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Gli imputati di Norimberga
Gli imputati di Norimberga
Gli imputati di Norimberga
E-book1.259 pagine18 ore

Gli imputati di Norimberga

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Info su questo ebook

La vera storia dei ventidue fedelissimi di Hitler processati per crimini contro l’umanità

Il processo di Norimberga ha rappresentato la migliore risposta ai crimini del terzo Reich?
Si è trattato veramente di un processo equo, considerato che gli imputati si sono difesi affermando che nel compiere le orribili nefandezze di cui sono stati accusati stavano servendo il proprio Paese ed eseguendo ciò che era stato loro ordinato di fare? Come mai i tedeschi e la Germania si sono resi responsabili di tante atrocità? Eugene Davidson ha cercato di rispondere a queste e a moltissime altre domande esaminando ognuno dei ventidue imputati. Il suo libro è lo studio più completo sul processo di Norimberga. La conclusione, riluttante ma al tempo stesso ferma, è che «in un mondo di complesse relazioni umane in cui viene fatta una giustizia sommaria comunque preferibile al linciaggio o alla fucilazione, il processo di Norimberga dovrebbe essere difeso in quanto evento politico». Alcune sentenze sono sembrate troppo severe, ma nessuna è stata certo più dura delle pene inflitte a persone innocenti dal regime che gli imputati servivano. Dal punto di vista legale le decisioni prese dal tribunale militare internazionale di Norimberga non sono certo ineccepibili, ma rappresentano il primo tentativo di mettere sotto accusa chi, forte del proprio potere, si è macchiato di crimini contro l’umanità, nonché una testimonianza storica di enorme portata, da preservare per le generazioni future.

Lo studio definitivo sul processo di Norimberga

«Il processo di Norimberga non è mai stato riesaminato con la cultura, la precisione e la lungimiranza di cui Eugene Davidson si avvale in questo libro coinvolgente e importante… Molto più di un’analisi del processo… Attraverso le singole biografie degli imputati viene ricostruito un quadro completo della Germania nazista… Un contributo significativo alla storia e alla conoscenza.»
Walter Mills

«Ben documentato e coinvolgente.»
Boston Globe

«Uno studio assolutamente completo… non sarà facile rimuoverlo dalla sua posizione di autorevole testimonianza.»
Chicago Tribune

«Uno studio dei singoli imputati e della loro innocenza o colpevolezza… affascinante… decisamente di altissimo livello per cultura e rigore.»
St. Louis Globe-Democrat
Eugene Davidson
Autore di numerosi libri sul regime nazista, tra i quali The Nuremberg Fallacy, è stato Presidente Emerito del Congresso sui problemi dell’Europa e Presidente della Fondazione per gli Affari Esteri. È scomparso nel 2002. La Newton Compton ha pubblicato L’ascesa di Adolf Hitler, La disfatta di Adolf Hitler e Gli imputati di Norimberga.
LinguaItaliano
Data di uscita5 gen 2016
ISBN9788854189942
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    Anteprima del libro

    Gli imputati di Norimberga - Eugene Davidson

    1

    Nel palazzo di giustizia

    Nella notte tra il 15 e il 16 ottobre 1946 i rintocchi della campana che batteva le ore a Norimberga venivano uditi per l’ultima volta da undici uomini rinchiusi nelle celle del palazzo di giustizia, la grande prigione dove in passato si tenevano le cerimonie naziste a celebrazione del potere e della gloria del partito e del suo Führer. Poche luci illuminavano la città. L’alta casa rossiccia in cui Albrecht Dürer aveva vissuto e migliaia di costruzioni simili si levavano scoperchiate verso il cielo. La prigione, una manciata di edifici semidistrutti, il campanile della cattedrale e i cumuli di macerie color ruggine lungo i muri diroccati era tutto ciò che rimaneva dopo i trenta minuti di bombardamento aereo del 7 gennaio 1945. A Norimberga, come nel resto della Germania, i laceri sopravvissuti alla guerra si curavano ben poco della sorte degli uomini che nello spazio di dodici anni avevano contribuito alla grandezza e poi alla rovina del Reich tedesco.

    Per un uomo, un generale condannato a morte, e per sua moglie, quei rintocchi rappresentavano il loro ultimo legame. Avevano stabilito essi stessi che non vi sarebbero più state lettere, né addii; ormai, tutto ciò che potevano ancora condividere erano le ore scoccate dalla campana, la stessa che aveva suonato per milioni di soldati pronti a marciare agli ordini di lui. Il suono ridestava gli echi dell’antica città. Il calpestio degli stivali nazisti, il clangore delle bande del partito del Reich millenario, la rauca voce del Führer, le urla di giubilo delle masse, che ogni settembre avevano fatto ala lungo le vie della città capitale del nazionalsocialismo, erano stati da tempo sopraffatti dal fragore delle bombe e delle battaglie, e poi dal viavai affaccendato dell’occupazione americana.

    Il grande Reich germanico era stato ridotto in frantumi. Ciò che ne rimaneva sottostava alle regole di potenze straniere, mentre gli uomini responsabili delle atrocità che ne avevano accompagnato l’ascesa erano (o erano già stati) sottoposti a giudizio, o avrebbero pagato il conto negli anni seguenti, sempre che fossero ancora vivi e che qualcuno li avesse rintracciati. Quei processi avevano lo scopo non solo di consegnare i colpevoli alla giustizia, ma anche di far capire chiaramente ai tedeschi – e ai loro conquistatori – che un grande Kulturvolk, la cui scienza, musica, erudizione, filosofia e letteratura avevano ottenuto i maggiori successi creativi dell’umanità, era giunto al suo collasso morale e politico; inoltre, soprattutto dal punto di vista americano, i procedimenti avrebbero dovuto rappresentare una proiezione del nuovo ordine mondiale che doveva porre riparo alla sofferenza universale causata dai crimini di guerra commessi dagli uomini che avevano guidato la Germania. Punire i colpevoli dell’assassinio di milioni di combattenti e non combattenti, sottolineare la costante collaborazione delle nazioni vincitrici, stabilire una volta per tutte in una Corte di giustizia la responsabilità personale di capi politici e militari per i delitti legati a una guerra d’aggressione e all’instaurazione di uno stato totalitario fascista a discapito del loro stesso popolo e di quelli di altre nazioni: ecco le ragioni per le quali gli Alleati avevano combattuto, come a Washington, Londra e Norimberga i funzionari americani dissero ai loro alleati, ai tedeschi e ai Paesi neutrali. In effetti, i crimini commessi dai leader nazisti erano innegabili; la documentazione era talmente vasta che la principale difficoltà incontrata dall’accusa fu quella di riuscire a esaminare le tonnellate di incartamenti trasportate a Norimberga. I documenti – e i pregiudizi degli Alleati – riguardavano crimini reali e presunti, reati comuni a entrambe le parti e delitti perpetrati soltanto dai tedeschi. In alcuni casi, le responsabilità tedesche furono chiare fin dall’inizio, mentre in altri non si riuscì mai a dimostrarle in maniera soddisfacente. Quelle del generale Alfred Jodl, l’uomo per il quale la campana stava suonando, rientravano in quest’ultima categoria, come avvenne per gli ammiragli e per alcuni degli altri processati insieme a lui.

    L’idea di punire i criminali di guerra, almeno quelli che erano stati sconfitti, non era affatto nuova nella storia. Samuele aveva ucciso re Agag, facendolo a pezzi al cospetto del Signore; la sua collera era stata acuita e giustificata dalla legittimità della sua causa. Nell’Antico Testamento si legge che Giosuè, quando gli ebrei invasero la terra di Canaan, trucidò «uomini e donne, fanciulli e vecchi. Gli stessi buoi e le pecore e gli asini furono passati a fil di spada... il ragazzo e la vergine, il neonato e l’uomo dai capelli grigi». Vercingetorige fu passato a fil di spada. E nel Medioevo i Crociati uccisero tutti i 20.000 abitanti di Béziers «a causa della terribile collera di Dio verso di loro». Innumerevoli re e generali vinti vennero fatti marciare verso il patibolo dietro ai cortei trionfali dei conquistatori. Nel clima più umano del XIX secolo, Napoleone, quando si arrese agli inglesi dopo la sconfitta di Waterloo, non fu processato, ma semplicemente reso inoffensivo con la segregazione sull’isolotto di Sant’Elena, nonostante fosse stato universalmente accusato di essere il nemico della pace in Europa.

