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L'ultimo giorno dell'impero
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L'ultimo giorno dell'impero
E-book372 pagine5 ore

L'ultimo giorno dell'impero

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Info su questo ebook

«Ti fa credere di essere proprio lì, al centro della battaglia.»
The Times

Un grande romanzo storico
Autore della serie bestseller Il guerriero di roma

La sagoma di una figura solitaria svetta sulla sommità del mausoleo di Adriano. Alle sue spalle, il sole sta tramontando sul mondo finora conosciuto. Davanti a lui, molto più in basso, il fiume è in piena e la città di Roma si stende sulla riva opposta. Improvvisamente un rumore di passi incalzanti. L’hanno trovato. I nemici si stanno avvicinando, è circondato. E così… salta giù. Ferito e malconcio, striscia fuori dal fiume impetuoso. È solo e disarmato, senza denaro o amici, nella morsa letale di una cospirazione che agisce nel cuore pulsante dell’impero. La militia vigilum ha l’ordine di prenderlo vivo, ma ci sono altre forze, persino più sinistre, a volerlo morto. La giornata sta volgendo al termine, e resta solo una manciata di ore per fermare i cospiratori e salvare colui che domina il mondo. Se l’imperatore morisse, il caos e la violenza non avrebbero più argini. Può un uomo solo opporsi a tutto questo? Dovrà correre, mentire, nascondersi e aprirsi la strada all’ombra dei sette colli di Roma. Ad attenderlo c’è il Colosseo.

Un autore da oltre 500.000 copie vendute

Un uomo, braccato dai cospiratori di Roma, è l’ultima speranza di salvezza per l’imperatore e la pace

«Ti fa credere di essere proprio lì, al centro dell’azione.»
The Times

«L’antica Roma è sempre stata molto amata dagli scrittori. Il migliore di loro è Harry Sidebottom.»
Sunday Times

«Accattivante, impossibile smettere di leggerlo!»
James Swallow
Harry Sidebottom
Ha conseguito un dottorato in Storia antica al Corpus Christi College. Attualmente insegna Storia all’università di Oxford e vive a Woodstock. È autore della saga Il guerriero di Roma, che ha appassionato milioni di lettori in tutto il mondo. La Newton Compton ha pubblicato anche i primi episodi della nuova, avvincente saga Il trono di Cesare. L’ultimo giorno dell’Impero è il suo nuovo romanzo, già diventato bestseller del «Sunday Times».
LinguaItaliano
Data di uscita21 mar 2018
ISBN9788822720542
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    Anteprima del libro

    L'ultimo giorno dell'impero - Harry Sidebottom

    PROLOGO

    Mausoleo di Adriano

    Il giorno prima delle calende di aprile

    «L’ultima ora».

    Il moribondo giaceva a terra, appoggiato al muro, con le mani premute sulla ferita al ventre.

    Balista si chinò su di lui. «L’ultima ora di cosa?»

    «Domani. L’ultima ora del giorno. Uccideranno l’imperatore quando lascerà il Colosseo».

    Un rumore giunse da qualche parte sotto di loro, nelle profondità della tomba.

    Balista andò alla porta, scavalcando con cautela i due cadaveri.

    Suono di stivali, suole chiodate sulla pietra, sferragliare di armi. Uomini armati all’entrata del mausoleo. Erano numerosi. Stavano salendo su per le scale.

    Balista tornò nella stanza.

    «Aiutami», disse l’uomo ferito.

    Balista lo schiaffeggiò. «Chi?»

    «Non l’hanno detto».

    Balista lo colpì di nuovo.

    «Per favore. Non lo so».

    Balista gli credette.

    «Non lasciarmi qui».

    Balista aveva ucciso i due sicari quando aveva fatto irruzione dalla porta, ma era stato troppo tardi per salvare l’informatore. Tuttavia aveva scoperto l’ora e il luogo.

    «Per favore».

    La missione non era fallita, non se Balista fosse riuscito a fuggire. Si alzò.

    «Mi uccideranno».

    Balista andò alla porta. I rumori erano più vicini.

    «Non puoi lasciarmi».

    Non c’era modo di scendere. Doveva salire. Balista girò a sinistra e prese le scale due gradini alla volta.

