Il nostro momento perfetto
Di M. Leighton
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Info su questo ebook
Dane James lavorava nei campi di Alton, il mio patrigno. Era il ragazzo della porta accanto. Forte, determinato. Proibito. Dal momento in cui i nostri occhi si sono incontrati, ho capito che eravamo destinati ad amarci. Ma le nostre vite correvano su binari paralleli: ci desideravamo da lontano, in segreto. E per la maggior parte delle nostre esistenze, siamo stati separati dalla crudeltà di un destino avverso. Così come era chiaro che ci saremmo innamorati, era ovvio che saremmo precipitati, soffrendo. Due stelle che bruciano prima di toccare terra: più e più volte, come un incubo ricorrente. O un sogno destinato a non realizzarsi mai. Il nostro passato è tormentato. Il nostro futuro è incerto. L’unica cosa che ci apparteneva era un presente doloroso ma perfetto. Fino a quando qualcuno non ha deciso di portarcelo via.
M. Leighton
è nata in Ohio. Ha scritto più di una decina di romanzi e i suoi libri sono bestseller del «New York Times» e di «USA Today». La Newton Compton ha pubblicato le serie The Wild Series e Bad Boys. Con Le tue innocenti bugie, Noi due a ogni costo e Questa volta non ti dico no arriva in Italia anche la Pretty Series.
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Anteprima del libro
Il nostro momento perfetto - M. Leighton
Contents
Cover
Collana
Colophon
Frontespizio
2004 Trentadue anni
Capitolo uno
1984 Dodici anni
Capitolo due
Capitolo tre
Capitolo quattro
2004 Trentadue anni
Capitolo cinque
1987 Quindici anni
Capitolo sei
Capitolo sette
Capitolo otto
2004 Trentadue anni
Capitolo nove
1989 Diciassette anni
Capitolo dieci
Capitolo undici
Capitolo dodici
Capitolo tredici
Capitolo quattordici
2004 Trentadue anni
Capitolo quindici
1989 Diciassette anni
Capitolo sedici
Capitolo diciassette
Capitolo diciotto
2004 Trentadue anni
Capitolo diciannove
1989 Diciassette anni
Capitolo venti
Capitolo ventuno
2004 Trentadue anni
Capitolo ventidue
Capitolo ventitré
Capitolo ventiquattro
Capitolo venticinque
Capitolo ventisei
Capitolo ventisette
Capitolo ventotto
Capitolo ventinove
Capitolo trenta
Capitolo trentuno
Capitolo trentadue
Capitolo trentatré
Capitolo trentaquattro
Capitolo trentacinque
Capitolo trentasei
Epilogo
Ringraziamenti
en2499
Titolo originale: The Beautiful Now
Copyright © 2017 M. Leighton
All rights reserved
Traduzione dalla lingua inglese di Elena Rubechini
Prima edizione ebook: dicembre 2020
© 2019 Newton Compton editori s.r.l., Roma
ISBN 978-88-227-3961-2
www.newtoncompton.com
Realizzazione a cura di Librofficina
M. Leighton
Il nostro momento perfetto
ominoNewton Compton editori
Questo libro è dedicato a tutti coloro
che sono stati feriti da una persona cara.
In fondo al tunnel ci sono luce, speranza e amore.
Dove c’è odio, c’è sofferenza.
Dove c’è perdono, c’è guarigione.
Dove c’è amore, c’è… tutto.
Ora dunque queste tre cose rimangono:
fede, speranza e amore;
ma la più grande di esse è l’amore.
1 Cor 13; 13
2004
Trentadue anni
Capitolo uno
Non è mia intenzione fermarmi quando vedo il cartello benvenuti a shepherd’s mill ; è il piede che spinge sul freno. Un riflesso, come quando uno ritrae la mano la prima volta in cui tocca il fornello incandescente. È una risposta della memoria muscolare a un dolore conosciuto.
E il dolore me lo ricordo eccome.
Avevo giurato che non sarei mai più tornata. Ma sono certa che dopo tutto questo tempo le cose siano diverse.
Sicuro.
Non che importi. La ragione per cui infesto le strade di questa cittadina sperduta è seduta accanto a me in macchina e non c’è niente che non farei per lei. Nessun posto in cui non andrei. Nessun rischio che non correrei. Nessuna altezza da cui non mi butterei.
Anche se significa tornare qui.
È quello che fa una madre.