    Immediatamente dopo la prima guerra mondiale, un elenco di 4900 criminali di guerra, tra cui il Kaiser, Hindenburg, Ludendorff e Bethmann Hollweg, si ridusse a tredici nomi a causa del rifiuto degli olandesi di consegnare il Kaiser, del riaffacciarsi di vecchi conflitti d’interesse tra le potenze vincitrici e dell’opposizione della Germania alla richiesta degli Alleati di affidare loro i presunti violatori delle consuetudini di guerra. Ciò, affermarono i tedeschi, era considerato illegale dalle leggi nazionali; inoltre, essi sottolinearono che far subire a propri concittadini un processo da parte di tribunali alleati sarebbe servito soltanto ad alimentare il malcontento che divampava in tutto il Paese negli anni del dopoguerra. A due anni e mezzo dalla fine delle ostilità, davanti alla Corte Suprema tedesca a Lipsia si svolsero nove processi: dei 901 imputati, 888 furono assolti, o le accuse a loro carico vennero sbrigativamente lasciate cadere per insufficienza di prove. Furono emessi soltanto tredici verdetti di colpevolezza, con pene detentive relativamente brevi. Un maggiore tedesco fu condannato a due anni di reclusione per aver ucciso prigionieri di guerra francesi. A un uomo vennero inflitti dieci mesi e a un altro sei per maltrattamenti a prigionieri britannici. Due imputati, che avevano partecipato all’affondamento di una nave ospedale, la Llandovery Castle, sparando poi sulle lance di salvataggio, ebbero quattro anni ciascuno. La loro colpa era di aver obbedito agli ordini del comandante del sottomarino, il quale, convinto in un primo tempo che la nave trasportasse munizioni sotto la copertura della Croce Rossa, una volta resosi conto dell’errore, aveva voluto eliminare i testimoni del suo crimine¹.

    Dopo la prima guerra mondiale, vi furono notevoli divergenze tra gli Alleati, malgrado la convinzione comune che i tedeschi fossero responsabili del conflitto e di innumerevoli atrocità, e nonostante la clausola del trattato di Versailles che indicava come loro obiettivo il processo al Kaiser «per gravissimi reati contro i princìpi morali internazionali e le norme dei trattati» e a coloro che avevano violato le leggi e gli usi di guerra. La speciale Commissione dei Quindici, nominata il 25 gennaio 1919 e formata da due rappresentanti per ciascuna delle principali potenze alleate (Gran Bretagna, Francia, Stati Uniti, Italia e Giappone) e da uno per le potenze minori, si era spaccata. I delegati americani e giapponesi si opponevano a un Tribunale internazionale con «una giurisdizione penale per la quale non vi erano precedenti, norme, prassi o procedure»².

    Gli americani andarono anche oltre, affermando che i capi militari e politici tedeschi, nonché i presunti violatori delle regole di guerra, non potevano essere considerati responsabili di crimini contro le leggi internazionali, dal momento che non esistevano regolamenti penali internazionali riguardanti tali reati. Gli inglesi, che durante il conflitto si erano dichiarati fortemente favorevoli a sottoporre a giudizio il Kaiser e quanti avevano infranto le regole di guerra, soprattutto quando le violazioni implicavano l’uso di sottomarini, si mostrarono sorpresi nel trovare Hindenburg, Ludendorff e Bethmann Hollwegg inseriti da francesi e belgi nell’elenco, ridotto a questo punto a 896 nomi³.

    Lloyd George, che nella foga di una campagna elettorale aveva proclamato di voler impiccare il Kaiser, affermò che nessuno Stato degno di tal nome avrebbe accettato che un suo capo militare venisse giudicato da altre nazioni e che, discutendo la prima volta la faccenda con Clemenceau, aveva pensato di processare soltanto i colpevoli di crimini contro donne e bambini, atti che anche i tedeschi avrebbero considerato alla stregua di delitti. Nonostante il fatto che, il 4 dicembre 1918, il Consiglio Supremo alleato avesse convenuto di mettere sotto accusa Guglielmo II e i suoi principali complici per aver provocato il conflitto, violato i diritti di Paesi neutrali e commesso crimini di guerra, i suoi membri, a dispetto dei discorsi politici di Lloyd George, non chiesero mai la pena di morte, ritenendo che l’esilio sarebbe stato sufficiente a soddisfare gli scopi politici e legali. Dopo la nomina, Lloyd George, con l’intento di ristabilire l’equilibrio e il rispetto reciproco con il continente in nome della sicurezza della Gran Bretagna, aveva voluto la partecipazione di giudici tedeschi in tutti i processi; in questo, egli fu fermamente ostacolato da Clemenceau, il quale non tralasciò occasione per dimostrare ai tedeschi che erano un popolo sconfitto, i cui capi dovevano essere giudicati unicamente da tribunali alleati. Il primo ministro italiano Nitti, rappresentante di un Paese che all’inizio della guerra aveva parteggiato per la Germania e che ora diffidava nuovamente della Francia, appoggiò la controproposta dei vinti di celebrare i processi davanti a una Corte di giustizia tedesca, con delegati alleati presenti in qualità di osservatori.

    Nessuno desiderava processare il Kaiser in casa propria. I belgi dichiaravano che, come appartenenti a una nazione governata da una monarchia costituzionale, non potevano certo mettere a cuor leggero sotto accusa un ex re e imperatore. I francesi sostenevano che nel loro Paese i sentimenti erano troppo accesi perché fosse possibile processarvi il Kaiser. E Wilson non avrebbe mai permesso che la cosa avvenisse negli Stati Uniti⁴. Il rifiuto da parte degli olandesi di consegnare il Kaiser evitò agli Alleati ulteriori motivi di imbarazzo su dove o come avrebbe dovuto svolgersi un processo⁵. Inoltre, la notizia che i tedeschi stavano preparando un elenco di cittadini alleati, colpevoli di presunte atrocità, probabilmente influì sulla decisione di lasciare che fosse la Germania a processare i suoi imputati.

    Molte delle politiche alleate della seconda guerra mondiale furono determinate dal fallimento di quelle della prima. Questa volta, dichiarò il presidente Franklin D. Roosevelt, i tedeschi non avrebbero potuto parlare di pugnalata alla schiena, e la sua richiesta fu la resa senza condizioni. Era necessario far capire ai vinti che la guerra, la guerra d’aggressione, è un crimine, che essi non erano stati soltanto vittime, ma anche complici di un regime criminale, una cospirazione che affondava le sue radici nel militarismo prussiano, e che una simile pianta andava estirpata compietamente. Non vi era disaccordo tra i vincitori sul modo per raggiungere tale scopo: i tedeschi dovevano essere governati sotto lo stretto controllo delle forze d’occupazione alleate, l’industria pesante andava distrutta o smantellata, mentre le altre fabbriche avrebbero prodotto piccoli articoli per uso esclusivamente pacifico, e l’intera popolazione adulta doveva essere accuratamente passata al setaccio per verificarne i sentimenti nazionalsocialisti e militaristici.

    Il processo in corso a Norimberga contro i relativamente pochi colpevoli principali – coloro i cui crimini non avevano riguardato un unico Paese, ma erano di così vasta portata che soltanto un Tribunale internazionale poteva occuparsene – avrebbe dovuto essere il primo di una serie, ma fu il solo a svolgersi davanti a giudici americani, inglesi, russi e francesi. Anche se i dodici procedimenti successivi tenuti a Norimberga vennero definiti internazionali, in realtà furono interamente americani, mentre un’azione come il processo Peleus (vedi Capitolo 10, Doniti) fu internazionale unicamente nel senso che venne condotta davanti a un Tribunale militare britannico composto da cinque giudici inglesi e due greci. I maggiori criminali di guerra giapponesi furono giudicati da una Corte internazionale istituita dal generale MacArthur, comandante supremo delle potenze alleate, che confermò i nove membri designati dalle nazioni che avevano dichiarato guerra al Giappone⁶.

    CHI ERA COLPEVOLE?

    Anche se nel secolo scorso non fu mai possibile combattere guerre senza che l’offensiva psicologica riducesse tutto in termini di netta contrapposizione, nel secondo conflitto mondiale gli Alleati, esperti della propaganda, ebbero un compito facile. Già nel 1942, le nazioni al di fuori dei territori occupati dalla Germania sapevano con certezza che atrocità su vastissima scala venivano perpetrate ai danni di ebrei, prigionieri di guerra e popolazioni civili. Molti testimoni – anche tedeschi – erano riusciti a fuggire o a raccontare le loro esperienze a visitatori di Paesi neutrali. I movimenti di Resistenza in Polonia, Russia, Francia e Paesi Bassi inviavano a Londra, Washington e Mosca un flusso continuo di informazioni e resoconti circostanziati. Lo «Israelitisches Wochenblatt», pubblicato in Svizzera, riportava regolarmente notizie, pervenute attraverso canali clandestini, di deportazioni e stermini⁷.

