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Se sbagliamo ci sarà un perché
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Se sbagliamo ci sarà un perché
E-book443 pagine6 ore

Se sbagliamo ci sarà un perché

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Info su questo ebook

Il rivoluzionario metodo per imparare dai propri sbagli

Google, Sky e Mercedes, il loro successo dipende da un nuovo modo di pensare

Cosa hanno in comune il Team della Mercedes di Formula 1 e Google? E la squadra ciclistica del Team Sky e l’industria aeronautica? E in cosa potrebbero somigliarsi l’imprenditore James Dyson e il calciatore David Beckham? Sono tutti dei “Black Box Thinkers”, e il libro di Matthew Syed illustra questo metodo rivoluzionario. In che consiste? Il presupposto è l’esistenza di una sorta di scatola nera che ognuno di noi possiede, un po’ come quella degli aerei, dove viene conservata la memoria delle nostre azioni. Attingere a questo enorme bagaglio di errori già commessi per evitare di farne altri è la partenza, ma non è tutto. Il modello vincente dei marginal gains, cioè del guadagno marginale è l’altro elemento che può aiutarci ad avere successo in tutti i campi. Il principio è semplice: per migliorare non si può non tenere conto anche di quelli che apparentemente sembrano dei dettagli, perché il risultato è dato da una somma di elementi che concorre a determinarlo. Questa teoria applicata inizialmente allo sport, al business e alla politica, si sta diffondendo a macchia d’olio anche in tutte le situazioni quotidiane complicate che richiedono uno sforzo fuori dal normale, come nei rapporti tra genitori e figli, nelle relazioni professionali, nei rapporti interpersonali. Basato su un imponente numero di esempi reali e sui risultati delle ultime ricerche scientifiche, questo manuale ci può assicurare davvero una vita migliore, a patto di essere pronti a imparare dai nostri errori.

«Un libro con una tesi molto convincente!»
Daily Mail

«Trasformerà il vostro modo di pensare.»
The Times
Matthew Syed
è editorialista per il «Times». Il suo precedente libro Bounce: The Myth of Talent and the Power of Practice ha avuto un notevole successo. Con Se sbagliamo ci sarà un perché, dove sostiene che la chiave del successo è un atteggiamento positivo nei confronti del fallimento, è stato per settimane nella classifica dei libri più venduti sia nel Regno Unito che negli Stati Uniti.
LinguaItaliano
Data di uscita19 gen 2017
ISBN9788822703200
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    Anteprima del libro

    Se sbagliamo ci sarà un perché - Matthew Syed

    387

    Titolo originale: Black Box Thinking

    © Matthew Syed 2015

    First published in Great Britain in 2015 by John Murray (Publishers) an Hachette UK Company

    The right of Matthew Syed to be identified as the Author of the Work has been asserted by him in accordance with the Copyright, Designs and Patents Act 1988.

    All rights reserved.

    Traduzione dall’inglese di Ilaria Ghisletti

    Prima edizione:gennaio 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-2270-320-0

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Oldoni Grafica Editoriale

    www.oldoni.com

    Matthew Syed

    Se sbagliamo ci sarà un perché

    Il rivoluzionario metodo

    per imparare dai propri sbagli

    01_OMINO-1.tif

    Newton Compton editori

    Per Kathy

    PARTE PRIMA

    La logica del fallimento

    1. Un’operazione di routine

    I

    Il 29 marzo 2005, Martin Bromiley si svegliò alle 6:15 e si diresse nelle camerette dei suoi bambini, Victoria e Adam, per prepararli per la giornata. Era una piovosa mattinata di primavera, pochi giorni dopo Pasqua, e i bambini corsero al piano di sotto a fare colazione di ottimo umore. Poco dopo furono raggiunti da Elaine, la loro mamma, che si era concessa qualche minuto di sonno in più.

    Per Elaine, una vivace trentasettenne che prima di diventare mamma a tempo pieno aveva lavorato nel settore dei viaggi, non si trattava di un giorno qualunque: doveva essere ricoverata. Da un paio d’anni soffriva di sinusiti e le era stata ragionevolmente suggerita un’operazione per risolvere il problema una volta per tutte. «Non si preoccupi», aveva assicurato il medico. «I rischi sono minimi. È un’operazione di routine»¹.

    Elaine e Martin erano sposati da quindici anni. Si erano conosciuti a una serata di ballo country grazie a un amico comune, si erano innamorati e alla fine erano andati a vivere insieme in una casa a North Marston, un grazioso paesino nel cuore della campagna del Buckinghamshire, poco meno di cinquanta chilometri a nord ovest di Londra. Victoria era nata nel 1999 e Adam due anni dopo, nel 2001.

