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Lo chiamavano Gladiatore
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E-book435 pagine6 ore

Lo chiamavano Gladiatore

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Info su questo ebook

Tra Fight Club e Suburra

Due autori bestseller
Una storia epica

Roma, I secolo d.C., sotto l'imperatore Tito.
Aurelio fa fallire l’impresa che gli ha lasciato il padre e, minacciato dagli usurai, è costretto a farsi schiavo per i troppi debiti. Finisce così in una scuola di gladiatori: ha talento nell’arena, ma deve fronteggiare la rivalità dei compagni. Un aiuto gli arriva da Clovia, una donna senza scrupoli che, grazie a una misteriosa pozione, ha trovato il modo per potenziare le doti atletiche dei combattenti su cui scommette… 

Roma, giorni nostri.
Valerio si è innamorato di una prostituta ed è determinato a liberarla dai suoi protettori. Da quando è finito sul lastrico, rovinato dal suo socio in affari, però, non ha più un soldo e l’unica sua fonte di guadagno sono i combattimenti clandestini di arti marziali. Per sopravvivere in quel mondo spietato, sarà costretto a ricorrere a soluzioni più estreme… 
E questo, per quanto strano possa apparire, legherà il destino di Valerio a quello di Aurelio, vissuto duemila anni prima. Per entrambi i combattenti, dietro l’angolo si nasconde l’insidia che potrebbe distruggere le loro vite.

Una Roma violenta, spietata, crudele
Due combattenti forti, determinati, disperati 
Due millenni li separano, il destino li unisce

Il re del romanzo storico insieme al maestro del thriller: un libro destinato a lasciare il segno

«Lugli è uno dei migliori cronisti-segugi al lavoro a Roma.»
Corrado Augias

«Frediani usa il particolare come un fregio arricchendo le vicende con precisione, dalle descrizioni degli abiti imperiali fino alle regole dei cerimoniali.»
Sette – Corriere della Sera

«La scrittura di Massimo Lugli è un viaggio nel lato più oscuro della città, un corpo a corpo sui marciapiedi di Roma violenta.»
la Repubblica

«Frediani è abile nell’immergere il lettore dentro le battaglie, portandolo in prima linea, fra scintillii di spade e atroci spargimenti di sangue.»
Corriere della Sera
Andrea Frediani
È nato a Roma nel 1963; consulente scientifico della rivista «Focus Wars», ha collaborato con numerose riviste specializzate. Con la Newton Compton ha pubblicato diversi saggi e romanzi storici. Ha firmato la serie Gli invincibili, una quadrilogia dedicata ad Augusto, e la serie Roma Caput Mundi, incentrata sulla controversa figura di Costantino. Le sue opere sono state tradotte in sette lingue.
Massimo Lugli
Giornalista di «la Repubblica», si è occupato di cronaca nera come inviato speciale per 40 anni. Ha scritto Roma Maledetta e per la Newton Compton La legge di Lupo solitario, L’Istinto del Lupo, finalista al Premio Strega, Il Carezzevole, L’adepto, Il guardiano, Gioco perverso, Ossessione proibita, La strada dei delitti, Nelmondodimezzo. Il romanzo di Mafia capitale, la serie Stazioni Omicidi, e nella collana LIVE La lama del rasoio. Suoi racconti sono contenuti nelle antologie Estate in giallo, Giallo Natale, Delitti di Ferragosto, Delitti di Capodanno e Delitti in vacanza. Cintura nera di karate e istruttore di tai ki kung, pratica fin da bambino le arti marziali di cui parla nei suoi romanzi.
LinguaItaliano
Data di uscita9 gen 2018
ISBN9788822718501
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    Anteprima del libro

    Lo chiamavano Gladiatore - Andrea Frediani

    I

    Fu come se una frana si fosse abbattuta sulla sua casa, frantumando e dilaniando in un istante tutto ciò per cui aveva lavorato e penato una vita intera.

    Aurelio Cecina si guardò intorno. Fissò incredulo lo scrittoio su cui aveva trascorso le sue giornate a far quadrare i conti della sua sfortunata attività. Scrutò nella penombra, rischiarata a stento dalle lucerne appese alle pareti, cercando di capire cosa poteva salvare dal disastro. Presto la frana avrebbe finito di travolgere la sua vita, lasciandolo in balia dei creditori, degli strozzini cui si era aggrappato per illudersi di potersela cavare, degli stenti e della pietà degli amici di un tempo. O forse no: la pietà, probabilmente, se la sarebbe risparmiata, a giudicare dalla rapidità con cui quegli amici si erano dileguati nelle ultime settimane, fin da quando aveva iniziato a diffondersi la voce del suo fallimento.