    «Bastardo di un barbaro!».

    Balista salì come un forsennato.

    «Bastardo!».

    Il corridoio attraversava come una spirale il cuore dell’enorme monumento. Balista c’era già stato, tanti anni prima, quando era arrivato in città. La vista di Roma era bella dalla cima. Si ricordava di un giardino sul tetto e una statua dell’imperatore Adriano a bordo di un cocchio. Al Padre di Tutti piacendo, ci sarebbe stato un altro passaggio per scendere.

    L’incontro si era rivelato una trappola. Scarpione l’aveva mandato a incontrare l’informatore. Aveva insistito perché Balista ci andasse da solo. Il prefetto dei vigili sapeva che era una trappola? Adesso non c’era tempo per pensarci. L’avrebbe scoperto se fosse sopravvissuto all’ora successiva.

    Balista correva, tenendo il fodero lontano dalle gambe. Sempre verso l’alto, sempre girando a sinistra. Sempre più su, due gradini alla volta. Correndo sotto le finestrelle del soffitto, attraversava come un lampo impalpabili colonne d’aria luminosa e poi piombava di nuovo nel buio.

    Il petto cominciava a dolergli, cosce e polpacci a protestare. Quanto poteva mancare alla cima?

    C’erano porte chiuse sul muro interno. Non si fermò. Se davano su camere come quella da cui era fuggito, non avrebbero contenuto altro che le ceneri di membri di dinastie imperiali morti da tempo immemore. Non avrebbero offerto un modo per scendere.

    Voci alzate, poi un grido riecheggiò dal basso.

    Gli uomini accorsi avevano trovato i loro amici e anche l’informatore. Non avrebbero reagito bene alla morte dei primi. Non faceva alcuna differenza che il secondo dicesse loro di Balista. Gli uomini armati li avrebbero voluti entrambi morti e Balista non aveva nessun altro posto dove andare se non continuare verso il tetto.

    Un altro grido riecheggiò su per il lungo passaggio e poi si interruppe bruscamente.

    Ogni respiro gli faceva male. Il sudore colava copioso. Sarebbero finite quelle scale? Sembrava il castigo infernale di qualche mito.

    Un ultimo angolo ed ecco la porta. Dèi tutti, fate che non sia chiusa a chiave.

    La porta si aprì verso l’esterno. Balista la chiuse e vi si appoggiò mentre cercava di riprendere fiato. Quarantatré inverni sulla Terra di Mezzo: troppi per quello sforzo.

    Il giardino sul tetto era leggermente tondeggiante, come una bassa collina. Si ergeva fin dove un piedistallo reggeva l’imponente statua dell’imperatore Adriano, a bordo di un cocchio trionfale trainato da quattro cavalli. I tremendi temporali degli ultimi giorni erano passati, ma l’aria odorava di pioggia. Le pietre a terra erano ancora bagnate.

    Doveva esserci un altro modo per scendere. Balista si allontanò dalla porta e si avviò sul sentiero che portava alla cima.

    Il sole stava calando verso l’orizzonte. Proiettava lunghe ombre dai cipressi, screziate nei punti in cui gli alberi erano coperti da viticci o edera. Meno di un’ora al buio.

    Balista girò attorno alla base della statua. Niente porte né botole. Niente. Doveva esserci un’altra via d’uscita. Un passaggio per i giardinieri, le piante, i servitori. Si guardò attorno frenetico.

    Sotto i cipressi, il giardino era piantato ad alberi da frutto e aiuole di fiori. Vari sentieri si diramavano. C’erano siepi, piante in vaso, pesanti arredi da giardino, piccole fontane, altre statue. L’entrata di servizio doveva essere ben nascosta. Il bel mondo non gradiva la vista degli schiavi quando si godeva il panorama. Non c’era tempo per cercare.

    Balista pensò alle finestrelle nel soffitto. No. Anche se fosse riuscito a trovarne una, sarebbe stata troppo stretta e senza alcun appiglio per le mani. Gli sovvenne un’altra idea. Prese il sentiero verso est.