    Come quelle di molte famiglie giovani, la loro vita era frenetica ma anche incredibilmente divertente. Il giovedì precedente avevano preso per la prima volta un aereo tutti insieme, mentre il sabato erano stati al matrimonio di un amico. Elaine voleva togliersi il pensiero dell’operazione per poi godersi qualche giorno di vacanza.

    Alle 7:15 uscirono di casa. In macchina, durante il breve tragitto fino all’ospedale, i bambini non rimasero zitti un secondo. Elaine e Martin non erano tesi per l’operazione. L’otorinolaringoiatra, il dott. Edwards, aveva più di trent’anni di esperienza ed era molto stimato. L’anestesista, il dott. Anderton, aveva sedici anni di esperienza*. L’ospedale aveva attrezzature di prima qualità. Tutto era stato preparato nel migliore dei modi.

    Al loro arrivo, Elaine e Martin furono accompagnati in una stanza dove Elaine indossò un camice blu per l’operazione. «Come sto?», chiese al figlio più piccolo, che ridacchiò. Victoria si arrampicò sul letto perché la madre potesse leggerle una favola. Martin sorrideva, ascoltando quella trama che conosceva ormai a memoria. Adam giocava con le sue macchinine sul davanzale della finestra.

    Poco dopo il dott. Anderton entrò per qualche domanda di routine. Era allegro e aveva voglia di chiacchierare. Come ogni bravo medico, sapeva quanto fosse importante impostare un’atmosfera rilassata.

    Appena prima delle 8:30, la caposala Jane arrivò per portare Elaine in sala operatoria. «È pronta?», le chiese con un sorriso. Victoria e Adam camminarono accanto al lettino mentre l’infermiera lo spingeva in corridoio. Dissero alla mamma che non vedevano l’ora di tornare a trovarla nel pomeriggio, dopo l’operazione. Giunti a una biforcazione del corridoio, Martin guidò i bambini a sinistra mentre Elaine veniva spinta verso destra.

    La donna si sollevò, sorrise e disse allegramente: «Ciaaaao!»

    Mentre Martin e in bambini raggiungevano il parcheggio per andare al supermercato a fare la spesa e a comprare un regalo per Elaine (dei biscotti), il lettino fu portato nella sala preparatoria. Questo ambiente, adiacente alla sala operatoria, è utilizzato per i controlli dell’ultimo minuto e per somministrare i primi anestetici.

    Il dott. Anderton era con Elaine, una faccia amica e rassicurante. Inserì un tubicino cavo, denominato cannula, in una vena sul dorso della mano della paziente per iniettare l’anestetico direttamente in circolo.

    «Piano, piano», disse il dott. Anderton. «Ecco, così… Un bel sonno profondo». Erano le 8:35.

    Gli anestetici sono farmaci molto potenti. Non servono semplicemente a far dormire il paziente ma deprimono anche molte funzioni vitali, che devono quindi essere gestite artificialmente. Il respiro spesso è assistito attraverso uno strumento chiamato maschera laringea. Si tratta di una tasca gonfiabile che si inserisce in bocca e si posiziona appena sopra le vie aeree. In questo modo l’ossigeno viene pompato nella trachea, giù fino ai polmoni.

    Tuttavia, a questo punto sorse un problema. Il dott. Anderton non riuscì a inserire la maschera nella bocca di Elaine: le mascelle della paziente erano contratte, un fenomeno frequente durante le anestesie. Il medico iniettò un’altra dose di farmaco per allentarle i muscoli, poi tentò con un paio di maschere laringee più piccole, ma di nuovo non riuscì a inserirle.

    Alle 8:37, due minuti dopo essere stata anestetizzata, Elaine cominciava a diventare cianotica. La sua saturazione di ossigeno era scesa al 75% (qualunque livello inferiore al 90% è considerato significativamente basso). Alle 8:39 il dott. Anderton reagì tentando un’ossigenazione con maschera facciale, che si pone su bocca e naso. Tuttavia non riuscì ancora a pompare aria nei polmoni di Elaine.

    Alle 8:41 il medico tentò una procedura collaudata chiamata intubazione tracheale. Si tratta di un protocollo standard quando la ventilazione si dimostra impossibile. Innanzitutto, il medico iniettò un agente paralizzante nella circolazione sanguigna per rilassare completamente i muscoli della mascella, in modo da aprire del tutto la bocca. Poi usò un laringoscopio per illuminare il fondo della gola per favorire l’inserimento del tubo direttamente nelle vie respiratorie.

    Però a questo punto il medico incontrò un nuovo ostacolo: non riusciva a vedere il laringe in fondo alla gola. Normalmente si vede un foro triangolare ben definito, con le corde vocali disposte sui lati. Di solito è abbastanza facile inserire il tubo nell’apertura, consentendo al paziente di respirare. Però, in certi casi, l’apertura è nascosta dal palato molle. Non si riesce proprio a vederla. Il dott. Anderton spinse ancora il tubo, sperando di centrare il bersaglio, ma non ci riuscì.