    Perfino Cecilia non si faceva più viva da giorni. Aurelio si accasciò sulla sedia ripensando all’espressione disgustata che aveva fatto la sua promessa sposa quando le aveva annunciato di non avere più un sesterzio e di dover rimandare le nozze a data da destinarsi. Nessuno sgomento, nessun dispiacere: solo disprezzo, rabbia, su quel bel viso che era sempre stato l’ultima immagine con cui si addormentava e la prima con cui si risvegliava da due anni. Lei, ragazza di umili natali, figlia di un fabbro, cresciuta nella Suburra, aveva visto subito in lui non solo un giovane di bell’aspetto e benestante, ma anche un’opportunità per emanciparsi dalla vita precaria in cui l’aveva precipitata la morte precoce del padre, obbligandola a lavori servili per aiutare la madre a tirare avanti. E in un istante, con quel ferale annuncio, Aurelio si era reso conto di aver infranto tutti i suoi sogni. Proprio per questo aveva tardato a farglielo, rivelando a Cecilia le sue condizioni solo quando non aveva più potuto tacerle: tutti ormai nel quartiere sapevano che era rovinato. Quando camminava per strada, sentiva su di sé gli sguardi di compatimento della gente, e gli pareva quasi di udire i loro sussurri quando vedeva i conoscenti parlare tra di loro al suo passaggio.

    «Ha fatto il passo più lungo della gamba…».

    «L’avevo detto io che era solo uno sbruffone…».

    «È riuscito a dilapidare in pochi anni il patrimonio e l’attività che gli aveva lasciato il padre. Quello sì che era in gamba…».

    Aurelio ringraziò gli dèi che se lo fossero portati via prima che vedesse lo scempio compiuto sull’eredità. Il vecchio non si era mai fidato di lui e, a quanto pareva, gli eventi gli avevano dato ragione: aveva sempre dichiarato di voler lasciare l’attività a suo fratello maggiore Lucio, ma un giorno il giovane era rimasto coinvolto in una rissa da strada tra fazioni di pretoriani favorevoli all’uno o l’altro degli imperatori che si disputavano il potere in quel momento, e la sua morte aveva costretto il padre a puntare sul secondogenito. Il dispiacere per la beffarda sorte di Lucio aveva finito per portare nella tomba anche il vecchio, e Aurelio era rimasto solo a portare avanti quella dannata attività di allestimento e fornitura di suppellettili che aveva sempre detestato. Ma lo aveva fatto per ben quattro anni con coscienza e impegno, soprattutto per dimostrare a tutti e a se stesso di essere capace di occuparsi degli affari di famiglia, e di non essere solo un giovanotto baldanzoso e robusto, dedito alle attività sportive e agli spettacoli circensi, con poco cervello e scarsa voglia di lavorare.

    Ma che per quel mestiere non ci fosse tagliato lo aveva visto presto. Gli pesava fare i conti e prendere decisioni continue, concentrarsi su faccende aride come i registri e la gestione del personale, la scelta dei materiali e la loro lavorazione, ma si era ostinato a prendere su di sé tutte le responsabilità, senza delegare alcunché ai collaboratori del padre, che certamente ne sapevano più di lui. E per affermare la sua autorità li aveva sempre contraddetti, aveva rifiutato i loro suggerimenti e i loro consigli, ne aveva addirittura licenziati un paio, e altri due se n’erano andati disgustati. Ma il suo orgoglio gli aveva impedito di richiamarli o di ascoltarli, e adesso non aveva neppure di che pagare i pochi che gli erano rimasti vicini, concedendogli una fiducia che non aveva mai mostrato di meritare.

    «Aurelio Cecina, ti porto i saluti di Gaio Mummio». Una voce tetra alle spalle lo riscosse dai suoi pensieri. Ma quando udì quel nome, sprofondò ancora di più nella prostrazione. Rialzò il capo, ricordandosi solo in quel momento di aver lasciato la porta aperta. Scrutò l’indesiderato ospite, un brutto ceffo che doveva essere stato un gladiatore, prima che l’usuraio lo prendesse al suo servizio: sapeva fin troppo bene perché era lì.

    «Digli di aspettare ancora. Troverò un modo», rispose con una voce atona che non riconobbe come sua, riabbassando il capo per non dover guardare l’uomo negli occhi truci.

    «Oh, dovrai trovarlo per forza. Ma non dovrai metterci tanto. A Gaio pare che tu te la stia prendendo comoda. Sono qui per farti un sollecito», replicò l’altro. Un istante dopo, Aurelio vide le gambe dell’uomo a un passo da lui. Fece appena in tempo a risollevare la testa, prima di ricevere un violento calcio allo stinco, che gli provocò una forte fitta alla gamba, costringendolo ad afferrarsela con entrambe le mani. Un pugno sulla tempia lo fece rimbalzare contro lo schienale della sedia. Stordito e confuso, provò a guardare il suo aguzzino ma vide solo gli incerti contorni di una sagoma umana incombere su di lui. Una nuova mazzata centrò il suo naso. Sentì la cartilagine frantumarsi, e il calore del sangue esploso dalle narici inondargli il viso.

