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Quanto usi il tuo cervello?
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E-book313 pagine4 ore

Quanto usi il tuo cervello?

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Info su questo ebook

Il metodo infallibile per usare il 100% della tua intelligenza

Nulla è più complesso e affascinante del nostro cervello

Sappiamo bene che il nostro cervello tende a restringersi dopo aver superato i trent’anni. La buona notizia, però, è che quest’organo è in grado di adattarsi straordinariamente bene, riorganizzandosi e rinunciando ad alcune funzioni superflue. In questo sorprendente libro, Alexis Willett e Jennifer Barnett ci spiegano ciò che il nostro cervello può fare in condizioni ottimali e/o di crisi, ma soprattutto cosa si inventa quando le cose vanno decisamente male. Un affascinante viaggio tra casi clinici e scenari ipotetici, corredato da interviste a esperti del settore e studi scientifici basati sulle principali teorie del passato, del presente e del futuro. È il cervello la chiave per studiare il modo in cui invecchiamo? Siamo davvero all’apice della scala evolutiva o ci aspetta un futuro ancora più brillante per il nostro cervello? Tutte queste domande e molte altre ancora troveranno risposta tra queste pagine.

«In questo libro, il lettore è guidato attraverso una serie di fatti scientifici in un modo quasi narrativo, che è allo stesso tempo divertente e in grado di informare.»

«Queste pagine spiegano al meglio ricerche scientifiche complesse. E danno informazioni interessanti su come ottimizzare le funzioni del nostro cervello e mantenerlo sempre in forma.»
Alexis Willett
è direttrice e fondatrice del Punch Consulting, un centro di consulenza in strategie di comunicazione in ambito di salute. Ha conseguito un dottorato in Scienze Biomediche a Cambridge.
Jennifer Barnett
ha conseguito il dottorato all’università di Cambridge, è specializzata in Neuroscienze e Psicologia cognitiva. Attualmente collabora con le università di Cambridge e di Oulu, in Finlandia, per numerosi progetti di ricerca. Può vantare più di 50 pubblicazioni scientifiche.
LinguaItaliano
Data di uscita11 apr 2018
ISBN9788822719041
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    Anteprima del libro

    Quanto usi il tuo cervello? - Jennifer Barnett

    Introduzione

    Affrontare la questione

    Bang. Comparve l’universo. Poi l’uomo-scimmia. Partì l’evoluzione. Il cervello crebbe sempre di più, poi si ridusse un po’, ed ora eccoci qui. Certo, non sarà la sinossi più scientifica di come siamo arrivati alla situazione attuale, e ovviamente sono successe molte altre cose, ma quello che vogliamo sapere è: perché il nostro cervello è cresciuto così tanto, e ne abbiamo davvero bisogno nella sua interezza, ora e nel futuro?

    Prima di andare avanti, perché stiamo parlando di quanto cervello abbiamo bisogno? Una conversazione sentita per caso fra due brillanti psichiatri ci ha spinto ad affrontare la questione che dà il titolo a questo libro. Gli psichiatri stavano discutendo i risultati di uno studio in cui le immagini delle tc cranio di alcuni schizofrenici in terapia con antipsicotici mostravano un’atrofia – o riduzione del volume – a livello del cervello. Poiché nello studio non se ne parlava, si domandarono come questa riduzione si traducesse nella vita quotidiana. Da qui nacque un dibattito: se le tc non fossero mai state eseguite, i soggetti dello studio si sarebbero accorti della riduzione cerebrale? In altre parole, l’atrofia aveva davvero importanza? Per cui ci siamo domandate se fosse un dato unico di quello studio. Dovremmo preoccuparci di quello che potrebbe accadere al nostro cervello?

    In realtà, risulta che la riduzione cerebrale non sia affatto un evento raro. Se la cattiva notizia è che dai 35 anni circa il cervello comincia a restringersi, quella buona è che generalmente riusciamo comunque a cavarcela. «Ma com’è possibile?», ci siamo chieste. Vuol dire che non abbiamo bisogno di tutto il cervello?