Be’, non la mia, ma quando avevo circa l’età di Celina mi sono ripromessa che se mai avessi avuto una figlia l’avrei amata più di ogni altra cosa. Non avrei mai messo la posizione sociale o un uomo davanti a lei come aveva fatto mia madre.
Non riesco a immaginare di non mantenere la promessa. Celina è il mio mondo.
Accelero di nuovo con disinvoltura come se non fossi paralizzata dal terrore. Sempre con la stessa disinvoltura mi giro verso mia figlia per vedere se ha notato il momento di panico. Avrà anche solo quattordici anni ma i suoi occhi, di un verde molto simile al mio, sono attenti in tutto e per tutto come quelli di un adulto. Forse persino di più.
Non c’è da stupirsi che abbia dato vita a una creatura che è una versione in miniatura del Dr. Phil con il seno.
«Mamma, perché lo fai?», mi chiede, e non per la prima volta. «Qual è il vero motivo?».
Tempo fa ho commesso l’errore di raccontarle perché non siamo mai venute qui. Insomma, più o meno. Non le direi mai tutta la verità perché alcune verità complicano la vita e faccio del mio meglio per risparmiargliele, ma in preda all’emotività le ho detto quanto odiavo il luogo in cui ero cresciuta. Sono stata incosciente e me ne sono pentita, e ora quella debolezza torna a mordermi il sedere. Celina sa che non sarei mai venuta qui se la situazione non fosse stata più che grave.
E lo è.
Solo che non le dico quanto. Ha già molto a cui pensare.
Visto che non rispondo subito, trae le sue conclusioni. Il senso di colpa e la pesantezza che ha nella voce mi spezzano il cuore. «Lo fai per me, vero? Solo che non me lo dici».
Il suo viso ovale è bellissimo ma molto pallido. Sembra esausta e gli occhi non le brillano più come prima. Non lo fanno da un po’. Sono decisa a fare tutto ciò che posso per poter riportare quello splendore, costi quel che costi sia in termini economici che affettivi.
«Piccola, lo faccio per me. E anche per tua nonna. Anche se non lo ammetterebbe mai, le fa comodo un po’ di aiuto e a noi farà bene per ricucire il nostro rapporto. Ti ho portata con me solo perché sono straordinaria e non ti priverei mai di tanta straordinarietà. Guarda quanto sono premurosa». Le sorrido con questa mezza verità che mi esce facilmente di bocca. Mentire alla propria figlia spesso non è la via più indicata, ma il mio unico obiettivo nella vita è proteggerla. Anche se devo dirle una bugia di quando in quando.
«Perché non la portiamo a vivere con noi in Maryland e basta? Tu odi questo posto».
«L’unico modo in cui lascerebbe questa città sarebbe in un sacco per cadaveri, quindi qualcuno deve essere abbastanza pazzo da andare da lei. E quella persona sono io». Le rivolgo la mia migliore occhiata da pazza. «Sai come sono, loco en la cabeza».
Mi guadagno un sorriso. Da quando ho cominciato a studiare lo spagnolo, Celina ride ogni volta che uso le poche parole che so. Dice che il mio accento del Sud diventa più forte quando provo a parlare le lingue straniere. Io non lo sento, ovviamente, ma lei giura che è vero e questo di solito la fa ridere. Non nego e non confesso di usarlo a mio vantaggio in certe situazioni critiche.
Va bene, lo faccio spudoratamente. Non ho ritegno quando cerco di farla divertire. O distrarre, a seconda delle necessità.
C’è una breve pausa durante la quale spero che lasci cadere l’argomento, anche se non sono del tutto sorpresa quando non lo fa. Celina è davvero testarda. È come un delicato e bellissimo cucciolo di pitbull. «C’è qualcosa che mi nascondi. Perché non me lo dici?».
Mentre guido piano per Main Street, una strada che speravo di non rivedere più, allungo la mano per accarezzare la guancia fredda e morbida di mia figlia. Il cuore mi si gonfia di un misto di amore infinito e paura insopportabile. La smetto con gli scherzi e le rispondo: «Perché hai abbastanza di cui preoccuparti senza che io aggiunga altro. Sei mia figlia. Non dovresti aggravarti delle mie preoccupazioni».
«Ma se voglio?».
Oh Dio Santissimo.
È così altruista. Così straordinariamente altruista e amorevole. Non so da chi l’abbia preso.