    Alle 8:43 la saturazione di ossigeno di Elaine era crollata al 40%. È un valore così basso che rappresenta il limite minimo del saturimetro. Il pericolo è che, privato di ossigeno, il cervello si gonfi causando potenzialmente seri danni. Anche la frequenza cardiaca di Elaine era scesa, prima a 69 battiti al minuto, poi a 50. Ciò indicava una carenza di ossigeno anche al cuore.

    La situazione era diventata critica. Il dott. Bannister, l’anestesista della sala operatoria adiacente, arrivò per prestare assistenza. Presto fu raggiunto anche dal dott. Edwards, il chirurgo. Tre infermiere erano in attesa. La situazione non era ancora disastrosa, ma i margini di errore si stavano restringendo. Da quel momento in poi, ogni decisione avrebbe avuto conseguenze potenzialmente fatali.

    Fortunatamente, esiste una procedura da applicare proprio in casi analoghi. Si chiama tracheostomia. I problemi riscontrati fino a quel momento erano dovuti al tentativo di raggiungere le vie aree di Elaine attraverso la bocca. La tracheostomia presentava un grande vantaggio: non è necessario passare dalla bocca. Al contrario, si pratica un taglio direttamente sul collo per inserire un tubo nella trachea.

    È una procedura rischiosa, da usare solo in situazioni disperate. Tuttavia quella era una situazione disperata. L’unica cosa che poteva separare Elaine da un danno cerebrale fatale era una tracheostomia.

    Alle 8:47 le infermiere previdero correttamente la mossa successiva. Jane, la più esperta delle tre, corse a prendere gli strumenti necessari. Al suo ritorno informò i tre medici che si trovavano con Elaine che il kit da tracheostomia era pronto.

    Loro la guardarono, ma per qualche ragione non risposero. Cercavano ancora di forzare il tubo nelle vie aree di Elaine, invisibili in fondo alla gola. Erano assorti nel loro tentativo, si parlavano concitati a testa china.

    Jane esitò. Man mano che i secondi passavano, la situazione diventava sempre più critica. Tuttavia l’infermiera si convinse che erano tre esperti professionisti a gestire il caso. Sicuramente avevano già pensato a praticare una tracheostomia. Se li avesse chiamati di nuovo, avrebbe rischiato di distrarli. Se le cose fossero andate male, forse qualcuno l’avrebbe accusata. Magari avevano scartato la tracheostomia per ragioni che Jane non aveva neanche considerato. Lei era una delle più giovani nella stanza, loro invece delle figure autorevoli.

    I medici ormai avevano un battito cardiaco decisamente accelerato. Le loro percezioni si erano ridotte. Si tratta di una reazione fisiologica di fronte a stress elevati. Continuavano a cercare di inserire il tubo attraverso la bocca. La situazione era ormai disperata.

    Elaine ormai era bluastra. La sua frequenza cardiaca era ridotta a 40 battiti al minuto. Soffocava in cerca di ossigeno. Ogni secondo che passava riduceva le sue possibilità di sopravvivenza. I medici insistevano nei loro caotici tentativi di accedere alle vie aree attraverso la bocca. Il dott. Edwards tentò un’intubazione. Il dott. Bannister provò a inserire un’altra maschera laringea. Niente sembrava funzionare. Disperata, Jane continuava a chiedersi se era il caso di farsi avanti. Però la voce le morì in gola.

    Alle 8:55 era già troppo tardi. Quando i medici riuscirono a riportare la saturazione di ossigeno al 90%, erano già passati otto minuti dal primo tentativo fallito di intubazione. In tutto, Elaine era rimasta senza ossigeno per venti minuti. I medici rimasero di sasso quando videro l’orologio. Non poteva essere. Quanto tempo era passato? Come mai era volato così in fretta?

    Elaine fu trasportata in terapia intensiva e in seguito la TAC rivelò un danno cerebrale catastrofico. Di solito una TAC mostra chiaramente forme e tessuti, fornendo un’immagine riconoscibile del cervello umano. Nel caso di Elaine, la TAC sembrava più una televisione disturbata. La mancanza di ossigeno aveva procurato lesioni irreversibili.

    Alle 11 di quella mattina il telefono suonò nel salotto dei Bromiley, a North Marston. A Martin fu chiesto di tornare in ospedale il prima possibile. Intuì che qualcosa era andato storto, ma nulla lo aveva preparato allo shock di trovare sua moglie in coma, tra la vita e la morte.