    C’era una sottile balaustra di legno su una delicata barriera ornamentale lungo i margini del giardino, con altre statue disposte a intervalli. Balista non guardò la città che si estendeva al di là del fiume e a stento riservò un’occhiata alle gonfie acque del Tevere ai piedi del monumento. Afferrò le scultoree gambe di marmo di Antinoo, lo sventurato ragazzo amato da Adriano. In un romano quell’associazione avrebbe potuto suscitare qualche timore. Erede della diversa visione del mondo nordica, simili presagi non turbavano Balista. Non soffriva di vertigini e si sporse dalla ringhiera quanto più poteva.

    Il rivestimento del mausoleo era costituito da marmo bianco. I blocchi erano serrati con tanta maestria uno accanto all’altro che quasi non si distinguevano linee di separazione. Non c’era alcuna speranza di trovare appiglio per le dita. Settanta piedi di liscio marmo a strapiombo fino alla base, seguiti da altri quaranta fino allo stretto argine del fiume. Impossibile calarsi fin laggiù.

    Balista corse di nuovo alla cima delle scale e aprì la porta. Gli uomini erano vicini, a giudicare dall’affanno provocato dalla salita. Non c’era altro da fare. D’istinto, Balista eseguì il rituale che precedeva la battaglia: la mano destra si posò sul pugnale al fianco destro, lo estrasse dalla guaina per qualche pollice e ve lo infilò di nuovo; la mano sinistra sul fodero della spada, la mano destra che estraeva di poco la lama e la spingeva di nuovo dentro. Infine toccò l’amuleto di pietra legato alla custodia.

    Woden, Padre di Tutti, veglia sul tuo discendente. Non lasciare che porti disonore sui miei avi. Se devo morire, fa’ che muoia degno dei miei antenati.

    Balista si tolse il mantello e ne avvolse la spessa stoffa attorno all’avambraccio sinistro a mo’ di scudo, disponendo le pieghe in modo tale da lasciarlo penzolare per un piede, così che la spada di un avversario potesse impigliarsi nel tessuto.

    Non voleva morire. C’era troppo per cui vivere: sua moglie Giulia, i loro figli Isangrim e Dernhelm, il caro amico Massimo. Accantonò quei pensieri. Non c’erano scelte. O farsi strada combattendo o morire con la spada in mano. Se era destino che morisse, non l’avrebbe fatto da codardo.

    Balista estrasse la spada con un ampio gesto, come una sorta di visione marziale immaginata da un sacerdote.

    Non pensare, agisci.

    Varcò di nuovo la porta, la chiuse e si appostò dietro all’ultimo angolo delle scale.

    Gli uomini erano vicini alla cima.

    Era un peccato che la scalinata fosse tanto ampia da consentire a due uomini di attaccare contemporaneamente, tre se erano disposti a rischiare di intralciarsi l’un l’altro.

    Passi pesanti, grugniti di fatica, sferragliare di armi. Gli erano quasi addosso.

    La spada di traverso sul corpo, la schiena rivolta ai gradini, Balista calmò il proprio respiro. Accostando i piedi l’uno all’altro, si mise in equilibrio sulle punte. Aspetta. Manca poco. Aspetta.

    Il rumore degli uomini in arrivo rimbombava tra le pareti, sempre più vicino, raggiungendo un crescendo.

    Adesso!

    Venne fuori e brandì la spada di rovescio in un unico movimento fluido.

    Il filo d’acciaio colpì il primo uomo in pieno volto. Uno spruzzo di sangue caldo gli bruciò gli occhi. Gli altri si fermarono, sconcertati dall’attacco, inatteso quanto un’apparizione.

    Dèi degli Inferi, sono tantissimi.

    Balista estrasse la spada dalla faccia devastata e spinse l’uomo giù dalle scale. Il ferito artigliò quelli a ciascun lato e si scontrò con chi gli era alle spalle. Compatti com’erano, barcollarono tutti all’indietro, afferrandosi l’uno all’altro nel tentativo di non cadere.

    «Uccidetelo!», urlò qualcuno rimasto indietro sulle scale.

    Balista avanzò, affondando la lama verso una figura alla sua destra. L’uomo parò il colpo con precisione militare, ma cedette comunque terreno.