    Tutti gli esseri umani hanno un cervello. Certo, potremmo avere qualcosa da eccepire nel caso di alcuni partecipanti dei reality show o di certi politici, ma ciononostante un cervello lo abbiamo tutti. La massa gelatinosa di cellule e connessioni che barcolla delicatamente nel cranio controlla ogni nostro pensiero e movimento. È l’organo più complesso del nostro corpo, ed è responsabile di tutto ciò che siamo. Nonostante le enormi differenze somatiche fra le diverse popolazioni del mondo, cervelli sani e pienamente sviluppati hanno tutti più o meno la stessa struttura.

    L’encefalo umano attuale consiste di alcune strutture fondamentali, che in linea di massima sono raggruppate nel cervello propriamente detto, il cervelletto e il tronco encefalico. Ognuna di queste strutture ha molte componenti (abbiamo cercato di aiutarvi con un’immagine da prendere come riferimento: vedi Figura 1). Il cervello propriamente detto è la parte più grande, quella che ci viene in mente quando pensiamo al cervello, e assomiglia a una salsiccia spugnosa accartocciata. Il cervelletto, molto più piccolo, si trova nella parte posteriore del cranio, dietro al cervello. Infine, davanti al cervelletto e sotto al cervello troviamo il tronco encefalico. Tuttavia, vi renderete conto da soli che si tratta di una panoramica molto semplicistica e grossolana dell’anatomia dell’encefalo.

    1

    Se consideriamo l’intero regno animale, il cervello umano è molto più grande di quanto ci si aspetterebbe dalle dimensioni del corpo. Si sostiene che, per permettere un simile volume cerebrale, i neonati debbano nascere prima rispetto ai cuccioli di altre specie, essere indifesi e incapaci di nutrirsi o persino di evitare il pericolo. Dal punto di vista della sopravvivenza, non sembra molto sensato. Ma allora perché l’evoluzione ha plasmato in questo modo il nostro cervello, e quale vantaggi porta tutto questo cervello extra?

    L’encefalo è il sistema più complesso che conosciamo, un componente strutturale che nel primo anno di vita triplica di volume, e che in seguito si rimodella e riprogramma a livello microscopico in risposta a ogni nostra esperienza. Alcune di queste, come l’istruzione, portano a un maggior numero di cellule cerebrali e a un aumento di volume. Con altre esperienze, come bere alcol o persino l’invecchiamento fisiologico, le cellule muoiono e non possono essere sostituite. In media, le persone con un cervello più grande funzionano meglio e vivono più a lungo. Eppure esistono differenze significative all’interno della nostra specie: il cervello degli uomini è più grande di circa il 10% rispetto a quello delle donne, e le persone i cui antenati si sono sviluppati in climi più freddi tendono ad avere una testa e un cervello più grandi e rotondi, per trattenere meglio il calore. L’impatto di queste differenze strutturali è mitigato da quelle funzionali: il funzionamento ottimale del cervello dipende non soltanto dal volume, ma anche da quanto efficacemente viene usato.

    Contrariamente a quanto si pensi, usiamo più del 10% del cervello, anche se nemmeno la moderna neuroscienza può dirci con precisione quanto ne usiamo in un determinato momento, o in generale. Sappiamo invece che possiamo perdere o subire un danno a porzioni sorprendentemente grandi del cervello senza che vengano compromesse funzioni come il linguaggio, il pensiero e le emozioni, probabilmente il cuore dell’esperienza umana. Vuol dire che possiamo perdere qualche cellula cerebrale qua e là senza neanche accorgercene?

    Le persone sono sempre state affascinate dal cervello e dalla mente, che cerchino una maggiore comprensione di sé e degli altri, o che semplicemente si meraviglino della sua complessità e dei numerosi segreti che ancora sembra custodire. Mentre molti autori hanno cercato di illustrare il funzionamento della mente e le sue meraviglie, Quanto usi il tuo cervello? vi sfida a pensare in maniera diversa al cervello. Piuttosto che concentrarci sulle infinite cose incredibili che quest’organo può fare, ci chiediamo se, in realtà, potremmo vivere in modo soddisfacente senza una sua parte.