    Dopo la fine della guerra, la maggior parte dei responsabili venne giudicata dai governi delle nazioni in cui erano stati commessi i delitti. Il 7 ottobre 1942 era stata istituita, nell’ambito delle Nazioni Unite, la Commissione per i crimini di guerra, incaricata di preparare gli elenchi dei colpevoli, affinché potessero essere processati a tempo debito; di essa facevano parte i rappresentanti di quindici Paesi, inclusi Stati Uniti e Gran Bretagna, ma non quelli dell’Unione Sovietica, che in questa e in altre questioni preferiva procedere per conto proprio. Nelle liste mancavano i nomi dei cosiddetti grandi criminali di guerra. Nell’autunno 1943, il segretario di Stato americano Cordell Hull si recò in Russia, dove, con Molotov ed Eden, firmò la dichiarazione di Mosca del primo novembre, in cui ci si proponeva di processare i colpevoli, senza però nominarne alcuno. Eccone uno stralcio:

    Gli ufficiali tedeschi, gli uomini e i membri del Partito nazista... che si sono resi responsabili di atrocità, massacri ed esecuzioni saranno consegnati ai Paesi in cui hanno commesso i loro abominevoli atti per essere giudicati e puniti secondo le leggi di tali nazioni liberate. Quanto sopra non riguarda i casi dei principali criminali, i cui delitti non hanno una precisa collocazione geografica e che saranno condannati in base alla decisione congiunta dei governi alleati⁸.

    Prima ancora che gli Stati Uniti entrassero in guerra, il presidente Roosevelt e Winston Churchill avevano ammonito i tedeschi che sarebbero stati ritenuti responsabili di crimini di guerra. In un comunicato del 25 ottobre 1941, Churchill dichiarò: «D’ora in poi, il castigo per tali delitti dovrà essere uno degli obiettivi più importanti di questa guerra». Nel corso del conflitto, simili avvertimenti vennero spesso ripetuti da tutte le nazioni coinvolte. Nel marzo 1943, in una risoluzione congiunta, il Senato e la Camera dei rappresentanti degli Stati Uniti dichiararono all’unanimità: «I princìpi di umanità e di condotta onorevole in guerra richiedono la cessazione degli ingiustificabili massacri e violenze... ed esigono che gli autori di simili atti siano ritenuti responsabili e condannati»⁹. I ministri degli Esteri alleati, nonché Stalin, Churchill, Roosevelt e certamente qualsiasi attento lettore di giornali, non avevano alcun dubbio sull’identità dei colpevoli; tra questi, i principali erano i capi del partito e dello Stato nazista, l’Alto comando dell’esercito e della marina, i diplomatici, gli industriali, i banchieri, i giudici e i burocrati. Alla fine della guerra, gli americani si apprestavano a giudicare circa 300 grandi criminali. Il giudice russo I. T. Nikitchenko riteneva che nel suo Paese l’elenco potesse arrivare a 500 nomi. Tuttavia, i principali responsabili erano facilmente identificabili. Il 14 ottobre 1942, il ministro degli Esteri sovietico Molotov scrisse: «Tutta l’umanità conosce i nomi e i sanguinosi delitti dei capi della cricca criminale hitleriana: Hitler, Goring, Hess, Goebbels, Himmler, Ribbentrop, Rosenberg»¹⁰. Il primo gennaio 1945, in occasione della conferenza di Jalta, membri dell’amministrazione Roosevelt come i ministri Stimson e Stettinius, e il ministro della Giustizia Biddle, prepararono per il presidente un memorandum in cui si affermava: «I nomi dei principali capi tedeschi sono ben conosciuti, e trovare le prove della loro colpevolezza non sarà un compito molto difficile»¹¹.

    Quando Stalin si presentò a Potsdam con un elenco di personaggi destinati a essere processati come grandi criminali di guerra, non vi furono obiezioni da parte di inglesi e americani. La lista russa includeva nomi altrettanto noti alle potenze alleate – Goring, Hess, Ribbentrop, Keitel, Donitz, Kaltenbrunner, Frick, Streicher, Krupp, Schacht, Papen, Hans Frank – e venne prontamente accettata nell’incontro dei Tre Grandi a Potsdam, il primo agosto¹². Esaminandola, il presidente Truman sollevò una blanda obiezione, osservando che personalmente condannava tutti gli industriali tedeschi, e che citarne alcuni poteva far pensare agli altri di riuscire a cavarsela. Stalin, però, fece notare che i nomi elencati costituivano solo degli esempi: quello di Krupp serviva a indicare il motivo generale per processare anche tutti gli altri, e se gli americani o gli inglesi preferivano sostituirlo, egli non si sarebbe opposto¹³. Questo punto di vista venne affermato con maggior forza dal procuratore capo americano a Norimberga, il giudice Robert H. Jackson, che dichiarò: «Gli Stati Uniti hanno sempre considerato i grandi industriali della Germania colpevoli dei crimini denunciati, allo stesso modo dei politici, diplomatici e militari»¹⁴.

    Il popolo tedesco non sarebbe mai stato formalmente accusato. Tra le potenze vincitrici, soltanto la Francia avviò un procedimento penale in cui non veniva fatta distinzione tra i nazisti e il resto della nazione. Gli americani furono ben attenti a tracciare una linea di separazione tra la massa della popolazione e gli imputati. Nella sua dichiarazione iniziale, Thomas J. Dodd disse: «Come tutti i ministri e gli alti ufficiali tedeschi sapevano, dietro le leggi e i decreti del Reichsgesetzblatt non vi era il consenso del popolo o dei suoi rappresentanti, ma il terrore dei campi di concentramento e della polizia di Stato»¹⁵.

    Nel discorso di apertura, il giudice Jackson dichiarò: «Non è nostra intenzione incriminare l’intero popolo tedesco. Sappiamo che il Partito nazista non conquistò il potere grazie alla maggioranza dei voti della nazione», ma per mezzo di un’alleanza composta da estremisti, reazionari e dai militaristi più aggressivi¹⁶.

    In realtà, nonostante i dinieghi, le accuse furono inevitabilmente rivolte contro il popolo tedesco. Un avvocato della difesa, dopo aver ascoltato le deposizioni relative alla distruzione del ghetto di Varsavia nel 1943, dove vennero uccisi 65.000 ebrei in quella che fu definita un’azione militare, anche se la polizia e le truppe delle SS persero soltanto sedici uomini, parlò di incancellabile infamia per il nome tedesco, una reazione condivisa nel corso del processo da parecchi imputati. «Non basteranno mille anni», dichiarò l’ex governatore generale della Polonia Hans Frank, «a cancellare questa colpa della Germania». Robert Ley, impiccatosi prima dell’inizio del processo, in un messaggio d’addio scrisse qualcosa di molto simile. Altri parlarono come se si fossero svegliati da un sogno fantastico in cui avevano in qualche modo recitato un ruolo: ora che si ritrovavano in un mondo reale dove il nazismo non esisteva più e bisognava rendere conto del massacro di persone innocenti, guardavano le immagini delle atrocità increduli e sgomenti. Essi confessarono pieni di vergogna, a volte accusando se stessi e, molto più spesso, gli uomini e le ideologie che avevano servito. Alcuni giurarono di non aver saputo nulla di quanto avveniva, dal momento che, per ordine del Führer, i doveri di ciascuno non dovevano oltrepassare i limiti delle rispettive competenze. Al di fuori dei tribunali, tuttavia, cattolici e protestanti si radunarono in solenni sedute per confessare le proprie responsabilità circa quanto era accaduto. La sensazione della colpa collettiva, anche se sempre respinta, rimase addosso a milioni di tedeschi, malgrado le dimostrazioni filosofiche e storiche della sua inesistenza¹⁷.

    LE UCCISIONI DI MASSA

    Ciò che emerse durante questo processo e quelli successivi scosse la compiacenza di una cultura occidentale che aveva sopravvalutato le proprie virtù civili. Era la storia dell’assassinio pianificato di moltitudini di bambini, vecchi, uomini e donne; di ebrei, zingari e slavi; di prigionieri di guerra; di soldati e civili uccisi non nell’eccitazione della battaglia, ma sui treni e nei rastrellamenti nel corso degli anni, come linea di condotta e in omaggio alla razza. Testimoni e documenti particolareggiati riferirono di un ritorno alla schiavitù e al saccheggio sistematico su vastissima scala; di istituti come ospedali e tribunali, nati per alleviare le sofferenze e le ingiustizie umane, e utilizzati invece per infliggerle. Venne calcolato che nel processo di sterminio erano stati coinvolti in totale 80.000 tecnici del massacro; tuttavia, per rendere possibile il loro operato in tutto il vasto impero del grande Reich germanico, erano stati necessari una ben organizzata burocrazia e un esercito assai efficiente, nonché la collaborazione, volontaria o coatta, di milioni di persone in Germania e nei territori occupati.