    Dieci, dodici, o più – Balista non riusciva a vederli tutti. La massa di uomini proseguiva dietro la curva, che li nascondeva alla vista.

    «È da solo. Uccidetelo!». La voce dal basso era stridula per la foga, ma vagamente familiare.

    Due uomini si prepararono. Gli altri aspettarono qualche gradino più in basso. Brutto affare. Sapevano il fatto loro e volevano evitare di intralciarsi l’un l’altro. Indossavano abiti civili, ma erano equipaggiati per l’occasione. Ciascuno era armato di gladio. La corta spada non era più in uso nelle legioni, ma in uno spazio ristretto era un’arma più efficace rispetto alla lunga lama che portava Balista.

    I due si scambiarono un’occhiata e partirono all’attacco. Quello a sinistra mirò alle gambe di Balista. Questi bloccò il colpo con le pieghe del mantello e tirò, trascinando l’uomo tra sé e l’altro aggressore. Affondo, sempre affondo. All’acciaio bastavano solo un paio di pollici per essere fatale. L’uomo cercò di divincolarsi, ma la spinta era diretta contro di lui. Non fu un affondo netto. La punta della spada di Balista grattò sullo sterno prima di penetrare nella morbida carne della gola.

    Balista estrasse l’arma. Altro sangue, che sprizzava ovunque. L’uomo crollò addosso al compagno. Balista si calò su un ginocchio e aggirò il moribondo menando un fendente alla coscia dell’altro. A volte l’affondo non era possibile. Fu come la mannaia di un macellaio che calava su un pezzo di carne. L’uomo lanciò un urlo e cadde. La sua spada finì rumorosamente sui gradini di marmo. Non sarebbe morto, se non di emorragia, ma era fuori combattimento.

    Era il momento di attaccare. Spezzare la determinazione degli altri, rispedirli giù per le scale.

    Balista cominciò a scendere, veloce ma cauto. I gradini erano viscidi di sangue. La spada spianata davanti a sé. Doveva sfruttare il più ampio raggio d’azione. Lanciò un barbarico grido di guerra della sua gioventù. Il suono rimbombò tra le pietre del passaggio ad arco, primordiale e terrificante.

    Gli uomini non si persero d’animo né si diedero alla fuga per le scale. Quasi non batterono ciglio. Robusti e determinati, si erano disposti per tre, senza spazi tra i ranghi. Accovacciati, spade in avanti, i mantelli avvolti attorno al braccio sinistro, avevano formato un cuneo improvvisato. Non erano affatto dei novellini, sapevano bene quello che facevano.

    Balista fece una finta verso quello a sinistra e poi fece un affondo diretto all’uomo nel mezzo. Questi parò. Quello a sinistra chiuse la distanza e affondò. L’impatto si ripercosse su per il braccio di Balista, che sentì l’acciaio fendere la stoffa imbottita del mantello, ma non tanto da raggiungere la carne. Fulmineo come un serpente, Balista tentò un colpo al viso. L’uomo si abbassò e indietreggiò, due passi, poi tre. Gli altri due arretrarono insieme a lui. La retroguardia fece altrettanto. La formazione dalla disciplina minacciosa mantenne la sua linea difensiva.

    Non avrebbe funzionato. Fintanto che aveva un momento di tempo, un po’ di spazio, Balista doveva farsi venire in mente un altro piano.

    «Finitelo!». La stessa voce incorporea dal basso.

    Gli assassini prezzolati si scambiarono occhiate, ma non si mossero.

    Procedendo a ritroso, fronteggiando il nemico, Balista scavalcò gli uomini caduti. Afferrò il ferito per la collottola, lo tirò su per metà e gli puntò la lama alla gola.

    «Un passo e il vostro compagno muore».

    Nella penombra, gli occhi degli uomini in basso si spostarono da Balista ai compagni, alla ricerca di chi avrebbe preso l’iniziativa.

    «Vado sul tetto. Se mi seguite, quando il primo di voi svolterà l’angolo, taglierò la gola al vostro amico».

    Gli uomini rimasero in silenzio e immobili.

    «Ne porterò altri con me. Siete stati pagati per uccidere, non per morire».