    Cosa contiene questo libro e perché dovreste leggerlo?

    Questo libro vuole far luce sulle capacità del cervello umano – in condizioni ottimali e sub-ottimali, e nel passato, presente e futuro – e prende in considerazione ciò di cui potrebbe fare a meno. Offre ipotesi affascinanti, esperienze personali avvincenti e pareri professionali. Per facilitare la consultazione, abbiamo diviso il libro in quattro parti, che possiamo riassumere sommariamente come segue. Parte prima: chi siamo e come ci siamo arrivati; Parte seconda: normale variazione del cervello; Parte terza: quando le cose non sono come dovrebbero essere; Parte quarta: dove potrebbe essere diretto il cervello nel corso della nostra vita e oltre.

    Rifletteremo sull’evoluzione umana, chiedendoci innanzitutto perché abbiamo così tanto cervello, e che cosa ci distingue dalle altre specie. Poi passeremo a definire cosa dev’essere in grado di fare un cervello funzionante, dai princìpi di base della sopravvivenza alle più alte conquiste dell’uomo. Per riuscirci, esamineremo prove tratte dallo sviluppo nell’arco della vita, e daremo un’occhiata agli effetti delle lesioni cerebrali, dello sviluppo anormale e delle malattie degenerative. Esploreremo che cosa significa la normale variazione in termini di grandezza e struttura fra i due sessi, e all’interno di popolazioni, per la relazione fra la biologia del cervello, l’intelligenza e altre funzioni cognitive. E considerando ciò che sappiamo sulla normale variazione in termini di funzionamento, valutandola in rapporto ai casi di persone che vivono senza un encefalo pienamente funzionante, ci chiederemo se abbiamo bisogno di così tanto cervello, e se una piccola riduzione di volume sia dannosa. Per concludere, guarderemo la nostra sfera di cristallo e rifletteremo sulle possibilità future per il cervello, e sulla capacità potenziale di sostituire o ricostruire cellule cerebrali difettose o senescenti, date nutrizione, istruzione e assistenza medica ottimali.

    Ma non dovrete stare a sentire solo noi. Una schiera di esperti ha condiviso i propri pensieri su quanto cervello ci serve davvero, permettendoci gentilmente di riportarli in questo libro. E poi non dite che non vi trattiamo bene! Nel testo troverete interviste con psicologi, psichiatri, neuroscienziati e persone che lavorano con soggetti affetti da malattie neurologiche, dandoci un’affascinante percezione del cervello.

    Tuttavia, vogliamo che vi prepariate anche per un po’ di esercizio cognitivo e a svolgere parte del lavoro. Mentre leggete, vogliamo che volta dopo volta vi domandiate: di quanto cervello abbiamo davvero bisogno? Vi forniremo dati precisi, casi clinici e scenari ipotetici, interviste con esperti e princìpi scientifici. Vi faremo viaggiare dalle antiche nebbie del tempo fino ai punti più estremi del futuro, attraverso specie e terre diverse. Affronteremo un’ampia varietà di questioni: se allenare la mente o essere un SuperAger sia la chiave per un invecchiamento sano; se bere caffè o fare una corsa sia meglio per il nostro rendimento cognitivo; se le donne incinte sperimentino davvero il cosiddetto baby brain; se stare davanti alla televisione o al computer ci stia rovinando il cervello; e, ovviamente, se gli uistitì siano dei bravi investigatori.

    IL PARERE DI

    Il dottor Graham Murray è professore universitario al dipartimento di Psichiatria dell’Università di Cambridge, e primario onorario di Psichiatria al cameo Early Psychosis Service, Cambridgeshire and Peterborough nhs Trust.

    Graham si destreggia fra due ruoli, essendo sia ricercatore sia medico. È un neuroscienziato e un ricercatore psichiatra con un particolare interesse per le neuroimmagini. I suoi studi sono incentrati sullo sviluppo cerebrale e cognitivo nel corso della vita, e sulle basi fisiologiche delle malattie mentali. In qualità di psichiatra, lavora nel campo degli interventi precoci nelle psicosi, ovvero è specializzato nel trattamento di soggetti giovani che hanno sviluppato la schizofrenia o altre malattie psicotiche per la prima volta. Graham era uno degli psichiatri della conversazione che ha dato origine a questo libro, e ha codiretto lo studio in questione.