Mi si forma un nodo in gola e mi manca il fiato. Rido e scherzo il più possibile ma spesso mi sento come se stessi per scoppiare in lacrime da un momento all’altro. «Tesoro, apprezzo che tu lo voglia, ma il mio lavoro di mamma è di impedirlo. Il mio lavoro è di renderti la vita più spensierata possibile finché posso. Verrà un momento in cui non potrò più proteggerti dalle sofferenze della vita, ma per ora sei la mia bambina. La mia dolcissima Celina. Mi prenderei una pallottola per te se servisse a risparmiarti un secondo in più di dolore».
«Non è che finora abbia vissuto sotto una campana di vetro, mamma».
Celo un sorriso davanti alla sua espressione eccessivamente ironica. Mi ricorda che è un’adolescente.
Non sia mai che me lo scordi.
«Lo so. Hai già sofferto più tu alla tua età che qualcuno in tutta la vita. Ma è per questo che voglio proteggerti, se riesco. Ti rimetterei nella mia pancia se potessi, quindi ringrazia che proteggerti è il meglio che posso fare».
«Mamma! Che schifo!».
Ridacchio davanti alla sua reazione. Pronuncia mamma allungando disgustata le vocali: maam-maa.
«Davvero, Celina, non ti preoccupare. Comportati da quattordicenne normale. Be’, per quanto può essere normale qualcuno che condivide il mio dna».
La sua vocina è così piccola che quasi non sento la risposta. «Non mi ricordo nemmeno cos’è la normalità».
Sento un’altra ondata di profonda tristezza. Guardo a destra e vedo che Celina ha la testa piegata in giù e il broncio. In queste occasioni mi stupisco che il cuore non mi si spacchi letteralmente in due, proprio nel mezzo, e non rimangano due parti che non si sentiranno mai più bene e complete. «La ritroverai presto, tesoro». Dio, ti prego, falla sentire di nuovo normale. «E ti ricorderai di quanto è noiosa». Ti prego, aiutala a superarlo.
Spero di sembrare convincente ma ne dubito visto che lei si limita ad annuire. Mi chiedo se riesca a leggermi, leggermi nel profondo dove mi sento tutt’altro che sicura. Mi chiedo se, in realtà, non sia trasparente come il parabrezza sporco di insetti davanti a me.
«E fino ad allora, la sera prima di andare a letto possiamo incontrarci nella mia vecchia stanza e ridere dei pantaloni della nonna. Scommetto che porta i pantaloni da vecchina. E le mutande da vecchina. Sai quelle enormi che coprono lo stomaco e arrivano fino alle ascelle».
Storco il naso e Celina mi imita, e poi diciamo insieme: «Bleah».
Dopo un minuto o due sospira pesantemente. Forte. Drammatica. Tipica rabbia adolescenziale. «Immagino che andrà tutto bene. Le cose non possono andare peggio».
Non le dirò che le cose possono sempre andare peggio e di sicuro non le dirò che spesso lo fanno. Non c’è bisogno che lo sappia. La proteggerò da questa consapevolezza più a lungo che posso. Vorrei che qualcuno avesse fatto lo stesso con me. Ma, ahimè, la vita non fa altro che mostrarmelo da venti lunghi anni a partire dal giorno in cui mi sono trasferita qui dodicenne.
«Forza e coraggio, ragazzina. Non si sa mai. Potrebbe essere la cosa migliore che ti sia mai capitata». Tiro su col naso respirando l’odore di erba appena tagliata, sole e qualcosa di dolcemente unico di Shepherd’s Mill che entra dai finestrini abbassati. «Lo senti?».
Non sentivo questa particolare combinazione di profumi da quindici anni. Ora mi fa quasi venire la nausea.
«Che è? Te la sei fatta addosso?»
«Celina Holland, no, non me la sono fatta addosso. Questo, ragazzina, è l’odore di un nuovo inizio». Inspiro di nuovo e sorrido. «E probabilmente un po’ di letame di vacca».
Scuote la testa e chiude gli occhi. «Sei proprio strana».
«Sono fatta così. Strana ma eccezionale».
Rimaniamo entrambe in silenzio e, mentre attraversiamo il cuore di Shepherd’s Mill, cerco di vedere la città con gli occhi di Celina, senza pregiudizi.