    Poi arrivarono i pugni sui fianchi, allo stomaco, sul petto. Boccheggiò, nel tentativo di respirare, ma sentì le dure nocche del suo persecutore infrangersi sulle labbra. Gli parve che almeno un dente si fosse spezzato, mentre violente pulsazioni iniziavano a squassarlo nella bocca, che fu invasa da un sapore ferroso. E non provò neppure a reagire quando l’altro continuò a infierire sul suo corpo, martellandolo con calci, pugni e gomitate. Se non lo avesse sorpreso con quel calcio improvviso, si disse, forse avrebbe saputo difendersi: sapeva di essere abbastanza vigoroso da poter sostenere uno scontro perfino con un ex gladiatore. Ma adesso voleva solo che se ne andasse. Trovò la forza di scivolare via dalla sedia e di accasciarsi a terra, ma l’uomo non smise di colpirlo, martoriandolo di calci.

    E all’improvviso, tutto cessò. Sentì dei passi allontanarsi finché non fu solo silenzio, che rese assordanti le pulsazioni del dolore che provava ovunque, il suo respiro affannoso, i singhiozzi e i rantoli che risuonavano tra le pareti della casa quasi vuota. Aurelio rimase immobile, sul nudo pavimento, in una pozza del suo stesso sangue. Sentì gli occhi inumidirsi per le lacrime e si abbandonò infine a un pianto dirotto, che aveva sempre tenuto a freno, anche nei momenti di più cupa disperazione. Vide passare davanti a sé le immagini dei creditori che protestavano, degli strozzini che lo minacciavano, di Cecilia che lo abbandonava, del padre che lo biasimava, del fratello che lo prendeva in giro, degli uomini che si portavano via i suoi averi, i mobili, il denaro residuo, e si chiese cosa fare per sopravvivere.

    Ma la risposta già la conosceva. Glielo avevano sempre detto che aveva un fisico statuario e una forza straordinaria. Aveva vinto tutte le lotte di strada tra ragazzi, era temuto e rispettato per il suo vigore atletico e le donne lo avevano sempre ammirato per la sua prorompente bellezza.

    Avrebbe messo a frutto quell’unico talento che sembrava possedere.

    «Con questo contratto che ho appena sottoscritto, io, Aurelio Cecina, mi impegno a mettere il mio corpo e la mia volontà al servizio di Quinto Lentulo Celere fino all’esaurimento dell’importo stabilito, oppure, in caso di rinuncia, a versare l’onere del mio riscatto detraendone i compensi ricevuti in precedenza. Da questo momento, e per tutta la durata del contratto, il contraente diventa il mio padrone e signore; se necessario, posso essere bruciato, legato, battuto, ucciso con la spada, da lui o da chiunque altro egli decida. Giuro solennemente, davanti a tutti gli dèi, e che io sia maledetto se non rispetto il mio impegno, di osservare le condizioni che ho sottoscritto fino all’esaurimento del mio compito».

    Aurelio guardò la faccia compiaciuta del lanista nelle cui mani aveva appena consegnato la propria vita per i successivi due anni. Certo, avrebbe potuto svincolarsi quando avesse voluto… se avesse avuto modo di restituirgli i soldi che Lentulo Celere gli aveva versato per permettergli di liberarsi dal suo debito. Il giovane aveva scongiurato la minaccia di morte, ma solo per il momento: diventare un gladiatore, combattere nell’arena con gente che lo faceva per mestiere e per vocazione, sembrava solo un modo per ritardare ciò che Gaio Mummio gli avrebbe riservato se non lo avesse pagato.

    Scrutò ancora Lentulo Celere, i suoi tratti porcini, gli occhi socchiusi e l’espressione spietata, ed ebbe l’impressione di essere passato da uno strozzino a un altro. Ma questo qui, si disse, non voleva i suoi soldi: voleva la sua vita. Aurelio aveva sempre guardato con compatimento, perfino con disprezzo, i tanti falliti che si erano fatti schiavi per debiti, e aveva giurato a se stesso che mai sarebbe finito in quel modo miserabile, segno inequivocabile di una vita buttata via, se non della sorte avversa stabilita dagli dèi. E adesso provava a raccontare a se stesso la favola di essersi solo trasformato in un gladiatore: schiavo sì, ma con la possibilità di affrontare e vincere le sfide, essere adorato dalle folle, riconquistarsi la libertà. Insomma, nulla di così umiliante, in fin dei conti.

    Ma era una favola, appunto, e se ne rendeva conto. Era stato abituato a trattarsi sempre bene; fino all’ultimo, anche quando si era reso conto di essere sull’orlo del fallimento, mai aveva rinunciato ai lussi e ai privilegi che la sua condizione sociale gli consentiva: aveva continuato a mangiare cibi raffinati, d’importazione, e a vestirsi da benestante, anche per evitare per quanto possibile maldicenze e pettegolezzi. Non avrebbe mai immaginato che un giorno sarebbe stato costretto a condurre un’esistenza grama, in comune con energumeni sconosciuti, a mangiare solo orzo, a condividere latrine e dormitori con personaggi poco raccomandabili, e alla mercé di doctores e padroni che avrebbero potuto fare di lui ciò che volevano. Tutti i giorni e tutte le notti: non aveva neppure più una casa di proprietà né i soldi per pagarsi un affitto, e sebbene gli uomini liberi potessero tornare nelle proprie abitazioni la sera, lui non aveva altra possibilità che dormire nel ludus.