    Col passare delle ore, fu chiaro a tutti che la situazione stava degenerando. Martin non riusciva a spiegarselo. Sua moglie era sana. I loro due bambini erano a casa ad aspettare il suo ritorno. Le avevano preso dei biscotti al supermercato. Che cosa poteva essere andato storto?

    Fu preso da parte dal dott. Edwards. «Senta, Martin, abbiamo avuto dei problemi durante l’anestesia», spiegò. «Sono cose che succedono. A volte capitano degli incidenti. Non sappiamo perché. Gli anestesisti hanno fatto del loro meglio, ma non è servito. Non c’era niente da fare. Mi dispiace molto».

    Non menzionò i futili tentativi di intubazione. Non menzionò la mancata procedura di tracheostomia d’emergenza. Non menzionò il tentativo dell’infermiera di avvisarli del disastro imminente.

    Martin annuì e disse: «Capisco. La ringrazio».

    Alle 11:15 dell’11 aprile 2005, Elaine Bromiley morì dopo tredici giorni di coma. Martin, che era stato tutti giorni al suo capezzale, tornò in ospedale nel giro di pochi minuti. Quando arrivò, Elaine era ancora calda. Il marito le prese la mano, le disse che la amava e che avrebbe badato ai bambini meglio che poteva. Poi le diede il bacio della buonanotte.

    Prima di tornare il giorno successivo per prendere le cose di Elaine, chiese ai bambini se volessero vedere la mamma un’ultima volta. Con sua grande sorpresa, risposero di sì. Furono accompagnati nella stanza, Victoria si fermò ai piedi del letto, mentre Adam allungò la mano per toccare la madre e dirle addio.

    Elaine aveva solo trentasette anni.

    II

    Questo libro parla di come si realizza il successo. Nelle prossime pagine esploreremo alcune tra le organizzazioni più innovative e all’avanguardia del mondo, tra cui Google, Team Sky, Pixar o il gruppo Mercedes Formula 1, e conosceremo individui eccezionali come il giocatore di basket Michael Jordan, l’inventore James Dyson e la star del calcio David Beckham.

    Il progresso è uno degli aspetti più straordinari della storia dell’umanità negli ultimi due millenni, e in particolar modo negli ultimi duecentocinquant’anni. Non si tratta solo di grandi aziende e squadre sportive, parliamo di scienza, tecnologia e sviluppo economico. Ci sono stati miglioramenti piccoli e grandi, cambiamenti che hanno trasformato quasi tutti gli aspetti della vita umana.

    Nei resoconti a seguire cercheremo di unire le fila del discorso. Guarderemo sotto la superficie per esaminare i processi nascosti attraverso i quali gli esseri umani imparano, innovano e sviluppano la loro creatività, sia negli affari che nella politica, o nella vita privata. E scopriremo che in tutti i casi la spiegazione del successo è legata, in modo inscindibile anche se fortemente controintuitivo, al modo in cui reagiamo di fronte al fallimento.

    Il fallimento è una realtà con la quale tutti, prima o poi, devono fare i conti, che si tratti della sconfitta della squadra locale di calcio, di un colloquio di lavoro andato male o della bocciatura a un esame. A volte, però, il fallimento può essere ben più grave. Per i medici e altri professionisti che lavorano in settori a rischio, un errore può avere conseguenze mortali.

    Per questo motivo, un modo efficace per iniziare la nostra indagine e per esplorare il legame inestricabile tra fallimento e successo, è proprio paragonare due dei settori oggigiorno a più alto rischio: la sanità e l’aviazione. Questi due tipi di organizzazioni, come vedremo, differiscono nella mentalità, nella cultura e nella gestione del cambiamento. Tuttavia, la differenza più profonda risiede proprio nell’approccio al fallimento.

    Nel settore dell’aviazione questo approccio è insolito e sorprendente. Ogni velivolo è dotato di due scatole nere (black box) praticamente indistruttibili, una delle quali tiene traccia dei comandi impostati sui sistemi elettronici di bordo, mentre l’altra registra suoni e conversazioni nella cabina di comando**. Nel momento in cui si verifica un incidente, le scatole vengono aperte e i dati analizzati per scoprire la ragione dell’incidente. In questo modo, si possono correggere le procedure per far sì che non si verifichino più errori analoghi.

    Grazie a questo metodo, l’aviazione ha raggiunto un livello di sicurezza ragguardevole. Nel 1912, otto piloti dell’esercito americano su quattordici morivano a causa di incidenti: più della metà². La percentuale di decessi durante i primi addestramenti dell’aeronautica militare si aggirava intorno al 25%. Non era una cifra sorprendente per l’epoca: volare a tutta velocità su grossi trabiccoli di legno e metallo, agli albori della tecnologia aeronautica, era un’attività seriamente pericolosa.