Il marciapiede è vuoto da entrambi i lati della strada e i negozi espongono ancora il cartello chiuso in vetrina. Non ci sono macchine nei parcheggi che percorrono il lato del marciapiede come punti di sutura, e non ci sono suoni. A dire il vero è un po’ inquietante se uno non conosce la gente del luogo. L’unica cosa che manca è una palla di fieno che rotola davanti a noi e l’aspetto da città fantasma è completo. Però sarebbe fuorviante. La città è abitata ma in questo caso i fantasmi sono demoni e si trovano in chiesa.
«Dove sono tutti?».
Celina è abituata al trambusto della grande città. Già era timorosa di trasferirsi in una cittadina ma questo… questo la sta probabilmente terrorizzando.
«In chiesa».
Come a farlo apposta, proprio mentre ci avviciniamo all’unico luogo di culto della città, le porte si spalancano e sgorga una folla che si riversa sugli scalini di cemento come acqua sulle rocce. So per esperienza che aspettano che il pastore esca a stringere la mano delle sue pecorelle mentre vanno via. Ho sempre pensato che fosse l’ultimo tentativo per cercare di convincere i fedeli a non commettere peccati almeno per il resto della giornata.
Per quanto ne so, non ha mai funzionato, anche se devo riconoscere a queste persone il merito di andare nell’unico posto in cui hanno la possibilità di diventare per bene.
I primi si girano a guardarci mentre passiamo. Resisto all’impulso di raggomitolarmi sul sedile dalla vergogna. Sono sicura che tireranno le loro conclusioni sul perché Brinkley Sommers è tornata dopo tutto questo tempo e nientemeno con una figlia. Il solo pensiero mi fa venire voglia di lanciare un’occhiata ribelle nella loro direzione, tirare su una mano e salutare facendo finta di non sapere quello che pensano.
Come se non li conoscessi.
Rido quando vedo che un’espressione sorpresa si manifesta di faccia in faccia. Un tempo mi avrebbe dato noia. Ma non ora. Non sanno che non possono più controllarmi. Non sanno che non vivo e muoio più secondo le loro regole.
Non mi conoscono.
Non più.
Alla fine superiamo l’elegante edificio bianco. Lancio un’ultima occhiata dallo specchietto retrovisore. Preferirei vederli dallo specchietto perché me ne vado e non perché sto tornando ma… la mia malinconia è interrotta dall’urlo di mia figlia che riporta la mia attenzione alla strada davanti a me.
«Mammaaaa!».
Istintivamente afferro il volante, raddrizzo le braccia e premo con forza sul freno mancando per poco un animale da fattoria che cammina disinvolto per la strada.
«Oh cavolo! Cos’è?». Celina si porta in avanti, mette le mani sul cruscotto e guarda fuori dal parabrezza.
«È una capra», rispondo senza fiato con il cuore che mi batte a mille. «Che ti sembra?»
«Perché c’è una capra nel mezzo della strada, nel mezzo di una città?».
Mi giro e rivolgo un sorrisetto alla mia unica figlia. «Benvenuta a Shepherd’s Mill, tesoro».
Non riesco a trattenere le risate quando si copre la faccia con le mani e geme.
So come si sente.
1984
Dodici anni
Capitolo due
«B
leah, Brinkley, che schifo!».
Lauren Stringer. La bambina più popolare della scuola. Perché doveva essere l’unica persona con cui mamma aveva insistito che facessi amicizia quando ci eravamo trasferite un paio di mesi prima? Era tremenda. Semplicemente tremenda. Perché doveva essere lei?
Sapevo la risposta. E sapevo che non importava quanto fossero tremende Lauren e la sua cricca. Avevo ricevuto degli ordini e non erano negoziabili. Fin dal primo giorno di scuola mi ero resa conto di come sarebbero andate le cose.
«Devi smetterla con questo atteggiamento, Brinkley», aveva detto mamma quando l’inserimento alla Shepherd’s Mill Middle School non era andato come sperato. «Siamo gente ricca ora e tu devi comportarti di conseguenza, signorina. Questo vuol dire essere educata, tenere la bocca chiusa e, Santo Dio, smetti di giocare con la terra!».
Si riferiva alla punta già sporca di fango delle mie nuove Nike bianchissime. Tutto quello che avevo fatto era stato disegnare dei cerchi sulla strada polverosa mentre aspettavo lo scuolabus. Era solo polvere. Neanche avessi giocato nella cacca o qualcosa di altrettanto disgustoso. In ogni caso quello ormai andava contro le regole. A quanto pare essere ricchi significava non potersi sporcare mai più.