    Una volta varcata la porta della scuola dove avrebbe vissuto nei successivi due anni, o finché non fosse stato ucciso, si era guardato intorno sconsolato. Gli altri gladiatori che si allenavano nella corte si erano subito bloccati e lo avevano scrutato, con espressioni feroci e derisorie al tempo stesso, che gli avevano fatto correre più di un brivido lungo la schiena. Era certo che la voce dell’arrivo di un nuovo fallito si fosse diffusa prima ancora che lui mettesse piede nella palestra e aveva sentito su di sé tutto il loro disprezzo. Aveva sollevato il capo e gonfiato il petto, cercando di assumere un atteggiamento fiero, mentre seguiva il suo accompagnatore nell’ufficio del lanista. Ma non aveva potuto fare a meno di ammirare il fisico scultoreo degli altri, che faceva apparire il suo bolso e appesantito, e le loro cicatrici, che facevano sembrare la sua pelle liscia come quella di una donna. Di colpo aveva capito di essere entrato in un mondo su cui non aveva alcun controllo; un mondo che avrebbe potuto schiacciarlo in un istante.

    Tra la gente normale, i comuni cittadini di Roma che aveva sempre frequentato, era considerato un uomo che era meglio non far arrabbiare, con una forza ben superiore alla media, un corpo invidiabile e abilità atletiche fuori dal comune; ma lì, in mezzo a uomini abituati a combattere e uccidere, era solo un giovanotto viziato con un aspetto insignificante. Si disse che avrebbe dovuto lavorare il doppio di chiunque altro per non essere lo zimbello dei colleghi e per vendere cara la pelle; e forse non sarebbe neppure bastato.

    «C’è molto da lavorare su di te», disse Lentulo Celere scrutandolo a sua volta, dandogli l’impressione di aver appena letto i suoi pensieri. Fece un cenno a un inserviente, che uscì dal locale subito dopo. «Togliti la tunica», gli intimò, con un tono che lasciava già presagire come lo considerasse roba sua. Aurelio si sforzò di non lasciar trapelare l’irritazione per ciò che, più che una richiesta, appariva come un comando, e obbedì. Di nuovo, sentì su di sé lo sguardo dell’interlocutore, che lo studiava e lo valutava come se fosse un animale.

    E forse, ai suoi occhi, lo era davvero.

    «Hai discrete potenzialità, ma si vede che non sei un attaccabrighe: a parte il viso, che qualche scagnozzo di un usuraio ti avrà pestato in tempi recenti, hai un corpo immacolato, nessun segno di lotta. Spero per entrambi che tu abbia un minimo di combattività. Altrimenti, vedremo di tirartela fuori, in un modo o nell’altro», dichiarò il lanista.

    Aurelio si sentì punto sul vivo. Oltretutto, la facilità con cui il suo padrone aveva intuito ciò che era successo lo umiliava. «Guarda che ne ho fatte di risse da strada. E le ho vinte tutte», replicò stizzito. «Inoltre, non è andata come credi…».

    L’espressione di Lentulo Celere cambiò radicalmente in un istante. Il suo viso si indurì e uno sguardo d’odio lo fulminò. Il lanista afferrò una verga poggiata sulla superficie dello scrittoio, avanzò verso di lui e gli sferrò un colpo repentino sul petto. Il giovane sentì un acuto bruciore squassargli lo sterno, si abbassò e subito dopo ricevette un altro colpo sulla spalla destra, che lo fece piegare in due. Ruggì d’istinto e fece per avventarsi sull’aggressore, ma la verga danzò davanti ai suoi occhi e lo dissuase da ogni tentativo di reazione.

    «Impara subito che adesso sei uno schiavo, Aurelio Cecina», dichiarò Lentulo Celere con espressione crudele. «Tu non rispondi se non ti autorizzo io, sono stato chiaro? E quando rispondi, devi farlo con rispetto: non ti stai rivolgendo a un tuo pari. Hai capito? Annuisci, altrimenti ti arrivano altre vergate».

    Aurelio maledisse se stesso, prima ancora del lanista, per essersi ficcato in quella situazione.

    Annuì. Ma impiegò un istante di troppo, perché quando aveva iniziato a muovere il capo la frusta era già calata sull’altra spalla.

    Dovette esercitare tutto l’autocontrollo di cui era capace per non reagire ancora.

    «Bene. Vedo odio nei tuoi occhi. Forse non sei così imbelle, tutto sommato», concluse il lanista. «E non sforzarti di convincermi che non ti ha pestato uno strozzino: hai idea di quanti uomini liberi ho visto arrivare qui nelle tue condizioni?», aggiunse con un sorriso sarcastico.

    In quel momento un uomo entrò nella stanza. «Allora, Kalendio, cosa ne pensi di questo nuovo arrivato?», chiese Lentulo Celere. Aurelio si sentì di nuovo valutare come un animale; studiò a sua volta il personaggio appena entrato: era un gladiatore, senza dubbio, ma più anziano degli altri, e ne dedusse che fosse il doctor, l’istruttore con cui si sarebbe dovuto confrontare durante il suo apprendistato. Era più alto perfino di lui, quindi doveva esserlo molto più della media, e una profonda cicatrice solcava la parte destra del suo viso, deformando l’occhio e la bocca, che sembrava priva di labbra da un lato. La deformazione rendeva impossibile capire la sua espressione, rendendo il suo viso del tutto immobile e ancor più inquietante. Per il resto, le altre cicatrici lungo le braccia muscolose e in tutte le parti visibili recavano testimonianza di una carriera brillante, e fecero capire ad Aurelio che essere ridotti così era il minimo che potesse aspettarsi dopo essere sopravvissuto a una carriera da gladiatore.