    Tuttavia oggi le cose sono molto diverse. Secondo l’International Air Transport Association, nel 2013 ben 36,4 milioni di voli commerciali hanno portato in giro per il mondo più di tre miliardi di passeggeri. Solo 210 persone sono morte. Per ogni milione di voli effettuati su jet costruiti in occidente ci sono stati 0,41 incidenti: cioè un incidente ogni 2,4 milioni di voli³.

    Nel 2014 il conto delle vittime è salito a 641, in parte a causa dello schianto del volo 370 della Malaysia Airlines, in cui sono morte 239 persone. L’opinione comune degli inquirenti è che questo disastro non sia stato un semplice incidente ma un sabotaggio deliberato. Nel momento in cui si scrive, le scatole nere non sono ancora state ritrovate. In ogni caso, anche includendo questi numeri nelle statistiche, nel 2014 la percentuale di incidenti ogni milione di voli è crollata al minimo storico dello 0, 23%⁴. Per i membri dell’International Air Transport Association, la maggior parte dei quali applica procedure serissime per apprendere dai propri errori, la quota è di 0,12 (un incidente ogni 8,3 milioni di decolli)⁵.

    L’aeronautica lotta tutti i giorni contro molte minacce alla sicurezza. Quasi ogni settimana emergono nuove sfide: nel marzo 2015, lo schianto del volo Germanwings sulle Alpi francesi ha acceso i riflettori sul problema della salute mentale dei piloti. Gli esperti del settore sono consapevoli che in qualunque momento può verificarsi una contingenza imprevedibile capace di far impennare la quota di incidenti, anche in modo drammatico, tuttavia garantiscono di impegnarsi sempre al massimo per imparare da ogni avvenimento sfortunato, in modo che simili fallimenti non si verifichino ancora. In fin dei conti, è proprio questo il senso ultimo della sicurezza in campo aeronautico.

    Nel settore della sanità invece le cose sono molto diverse. Nel 1999, l’American Institute of Medicine ha pubblicato un rapporto fondamentale intitolato «Errare è umano». Secondo questo rapporto, tra i 44.000 e i 98.000 americani muoiono ogni anno a causa di errori medici che sarebbe possibile prevenire⁶. In un’altra indagine Lucian Leape, professore all’università di Harvard, riporta cifre anche più alte. In uno studio a tappeto il professore ha stimato che circa un milione di pazienti subiscono danni a causa di errori durante il ricovero e che solo negli Usa ne muoiono 120.000 all’anno⁷.

    Per quanto scioccanti, queste statistiche quasi sicuramente non rendono giustizia alla vastità del problema. Nel 2013 uno studio pubblicato sul Journal of Patient Safety⁸ ha quantificato il numero di morti premature collegate a errori evitabili in più di 400.000 all’anno. Questi errori evitabili comprendono diagnosi errate, prescrizioni di farmaci inadeguati, danni chirurgici, operazioni sulla parte del corpo sbagliata, trasfusioni improprie, cadute, ustioni, piaghe da decubito e complicazioni postoperatorie. Nell’estate del 2014, testimoniando in udienza di fronte al Senato, il dottor Peter J. Pronovost, professore alla Johns Hopkins University School of Medicine e uno degli accademici più stimati al mondo, ha indicato che questi numeri sono esattamente equivalenti a due schianti di jumbo jet ogni ventiquattro ore.

    «Il vero significato di queste cifre è che ogni giorno un 747, anzi due, si schiantano. Ogni mese è un nuovo 11 settembre», ha detto il professore. «Un tale livello di danni prevenibili sarebbe inaccettabile in qualunque altro settore»⁹. Numeri simili collocano gli errori ospedalieri evitabili al terzo posto tra le principali cause di morte negli Stati Uniti, superati solo da malattie cardiovascolari e cancro.

    Eppure anche questo conto è incompleto. Non include gli incidenti avvenuti in case di riposo o in altre strutture come farmacie, cliniche e studi privati, dove i controlli sono meno rigorosi. Secondo Joe Graedon, professore associato della facoltà di Farmacia dell’università del North Carolina, il numero reale di morti dovuti a errori prevenibili nella sanità americana supera il mezzo milione di persone all’anno¹⁰.

    Tuttavia non è semplicemente il numero dei decessi che dovrebbe spaventarci: esistono anche i danni non letali dovuti a errori medici. Nella sua testimonianza, sempre durante la stessa udienza di fronte al Senato, Joan Disch, professoressa alla facoltà di Infermieristica dell’università del Minnesota, ha riportato il caso di una donna del suo quartiere che aveva subito «una mastectomia bilaterale a causa di un tumore, solo per scoprire poco dopo l’operazione che c’era stato uno scambio nei risultati delle biopsie, e che in realtà non aveva nessun tumore»¹¹.