    Dunque, Graham, raccontaci qualcosa di più sul vostro studio. Cosa stavate cercando, e perché?

    Volevamo scoprire se esiste una neurodegenerazione progressiva nella schizofrenia. Gli psichiatri se ne interessano da molto tempo, perché alcuni soggetti schizofrenici presentano un peggioramento clinico progressivo. Con questo intendo dire che, col progredire della malattia, diventano sempre meno capaci da un punto di vista cognitivo; i sintomi peggiorano, e sembrano avere più difficoltà con le attività di tutti i giorni che richiedono l’uso delle funzioni cerebrali. Alcuni peggiorano al punto da non poter più essere indipendenti, ed essere costretti a vivere in strutture con assistenza medica costante. Non sappiamo perché alcuni pazienti presentino un decorso degenerativo, ma secondo una teoria che circola da tempo la causa potrebbe essere un’atrofia cerebrale progressiva.

    Per cui volevamo scoprire se nel corso del tempo la schizofrenia portasse a una riduzione del volume cerebrale. Tuttavia, sappiamo che l’invecchiamento comporta una riduzione fisiologica, quindi dovevamo misurare la velocità della perdita di volume nei soggetti schizofrenici e confrontarla con quella di un gruppo di controllo senza patologia. Dalla nostra esperienza clinica sappiamo che la schizofrenia è una malattia altamente variabile, e mentre alcuni pazienti risultano molto compromessi, altri riescono a recuperare completamente. Per cui eravamo interessati a esaminare la variabilità dei cambiamenti a livello cerebrale nella schizofrenia. Nello specifico, volevamo vedere se i farmaci potessero essere associati a un aumento o a una diminuzione della velocità di riduzione cerebrale, e se nei pazienti in cui l’atrofia era più grave i sintomi, o le funzioni cognitive, stavano peggiorando.

    Per ogni soggetto abbiamo preso due scansioni dell’encefalo, a distanza di nove anni l’una dall’altra, e usato un algoritmo creato al computer per calcolare il grado di riduzione di volume cerebrale fra le scansioni. Abbiamo scoperto che, in media, nei pazienti schizofrenici il tasso di riduzione era maggiore rispetto al gruppo di controllo, ed era correlato con la quantità di antipsicotici assunti.

    È stato un risultato che vi ha sorpreso, oppure ve lo aspettavate?

    Quando abbiamo iniziato lo studio non ce lo aspettavamo, poiché secondo molti ricercatori i farmaci erano neuroprotettivi e impedivano la riduzione del volume cerebrale. Tuttavia, lo studio è stato condotto nell’arco di diversi anni, e quando abbiamo ottenuto i nostri risultati, un altro gruppo dell’Iowa aveva portato avanti uno studio simile con gli stessi risultati. Per cui di fatto abbiamo replicato le loro scoperte.

    Prendendo in considerazione tutti questi risultati, cosa pensi che accada nel cervello?

    La spiegazione più semplice è che i farmaci favoriscano la riduzione del volume cerebrale. Tuttavia, in uno studio prettamente osservazionale come il nostro è molto difficile dimostrare una causalità. È possibile che i soggetti schizofrenici più gravi avessero la riduzione cerebrale maggiore, e che per aiutarli i medici avessero fatto ricorso a dosi sempre più alte di antipsicotici.

    Sappiamo infatti che a una maggiore dose del farmaco corrisponde una maggiore diminuzione del volume cerebrale; ma non possiamo affermare con sicurezza se questa perdita fosse dovuta a una dose più massiccia di farmaci o se le persone che avevano più bisogno di antipsicotici (ovvero quelli più malati) avessero un cervello con più probabilità di restringersi. In altre parole, è impossibile separare gli effetti dei farmaci da quelli della malattia.