    Balista indietreggiò, trascinando con sé il ferito.

    Quelli in basso non si mossero.

    Scomparso alla vista, Balista tirò il prigioniero al di là della porta, che lasciò aperta per avere modo di sentire.

    Ancora nessun suono di inseguimento. Non sarebbe durato a lungo.

    «Lasciami vivere». L’uomo parlò con voce sommessa.

    Balista si stava guardando attorno, riflettendo. Non aveva quasi nessuna scelta.

    «Ho una moglie, dei figli. Avevo bisogno di denaro».

    Balista gli tirò indietro la testa. «Hai scelto il lavoro sbagliato».

    «Non voglio morire».

    «Non aver paura», replicò Balista. «La morte non è niente. Un ritorno al sonno».

    Con mano esperta, Balista gli tagliò la gola. L’uomo cadde come un animale sacrificale.

    Automaticamente, Balista asciugò la lama sulla tunica del morto. Neanche lui aveva creduto alle proprie parole.

    La familiare voce dal basso. «Codardi! Andate lassù e uccidete il barbaro!».

    Balista aveva visto quello che cercava. Rinfoderò la spada. Mentre chiudeva la porta con lo stivale, udì i suoni di un cauto approccio.

    A pochi passi di distanza, c’era una panca da giardino. Si trattava di un ingombrante ed elaborato oggetto in ferro, con foglie di acanto e fiori di loto in abbinamento alla vegetazione del giardino.

    Sforzando ogni muscolo, grugnendo per la fatica, Balista la trascinò alla porta, incastrandola contro le assi. Non avrebbe retto a lungo, ma gli avrebbe fatto guadagnare un po’ di tempo.

    Ansando come un cane dopo quello sforzo, Balista si incamminò nel giardino verso il lato che dava sul fiume. Non restava che un’opzione. E non era promettente.

    La fragile balaustra accanto alla statua di Antinoo cedette con un solo poderoso calcio. Ancora un paio di colpi e crollò del tutto. Fracassare la sottile grata della barriera che la sosteneva fu questione di pochissimo tempo.

    Balista stava sul ciglio del precipizio. Il fiume era laggiù in basso. Sull’altro lato, la città si estendeva come il fondale di un teatro. A sinistra si ergeva la grande sagoma del Mausoleo di Augusto, il cui tamburo circolare riecheggiava la tomba sulla quale si trovava Balista. Accanto a esso, c’erano pianeggianti e verdi parchi aperti, punteggiati da monumenti isolati. Il Campo Marzio settentrionale era stato ideato dagli imperatori per offrire ai propri sudditi un luogo dove passeggiare, per dare alla plebe un assaggio della vita nelle lussuose ville di campagna dell’aristocrazia. Solo una nebbiolina di fumo proveniente dai fuochi dei senzatetto guastava l’immagine dell’agiata campagna trasposta in città: rus in urbe invasa da vagabondi.

    Davanti a lui c’erano gli ordinati monumenti del Campo Marzio meridionale. Lo sguardo di Balista seguì la curva dello Stadio di Domiziano fino alle Terme di Nerone. Alle loro spalle, sulla destra, si ergeva il Campidoglio, sormontato dal Tempio di Giove, il cui tetto dorato riluceva ancora nel tardo sole pomeridiano. Dietro al Campidoglio, anche i tetti del Palatino riflettevano la luce. Lì, l’imperatore avrebbe potuto trascorrere la sua ultima notte sulla Terra, se Balista non fosse riuscito ad avvertirlo.

    Balista tornò a concentrarsi sul presente. Il fiume, così lontano laggiù, era già in ombra. Le acque del Tevere erano fulve. Il disgelo primaverile sugli Appennini e i recenti giorni di pioggia l’avevano gonfiato.

    Sulla destra, l’ultima chiatta di grano del giorno veniva rimorchiata ai magazzini. Con il fiume in piena, sarebbe stato un viaggio lungo e faticoso controcorrente; quattro giorni dal porto, non i soliti due o tre. Poco più a sinistra, il Ponte Elio era una sottile linea bianca che attraversava il corso d’acqua. Al di là del ponte, l’ultimo paio di zattere si dirigeva verso la riva opposta. La più vicina era carica di marmo. Sull’altra c’era del bestiame, allevato sulle pianure alluvionali a monte del fiume. Da quella distanza, le mucche sembravano piccole come giocattoli per bambini fatti di argilla e dipinti di marrone.