Sospirai mentre ci riflettevo. Speravo che i sacrifici che facevamo alla fine sarebbero stati ripagati. Ma per il momento non mi sembrava. Ovviamente, per come la vedevo io, ero l’unica a farli. Mamma era al settimo cielo.
Eravamo sempre state solo noi due. Non avevo mai conosciuto mio padre e, da quando avevo memoria, ricordavo che mia madre aveva sempre voluto accalappiare un uomo ricco, qualcuno che potesse far sparire i suoi problemi. Problemi come dover fare due lavori per arrivare a fine mese e fare fatica a comprare alla figlia i vestiti per la scuola quando in realtà avrebbe preferito comprarsi qualcosa di carino per sé. Pensava che i soldi fossero la risposta a tutto e immagino che quando non si hanno possano sembrarlo. Che fosse vero o no era tutto da vedere, ma lei provava comunque a insegnarmi che era così. Però non ero convinta. Fino a quel momento erano stati solo una grande rottura di palle.
Non potevo nemmeno più dire palle.
Le regole del non dire parolacce e non sporcarsi erano entrate in vigore ad aprile quando finalmente mia madre aveva ottenuto quello che voleva – il matrimonio dei sogni con un uomo ricco – e avevamo attraversato mezzo stato del South Carolina fino ad arrivare a una cittadina chiamata Shepherd’s Mill. A partire da quel momento, come mi ricordava costantemente, dovevo solo recitare la mia parte così lei si sarebbe potuta tenere il marito. Secondo lei questo significava (oltre a stare attenta a come parlavo e rimanere pulita) fare amicizie con le persone giuste e poi imparare a comportarmi come loro. Era quello che faceva lei ed era quello che si aspettava da me.
Quindi frequentavo Lauren Stringer e i suoi amici perché erano i figli di qualcuno di importante. Era quello che mamma voleva che facessi. E lei era tutto quello che avevo e volevo farla felice. Ero sempre ubbidiente e facevo esattamente ciò che mi chiedeva, alla lettera quando potevo. Anche se significava farsi e mantenere degli amici che erano demoni senz’anima. Ebbi il primo assaggio dei loro cuori duri in un bel giorno d’estate giù al fiume durante il mio dodicesimo anno di vita.
«Bleah, Brinkley, che schifo!». Queste parole risuonarono nel pomeriggio soleggiato come il suono acuto delle campane della chiesa che annunciavano il mio funerale.
All’inizio pensai che stesse scherzando. Lo disse con una mezza risatina quindi sorrisi anche se non avevo idea di cosa stesse parlando. Ma quando anche gli altri cominciarono a ridere, prendermi in giro e indicare, capii che non stava scherzando per niente. Lauren Stringer mi diceva che facevo schifo e non sapevo nemmeno perché.
Mi passai una mano tra i biondi capelli mossi aspettandomi di trovarci del fango o un ragno o qualcosa del genere. Però non ci trovai niente. Li tenevo puliti e in ordine come mi aveva fatto promettere mamma. Poi mi passai la mano sul naso piccolino e la bocca larga in cerca di qualcosa di bagnato o appiccicoso. Non trovai niente nemmeno lì. Guardai la maglietta blu e bianca, le righe accecanti sotto il sole brillante, e non trovai niente di schifoso nemmeno lì. Niente insetti, mostarda, saliva o caccole. Niente. Eppure ridevano ancora. Più forte. Più rumorosamente. Mi indicavano e indietreggiavano come se d’un tratto fossi stata radioattiva.
«Oddio, sta sanguinando e non se ne accorge nemmeno!». Lo squittio di Cassie Shield era un misto tra gioia e orrore. Cassie non mi era piaciuta dal primo momento in cui l’avevo conosciuta. Aveva la testa infilata nel sedere di Lauren più di chiunque altro. Tutti ce l’avevano un pochino infilata ma Cassie era la peggiore.
Be’, forse non tutti. In realtà c’era un ragazzo che non stava dietro a Lauren come facevano gli altri. Sembrava che non gli importasse di chi lei fosse e cosa facesse o pensasse.
Il suo nome era Dane James.