    Il quadro della tragedia non sarebbe mai stato completato. Frammenti di esso emersero nei processi tenuti in tutta Europa e, più tardi, in Israele, dove i numeri tatuati ad Auschwitz erano esibiti come trofei. Ciò che venne ascoltato e registrato nei procedimenti penali della metà del XX secolo sconvolse la generazione nata dalla guerra e abituata alle statistiche di uccisioni di massa. L’atteggiamento verso la razza e il capo carismatico non poteva più essere come prima che i nazisti rivelassero la propria potenza distruttiva. A onor del vero, gli 80.000 individui che avevano fatto funzionare l’apparato di sterminio non erano i soli carnefici, né i tedeschi gli unici colpevoli. Nel primo processo di Norimberga venne sollevata la questione della falsa accusa secondo cui i tedeschi avevano assassinato migliaia di prigionieri di guerra polacchi a Katyn: come gli stessi polacchi rivelarono a Roosevelt e Churchill, i responsabili di quelle uccisioni erano i russi. Inoltre, nei campi di concentramento e tra i lavoratori forzati non si trovavano soltanto ebrei e stranieri: tra i primi a essere rinchiusi nei campi vi furono 500.000 tedeschi ariani.

    A distinguere lo Stato nazista da altri regimi totalitari fu soprattutto l’efficienza con cui tutti i valori vennero capovolti. Non solo andava soppresso Dio, ma anche la religione, la famiglia e i vecchi concetti di giustizia. La legge era semplicemente qualcosa che rifletteva il senso della razza. Il processo di sterminio venne razionalizzato allo stesso modo della produzione di materiale bellico: si giustificava da solo, era fine a se stesso; la vittima era nata al suo interno e, una volta accertatane l’appartenenza a una categoria di indesiderabili, non aveva scampo. Quando i prigionieri erano ormai ridotti allo stato di creature destinate a perdere il loro senso di identità con gli altri esseri umani, sopravveniva la morte. Un addetto ai campi di concentramento aveva dato al proprio cane il nome Mensch (uomo) e si divertiva a sguinzagliarlo contro i detenuti gridando: «Mensch, insegui i cani!». Non era soltanto l’aberrazione di una SS, ma l’espressione di una complessa linea politica. L’efficienza del processo di sterminio, con la sua dettagliata documentazione, le pseudoricerche scientifiche e tecnologiche, e gli orrori, fu qualcosa di unico. Le SS implicate nelle uccisioni parlavano delle difficoltà del loro compito e dell’incomprensione dei compatrioti che preferivano non occuparsi di certe cose. Il comandante del campo di concentramento di Auschwitz, Rudolf Hoss, che diresse l’esecuzione di un milione e mezzo di prigionieri, usava parole poetiche per descrivere le proprie esperienze. «Nella primavera del 1942», scrisse, «molti giovani in fiore marciarono sotto gli alberi da frutta in boccio della fattoria, quasi tutti ignari di andare incontro alla morte». I suoi alberi in boccio si trovavano nei pressi delle camere a gas¹⁸.

    I campi erano disumani in modo surreale. Con un’operazione chirurgica eseguita dal medico delle SS Fritz Mengele, che dopo la guerra riuscì a fuggire dalla Germania, due piccoli zingari vennero cuciti insieme per ottenere dei fratelli siamesi; un testimone riferì che le loro mani presentavano gravi infezioni dove le vene erano state resecate. Nei campi della morte, i bambini aiutavano a spargere per le strade le ceneri delle persone cremate. Le donne dormivano in dodici su un unico tavolaccio, così stipate che erano costrette a coricarsi testa contro piedi e, quando una si girava, anche le altre dovevano farlo. Su alcuni ragazzi greci vennero condotti esperimenti riguardo ai sistemi di castrazione. I tatuaggi, di cui tanto spesso si è parlato, erano particolarmente ambiti, poiché costituivano la promessa di restare in vita almeno per un po’. Il numero dei morti nei campi di prigionia divenne così alto, che gli ultimi arrivati si videro incidere cifre precedute dalle lettere A e B. Nel 1944, quando ad Auschwitz giunse un gruppo di ebrei ungheresi, gli altri internati raccomandarono loro di farsi tatuare prima possibile, perché ciò significava essere registrati, entrando a far parte della forza lavoro del campo; anche i lavoratori alla fine sarebbero stati liquidati, ma tra la registrazione e la camera a gas passava un certo tempo. Quelli che arrivavano al campo troppo deboli per lavorare, dopo le estenuanti marce di trasferimento, venivano radunati subito nel settore della morte. Non esistevano registrazioni, per loro: venivano e se ne andavano in maniera anonima. In qualche circostanza, si usavano altri mezzi di identificazione. Se una SS notava un individuo che inghiottiva qualcosa prima di entrare nella camera a gas, gli marcava il petto con il gesso; dopo l’esecuzione, i corpi così contrassegnati venivano aperti per recuperare diamanti e altri oggetti di valore.

    Notizie trapelate dalla Germania e dai Paesi occupati, documenti trovati nelle pareti di edifici semidistrutti, archivi salvati dalle fiamme, testimonianze personali come quella di Hans Frank, che consegnò agli Alleati i 38 volumi del suo diario, dichiarando di riconoscere la propria colpevolezza e di voler rendere nota la verità, servirono a integrare ciò che le truppe alleate avevano visto impadronendosi dei campi di concentramento. L’inedia dei prigionieri di Dachau era a uno stato talmente avanzato, che centinaia di essi morirono dopo la liberazione, nonostante le cure e l’attenta alimentazione subito applicate dai medici americani. Prima di morire, alcuni internati chiesero di poter vedere un soldato o vollero un pezzo di uniforme da tenere tra le mani.

    IL CRIMINE PIÙ GRANDE

    La formulazione delle accuse per questi crimini non prese molto tempo agli esperti di diritto alleati. I dibattiti che portarono all’accordo di Londra dell’8 agosto 1945, con la nomina della Corte e le linee generali delle sue competenze, misero in luce un’unica seria divergenza di opinioni¹⁹, e vi fu qualche contrasto sull’enunciazione della clausola relativa alla guerra d’aggressione che venne alla fine adottata.

    Molto tempo prima che le bombe atomiche esplodessero nel deserto del Nuovo Messico e in Giappone, statisti e giornalisti – soprattutto americani e appartenenti a Paesi i cui confini erano stati allargati dopo il primo conflitto mondiale – avevano discusso sulla necessità di delegittimare la guerra, di considerare l’attacco a una nazione come un’aggressione nei confronti della comunità internazionale e di punirne gli autori, esattamente come le singole società puniscono chi commette reati.

    Gli oppositori di questa politica di sicurezza collettiva sostenevano che essa avrebbe finito per trasformare ogni conflitto locale in una guerra di notevoli proporzioni, coinvolgendo le grandi potenze; che tendeva a conservare lo status quo, per quanto iniquo o incerto potesse essere; che la guerra, pur riprovevole e condotta con mezzi primitivi, nel corso di tutta la storia aveva costituito l’unica e ultima risorsa per stabilire nuovi rapporti di potere; e che la decisione di dichiarare guerra era comunque un atto di Stato, un accorgimento politico, non un’iniziativa personale, ed era radicata nelle usanze e nelle leggi internazionali. La guerra poteva forse servire soltanto a dimostrare quale fosse la nazione più forte, tuttavia rimaneva l’ultimo sistema per risolvere dispute internazionali giunte a tali estremi da non permettere più alcuna trattativa. Per i sostenitori della sicurezza collettiva, però, l’unica guerra giusta era quella condotta per difendersi da un aggressore; secondo costoro, la meccanizzazione della guerra, con i suoi attacchi contro i centri abitati, aveva disumanizzato il conflitto armato al punto da trasformarlo in una lotta tra macchine unicamente per dimostrare quale fosse la più spietata ed efficace²⁰. Le guerre, affermavano, ormai non erano altro che massacri indiscriminati compiuti con armi automatiche.

    Negli anni durante e dopo la seconda guerra mondiale, la battaglia tra i sostenitori e gli oppositori della sicurezza collettiva continuò, ma in maniera assai più blanda. Il concetto di aggressione si era saldamente affermato nel linguaggio degli uomini di Stato e dei loro elettori, anche se non ne esisteva ancora una definizione precisa. Influenti personaggi americani, sia repubblicani che democratici, uscendo bruscamente dall’isolazionismo, dichiararono che la seconda guerra mondiale non avrebbe indotto gli Stati Uniti a entrare nella Società delle Nazioni, e nel corso del conflitto ribadirono più volte la loro intenzione di evitare a tutti i costi il ripetersi dello stesso errore.