    «Il perfetto esempio di giovanotto sfaccendato che non ha la minima idea di ciò che lo attende, ansioso di farsi qualche ricca matrona e sicuro di collezionare vittorie solo perché ha un po’ di muscoli…», commentò infine l’uomo. «E abbastanza arrogante da pensare di sfuggire ai propri crimini rinchiudendosi qui dentro…».

    Aurelio si chiese cosa intendesse.

    «Portalo via e mostragli i suoi alloggi. Mi aspetto che tu lo metta sotto come si deve», disse il lanista, congedandoli.

    «Non ti preoccupare, dominus. Se c’è qualcosa che vale la pena tirargli fuori, con me uscirà, puoi starne certo», rispose il doctor. Aurelio si sentì afferrare l’avambraccio da una presa energica, che lo strinse più del dovuto producendogli istantaneamente un livido.

    «Io non ho commesso alcun crimine, doctor», osò dirgli, non appena furono fuori dall’ufficio del lanista.

    Kalendio si arrestò improvvisamente, protese il viso verso il suo e gli sibilò: «Io dico di sì, se hai provocato la morte di una brava persona».

    «Io non ho ucciso nessuno…», protestò il giovane.

    Un violento pugno nello stomaco gli fece comprendere a fatica le successive parole dell’istruttore: «Didio Clemente, ti dice qualcosa? No? Non ricordi l’uomo che hai convinto a sovvenzionarti illudendolo che avresti triplicato il suo prestito? Sai bene come è andata a finire, no?».

    Didio Clemente… Sì, uno dei suoi tanti creditori che non aveva potuto rimborsare, ricordò Aurelio. Troppo educato per ricorrere a picchiatori e grassatori, così era stato tra quelli le cui richieste non si era curato di soddisfare.

    «Io… gli rimborserò tutto, quando avrò vinto i miei combattimenti…», disse boccheggiando.

    «Troppo tardi, almeno per me», replicò il doctor, assestandogli un altro pugno. «Sua moglie si è suicidata, quando sono finiti sul lastrico».

    Aurelio ricordò solo in quel momento che la moglie del suo creditore era nota per essere l’amante di un famoso gladiatore.

    E capì che la sua vita, da quel momento, sarebbe stata ancor più miserabile di quanto si era rassegnato ad aspettarsi.

    Il suono della tromba della sveglia fu per Aurelio una vera e propria liberazione. Era stata una delle notti più lunghe della sua vita e insonne quanto nessun’altra; se mai aveva perso conoscenza, era stato solo per uno svenimento, non perché fosse riuscito ad addormentarsi. Già quando si era messo nel giaciglio, uno squallido pagliericcio su un terreno in terra battuta, aveva capito che l’apprensione per le velate minacce del doctor lo avrebbe tenuto sveglio. Ma non era stato il solo motivo di disagio. In precedenza, pensava che gli avrebbero assegnato una cella tutta per lui, ma un inserviente gli aveva detto che quello era un privilegio riservato ai gladiatori veri, quelli che avevano già sostenuto combattimenti nell’arena. Per lui, come per tutti gli schiavi in fase di tirocinio, era pronto un giaciglio nella camerata riservata alle reclute. E lì lo avevano condotto, limitandosi a mostrargli il suo posto.

    C’erano almeno altri venti uomini con lui e nessuno lo aveva degnato di uno sguardo. Niente presentazioni, nessuna conversazione, assenza totale di convenevoli. Ognuno sembrava farsi gli affari propri e perfino tra loro parlavano poco, senza sorrisi e con movimenti lenti e stanchi. Forse, aveva pensato, erano tutti spaventati dal destino che li attendeva. Nella penombra, ne aveva notati parecchi ammaccati, contusi, feriti, bendati e fasciati: i primi mesi di apprendistato non dovevano essere una passeggiata. Gli era parso anche di vederne uno singhiozzare, seduto sul giaciglio con le spalle incassate. E il terrore lo aveva attanagliato in una morsa ancor più serrata. Aveva atteso che spegnessero le fiaccole per sdraiarsi, e mai come allora il buio gli aveva fatto così paura. L’oscurità, inquietante presagio di sofferenza e di morte, sembrava amplificare ogni rumore: il piagnucolio di qualcuno disperato come lui; i lamenti di un uomo ferito e sofferente; il russare di un altro; il borbottio nel sonno di un altro ancora, e perfino le urla di chi aveva degli incubi.

    Quello era l’Ade, aveva concluso.