Mi era piaciuto immediatamente anche se, secondo Lauren, non avrebbe dovuto. Dopo che si era unito a noi quel giorno, la mia amica mi aveva subito messa al corrente dei dettagli spiacevoli sul ragazzo carino. Quando lui ci aveva guidato per i campi e tutti si erano sbrigati a camminargli a fianco, Lauren era rimasta indietro. Lei era superiore. O almeno pensava. E siccome lei era rimasta indietro, anch’io ero rimasta indietro. Perché quello avrebbe reso felice mia madre.
«Suo padre lavora nei campi. Gestisce gli affari del tuo patrigno», sussurrò. Il suo tono implicava che essere il figlio di un umile lavoratore fosse una cosa terribile. Proprio come mia madre, Lauren riusciva a comunicare tantissimo solo con il tono di voce. «Ha la nostra età ed è carino, ma è una persona normale. Non come noi».
«Perché l’hai invitato allora?». Ero estranea ai modi di fare della borghesia locale e al loro funzionamento.
«È l’unico che può avere la chiave del cancello sul retro così possiamo scendere al fiume». Mi aveva spiegato alzando gli occhi al cielo come a dire è ovvio
.
Visto cosa intendo con il tono?
Avevo annuito come se fosse stato logico, anche se non lo era. Ma quello che aveva sottinteso lo era. Intendeva che anche se Dane era carino e utile, non era abbastanza per essere davvero uno di loro. Non come me. Mia madre aveva sposato uno di loro quindi io ero automaticamente abbastanza. Ero diventata una di loro ed eravamo un noi e Dane James non lo sarebbe mai stato.
Con il passare della giornata fui contenta che l’avesse invitato. Mi piaceva che fosse venuto anche se non si inseriva alla perfezione. Mi piaceva il fatto che camminasse e che tutti lo seguissero. Mi piaceva che si fosse fermato a spostare una tartaruga dal nostro percorso in modo che nessuno la pestasse. Mi piaceva anche il fatto che non rivolgesse tante attenzioni a Lauren. Era come se fosse nato con un’immunità che il resto di noi non aveva. Mi piaceva davvero questo aspetto di lui. Ma più di tutto, mi piacevano i suoi occhi. Avevano un bel colore. Come i toni più scuri dell’autunno, ruggine, marrone e verde con una spruzzata d’oro. Mi lanciò un paio di occhiate. Sarebbe meglio dire che mi guardò. Il suo sguardo non continuava a spostarsi come faceva quando lo posava sugli altri. Si fermò sul mio, lo sostenne. Mi guardò dritto negli occhi.
Quando lo fece sentii una strana sensazione allo stomaco; uno sfarfallio come se fossi stata nervosa ed eccitata. Come mi ero sempre sentita il primo giorno di scuola quando mettevo i miei unici vestiti nuovi o la mattina di Natale quando correvo in salotto a vedere se c’erano regali sotto l’albero.
Sfortunatamente non stavo guardando lui o i suoi occhi quando gli altri cominciarono a prendermi in giro.
«Bleah, Brinkley, che schifo!». Quelle parole mi circondavano, ondeggiavano sugli alberi e penzolavano dalle foglie. Ridevano nel vento e mi prendevano in giro nel sole.
Il cervello mi girava all’impazzata per capire cosa avessi fatto per schifarli ma non lo capii fino a che non guardai il punto in cui indicavano come dei cafoni. Mi portai in avanti e guardai in basso. Giù, giù, giù sotto la vita. Fu lì che vidi una macchia rosso scuro spandersi dal cavallo dei miei pantaloni bianchi immacolati.
Be’, un tempo immacolati.
Il battito accelerò un bel po’. Anche se ero abbastanza sicura di cosa fosse, mi spaventai comunque. Voglio dire, mia madre mi aveva fatto il discorsetto ma fu comunque uno shock vedere il sangue che usciva da quella zona. Mi colse di sorpresa. Una sorpresa tremenda.
«Potrebbe morire! O potrebbe essere contagiosa! Bleeeeeeah! Correte!», strillò Lauren melodrammatica. «Correte!».
E, ovviamente, corsero. Come un branco di pecore. Stupide pecore. Seguaci. Una cosa di cui, stavo imparando, quella città era piena. Corsero dietro a Lauren piagnucolando per tutto il tragitto – caaaa caaaa caaaaattiva Brinkley – lasciandomi lì, sola e sanguinante, accanto al fiume in un pomeriggio caldo e umido d’estate.
Corsero tutti.
Eccetto uno.