    Il giudice Jackson, uomo di grandi ideali e non privo di ambizioni politiche, giunse al processo con la ferma convinzione che la guerra d’aggressione fosse un crimine, che il concetto di neutralità fosse stato reso obsoleto dal patto Kellogg-Briand del 27 agosto 1928, delegittimando la guerra, e che gli individui che agivano in nome dei loro governi dovevano essere considerati responsabili di quelli che in precedenza erano stati atti di Stato. Dal suo punto di vista, la delegittimazione della guerra rappresentava la pietra angolare del nuovo ordine mondiale. Anche i crimini contro gli ebrei andavano ricollegati a un complotto inteso a intraprendere una guerra d’aggressione, altrimenti – tale era il timore del giudice Jackson – i colpevoli non sarebbero stati adeguatamente processati. Egli affermava che il patto Kellogg-Briand aveva dato inizio a una nuova era in cui si doveva chiarire la responsabilità penale degli uomini di Stato che ricorrevano alla guerra, violando i trattati. Così dichiarò a Londra, nel corso delle sedute per preparare i capi d’accusa e le procedure del processo:

    Il programma Lend-Lease, lo scambio di basi per cacciatorpediniere e gran parte della politica americana si fondavano inequivocabilmente sull’idea che una guerra d’aggressione sia da considerarsi illegittima. A indurci a partecipare a questo conflitto fu il fatto che, fin dall’inizio, considerammo illecita l’iniziativa della Germania, un attacco inaccettabile alla pace e all’ordine internazionali. E durante tutto il periodo in cui ci impegnammo a favore delle popolazioni aggredite, il segretario di Stato, il ministro della guerra Stimson e io stesso come ministro della Giustizia giustificammo tale intervento affermando che questa guerra era stata illegittima fin dal principio, e che quindi noi non stavamo facendo niente di illecito concedendo aiuti a chi era stato ingiustamente e illegalmente attaccato... Desideriamo che questa società di nazioni si alzi in piedi e dica chiaramente, come noi abbiamo detto al nostro popolo, come hanno detto il presidente Roosevelt e i membri del governo, che intraprendere una guerra d’aggressione è un crimine che non può essere giustificato da alcuna situazione politica o economica. Se ciò è sbagliato, allora gli Stati Uniti hanno commesso parecchi errori aiutando i Paesi attaccati prima di entrare anch’essi in guerra.

    Dal momento che la guerra tedesca era stata illegittima dall’inizio, egli continuò, gli Stati Uniti erano giustificati per aver violato le regole della neutralità e «...quando ci si rese conto di avere a che fare con criminali di guerra, la posizione del presidente venne chiaramente spiegata al popolo americano: lanciare una guerra d’aggressione era un crimine»²¹. La Germania, sottolineò, non aveva attaccato gli Stati Uniti, ma l’intervento americano era giustificato dal fatto che la guerra era di per sé illegittima.

    L’esperto francese di diritto internazionale presente alla conferenza di Londra, professor André Gros, e i russi non erano convinti che si potessero processare degli individui per aver provocato una guerra. Gros, accogliendo il tradizionale punto di vista della responsabilità per atti di Stato, dichiarò: «Non giudichiamo una guerra d’aggressione come una violazione criminale: considerando la guerra l’atto criminale di un individuo, andremmo oltre la legislazione esistente». Il principio, egli pensava, sarebbe diventato legge negli anni futuri, «ma allo stato attuale non riteniamo lecite certe conclusioni». Nell’udienza del 23 luglio, durante le discussioni sulla possibilità di far rientrare i crimini nell’ambito del diritto internazionale, egli definì ciò che i delegati facevano dichiarando criminali atti come l’aggressione «un’invenzione di quattro singoli individui che ritengono certi atti violazioni criminali del diritto internazionale, anche se mai in precedenza sono stati visti sotto tale luce. Si tratta di una legislazione ex post facto»²². Come rappresentante di una potenza che in questo incontro di Londra era stata invitata per la prima volta a unirsi ai tre grandi, Gros si mostrò prudente e meticoloso. Due giorni dopo, il 25 luglio, egli affermò che il piano di massima preparato dagli americani tentava di occuparsi di troppi argomenti e che, in materia di ritorsioni, cercava di «sbarazzarsi dell’intera faccenda... esistente da 500 anni: non potete liquidarla in poche parole»²³.

    I russi (ricordando senza dubbio di essere stati dichiarati aggressori dalla Società delle Nazioni nella guerra con la Finlandia del 1940-41) si schierarono con Gros. Il generale Nikitchenko disse che non gli sembrava possibile includere l’aggressione tra le imputazioni, sottolineando che «nonostante se ne parli con cognizione, non è possibile definirla». Poiché il dibattito andava avanti, egli aggiunse che, se avessero continuato a discuterne, i criminali sarebbero morti di vecchiaia.

    La posizione sovietica sull’aggressione venne presentata alla conferenza di Londra anche da un collega di Nikitchenko, il professor A. N. Trainin²⁴. Membro dell’Istituto legale di Mosca, nel 1944 Trainin aveva scritto un libro sulle responsabilità naziste della guerra, che egli associava a un ordine economico industriale caratteristico della Germania prima che Hitler salisse al potere e dopo. Trainin citò il discorso tenuto da Molotov il 6 gennaio 1942, in cui si dichiarava che questa non sarebbe stata una normale guerra, ma un conflitto inteso a sterminare popoli pacifici. Ripercorrendo secondo tale ottica la storia della Germania, egli individuò quelle che definì le caratteristiche banditesche dell’imperialismo germanico durante il regno di Guglielmo II e nel comportamento della Prussia nel 1870-71. Pacta sunt servanda (i patti vanno rispettati), citò, e continuò dicendo che l’aggressione andava considerata come il più pericoloso dei crimini internazionali, anche se, naturalmente, il concetto non si applicava alle guerre di liberazione. La massa delle truppe fasciste era stata crudele, accanita e avida, ma i veri colpevoli erano i personaggi più autorevoli: i capi di governo, i capitani dell’industria e della finanza, i maestri dell’economia. Gli alti responsabili tedeschi dovevano essere processati in base al «verdetto politico delle nazioni democratiche vincitrici». L’intera storia politica e militare della Germania prussiana aveva seguito la strada del crimine. «È un tribunale penale che si prepara a giudicare, severo e inflessibile... l’organizzazione banditesca della tirannia hitleriana satura di ignobile prussianesimo»²⁵.

    Il libro di Trainin era stato letto e studiato attentamente dalla maggior parte dei partecipanti alla conferenza di Londra. Sir William Jowett, Lord Cancelliere del governo laburista, il 2 agosto 1945 convocò i delegati, dichiarandosi ansioso di «definire» quanto bisognava fare e suggerendo che l’accusa si basasse sul testo di Trainin, considerando l’aggressione «un crimine contro la pace», piuttosto che un crimine di guerra, come proponevano gli americani.

    I russi fecero poche concessioni agli americani e non si mostrarono rispettosi verso il membro della Corte Suprema degli Stati Uniti come lo erano verso i rappresentanti delle altre potenze. Il giudice Jackson, irritato dalle lunghe discussioni e forse pensando di mettere in atto una minaccia, dichiarò che gli Stati Uniti si sarebbero ritirati dal processo, lasciando i prigionieri alle altre nazioni. Dopo uno di questi scoppi d’ira, durante la riunione del 25 luglio, Nikitchenko si limitò a ribadire la posizione sovietica: «Cosa si vuole condannare, allora, l’aggressione o avvio di una guerra in generale, oppure le particolari aggressioni compiute dai nazisti in questo conflitto? Se si è orientati verso una definizione generale, non possiamo essere d’accordo». Quando Jackson parlò del potere del presidente degli Stati Uniti (il quale, sottolineò, non aveva l’autorità per condannare nessuno), proseguendo poi col dire che nel suo Paese non avvenivano esecuzioni politiche, Nikitchenko osservò: «Forse mi sbaglio, ma credevo che il nostro scopo non fosse discutere la filosofia della legge, ma cercare di raggiungere un accordo... applicare la giustizia, dando dei nomi ai criminali di guerra»²⁶. Alla fine, i russi presentarono una nuova stesura della clausola sull’aggressione che risolveva la faccenda in maniera molto semplice ed era assai più precisa di quanto il giudice Jackson avesse sperato. In essa, il crimine veniva definito come «Aggressione o assoggettamento di altre nazioni messi in atto dalle potenze europee dell’Asse in violazione delle leggi internazionali e dei trattati»²⁷.

    Dal punto di vista sovietico, si trattò di una soluzione vantaggiosa e praticabile, dal momento che, quando il documento d’accusa fu pronto, in esso si stabiliva che l’Estonia, la Lettonia e la Lituania facevano parte del territorio sovietico. Il 6 ottobre, in una lettera agli altri procuratori capo, Jackson fece una riserva formale: «Questa formulazione viene proposta dalla Russia ed è accettata per evitare il ritardo che l’insistenza sulla modifica del testo provocherebbe»²⁸. Niente di ciò che era contenuto nel documento d’accusa, egli dichiarò fermamente, indicava il riconoscimento da parte degli Stati Uniti della sovranità russa su quei Paesi.