    Si alzò con tutte le articolazioni e i muscoli doloranti. Arcuò la schiena e stirò le braccia nel tentativo di trovare qualche sollievo, ma non ottenne altro effetto che sentire delle fitte più pungenti e finì per sedersi di nuovo. Si guardò intorno con gli occhi pesanti, scrutando nella penombra tra i raggi di luce che penetravano dalle finestre più in alto, e notò che i suoi compagni di prigionia sembravano tutti spettri. Avevano davvero l’aria di condannati a morte, e probabilmente lui non doveva essere da meno. Ma era ovvio, si disse: nessuno era lì per sua volontà. Lì c’erano solo gli schiavi e i disgraziati come lui, che si consideravano alla stessa stregua dei damnati ad bestias, i criminali condannati a essere divorati dalle belve, o di quelli costretti ad affrontare gladiatori esperti in scontri impari e dall’esito già segnato.

    «Cosa ci danno per colazione?», chiese all’uomo più vicino. La sera precedente gli si era chiuso lo stomaco e non era riuscito a mangiare la zuppa d’orzo che gli avevano propinato in mensa, una sbobba che gli aveva fatto passare già al primo assaggio quel poco di appetito che aveva. Ora, però, aveva bisogno di mangiare.

    E poi, si sentiva terribilmente solo.

    L’uomo non gli rispose. Si alzò e indossò la tunica, senza degnarlo di uno sguardo.

    «Non ti ho fatto niente. Potresti anche rispondermi», insisté. Sembrava che tutti avessero il terrore di rivolgere la parola agli altri.

    L’uomo continuò a dargli le spalle, ma Aurelio poté finalmente sentire la sua voce. «Mi hai fatto molto, invece. A me come a tutti quelli che si trovano qui», disse.

    Il giovane pensò di non aver capito bene. Era stordito, in fin dei conti, per la notte in bianco, e non si sentiva troppo lucido. «Io sono appena arrivato», rispose disorientato.

    L’uomo si voltò. Non sembrava avere tratti italici e parlava latino con uno spiccato accento greco. Aurelio lesse sul suo volto un’espressione di disprezzo. «Sappiamo tutti chi sei e perché sei qui. Sei un insulto alla nostra schiavitù», specificò l’altro.

    Aurelio continuava a non capire. «Spiegami perché ti avrei offeso, per favore», non poté che dire.

    L’uomo sbuffò, poi si rimise a sedere, ma sulla sponda rivolta ad Aurelio. «Tu eri un uomo libero. La libertà è un bene prezioso, per tutti noi che non l’abbiamo mai avuta o che l’abbiamo persa tanto tempo fa al punto che neanche ci ricordiamo di essere stati liberi», argomentò con sorprendente padronanza del linguaggio. «Qui c’è gente nata schiava, prigionieri di guerra, persone che hanno fatto arrabbiare qualche potente: tutti individui sfortunati, che gli dèi hanno stabilito di far nascere dall’altra parte del muro, forse a caso, per capriccio, chi lo sa?».

    Sì, era decisamente greco, si disse Aurelio soffocando a fatica un sorriso. La tendenza a filosofeggiare tradiva la sua origine ancor più chiaramente del suo aspetto.

    «E io che posso farci?», replicò, pentendosene subito dopo.

    Il suo interlocutore gli lanciò uno sguardo in tralice. «Potresti evitare, per esempio, di buttare via la tua vita», protestò. «Qui chiunque di noi avrebbe dato un braccio per essere libero, e puoi star certo che nessuno, se ne avesse avuto la possibilità, sarebbe stato tanto idiota da commettere così tante sciocchezze da essere costretto a farsi schiavo. Anzi, non solo schiavo, ma perfino gladiatore, ovvero uno schiavo già condannato a morte, di fatto!».

    Aurelio rifletté. Non l’aveva mai vista in quel modo.

    «Per questo ti detestiamo». Adesso il greco non si fermava più. «A quanto pare, gli dèi fanno doni a chi non se li merita. E puoi star certo che qui in molti gioiranno quando cadrai nell’arena, con il cranio fracassato dal primo gladiatore in gamba che incontrerai».

    Aurelio sospirò. Forse l’uomo aveva ragione. «Anche tu gioirai?», gli chiese a bruciapelo.

    Il greco fece una smorfia. «Se dovessi ridurmi a godere di questo genere di soddisfazioni, vorrebbe dire che sono un uomo da poco, come te. Invece, cerco di mantenere un minimo di dignità e di decenza, in questo schifo», sentenziò.

    Aurelio si sentì confortato. Almeno uno dei suoi compagni non lo voleva morto all’istante. «Mi fa piacere saperlo», ribatté.

    «Aspetta a gioirne», precisò l’uomo. «Qui quelli come te durano poco. E non solo perché si attirano il disprezzo di tutti. Non siete qui per vocazione, né perché scelti tra gli schiavi più robusti, ma solo perché sperate di fare un po’ di soldi per appianare i vostri debiti. Siete i più lenti a imparare e in genere vi mostrate più pavidi della media. L’ultimo che abbiamo avuto è finito sgozzato nei più recenti munera, una ventina di giorni fa. Era al suo primo combattimento e l’avversario l’ha scannato in pochi istanti, tanto che il pubblico ha protestato per la brevità dell’incontro».