    Pensi che la riduzione del cervello comporti effetti visibili sui pazienti? È un aspetto che avete considerato nel vostro studio?

    Non abbiamo trovato alcun collegamento fra il grado di riduzione cerebrale e i cambiamenti nelle funzioni cognitive. In altre parole, non abbiamo riscontrato nessun effetto dimostrabile sulle capacità mentali. Nella schizofrenia non troviamo il classico quadro clinico delle malattie neurodegenerative come la demenza. Crediamo che nella demenza la progressione della malattia sia in funzione della perdita di volume cerebrale, mentre nella schizofrenia il quadro è molto meno chiaro. Sarebbe troppo semplicistico pensare che una diminuzione del volume cerebrale sia sempre un brutto segno. In alcune circostanze, che alcune parti del cervello si restringano sembrerebbe persino d’aiuto. Per esempio, nel normale sviluppo, il cervello dei bambini ha sempre meno materia grigia (sebbene quella bianca aumenti), e alcuni studi hanno evidenziato che i bambini che perdono più materia grigia nella prima adolescenza hanno un rendimento intellettuale più alto. Per cui, tornando al nostro studio, se inizialmente sarebbe potuto sembrare allarmante che gli schizofrenici mostrassero un più alto tasso di perdita di volume cerebrale, forse questa perdita rappresenta un meccanismo di adattamento del cervello che potrebbe persino dare beneficio.

    Per cui potreste già aver capito che, al momento, usare un parametro come la perdita di volume cerebrale in studi psichiatrici non sarebbe particolarmente utile, poiché non sappiamo ancora come interpretarlo. Probabilmente in futuro, quando capiremo meglio che cosa significhi la riduzione del volume cerebrale nel singolo paziente, potremo prenderlo in considerazione per migliorare l’assistenza sanitaria.

    Di quanto cervello abbiamo davvero bisogno, secondo te?

    La maggior parte di noi sembra cavarsela piuttosto bene considerando il fatto che il cervello si restringe anno dopo anno, dall’età di circa trent’anni. Questo non vuol dire che si tratti di un processo inoffensivo; forse alla fine non possiamo più compensare le perdite, e a quel punto le facoltà mentali potrebbero improvvisamente diminuire. Dobbiamo anche ricordare che non è solo una questione di quanto cervello abbiamo, ma anche di quanto efficacemente funziona. Questo può dipendere da come sono interconnesse le aree cerebrali, dall’efficienza del flusso di informazioni e dall’equilibrio dei neurotrasmettitori fondamentali per tale funzione. Per cui, forse, la risposta è che idealmente abbiamo bisogno di tutto il cervello, ma riusciamo ad adattarci ai cambiamenti che avvengono in esso.

    Parte prima. Una questione di materia

    Quanto cervello abbiamo? La quantità conta?

    Capitolo 1

    1. Primi della classe...: perché gli esseri umani hanno così tanto cervello?

    Il nostro cervello non è sempre stato una meravigliosa massa complessa. Sebbene si sia evoluto in maniera straordinaria da quando ci siamo trascinati fuori dal brodo primordiale, tali cambiamenti non sono avvenuti dal giorno alla notte. Ci sono voluti miliardi di anni per plasmarlo, un processo iniziato molto prima che i nostri più antichi antenati abitassero la Terra.

    Prima di addentrarci in ciò che può fare questo fantastico organo e chiederci se ci serve davvero tutto, faremo un passo indietro per prendere in considerazione perché abbiamo il cervello che abbiamo. Comprenderne meglio l’evoluzione ci aiuta a identificare quali parti potrebbero essere più importanti (e quali meno), e perché siamo come siamo adesso. Dai nostri primi antenati fino a oggi, il cervello umano è cresciuto, ma adesso sta cominciando a restringersi di nuovo. Come si è evoluto, e come possiamo rapportarlo con quello delle altre specie?