    LE ORGANIZZAZIONI SOTTO ACCUSA

    La conferenza di Londra indicò come imputati ventiquattro uomini e sei organizzazioni. L’idea di mettere sotto accusa le organizzazioni fu soprattutto americana. Il giudice Jackson dichiarò che i singoli membri di ognuno di questi gruppi criminali sarebbero stati processati a tempo debito, ma che l’adozione del concetto angloamericano di cospirazione avrebbe contribuito a chiarire la situazione legale, fatto risparmiare tempo ed evitato di tenere innumerevoli processi per dimostrare lo stesso punto.

    La proposta non incontrò eccessive difficoltà e venne accettata, anche se l’idea di cospirazione era estranea sia alla legge francese che a quella russa. I russi, criticando l’imputazione delle organizzazioni naziste come un’inutile complicazione, sottolinearono che i gruppi erano stati sciolti e i loro crimini accuratamente verificati, e che essi preferivano intentare procedimenti penali nei confronti dei singoli individui, pur avendo la Russia, come la Francia, leggi dirette contro organismi pericolosi per lo Stato²⁹.

    Il generale Nikitchenko affermò che la Gestapo e le SS erano già state dichiarate criminali da autorità al di sopra del Tribunale. «La loro criminalità è stata definitivamente accertata. Non possiamo pensare... che il Tribunale emetta un verdetto in cui si giudichi diversamente una di queste organizzazioni, quando essa è già stata classificata come criminale dai governi»³⁰. Ma ciò non faceva grande differenza per i russi, e Nikitchenko fece notare più di una volta a Jackson che l’Unione Sovietica, nonostante fosse inizialmente contraria a procedere contro le organizzazioni, aveva generosamente cambiato idea, accettando la proposta americana. Il memorandum inviato al presidente Roosevelt a Jalta e firmato da Stimson, Stettinius e Biddle, aveva suggerito di processare i principali leader tedeschi insieme alle organizzazioni di cui avevano fatto parte: le SA, le SS, la Gestapo. Mettere a morte questi personaggi senza processarli, sosteneva il memorandum, equivaleva a violare «i più fondamentali princìpi di giustizia comuni a tutte le Nazioni Unite».

    Secondo l’accusa, le organizzazioni naziste erano state necessarie per raggiungere gli obiettivi criminali del regime. Le SA avevano rappresentato la prima organizzazione di massa del partito; le SS avevano portato il partito nelle forze armate; nell’Alto comando e nello Stato maggiore aveva avuto origine la cospirazione contro la pace mondiale. I reati di cui erano accusate le organizzazioni, come quelli dei singoli individui, variavano ampiamente. Le SA avevano perso importanza dopo l’assassinio nel 1934 di dozzine di loro capi, compreso il comandante, Ernst Rohm; anche così, tra i gruppi incriminati vi erano leader politici del partito e dello Stato, definiti Reichsregierung nel documento d’accusa, e tutti appartenenti alle SS, al SD e alle SA³¹. Il SD era il servizio di sicurezza che aveva costituito inizialmente il ramo informazioni del partito e si era successivamente sviluppato, estendendo la sua rete di terrore sull’Europa e i territori occupati. La Gestapo era stata creata da Hermann Goring come polizia segreta per scovare i nemici dello Stato, e in breve era giunta a poter ordinare l’arresto di chiunque senza processo.

    CHE GENERE DI PROCESSO?

    Sulla questione relativa al genere di processo da istruire, vi erano state nel corso degli anni opinioni contrastanti. Secondo il segretario di Stato Hull, i leader tedeschi avrebbero dovuto essere trattati con scarsa considerazione, facendoli processare da una Corte marziale tenuta in zona d’operazioni. Tale visione era condivisa da molti personaggi di spicco inglesi, tra cui Winston Churchill, il quale espresse il desiderio che i principali criminali nazisti venissero prelevati un mattino e fucilati senza tante storie. Così la pensava anche il ministro americano del Tesoro, Henry Morgenthau. Il presidente della Corte Suprema degli Stati Uniti disse che, pur ammettendo la possibilità di un atto spontaneo come questo, aveva seri dubbi sulla legalità e la giustizia di un processo che, date le circostanze, sarebbe stato inevitabilmente più politico che legale. È curioso notare come in passato il giudice Jackson avesse condiviso tale posizione. La rivista «Life» riportò un discorso da lui pronunciato al fine di mettere in guardia contro l’uso di procedimenti giudiziari per scopi illegittimi, in cui aveva attaccato i cinici che non vedevano la ragione per cui i tribunali, alla pari di altri organismi, non potessero essere usati come armi. «Se vogliamo uccidere dei tedeschi per motivi politici », egli scrisse, «facciamolo pure, ma non nascondiamoci dietro la sentenza di un tribunale: il mondo non ha alcun rispetto per i tribunali organizzati con il solo proposito di condannare»³². Non è chiaro cosa gli avesse fatto cambiare idea. Forse, risultarono per lui decisive la nomina a procuratore capo americano e l’opportunità di presentare il caso per un nuovo assetto legale mondiale, offerta dal procedimento giudiziario contro i criminali nazisti; o, forse, a spingerlo furono le sue ambizioni politiche.

    In un aid-mémoire inglese per il giudice Samuel Rosenman, amico del presidente Roosevelt e delegato durante i negoziati preliminari che portarono ai processi, si affermava che un lungo processo avrebbe suscitato una reazione pubblica negativa, e inoltre sarebbe stato considerato una macchinazione. Sia i russi che il presidente degli Stati Uniti, tuttavia, volevano un processo in grande stile, anche se per ragioni assai diverse. Roosevelt e molti dei suoi consiglieri, come Stimson, Stettinius e Biddle, vedevano il Tribunale come il simbolo di un nuovo ordine internazionale. Per i russi, la questione della colpevolezza era ormai stata risolta: doveva soltanto essere presentata in una nuova veste, resa chiara al mondo; il processo avrebbe confermato decisioni già prese. Prima che il procedimento avesse inizio, il giudice russo Nikitchenko specificò: «Ci occupiamo in questa sede dei principali criminali di guerra, che sono già stati giudicati colpevoli e la cui condanna è stata pronunciata con le dichiarazioni di Mosca e di Jalta, e dai capi dei governi». Pertanto, egli pensava che compito del Tribunale fosse unicamente quello di stabilire senza indugio la giusta punizione. Né vi era necessità, aggiunse, «di mettere in scena una sorta di finzione in cui il giudice è una persona disinteressata che non ha alcuna conoscenza legale di ciò che è avvenuto in precedenza... [il che] porterebbe unicamente a inutili ritardi»³³.

    LA CARTA DEL TRIBUNALE MILITARE INTERNAZIONALE

    L’accordo di Londra dell’8 agosto 1945 venne formulato conformemente ai suoi obiettivi di vasta portata da Stati Uniti, Gran Bretagna, Unione Sovietica e Francia. Questi quattro Paesi agirono in rappresentanza delle Nazioni Unite, vale a dire in nome dei ventisei Stati che avevano mosso guerra alla Germania. L’accordo dichiarava che i firmatari, dopo essersi consultati con la Commissione alleata di controllo, avrebbero istituito il Tribunale militare internazionale per processare i criminali di guerra i cui reati non avevano una precisa collocazione geografica. L’atto venne firmato da Robert Falco per la Francia, Sir William Allen Jowett per la Gran Bretagna, I. N. Nikitchenko per l’Unione Sovietica e Robert H. Jackson per gli Stati Uniti. Quindi, il procuratore capo americano e il procuratore generale inglese si riunirono con il membro russo del Tribunale e il sostituto francese per nominare la Corte.

    La Carta del Tribunale, che faceva parte dell’accordo di Londra, stabiliva che la competenza del Tribunale stesso non poteva essere messa in discussione né dall’accusa né dalla difesa, e che le sue decisioni sarebbero state prese in base a un voto di maggioranza, lasciando l’ultima parola al presidente della Corte in caso di parità. Inizialmente, i russi avrebbero voluto che la carica di presidente della Corte fosse occupata a turno, tuttavia accettarono la proposta di assegnarla a uno stimato ed esperto giurista, il membro inglese del Tribunale, giudice Lord Geoffrey Lawrence.

    Durante gli incontri di Londra, Nikitchenko e Trainin insistettero ostinatamente affinché la sede dei processi fosse Berlino, dove si sarebbero custoditi gli atti e prese le decisioni, anche se erano favorevoli al fatto che il primo processo si tenesse a Norimberga, città che offriva la possibilità di alloggiare 1200 prigionieri, mentre a Berlino non era rimasto intatto alcun edificio abbastanza grande da accogliere un tal numero di persone.

    I russi non parteciparono alla visita per ispezionare il palazzo di giustizia di Norimberga, anche se all’inizio Nikitchenko aveva accettato l’invito di Jackson a recarvisi con i rappresentanti delle altre potenze. Durante una cena al Savoy Hotel di Londra, inaspettatamente annunciò che lui e Trainin non sarebbero andati; Jackson si offrì di spostare la data per venire incontro alle loro esigenze, ma Nikitchenko dichiarò che nessun giorno sarebbe stato adatto. Ovviamente, le istruzioni di Mosca erano contrarie a una simile inopportuna fraternizzazione. A Berlino, in Polonia e nei Balcani, i russi avevano già dato inizio a quella che presto sarebbe stata definita guerra fredda e non erano inclini a trasformare i preparativi del processo in occasioni sociali.