    Ad Aurelio venne un brivido lungo la schiena. «Io mi farò valere. Mi hanno sempre detto che avrei dovuto fare il gladiatore, e ho sempre saputo farmi rispettare», reagì.

    «Ma non hai mai affrontato gente tanto cattiva come quella che c’è qui e in altre scuole. Ci allevano per diventare delle belve feroci, e molti perdono in breve tempo qualsiasi residuo di umanità. Te ne accorgerai presto», replicò con un sorriso sprezzante il greco.

    Aurelio preferì cambiare discorso. Un assaggio di ciò che lo aspettava lo aveva già avuto. «Sembri un uomo molto istruito. Come ti chiami?», gli chiese, incuriosito da quello strano personaggio che aveva il corpo di un gladiatore e la lingua di un precettore.

    «Il mio nome è Andrisco», rispose l’altro. «E sì, ho avuto la sfortuna di nascere con un corpo da atleta, oltre a una mente aperta e ricettiva. Fosse stato solo per la mia testa, sarei rimasto a fare il magister per i figli del mio padrone, ma quando lui è morto e la moglie mi ha venduto, il mio nuovo proprietario non aveva figli da far educare e ha pensato che sarei stato più remunerativo, per lui, nell’arena…».

    «Mi dispiace…». Aurelio non sapeva cosa dire. Ma poteva capire meglio il biasimo del greco nei suoi confronti, adesso.

    In quel momento, un uomo passò accanto al suo giaciglio e sputò addosso ad Aurelio. Troppo sorpreso per reagire, il giovane guardò il gladiatore procedere verso l’uscita della camerata senza voltarsi. Poi riprese a fissare Andrisco, incredulo.

    «Non dispiacerti per me, amico», gli rispose il greco. «Dispiaciti per te stesso, piuttosto: se io mi trovo qui è perché lo hanno stabilito gli dèi. Ma per te, è solo colpa tua: gli dèi avevano altri piani per te».

    Aurelio si asciugò la saliva che lo aveva colpito sulla spalla e si disse che non poteva dargli torto.

    Ma come ci si era infilato, così poteva uscirne. Poteva riscattarsi. Era il solo modo per salvare non solo la sua vita, ma anche la sua anima.

    II

    «Quanto?»

    «Trenta di bocca, cinquanta completo, amore».

    Risposta standard. La stessa che ha sentito almeno sette-otto volte, come uno slogan pubblicitario, da quando si è messo in caccia lungo il vialone dell’Eur immerso nel buio, punteggiato di alberi, ragazze in attesa, macchine che si accostano e ripartono sciabolando la notte con i fari.

    Valerio fa per ingranare la prima, poi ci ripensa. Lei inarca un sopracciglio e fa un mezzo sorriso interrogativo. Niente di puttanesco, espressione indecifrabile, molto mondana, da gran signora.

    «Scusa, come hai detto?»

    «Ho detto trenta di bocca, cinquanta l’amore», accento dell’Est lievissimo, tono vagamente ironico che dice: dài, che lo sai benissimo. Capelli biondi con le meches, lunghi fino alle spalle, frangia sbarazzina, naso dritto, volitivo, importante, bocca appena imbronciata senza traccia di ritocchi… Bellissima.

    Valerio annuisce e, senza darsi il tempo di ripensarci, apre la portiera. Tuffo al cuore. Se ne pente l’attimo dopo, ma lei sta già salendo e le gambe interminabili, che accavalla con eleganza da baronessa, mentre si allaccia la cintura, gli danno il colpo di grazia. Valerio deglutisce a secco mentre lei si volta e gli sorride, un sorriso aperto, solare, da ragazzina. È la prima volta per lui e ancora si domanda perché cacchio lo sta facendo.

    «Be’, restiamo qui tutta la notte?», di nuovo quell’intonazione ironica, vagamente materna. Valerio non sa bene cosa si aspettasse, ma questo no di sicuro. Una troia sguaiata, aggressiva, con la voce arrochita dalle sigarette e da chissà cos’altro, che si sarebbe infilata le banconote nel reggiseno prima di avventarsi a prenderglielo in bocca. Ecco, qualcosa del genere. Fantasie da Porn Tube.

    All’improvviso si rende conto di non sapere cosa fare. Eccitazione zero. Si sente un tredicenne davanti all’edicola, col cuore a mille per i giornaletti zozzi che non si decide a comprare. Lei capisce al volo.

    «Vai avanti piano, c’è una piazzola a cinquecento metri… ti guido io».

    La Renegade s’immette sul vialone, infilandosi nel puttan tour del venerdì notte. Una volta le chiamavano lucciole, forse per via dei fuochi che accendevano ai lati della strada per farsi vedere. Oggi in mille altri modi. Ce n’è una ogni venti, cinquanta metri al massimo, parecchie giovanissime, una gran sagra di cosce, culi, tette al vento. Fumano, parlano al cellulare, si esibiscono, si mettono in mostra. Qualcuna sfrontata, qualcuna più discreta, tutte ugualmente provocanti, tutte circondate dalla stessa aura di sesso veloce e di pericolo. Valerio non ci ha mai fatto caso più di tanto, non ci ha mai pensato, non ne ha mai avuto bisogno e, anzi, ha sempre disprezzato chi deve aprire il portafogli per farsi una scopata. Lui non ha mai pagato una donna in vita sua ma stasera… Stasera è diverso. Deve fare qualcosa di strano, di estremo, di sbagliato altrimenti gli scoppia la testa.