    Partiamo dall’inizio (è un buon punto da cui partire)

    All’inizio della vita sulla Terra, il cervello come lo conosciamo oggi non esisteva. Siamo partiti tutti come minuscoli batteri, senza alcun cervello visibile, andando avanti così per miliardi di anni. Nel corso del tempo, tuttavia, l’evoluzione ha favorito gli organismi in grado di nutrirsi ed evitare rischi; e gradualmente queste creature primitive hanno cominciato a svilupparsi in qualcosa di più esotico. Quel qualcosa ha richiesto innanzitutto lo sviluppo di un sistema di controllo capace di un comportamento più sofisticato (non solo reazioni agli stimoli, ad esempio) e poi, molto più tardi, progressi che permettessero a quell’organismo di modulare il proprio comportamento a quello degli appartenenti alla sua specie.

    Il sistema nervoso si è evoluto lentamente a mano a mano che alcune cellule (neuroni) si specializzavano nel trasporto di messaggi, e sviluppavano alcune estensioni (assoni) per comunicare con altre cellule, che incontravano a livello delle sinapsi. Con lo sviluppo del sistema nervoso, il cervello è diventato una sorta di centro di controllo. I neuroni si sono riuniti in gruppi, fino a formare quello che oggi chiamiamo sistema nervoso centrale, che ha permesso un’elaborazione più complessa delle informazioni e di muoversi e reagire all’ambiente in modo più elaborato.

    Lentamente il cervello cresceva e migliorava sempre di più. Le sue parti più vecchie, in termini di evoluzione, sono quelle che ci permettono di vivere, che controllano la respirazione, il battito cardiaco, la temperatura corporea e l’equilibrio. Se in effetti siete vivi mentre leggete queste parole, potreste aver indovinato che queste parti si trovano nel cervello ancora oggi (ne parleremo meglio nel Capitolo 2); ma poi si sono evolute strutture più nuove, elaborate e sofisticate per migliorarne le abilità.

    Infine, si è sviluppata la capacità di imparare e ricordare, e l’elaborazione neurale diventava sempre più efficiente. A mano a mano che il cervello veniva esposto a una più ampia gamma di stimoli visivi, auditivi e sensoriali, ha sviluppato la cosiddetta neocorteccia (che d’ora in poi chiameremo corteccia, per semplicità). La più recente aggiunta al nostro cervello, spesso è considerata particolarmente speciale in termini di abilità mentale. La corteccia permette infatti attività complesse, comportamenti particolarmente sociali, per cui la sua formazione ha spianato la strada a movimenti più fini, al pensiero cosciente, al giudizio e, infine, al linguaggio.

    Come si può immaginare, i primi mammiferi comparsi sulla Terra (circa 200 milioni di anni fa) avevano una corteccia piccola. Alcuni di questi animali si rifugiarono sugli alberi, e per adattarsi al nuovo stile di vita avevano bisogno di una coordinazione migliore per muoversi nel nuovo ambiente e di una vista più sviluppata per catturare prede veloci, come gli insetti. Questo cambiamento comportamentale portò all’espansione dell’area visiva della corteccia, perché gli esemplari che si adattavano meglio alla vita sugli alberi tramandavano con maggior successo questo vantaggio genetico. Si stabilirono connessioni più complesse fra le diverse aree del cervello, e i mammiferi, in particolare i primati, diventarono capaci di comportarsi in modi ancora più sofisticati.

    Per cui è evidente che il cervello ne ha fatta di strada, persino prima dell’arrivo degli ominidi (ovvero tutte le specie estinte e viventi di grande scimmia, fra cui l’uomo). Sebbene i primi antenati dell’uomo moderno siano vissuti circa sei o sette milioni di anni fa, alcune specie di ominidi si svilupparono per poi estinguersi prima della nostra entrata in scena. L’uomo moderno (Homo sapiens) comparve soltanto 200.000 anni fa. Cosa ha fatto l’uomo-scimmia per tutto questo tempo e, ancora più importante, cosa è successo al suo cervello?