    Secondo la Carta, il Tribunale poteva processare qualsiasi cittadino delle nazioni nemiche. Le imputazioni non avrebbero riguardato soltanto i tedeschi: tra gli accusati, infatti, vi erano anche due cittadini austriaci. La Corte aveva il compito di processare e punire quelle persone che, operando negli interessi delle ex potenze europee dell’Asse, avevano programmato o messo in atto una guerra d’aggressione, e coloro che avevano commesso crimini di guerra o contro l’umanità. Venivano illustrate in dettaglio quattro categorie di crimini:

    1. Crimini contro la pace. Di questi ve n’erano di due tipi, ovvero a) progettazione, preparazione, avvio o attuazione di una guerra d’aggressione, o di una guerra in violazione di trattati, accordi o garanzie internazionali, oppure b) partecipazione a un piano comune o cospirazione al fine di perpetrare i suddetti reati.

    2. Crimini di guerra, ovvero violazione delle leggi e delle regole di guerra, [compresi] l’uccisione, il maltrattamento o la deportazione ai lavori forzati... della popolazione civile... in territorio occupato, uccisione o maltrattamento di prigionieri di guerra o di persone in mare, eliminazione di ostaggi, saccheggio... distruzione ingiustificata di città, paesi o villaggi, o devastazione non motivata da necessità militari.

    3. Crimini contro l’umanità, ovvero uccisione, sterminio, riduzione in schiavitù, deportazione o altri atti disumani commessi contro popolazioni civili prima e durante la guerra, nonché persecuzioni per motivi politici, razziali o religiosi... in relazione a qualsiasi crimine nell’ambito della giurisdizione del Tribunale, in violazione o meno delle leggi nazionali del Paese dove esso era stato perpetrato.

    Pertanto, vennero inclusi i crimini commessi in Germania, malgrado le leggi naziste dell’epoca. Il fatto che un imputato avesse agito in base a un ordine del governo o di un superiore non lo scagionava dalla responsabilità di averlo eseguito, anche se gli ordini superiori potevano essere considerati un’attenuante nel caso che, a giudizio del Tribunale, ciò rientrasse nell’interesse della giustizia. I redattori della Carta del Tribunale avevano avuto cura di occuparsi di quello che sarebbe stato certamente l’argomento chiave della difesa di molti degli accusati. Soltanto un anno prima, nei manuali militari inglese e americano, era stata prudentemente inserita una clausola che proibiva espressamente l’esecuzione di ordini disumani o illegali. Fino ad allora, in base alla dottrina accettata da entrambi gli eserciti, un soldato doveva obbedire agli ordini dei suoi superiori, fosse o meno d’accordo. Con l’avvicinarsi dei processi, si provvide a cambiare le regole, dichiarando che un soldato non era tenuto a eseguire ordini che andassero contro la sua coscienza³⁴ (strano a dirsi, anche nell’esercito tedesco esisteva qualcosa di simile: durante la prima guerra mondiale, e perfino sotto il nazismo, il regolamento militare prevedeva che un soldato non dovesse obbedire a ordini che sapeva essere illegali³⁵).

    IL TRIBUNALE E LA PRIGIONE

    Il Tribunale era formato da quattro membri e quattro sostituti, ovvero due giudici per ciascuna potenza alleata³⁶. Durante i procedimenti, indossavano tutti la toga, a eccezione dei russi, che vestivano l’uniforme militare. L’aula, in grado di ospitare circa 600 persone, si trovava al secondo piano del palazzo di giustizia. Gli imputati venivano condotti uno per uno con un ascensore che si apriva nell’aula, dopo essere passati attraverso una serie di posti di controllo, ognuno dei quali avvertiva telefonicamente il successivo dell’arrivo di ciascun prigioniero. Essi erano ospitati in celle separate, ognuna sorvegliata giorno e notte da un agente di custodia. Durante i 20 minuti di esercizio all’aria aperta o nelle docce non avevano il permesso di parlare tra loro, ma quelli che si conoscevano abbastanza da rivolgersi la parola potevano scambiarsi opinioni sul banco degli imputati durante le pause. Non era consentito indossare distintivi militari, né gli Alleati riconoscevano i gradi tedeschi, perché, in caso contrario, avrebbero dovuto attenersi alla convenzione di Ginevra sul trattamento dei prigionieri di guerra, i quali, pertanto, non avrebbero potuto essere tenuti in isolamento. Per chi aveva bisogno di abiti (diversi imputati avevano solo i vestiti che portavano al momento dell’arresto) fu fatto confezionare da un sarto di Norimberga un abito completo, che poteva essere indossato unicamente durante le ore del processo e veniva ritirato immediatamente quando il prigioniero tornava in cella.

    IL DOCUMENTO D’ACCUSA

    Agli occhi delle nazioni vincitrici, due erano i gruppi di imputati da processare. Uno era lo Stato maggiore germanico, oggetto di attacchi non solo da parte degli Alleati, ma anche dei critici liberali tedeschi ben prima dell’arrivo di Hitler. L’accusa americana lo definiva l’eterna fonte di mali da cui avevano preso ordini i nazisti e tutte le organizzazioni politiche temporaneamente al potere. Poiché lo Stato maggiore aveva dovuto ovviamente essere sostenuto con gli strumenti della guerra, il giudice Jackson, seguendo la formula della conferenza di Potsdam, ordinò a uno dei suoi assistenti di trovare due o più industriali da mettere sotto accusa. Non riuscire a dimostrare la colpevolezza dell’Alto comando, disse il procuratore capo americano, sarebbe stato peggio che assolvere tutti gli imputati³⁷. L’opinione di Jackson sull’iniquità dello Stato maggiore trovava ampio consenso; a condividerla erano eminenti personaggi inglesi e francesi, nonché l’ex sottosegretario di Stato americano Sumner Welles, l’ex ministro della Guerra Henry L. Stimson e i presidenti Roosevelt e Truman³⁸.

    Il documento d’accusa definì il Partito nazista il «nucleo centrale del piano comune o cospirazione», affermando che i cospiratori avevano progettato «di abrogare... il trattato di Versailles e le sue limitazioni relative all’armamento e alle attività militari della Germania; di rioccupare i territori perduti in conseguenza della guerra mondiale del 1914-18... di procurarsi... Lebensraum... a spese dei Paesi confinanti e di altri...», con l’uso di «frode, falsità, minacce, intimidazione, collaborazionismo e propaganda».

    Secondo la loro dottrina, le persone di sangue germanico erano individui superiori, una razza padrona governata dal Führerprinzip, per i quali la guerra rappresentava un’attività nobile e necessaria, mentre il gruppo dirigente del Partito nazista «aveva il compito formare la struttura, le politiche e le regole dello Stato germanico».

    Durante il regime del partito, così denunciò l’accusa, erano scomparsi 5.700.000 dei 9.600.000 ebrei che in precedenza vivevano nei Paesi caduti sotto la dominazione nazista. «I cospiratori nazisti... adottarono un sistema di terrore contro gli avversari del regime... o coloro che erano sospettati di esserlo... [essi] abolirono le libere organizzazioni sindacali... incoraggiando idee e pratiche incompatibili con l’insegnamento cristiano, mirate a danneggiare l’influenza delle Chiese sulla gente, in particolare sulla gioventù della Germania... misero in atto un programma di persecuzione contro i preti, il clero e gli appartenenti a ordini monastici». Essi modificarono il metodo formativo tedesco per preparare psicologicamente i giovani alla guerra. Tolsero ai lavoratori i loro diritti e, con «la complicità degli industriali, avviarono un imponente piano di riarmo... Portarono la Germania a riarmarsi segretamente tra il 1933 e il marzo del 1935... abbandonando la conferenza internazionale sul disarmo e la Società delle Nazioni». Il loro piano era rioccupare e fortificare la Renania, in violazione del trattato di Versailles e di altri accordi, e di acquisire potenza militare e potere politico nei confronti di altre nazioni.

    La rioccupazione della Renania, nel marzo 1936, aveva aperto la strada ai successivi atti d’aggressione: l’invasione dell’Austria nel 1938, e poi della Cecoslovacchia.

    A questo, seguì l’elaborazione del piano per attaccare la Polonia, l’allargamento del conflitto in una guerra generale di aggressione, la pianificazione e l’esecuzione degli attacchi contro la Danimarca, la Norvegia, il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo, la Jugoslavia e la Grecia. Dopo di che, «il 22 giugno 1941, i cospiratori nazisti denunciarono con l’inganno il patto di non aggressione» firmato con la Russia il 23 agosto 1939, «e senza alcuna dichiarazione di guerra, invasero il territorio sovietico, avviando pertanto una guerra d’aggressione contro l’URSS».