    Un tonfo smorzato alle sue spalle. Avevano solo mani e piedi, oltre ai pomoli delle spade, per abbattere la porta. C’era ancora un po’ di tempo.

    Balista srotolò il mantello strappato dal braccio sinistro e lo lasciò cadere sulla terra umida. Si tolse gli stivali, poi sganciò la cintura della spada e si sfilò la bandoliera dalla testa. Non voleva che la spada cadesse in mano loro. Sole della Battaglia non era una spada qualsiasi. Forgiata all’alba dei tempi, era stata tramandata di generazione in generazione di eroi nordici fino a quando Heoden, re degli arii, l’aveva data al figlioccio Balista. Pensò per un momento di gettarla nel fiume, ma poi si voltò e cercò un posto in cui nasconderla.

    Mentre infilava il fodero sotto una siepe di rododendri, le decorazioni sulla cintura attirarono il suo sguardo. Il borsello ricamato; il denaro non l’aveva mai interessato. La Corona Muraria, decorazione assegnatagli tanti anni prima per essere stato il primo uomo dell’esercito romano a scalare le mura di una città africana. Il prezioso uccello rapace che viaggiava con lui da così tanto tempo, sin dal lontano Nord, dono di sua madre. Non c’era tempo per i sentimentalismi. Se fosse sopravvissuto, avrebbe potuto inviare un messaggio alla madre per chiederle di mandargliene un altro.

    I colpi alla porta divennero più forti, più ritmici, più sistematici.

    Balista tornò al bordo. Più di cento piedi fino al fiume, forse centocinquanta. Pericoloso, non necessariamente fatale. Da giovane aveva saltato da scogliere altrettanto alte. Ma doveva schivare la base del mausoleo e lo stretto argine.

    Lo schiocco del legno che si spezzava. Una rauca acclamazione.

    Balista prese una rincorsa di dodici lunghi passi. In lontananza, c’era la cupola del Pantheon. Oziosamente, notò che era perfettamente allineata con la Colonna di Traiano, ancora oltre.

    Urla. Uomini che irrompevano tra i cespugli. Che si avvicinavano.

    Non pensare, agisci.

    Balista si costrinse a partire, a mettere un piede davanti all’altro, prendendo velocità. Un leggero errore di calcolo. All’undicesimo passo, dovette saltare e lanciarsi nell’abisso.

    CAPITOLO 1

    Città dei Morti

    Calende di aprile. Le ore notturne

    Balista artigliò l’aria mentre cadeva, cercando di afferrare in preda al panico un immaginario appiglio. La città e il fiume e il monumento – senza un nesso logico o una ragione – ruotavano davanti ai suoi occhi.

    Colui che acceca la morte, non lasciare che muoia.

    Il fiume scuro e l’argine bianco si avvicinavano precipitosi. Le sue membra si agitavano impotenti.

    Dominati o morirai.

    Balista smise di dimenarsi, si portò le braccia contro il petto, afferrandosi il polso destro con la mano sinistra. Con uno sforzo sovrumano, si protese all’indietro, unì le gambe, piegandole leggermente all’altezza delle ginocchia. Controllando la caduta, precipitò di piedi.

    Padre di Tutti…

    L’acqua e le pietre sembravano sollevarsi a tutta velocità. Aveva preso uno slancio sufficiente? Avrebbe evitato l’argine? In caso contrario…

    Sii uomo…

    La chiara costruzione di mattoni era molto vicina. Da un secondo all’altro ci sarebbe stato l’impatto devastante, lo schiantarsi delle ossa, il corpo fracassato come un insetto schiacciato.

    Poi l’argine gli passò davanti come un lampo e apparve il fiume.

    Colpire l’acqua fu un supplizio. Un dolore incandescente gli risalì le gambe, divampando nel fondoschiena, lasciandolo senza fiato.