Dane James.
Non mosse un muscolo, rimase lì a guardarmi con quei buffi occhi masticando il gambo di quello che sembrava una spiga di grano. Quel gambicciolo lo faceva sembrava più vecchio. E anche più sfacciato, come un cowboy della televisione o qualcosa del genere. O come un cavaliere con l’armatura scintillante, se non fosse stato per il fatto che indossava una camicia a quadri e dei jeans.
Ingoiai le lacrime di pura umiliazione più a lungo che potei e contai i secondi fino al momento in cui avrei trovato le gambe e sarei scappata anch’io. Ma le gambe non mi funzionavano e la diga non resse. Le lacrime rabbiose premettero con forza contro un’apertura nella facciata fino a che non trovarono una via d’uscita. E quando cominciarono a sgorgare, niente al mondo poté fermarle.
Nemmeno Dane James.
Lo stress del trasloco, della nuova casa e del mio nuovo padre, della nuova scuola e dei miei nuovi amici
si scontrarono con la pressione che mi metteva mia madre e la scossa mi fece cadere sulle ginocchia. Le articolazioni cedettero e si afflosciarono sotto il mio peso leggero. Scivolai per terra, un po’ come una Slinky, affondai il viso nelle mani e singhiozzai.
Singhiozzai, singhiozzai e singhiozzai ancora.
Non sentivo nient’altro che il suono vuoto dell’umiliazione intorno a me quindi fu facile dimenticarmi che non ero sola. Quando le lacrime cominciarono ad asciugarsi, mi ricordai che Dane James era lì.
Dane James, quello che era rimasto.
Desiderai che non l’avesse fatto. Volevo solo morire in pace. Perché ero certa che sarebbe successo. Mamma mi aveva insegnato tempo prima che la morte sociale era molto vicina alla morte vera. Ero sicura che fosse proprio così in una cittadina come Shepherd’s Mill. Ero altrettanto sicura che avrei avuto una morte di proporzioni epiche.
Tenni le mani premute sul viso sperando che Dane se ne andasse, ma quando sentii una mano sulla spalla non potei più ignorarlo. Esitando, girai la testa per sbirciare tra le dita che mi tremavano. Vidi una faccia. Una faccia bellissima.
Dane James era accovacciato accanto a me e masticava il pezzo di grano giochicchiandoci con le labbra, cosa che trovai subito affascinante. Da quelle labbra le parole sgorgarono come miele dolcissimo.
«Sono Dane», disse piano.
«So chi sei». Tirai su col naso a scatti.
«Tu sei Brinkley».
«So anche chi sono io». Non volevo essere così acida, ma ero ancora ferita dalla vergogna.
Sorrise.
«Non fare caso a Lauren. O ai suoi amici. Non valgono niente». Si alzò e mi offrì la mano per aiutarmi. «Probabilmente faranno lo stesso con lei, un giorno».
Oddio, spero di sì!
Una parte di me sperava che lui avesse ragione e che lei avrebbe ricevuto lo stesso trattamento, solo peggiore. Qualcosa di orripilante, come nel film Carrie – Lo sguardo di Satana. Qualcosa di pubblico, sanguinoso e indimenticabile. E speravo di essere presente alla scena.
Anche se era improbabile che succedesse, non sul serio, quella semplice frase – «Probabilmente faranno lo stesso con lei, un giorno» – fu sufficiente a calmarmi. Non del tutto, ma abbastanza perché rivolgessi a Dane un sorriso stirato e gli permettessi di aiutarmi. Mentre mi spolveravo le ginocchia, lo guardai togliersi dalla vita la camicia a quadri. Senza dire una parola, venne da me e me la legò intorno ai fianchi.
Mentre lo guardavo fare un nodo con le maniche e poi lasciare le estremità, mi chiesi se qualcuno fosse mai esploso per l’imbarazzo. Semplicemente esploso e morto sul colpo.
Abbandonai il pensiero, però, quando guardai in basso e mi accorsi della mossa astuta di Dane James. Le maniche lunghe nascondevano la macchia crescente in mezzo alle gambe penzolando proprio nel punto giusto davanti al pube, mentre il resto della camicia mi copriva completamente dietro. Ora sembravo solo un maschiaccio. Un maschiaccio pulito, però, e questo mi andava bene. Meglio un maschiaccio che un’appestata.
E fu così che Dane James mi salvò.
O almeno così mi