    I cospiratori tedeschi avevano collaborato con l’Italia e il Giappone per intraprendere una guerra d’aggressione contro gli Stati Uniti, formando con quei Paesi il 27 settembre 1940, a Berlino, un’alleanza militare ed economica di dieci anni, rafforzando così l’accordo limitato siglato il 25 novembre 1936. Avevano esortato i giapponesi a perseguire «un nuovo ordine».

    L’accusa continuava: «Approfittando delle guerre d’aggressione allora messe in atto dai cospiratori nazisti, il 7 dicembre 1941 il Giappone diede inizio a un attacco contro gli Stati Uniti... e contro il Commonwealth britannico, l’Indocina francese e l’Olanda».

    Inoltre, i cospiratori nazisti complottarono per muovere guerra «con spietato e totale disprezzo» delle leggi di umanità e delle regole di guerra. Pertanto, «gli imputati, insieme a varie altre persone», dichiarò l’accusa, «sono colpevoli di cospirazione per l’esecuzione di crimini contro la pace, di cospirazione per commettere crimini contro l’umanità durante la preparazione della guerra e nel corso di essa, e di cospirazione per mettere in atto crimini di guerra, non solo contro le forze armate dei loro nemici, ma anche a danno di popolazioni civili non belligeranti»³⁹.

    Questo solenne documento riuscì a complicare a tal punto gli argomenti concreti del processo emersi negli anni del dopoguerra, che non si riuscì mai a chiarirli del tutto. Mentre incriminavano i tedeschi per avere invaso la Polonia nell’ambito di una cospirazione, l’accusa e il Tribunale preferirono ignorare ciò che aveva reso l’invasione un’operazione sicura, vale a dire il patto di non aggressione stretto da Hitler con l’Unione Sovietica nell’agosto 1939 e il documento segreto che l’accompagnava, in base al quale l’Armata Rossa aveva invaso la Polonia alcune settimane dopo, occupando posizioni prestabilite. Nello stesso tempo, il patto di non aggressione russo-germanico veniva citato nell’accusa come l’accordo violato dalla Germania invadendo la Russia nel giugno 1941. Le violazioni del trattato di Versailles – un documento che fin dal 1919 si era attirato crescenti critiche da parte dei più importanti statisti e storici dei Paesi alleati, come anche della Germania – e l’occupazione della Renania venivano poste sullo stesso piano, come l’uccisione di milioni di non combattenti indifesi⁴⁰. I brani relativi agli attacchi nazisti contro le Chiese e le menti dei giovani, e all’incoraggiamento di «idee e pratiche incompatibili con l’insegnamento cristiano» fecero probabilmente comparire l’ombra di un sorriso sui volti dei rappresentanti sovietici, che però, nell’ambito del processo, si mostrarono indignati per tali atti come tutti i loro colleghi occidentali.

    Non era cosa nuova per gli uomini di Stato e gli osservatori occidentali notare nei russi un certo attaccamento ai princìpi cristiani, fatto che poteva indurre a ben sperare nella collaborazione di Mosca. Roosevelt aveva affermato che il carattere di Stalin mostrava tracce della sua antica preparazione teologica, e molti ecclesiastici inglesi e americani sostenevano che nell’Unione Sovietica esisteva libertà religiosa, in una forma o nell’altra, o che il comunismo era molto affine al cristianesimo, soprattutto al cristianesimo primitivo, che aveva affrontato un mondo ostile anche con la solidarietà e la condivisione di una parte assai magra dei beni terreni.

    I VENTIQUATTRO

    Tra i ventiquattro imputati inizialmente indicati dall’accusa, il principale era l’ex Reichsmarschall Hermann Göring, designato dal Führer come suo successore nel 1939 e rimasto tale fin quasi al termine della guerra, quando Hitler lo aveva accusato di alto tradimento, ordinandone l’arresto. In ordine di importanza, dopo di lui veniva Joachim von Ribbentrop, ministro degli Esteri del Reich per quasi tutto il periodo in cui Hitler era stato Cancelliere. Ribbentrop era unanimemente considerato uno degli uomini più vanitosi e incompetenti della cerchia del Führer.

    Seguiva un campione rappresentativo di Prominente: Hans Frank, ex governatore generale della Polonia; Alfred Rosenberg, l’ampolloso teorico del partito che era stato designato per governare i Territori orientali, ma non poté mai farlo; i due ufficiali più importanti dell’OKW (Oberkommando der Wehrmacht, l’Alto comando di tutte le forze armate), il feldmaresciallo Wilhelm Keitel e il generale Alfred Jodl; i grand’ammiragli della marina tedesca Erich Raeder e Karl Dönitz; il segretario della Cancelleria del partito, che non era stato catturato (e sembra sia scomparso per sempre), Martin Bormann; il capo del RSHA (Reichssicherheitshauptamt, Ufficio centrale per la sicurezza del Reich) e l’uomo più vicino al defunto Heinrich Himmler su cui gli Alleati erano riusciti a mettere le mani, Ernst Kaltenbrunner; il capo del Fronte del lavoro del Reich, Robert Ley; il devoto nazista austriaco Arthur Seyss-Inquart, divenuto governatore dei Paesi Bassi; il capo della Gioventù hitleriana, autore di alcune delle più

    mediocri poesie mai pubblicate in Germania, Baldur von Schirach; il più famigerato tra i giornalisti e oratori antisemiti, Julius Streicher; un ex Cancelliere tedesco e ex un ministro degli Esteri che avevano prestato servizio sotto Hitler dopo che questi aveva sconfitto i loro partiti e i princìpi conservatori, Franz von Papen e Constantin von Neurath.

    Venne incriminato anche Fritz Sauckel, che era stato plenipotenziario per la manodopera forzata di oltre sei milioni di uomini e donne, portando in Germania lavoratori stranieri da tutti i Paesi d’Europa; insieme a lui, sul banco degli imputati sarebbe salito colui che li aveva utilizzati, Albert Speer, di professione architetto, il quale, con quest’esercito di schiavi, a cui si aggiungevano i lavoratori tedeschi, aveva realizzato miracoli tali che, nonostante i bombardamenti, la produzione di materiale bellico, aerei, carri armati, cannoni e tutto ciò che serviva per consentire alla nazione di combattere, era continuata regolarmente fino al termine della guerra.

    Speer aveva preso il posto del costruttore della linea Sigfrido e delle Autobahnen, Fritz Todt, dopo che questi era morto in un incidente aereo. Come ministro degli Armamenti, era divenuto il capo dell’intera produzione bellica tedesca, che prima di lui era stata diretta dal suo coimputato Hermann Göring, le cui molte cariche e funzioni erano talmente numerose da non permettergli di occuparsi di tutte. Era stato Speer a suggerire a Hitler la nomina di un Gauleiter non di parte – e il Führer designò Sauckel – come responsabile del Fronte del lavoro. Interessato unicamente all’efficienza, egli aveva gestito il suo dicastero con una tale indifferenza verso i sentimenti nazionalsocialisti degli uomini che impiegava da far dichiarare a Himmler e Bormann che il Ministero degli armamenti era un centro di attività antinazista⁴¹.

    Anche Rudolf Hess sarebbe stato processato, benché i suoi carcerieri inglesi ritenessero che fosse malato di mente. Hess era stato il luogotenente di Hitler, il terzo uomo del Reich, destinato a succedere al Führer dopo Göring, fino a quando, nel disperato tentativo di porre fine a una guerra che, ne era convinto, avrebbe causato all’Inghilterra e alla Germania solo disastri, nel 1941 era volato in Gran Bretagna. Qui, aveva mostrato sintomi inequivocabili di delirio e cercato due volte di suicidarsi. I medici inglesi, dopo averlo esaminato con la stessa attenzione prestata dagli uomini del Servizio segreto britannico durante il suo confino, lo avevano definito uno psicotico.

    Tuttavia, Hess rimaneva una figura chiave tra i grandi del nazismo, un fanatico dell’arianesimo che, nonostante i suoi deliri, continuava ostinatamente a essere filo-britannico e anticomunista. I russi lo guardavano con particolare diffidenza a causa della sua fuga del 1941. A Potsdam, Stalin chiese a Clement Attlee come mai Hess fosse nutrito e trattato così bene in Inghilterra. Attlee rispose tranquillamente che Stalin non aveva motivo di preoccuparsi, ed Ernest Bevin promise che Hess sarebbe stato puntualmente giudicato nell’imminente processo, come in effetti avvenne: fu rimpatriato in aereo poco prima dell’inizio del procedimento.

    Uno degli uomini di cui sia i russi che gli americani avevano subito approvato l’incriminazione era Hjalmar Schacht, banchiere e prestigiatore di fama mondiale delle finanze tedesche, che nel 1923 aveva ideato il piano per

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