    Spinto in profondità, affondò con i piedi nel fango. Il sedimento esplose attorno a lui. Non riusciva a vedere niente. Un’ondata di paura al pensiero che la fanghiglia appiccicosa potesse bloccarlo, poi la corrente si impossessò di lui. L’acqua cominciò a schiarirsi e, dopo un po’, testa e schiena cozzarono contro la muratura dell’argine.

    Meglio restare sotto fino a che non avesse messo un po’ di distanza tra sé e il mausoleo. Ma non c’era più aria nei suoi polmoni. Doveva respirare. C’era luce sopra di lui, luce e aria. Facendosi forza nell’acqua, si diresse verso la superficie. Il terrore lo pervase quando si accorse della corrente di ritorno. Non riusciva a risalire. La paura crebbe, difficile da controllare. Aveva il petto oppresso, in fiamme. La luce era sempre lontana.

    Nel torbido opaco del fiume, intravide la parete fluviale. Torcendosi, trovò i mattoni con i piedi. Una spinta convulsa e stavolta schizzò verso l’alto.

    Infrangendo la superficie, Balista inghiottì l’aria, tossendo e sputacchiando.

    La grande massa del mausoleo era sempre più lontana. Piccole figure, nere contro il sole che tramontava, si stagliavano in cima. Riuscivano a vederlo? Il fiume era immerso nell’ombra. Si era allontanato a sufficienza?

    Riempiendosi i polmoni, Balista scivolò sotto la superficie e si lasciò trasportare dal fiume.

    Il dolore al petto e l’acre residuo della paura non gli permisero di restare immerso troppo a lungo.

    Riemerse e vide che il mausoleo era notevolmente più piccolo. Le figure erano scomparse. Forse si erano già precipitate di sotto per perlustrare la banchina fluviale.

    Le acque torbide si infrangevano contro il muro di contenimento. Balista stava passando davanti ai giardini imperiali. C’erano moli vuoti e, qua e là, si vedevano i tetti dei padiglioni al di sopra del fogliame. Più avanti c’era un ponte e, attraverso i suoi archi, vide una fila di alti magazzini e, più oltre, i diroccati capanni dei pescatori. Al di là del ponte, ci sarebbe stata gente. Se voleva sgusciare via inosservato, non lasciare tracce per i suoi inseguitori, doveva uscire dal fiume in quel momento. Al calare della sera, i giardini dovevano essere deserti.

    Si stava avvicinando un molo. Balista cominciò a nuotare. La schiena gli faceva ancora male e il dolore al petto non si era calmato. Scacciò quei pensieri dalla mente e si mise di traverso alla corrente. Era vicino, la salvezza a poche bracciate, quando l’impersonale potenza del fiume lo catturò di nuovo. Lottò per qualche momento prima di arrendersi e si lasciò trasportare di nuovo al centro del corso d’acqua.

    Il Tevere in piena era tristemente noto per la forza delle correnti e dei mulinelli improvvisi. Per sfuggirvi, per quanto fosse un buon nuotatore, non gli sarebbero servite né la tecnica né la forza bruta. Balista doveva pensare, interpretare l’acqua, sfruttarla a proprio vantaggio. Nessun mortale poteva combattere contro il dio del fiume e vincere.

    C’era un altro approdo: solidi pilastri e una scala.

    Balista scrutò la superficie. Sotto costa, l’acqua scorreva impetuosa, rimbalzando contro il muro di contenimento e schiumando tra i montanti del pontile. Più avanti galleggiava la carcassa gonfia di un cane. Si immergeva, tornava su e veniva trascinata via dall’argine. Forse era il principio di un mulinello. Lottando contro l’istinto, Balista si allontanò dalla riva.

    Qualche istante dopo, sentì la velocità aumentare, trasportato dalle acque turbolente. Stava ancora dirigendosi verso il centro del fiume quando il cane morto cambiò direzione e fu trascinato di nuovo verso il pontile. L’acqua tirò Balista nella sua scia. Una citazione stoica quasi dimenticata: un uomo è legato al proprio destino, come un cane a un carro.

    Era solo questione di tempistica. Balista guardò la carcassa. Il destino non era immutabile. A circa cinque passi dal palo più vicino dell’approdo, la corrente contraria investì il cane e lo fece ruotare nel senso del fiume.