    «Qui, tesoro, a destra». La mano si posa sul suo braccio con la leggerezza di una farfalla. Valerio sterza troppo in fretta, sente uno stridio di freni, una strombazzata di clacson, un vaffanculoooo bello grasso, che è una sfida sottintesa a fare a botte. Lo specchietto balugina una flashata di abbaglianti ma lui alza la mano in un gesto di scusa dal finestrino e l’auto, lunga e rossa, gli sgomma accanto. Intravede il gestaccio del conducente mentre frena nel buio e spegne il motore.

    La piazzola è grande e nebbiosa, niente fanali, oscurità completa, qualche altra auto parcheggiata a distanza. Uno scannatoio a cielo aperto. E adesso?

    La ragazza inclina leggermente la testa e lo guarda in tralice. Valerio non sa che fare e si sente bloccato, seduto lì, in macchina, con una sconosciuta che va a tassametro e sicuramente sta pensando che lui ha qualcosa di storto. Probabilmente è vero. Donne ne ha avute parecchie, prima di sposarsi e dopo, quando si è separato. Anche durante, in corso di matrimonio come dicono gli avvocati, se è per questo. La media recente è di una storia ogni sei-sette mesi, prima che la noia, la frustrazione, l’inutilità, la vacuità, la stupidità lo spingano a troncare alla svelta e a cercare altri stimoli, altri sorrisi, altri baci. È uno che ci sa fare, un piacione, come si dice a Roma, ma questo, semplicemente, non è il suo campo da gioco. Non conosce le regole. Di solito, la faccenda inizia con un po’ di conversazione quindi ci prova, tanto per restare su un terreno sicuro.

    «Come ti chiami?»

    «Helena. Con l’acca davanti. Tu?»

    «Valerio…», fa per porgerle la mano ma si trattiene appena in tempo. Troppo ridicolo.

    «Di dove sei?»

    «Della Romania». Sicuro, come no? Qualcuno gliel’aveva spiegato. Polacche, ucraine, moldave, russe, albanesi… Non esistono più. Tutte romene, almeno a voce, le uniche che non hanno paura di essere rimpatriate.

    «È un bel posto, no? Voglio dire, la Romania».

    «Se era così bello non venivo qui…».

    Non sarei venuta, si dice così. Ma quel piccolo errore, chissà perché, lo intenerisce. E all’improvviso si sente pronto. Quel fremito inguinale che precede l’erezione e tutto il resto. Fa per slacciarsi la cintura dei pantaloni ma la mano di Helena lo blocca.

    «Scusa, tesoro, dimentichi qualcosa?»

    «Ah sì, certo, scusa tu…». Si tira su a metà per sfilare il portafogli dalla tasca dei Jeckerson aderentissimi, da duecento euro e passa, quasi lo strappa via, pesca una banconota da cinquanta euro e gliela porge. Lei apre una borsetta minuscola, ci infila i soldi, tira fuori un preservativo e strappa l’involucro con gesti esperti, da professionista, senza morderlo come fa lui di solito.

    Valerio abbassa il sedile della Renegade e si cala i jeans e le mutande fino alle ginocchia. L’eccitazione è solo in testa. A vedersi così, moscio come una lumaca, gli prende un senso di sconfitta e fa quasi per rivestirsi e dirle che va bene così e può tenersi il cinquantone ma lei non ci fa caso e si mette al lavoro. La sua mano affusolata, con le unghie corte e smaltate di rosa, lo risveglia in pochi movimenti, quel tanto che basta perché Helena gli faccia scivolare il profilattico fino alla base, poi si china su di lui e glielo prende in bocca. Valerio socchiude gli occhi, si sente risucchiato in un magma di piacere, vergogna e umiliazione, avverte i rumori e i gorgogli di Helena che, di sicuro, sta spingendo al massimo colonna sonora e tutto il resto per farla finita più in fretta possibile. All’improvviso è eccitato come poche volte in vita sua, duro come marmo, una sorta di scossa tellurica alla base del pene che precede l’orgasmo ma riesce a trattenersi. Sì, Valerio Mattei è uno che ci sa fare col sesso.

    «Aspetta, abbiamo detto completo, no?», la stoppa.

    «Certo, amore, come vuoi tu…». Helena si alza la gonna e si sfila le mutandine. Valerio le intravede a malapena, nel buio: sembrano rosa. Niente di puttanesco come si aspettava.

    «Ti vengo sopra?», propone lei e fa per metterglisi a cavalcioni. Valerio la respinge.

    «No. Sdraiati».

    Helena sospira, fanno un po’ di casino a scambiarsi le posizioni in macchina, poi lei si accomoda bene sul sedile, con le gambe aperte. Valerio si inarca sopra di

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