    Errori simili non sono fatali, ma possono essere devastanti per le vittime e per le loro famiglie. Si stima che il numero di pazienti che subiscono gravi complicazioni sia dieci volte più alto del numero dei pazienti uccisi da errori medici. Come dice la Disch: «Non abbiamo a che fare solo con 1000 morti evitabili al giorno: abbiamo a che fare con 1000 morti, più 10.000 serie complicazioni… È un problema che riguarda tutti noi»¹².

    Anche nel Regno Unito i dati sono allarmanti. Un rapporto del National Audit Office del 2005 ha calcolato che circa 34.000 persone vengono uccise ogni anno da errori umani¹³. Il rapporto ha collocato il numero totale di incidenti (fatali e non) a 974.000. Uno studio sui reparti di terapia intensiva degli ospedali ha dimostrato che la morte o i danni subiti da un paziente su dieci sono conseguenza di un errore medico o di una deficienza dell’organizzazione. La sanità francese si attesta su numeri ancora più alti: parliamo del 14%.

    Il problema non dipende da un ristretto gruppo di medici folli, incompetenti e assassini che si aggirano negli ospedali provocando disastri. Gli errori medici seguono una normale distribuzione gaussiana¹⁴. Non si verificano solo quando i dottori sono annoiati, stanchi, o malintenzionati, ma anche quando si dedicano al loro lavoro con la diligenza e la serietà auspicabili nella professione medica.

    Dunque perché tutti questi errori? Uno dei problemi è la complessità. L’Organizzazione Mondiale della Sanità elenca 12.420 tra malattie e disturbi, ognuno dei quali richiede protocolli differenti¹⁵. Una tale complessità si presta a un alto grado di errore in ogni passaggio, dalla diagnosi alla terapia. Un altro problema è la scarsità di risorse. I medici sono spesso oberati di lavoro, e gli ospedali non hanno fondi, quasi sempre sono in cerca di maggiori introiti. Un terzo motivo è che i medici possono essere costretti a prendere decisioni rapide: nei casi più gravi non c’è sempre il tempo per considerare tutte le terapie alternative. A volte procrastinare può essere proprio l’errore più grave, anche quando alla fine si riesce a prendere la decisione giusta.

    Però entra in gioco anche qualcos’altro, qualcosa di più profondo e sfumato, che non ha niente a che vedere con le risorse, ma riguarda la cultura. In realtà, molti degli errori commessi in ospedale (e in altri settori della vita) seguono traiettorie particolari, schemi quasi invisibili ma prevedibili: è quello che gli investigatori specializzati in incidenti chiamano firma. Attraverso una ricostruzione onesta e una valutazione aperta questi errori potrebbero essere riconosciuti, in modo da prendere contromisure per impedire che riaccadano, proprio come avviene nell’aeronautica. Ma nella maggior parte dei casi, purtroppo, questo non avviene.

    Sembra semplice, vero? L’idea di imparare dai fallimenti suona quasi come un cliché. Eppure la realtà dimostra che, per ragioni profonde o futili, l’incapacità di imparare dai propri errori è stata uno dei maggiori ostacoli al progresso umano. La sanità è solo una delle trame di questa lunga e ricca storia di insuccessi. Affrontare questo problema potrebbe trasformare non solo l’organizzazione della sanità, ma anche dell’economia, della politica e di molto altro. Una progressiva attenzione al fallimento si dimostra infatti una pietra angolare per il successo di qualunque istituzione.

    In questo libro esamineremo il nostro modo di reagire al fallimento come individui, come aziende, come società. Come lo affrontiamo? Quali insegnamenti ne traiamo? Come ci comportiamo quando qualcosa va storto a causa di una svista, di una distrazione, di un errore di azione o di omissione, oppure di un fallimento collettivo come quello che ha causato la morte di una trentasettenne sana, madre di due figli, in un giorno di primavera del 2005?

    Tutti siamo consapevoli, ciascuno a modo suo, di quanto sia difficile accettare i propri insuccessi. Perfino nelle cose di poco conto, come una partita di golf tra amici, possiamo diventare suscettibili se le nostre prestazioni non sono state all’altezza e se qualcuno più tardi al circolo ce lo fa notare. Quando poi il fallimento riguarda una parte importante della nostra vita, il lavoro, il ruolo di genitore, lo status sociale in senso lato, ne siamo colpiti a un livello totalmente diverso.

    Se la propria professionalità viene messa in discussione, è possibile che si cerchi di alzare le difese. A nessuno piace pensare di essere incompetente o inetto. Nessuno vuole che la propria credibilità sia messa in dubbio di fronte ai colleghi. Per i medici affermati, che hanno alle spalle anni di esperienza e hanno raggiunto i massimi traguardi della professione, ammettere i propri errori può essere quasi traumatico.

