con stupri e altre violenze, secondo quanto riportavano le cronache. «Salì in tutta la Germania un’ondata di risentimento contro i francesi», scrisse il diplomatico.

    Queste accuse allarmanti indussero il Dipartimento di Stato a chiedere agli ufficiali americani di aprire un’inchiesta. Dopo aver analizzato le accuse, Henry T. Allen, generale di divisione e comandante delle truppe stanziate in Germania, riferì a Washington che la stampa tedesca aveva deliberatamente alterato i fatti per sfruttare i pregiudizi razziali e suscitare all’estero antipatia verso i francesi, «principalmente in America, dove la questione razziale è sempre in grado di agitare le coscienze»³. Nel suo rapporto al Dipartimento di Stato, poi trasmesso al parlamento, Allen riconobbe che erano stati deferiti all’autorità francese 66 delitti di carattere sessuale, però faceva notare che ciò aveva portato a 28 condanne e 11 assoluzioni da parte dei tribunali militari francesi, suggerendo un serio tentativo di mantenere la disciplina.

    «Le atrocità indiscriminate da parte delle truppe coloniali francesi riportate dalla stampa tedesca, fra cui il rapimento, la violenza carnale, le mutilazioni, l’omicidio e l’occultamento del corpo delle vittime, sono false e tendenzialmente utili alla propaganda politica», concludeva il generale.

    Queste esagerazioni, aggiungeva, erano in parte causate dall’«atteggiamento di certe categorie di donne tedesche nei confronti delle truppe di colore». Notando che la crisi dell’economia postbellica aveva favorito il diffondersi della prostituzione, spiegava che «numerose donne tedesche di facili costumi fanno chiare profferte ai soldati negri». Lo attestavano parecchie lettere d’amore e fotografie, proseguiva Allen. A Ludwigshafen, si dovettero mandare delle pattuglie «per allontanare le femmine locali dalle caserme, dove baciavano i militari di pelle scura dalle grate delle finestre».

    Una cosa ancor più significativa per il generale era il fatto che ci fossero parecchi matrimoni misti, compreso quello della figlia di un ufficiale d’alto grado della Renania. «I francesi o i tedeschi non considerano la differenza di colore come noi in America, che vogliamo mantenere pura la razza bianca». Pur non negando che ci fossero stati diversi casi documentati di stupro, Allen era convinto che a «provocare i guai» fosse stato il comportamento delle donne tedesche.

    Tuttavia, molti americani in Germania si erano ormai persuasi che la colpa di tutto fosse la politica vendicativa della Francia, e non quello che facevano i tedeschi. Per loro, la Germania era diventata la vittima, e ciò si accordava con gran parte della retorica politica locale. «Temo che molti di noi, in servizio in Germania dopo la prima guerra mondiale, fossimo stati ingannati», avrebbe

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