    Un breve appunto sull’evoluzione

    Prima di guardare più da vicino come il cervello degli ominidi si sia trasformato nell’impressionante centrale elettrica che ci è così cara, è bene ricordarci di come dovrebbe funzionare l’evoluzione. Charles Darwin impiegò il suo notevole cervello per darci la teoria dell’evoluzione. Nel suo libro L’origine delle specie, del 1859, Darwin postulò l’evoluzione per selezione naturale, un processo per cui gli organismi si modificano nel tempo a causa di cambiamenti comportamentali o fisici ereditati generazione dopo generazione. Cambiamenti benefici che permettano a un organismo di adattarsi e svilupparsi meglio nel suo ambiente aumenteranno le probabilità di sopravvivenza e riproduzione. Molte specie del regno animale si sono evolute col tempo, diventando più sofisticate nelle loro abilità e nella loro forma fisica. Vale la pena notare, tuttavia, che l’evoluzione non è necessariamente un processo lineare. I cambiamenti possono avvenire in qualsiasi momento e modo, e quelli che si dimostrano vantaggiosi potrebbero prendere un’altra direzione, creando qualcosa di nuovo piuttosto che un miglioramento del vecchio. Per esempio, anche se sappiamo di essere strettamente imparentati con altri primati e spesso ci consideriamo, da veri vanitosi, una loro versione più sofisticata, non è vero che l’uomo moderno si è evoluto dalle scimmie. Come sappiamo, infatti, ci sono molte specie di scimmie vive e vegete ancora oggi; sia la scimmia moderna sia l’uomo moderno si sono evoluti da un comune antenato in seguito a diversi cambiamenti.

    Per stimare quanto il cervello umano si sia evoluto a partire da questi primi antenati, abbiamo bisogno di prove. Purtroppo, il mondo non trabocca di cervelli preistorici da poter dissezionare e studiare con la diagnostica per immagini per determinare in che modo quest’organo sia diventato così come lo conosciamo oggi. Il cervello è abilissimo in molte cose, ma fossilizzarsi non è fra queste. Tuttavia, la sua fedele custodia protettiva, il cranio, è molto più bravo in questo, e si presta piuttosto bene ai ricercatori che ne valutano grandezza e forma per stimare i cambiamenti che si sono susseguiti nel corso del tempo. Anche manufatti antichi possono aiutarci a costruire un quadro di come vivesse l’uomo preistorico, e a dedurre qualcosa sulle abilità del loro cervello. Possiamo anche cercare di ipotizzare alcuni cambiamenti che stavano avendo luogo, comprendendo quali funzioni e abilità sarebbero state necessarie per sopravvivere, prosperare e comportarsi nel modo in cui pensiamo facessero i nostri primi antenati. È bene sottolineare che molte teorie sull’evoluzione del cervello basate sui fossili siano ancora dibattute, e che continuano a emergerne di nuove. Nonostante non possiamo determinare l’esatto percorso evolutivo, quando studiamo il cranio di diverse specie di ominidi è innegabile che il nostro cervello sia aumentato di volume e abbia cambiato forma nel corso del tempo.

    Com’era il cervello nelle nebbie del tempo?

    È cambiato così tanto il cervello da quando i nostri antenati hanno cominciato a camminare eretti? Una delle specie più antiche (di 6-7 milioni di anni fa) identificata come parte dell’albero genealogico umano è Sahelanthropus tchadensis. I fossili di un individuo furono ritrovati relativamente di recente, nel 2001. Poiché sono stati rinvenuti solo frammenti di cranio, si può solo stimarne la grandezza, ma si ritiene che questa specie avesse un cranio, e presumibilmente un cervello, appena più piccolo di quello di uno scimpanzé moderno. Per fare un paragone, il cervello degli scimpanzé è tre volte e mezzo più piccolo di quello dell’uomo moderno. D’accordo, sappiamo che è solo un fossile, ma sembra indicare che il cervello sia cresciuto sostanzialmente nel corso degli anni. Tuttavia, per poter essere più convincenti, probabilmente abbiamo bisogno di qualche dettaglio in più rispetto a ciò che è accaduto negli ultimi milioni di anni.

    Andando avanti con l’evoluzione, le specie raggruppate sotto il nome di Australopithecus svilupparono una vantaggiosa combinazione

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