    Nel suo insieme, la società ha un atteggiamento estremamente contraddittorio di fronte all’insuccesso. Anche se troviamo scuse per giustificare i nostri fallimenti, giudichiamo in fretta quando a sbagliare sono gli altri. Subito dopo il disastro del traghetto in Corea del Sud, nel 2014, il primo ministro coreano accusò il capitano di un «atto imperdonabile e omicida» prima ancora che si aprissero le indagini¹⁶. Stava accontentando l’opinione pubblica che fremeva per avere un colpevole.

    Tutti noi abbiamo un istinto naturale per trovare capri espiatori. Quando si legge la cronaca degli eventi che hanno portato alla morte di Elaine Bromiley è facile provare un moto di indignazione. Forse perfino di rabbia. Perché non hanno tentato prima con la tracheostomia? Perché l’infermiera non si è fatta avanti? Che cosa avevano in mente, tutti quanti? L’empatia per la vittima, parlando dal punto di vista emotivo, è quasi sempre sinonimo di furia contro coloro che ne hanno causato la morte.

    Tuttavia questo atteggiamento è un’arma a doppio taglio, come vedremo. Uno dei motivi per cui sentiamo un tale bisogno di nascondere i nostri errori è anche la nostra rapidità nel biasimare il prossimo. Prevediamo con grande chiarezza come reagiranno le persone, come punteranno il dito senza perdere tempo per cercare di immedesimarsi nella situazione, convulsa e caotica, in cui l’errore è avvenuto. L’effetto collaterale è chiaro: l’onestà viene cancellata e gli insabbiamenti si sprecano, distruggendo quelle informazioni di importanza vitale che sarebbero così necessarie per apprendere.

    Le cose si fanno ancora più ironiche se facciamo un passo indietro e ragioniamo sul fallimento in modo generico. Alcuni studi hanno dimostrato che spesso siamo così terrorizzati dall’insuccesso da porci obiettivi vaghi, in modo che nessuno possa accusarci quando non riusciamo a raggiungerli. Cerchiamo scuse per salvarci la faccia ancora prima di fare qualsiasi tentativo.

    Insabbiando un errore, non ci proteggiamo solo dagli altri, ma anche da noi stessi. È stato dimostrato a livello sperimentale, lo vedremo, che tutti possiedono un’abilità estremamente sofisticata nel rimuovere i fallimenti dalla memoria, come un regista che taglia le scene venute male da un film. Invece di imparare dai nostri errori, li cancelliamo dalle autobiografie ufficiali che archiviamo nel nostro cervello.

    Questa semplice concezione, cioè che il fallimento è profondamente negativo, qualcosa di cui vergognarsi se capita a noi e da giudicare nel prossimo, ha profonde radici culturali e psicologiche. Secondo Sidney Dekker, psicologo australiano ed esperto di sistemi della Griffith University, la tendenza a stigmatizzare gli sbagli ha almeno duemila e cinquecento anni¹⁷.

    Lo scopo di questo libro è offrire una prospettiva radicalmente diversa. Sosterremo infatti quanto sia necessario ridefinire la nostra relazione col fallimento, come individui, organizzazioni e società. È questo il passo più importante verso una rivoluzione nella qualità delle prestazioni: accelerare lo sviluppo delle attività umane e trasformare quei settori che sono rimasti indietro. Solo ridefinendo il fallimento potremo favorire il progresso, la creatività e la resilienza.

    Prima di procedere vale la pena di esaminare il concetto di ciclo chiuso, che ritornerà spesso nelle prossime pagine. Possiamo cominciare a comprenderlo osservando gli albori della storia della medicina, quando pionieri come Galeno di Pergamo (II secolo d.C.) proponevano trattamenti basati sui salassi o l’uso del mercurio come panacea. Queste terapie erano proposte con le migliori intenzioni ed erano in linea con le conoscenze disponibili a quel tempo¹⁸.

    Tuttavia, molte di esse erano inutili e alcune altamente dannose. Il salasso, in particolare, indeboliva i pazienti proprio quando erano più vulnerabili. I medici non se ne rendevano conto per una ragione di fondo molto semplice: non avevano mai sottoposto il trattamento a un vero esame, quindi non ne avevano mai individuato l’inefficacia. Se il paziente guariva i medici dicevano: «Il salasso l’ha curato!». E se il paziente moriva dicevano: «Doveva essere davvero gravissimo, visto che nemmeno la straordinaria terapia del salasso l’ha salvato!».