    Non ancora. Aspetta. Il fiume era tumultuoso nel punto in cui le correnti si scontravano.

    Quindici passi, dieci.

    Balista chiamò a raccolta tutte le sue forze.

    Ora! Si lanciò nel mulinello.

    Tre bracciate e la corrente lo spinse lateralmente. Cinque bracciate. Il grosso palo di legno era appena fuori dalla sua portata e la scala poco più oltre. Facendo appello a tutta la sua determinazione, si mise a nuotare in quella direzione.

    Un affondo disperato e la mano destra trovò il montante. Coperto di melma, non offriva alcun appiglio. Balista stava scivolando e l’acqua lo strattonava. Un mortale non poteva battere il padre delle acque.

    Un dolore lancinante quando la testa di un chiodo sporgente gli lacerò il palmo della mano. Incurante della ferita, afferrò lo spuntone. Il fiume era deciso a trascinarlo via. In qualche modo riuscì a tirarsi verso il palo e ad abbarbicarsi al legno fetido.

    La scala era alla sua destra, troppo lontana per lui. Una spinta e l’avrebbe raggiunta. Con l’acqua che si infrangeva sulle spalle, Balista non riusciva a convincersi a lasciare quella momentanea salvezza.

    Era assurdo. Il coraggio non poteva tradirlo proprio adesso. Sii uomo.

    Ma non si mosse.

    Non pensare, agisci.

    Si lanciò verso la scala e afferrò uno dei pioli. Con uno schiocco che si udì al di sopra del ruggito dell’acqua, la scala si spostò. L’intera struttura minacciò di cedere. Spronato all’azione, Balista schizzò su per il legno sdrucciolevole e instabile e si issò sul pontile.

    Rimase disteso per un momento, risucchiando aria, aprendo e chiudendo gli occhi. Nel cielo, le rondini volteggiavano e scendevano in picchiata. Una promessa di bel tempo.

    Giratosi, strisciò carponi verso uno dei piloni e appoggiò la schiena al legno.

    Se fosse riuscito a raggiungere i giardini, avrebbe potuto trovare un posto dove nascondersi. Prima doveva accertarsi di essere in grado di camminare. I sicari avrebbero impiegato del tempo per scendere dal tetto del mausoleo e lui aveva coperto una notevole distanza seguendo il corso del fiume. Non c’era tempo da perdere, ma aveva qualche momento per tirare il fiato. Cominciò a controllare le proprie condizioni, con fare rapido, ma anche accurato e metodico. C’era un brutto taglio sul palmo destro. Avrebbe avuto bisogno di pulirlo e fasciarlo. Il fiume era lurido. Senza un coltello, non poteva ricavare una benda improvvisata dalla tunica. La ferita avrebbe dovuto aspettare. I piedi erano nudi. Erano anche lividi e presto si sarebbero coperti di ecchimosi. Gambe e schiena gli dolevano. Flettendole, ebbe la conferma che non c’era niente di rotto. Il petto era un altro paio di maniche. Ogni movimento gli causava un’acuta fitta di dolore. Fece di proposito un profondo respiro tremolante. Il lato sinistro della gabbia toracica gli doleva, ma la sofferenza non era così intensa da pensare che ci fossero costole fratturate. Probabilmente un paio erano incrinate oppure i muscoli tra di esse si erano strappati.

    Servendosi del pilone, si tirò su in piedi e poi vi si appoggiò, nell’attesa che l’ondata di nausea passasse. Il punto del molo su cui si era seduto era scurito dall’acqua che gli era colata da tunica e calzoni.

    Un atavico senso di pericolo lo spinse a guardare a monte. Un gruppo di uomini, non lontani dal mausoleo, si stava facendo strada verso la sua direzione, a circa duecento passi di distanza. Almeno una ventina, stavano perlustrando la riva. Non l’avevano ancora visto.

    In fondo all’approdo, un sentiero lastricato portava ai giardini. Correre sarebbe equivalso a svelare la propria presenza. Se si fosse comportato in maniera naturale, a quella distanza forse non avrebbero capito che si trattava di lui.

    Balista si incamminò adagio lungo il molo. Teneva il

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