    Questo è proprio l’archetipo del ciclo chiuso. Il salasso ha resistito come terapia riconosciuta fino al diciannovesimo secolo. Secondo Gerry Greenstone, autore di una storia del salasso, il dott. Benjamin Rush, ancora attivo nel 1810, era noto per «prelevare incredibili quantità di sangue, e più di una volta aveva dissanguato dei pazienti». Per circa 1700 anni i medici hanno efficacemente ucciso i loro pazienti, non perché mancassero di intelligenza o compassione, ma perché non riconoscevano i difetti delle loro procedure. Se avessero condotto delle sperimentazioni cliniche (un concetto su cui torneremo)***, avrebbero notato gli svantaggi del salasso, mettendo così le basi per i progressi successivi.

    Nei duecento anni che sono passati dalle prime sperimentazioni cliniche, la medicina è passata dalle idee di Galeno alle meraviglie della genetica. La disciplina deve ancora svilupparsi e soffre di molti problemi, come vedremo, ma il desiderio di mettere alla prova le idee e imparare dagli errori ha radicalmente trasformato le sue prestazioni. L’ironia sta nel fatto che, mentre la medicina si è evoluta in fretta grazie a un ciclo aperto, la sanità (cioè la struttura istituzionale che decide come le terapie vengono somministrate da soggetti in carne e ossa che lavorano in sistemi complessi) non l’ha fatto. I termini ciclo chiuso e ciclo aperto hanno un significato particolare nell’ingegneria e nella teoria dei sistemi formali, diverso da quello inteso in questo libro. Quindi, riassumendo, per gli scopi del nostro testo un ciclo chiuso si verifica quando il fallimento non conduce al progresso perché le informazioni su errori e manchevolezze vengono male interpretate o ignorate. Un ciclo aperto invece favorisce il progresso, perché il feedback ottenuto è utilizzato in modo ragionevole come base per le azioni future.

    Nei prossimi capitoli scopriremo cicli chiusi in diversi aspetti della società moderna: nei dipartimenti governativi, nelle aziende, negli ospedali e anche nelle nostre vite private. Esploreremo le loro origini, le maniere subdole in cui si sviluppano e il motivo per cui molte persone, anche intelligenti, continuano a mantenerli saldamente al loro posto, a girare eternamente in tondo. Impareremo anche le tecniche per individuarli e spezzarli, in modo da liberarcene e favorire la crescita della conoscenza.

    Molti testi offrono classificazioni dei diversi tipi di fallimento. Trattano di errori, sviste, iterazioni, risultati non ottimali, azioni erronee e omissioni, errori di procedura, errori statistici, sperimentazioni fallite, serendipità del fallimento eccetera. Una tassonomia dettagliata occuperebbe un libro a sé, quindi cercheremo di far emergere le diverse sfumature in modo naturale col procedere del testo.

    A questo punto vale la pena dichiarare che, ovviamente, nessuno vuole fallire. Tutti desiderano il successo, come imprenditori, sportivi, politici, scienziati oppure genitori. Ma a livello collettivo, considerando la complessità sistemica, il successo arriva solo quando ammettiamo i nostri errori, impariamo da essi e creiamo un clima in cui, in un certo senso, fallire è accettabile.

    E quando il fallimento è una tragedia, come la morte di Elaine Bromiley, trarne degli insegnamenti diventa anche un’urgenza morale.

    III

    Martin Bromiley è un uomo di media corporatura con i capelli corti e scuri. Parla in modo chiaro e serio, anche se a tratti gli manca la voce mentre racconta del giorno in cui ha staccato la spina al respiratore di Elaine.

    «Ho chiesto ai bambini se volevano salutare la mamma», dice durante il nostro incontro, in una luminosa mattina di primavera a Londra. «Hanno risposto entrambi di sì, quindi li ho portati in ospedale. Le abbiamo accarezzato la mano e le abbiamo detto addio».

    Fa una pausa per ricomporsi. «Erano così piccoli, così innocenti, e sapevo quanto questa perdita avrebbe influenzato le loro vite. Ma soprattutto soffrivo per Elaine. Era una madre meravigliosa. Mi spezzava il cuore sapere che non avrebbe conosciuto la gioia di veder crescere i nostri figli».

    Col passare dei giorni, Martin si ritrovò a chiedersi che cosa era andato storto. Sua moglie era sana, vivace, aveva trentasette anni. Aveva tutta la vita davanti. I medici avevano assicurato che si trattava di un intervento di routine. Allora perché era morta?

    Martin non provava risentimento. Sapeva che i dottori erano esperti e che avevano fatto del loro meglio. Eppure non riusciva a smettere di chiedersi se non fosse possibile trarre qualche lezione da una simile tragedia.

    Però, quando tentò di avvicinare il primario della terapia intensiva per chiedergli di fare luce sulla morte di Elaine, fu subito respinto. «Le cose non funzionano così nella sanità», gli fu detto. «Noi non facciamo indagini, a meno che non siamo obbligati per una causa giudiziaria».

    «Non lo disse in modo insensibile o

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