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The first boy
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E-book275 pagine3 ore

The first boy

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Info su questo ebook

Christopher Lowen è stato accettato per uno stage negli uffici della Casa Bianca. Mai avrebbe immaginato che, per un suo progetto, potesse ottenere il permesso di entrare nel famoso Studio Ovale. È talmente meravigliato ed euforico che neanche si rende conto della presenza del Presidente degli Stati Uniti d'America, Lawrence Layton.

Il Presidente è subito colpito dall'intelligenza e dalla spontaneità di Christopher, tanto da ascoltarne i consigli. Da quel momento il ragazzo inizia ad attirare sempre di più le attenzioni di Lawrence e allo stesso tempo il risentimento del suo staff. Come è riuscito infatti, da appena arrivato, a manipolare il Presidente tanto da renderlo giorno dopo giorno più debole agli occhi del popolo americano? Amareggiato e spaventato, Christopher vorrebbe andarsene. Ma riuscirà ad abbandonare Lawrence, proprio quando ha iniziato a capire di ricambiare i suoi sentimenti?

Christopher dovrà imparare ad affrontare le proprie paure, anche se questo dovesse significare di scontrarsi con il mondo intero. Ma se l'amore è in grado di piegare l'uomo più forte del mondo, ben presto Christopher e Lawrence comprenderanno come questa debolezza possa diventare l'arma più potente e miracolosa che possono mostrare al mondo.
LinguaItaliano
Data di uscita24 set 2019
ISBN9788831640985
The first boy

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    Anteprima del libro

    The first boy - Cristiano Pedrini

    Boy

    Capitolo Primo

    La tappezzeria di Wilson

    «Ecco qui… come aveva visto dalle fotografie che le avevo inviato. Tutto è come era descritto» commentò la signora Cardiff spalancando le tende della grande finestra del salotto rischiarando il locale alle cui pareti si notava una tappezzeria che agli occhi di Christopher doveva avere il quadruplo dei suoi anni e non tanto per lo stato di conservazione quando per la fantasia di rombi dai toni avorio stampati su quella carta di color verde.

    «Quella l’hanno scelta e applicata ai muri ai tempi di Wilson?» sorrise il giovane indicandola e osservando la reazione della padrona di casa che non si scompose. Si avvicinò guardandola come se non l’avesse mai notata prima. Si sistemò i piccoli occhiali tondi sul naso e voltandosi annuì. «Effettivamente ha i suoi anni, se la memoria non mi inganna venne acquistata nel 1922. Ricordo che mia nonna si lamentò molto del costo. Se non le piace posso mostrarle un altro appartamento.»

    Christopher prese il trolley lasciato sulla soglia dell’ingresso e lo andò a posare sul divanetto del salottino. «Affatto. Mi piace molto l’idea di vivere a contatto con qualcosa di storico. Amo molto la storia del secolo scorso» le rispose osservandosi attorno sperando di trovare altri oggetti di quel periodo.

    «Mi fa piacere. Molti giovani di oggi non conoscono quasi nulla del nostro passato – osservò la donna – ma tu immagino sia un’eccezione» concluse con un’espressione ironica.

    Christopher si chinò sul trolley aprendolo. «Nel 1922 lo stato del Massachusetts apre le sue cariche pubbliche alle donne… a febbraio di quello stesso anno si concluse il summit che portò alla firma del trattato di Washington per fermare la corsa agli armamenti navali e, sebbene non sia un patito di nuoto, se non ricordo male Johnny Weissmuller nuota i 100 metri stile libero in 58.6 secondi, infrangendo il record mondiale e la barriera del minuto.» Tolse alcuni indumenti, posandoli sul sofà prima di tornare a incrociare lo sguardo sbigottito della donna.

    «Ho solo una buona memoria» la tranquillizzò avvicinandosi, con la speranza che quella sua performance non la facesse fuggire a gambe levate. Fece un breve inchino e dopo averle preso la mano la baciò delicatamente. «Grazie per avermi affittato questa casa con così poco preavviso» soggiunse.

    La signora Cardiff rimase in silenzio osservando la sua piccola mano raggrinzita dall’età posata su quella di quel giovane. Le sue dita lunghe e affusolate, il suo candore e la freschezza di quel contatto, tutto sembrava studiato per mostrare l’enorme diversità tra i loro mondi e il loro vissuto.

    «Non si preoccupi signor Lowen.»

    «Mi chiami Christopher – la interruppe rialzandosi – ora posso sapere il suo nome?»

    «Certamente, Eleonor» rispose timidamente la donna indietreggiando. «Io… io spero che tu ti possa trovare bene qui.»

    Il giovane spostò la ciocca di capelli rossicci che gli scendeva lungo la fronte, un gesto che ormai faceva senza neppure rendersene conto e che più di una volta era stata fonte di discussione con i suoi genitori. «Tagliati dei maledetti capelli, non puoi tenerli così lunghi.»

    Sentiva quella frase di suo padre Lionel rimbombargli nelle orecchie ma cercò di non badarci.

    «Grazie Eleonor, sono certo che starò bene» le rispose massaggiandosi il mento con i pochi peli della barba che spuntavano qua e là e che, insieme a qualche lentiggine lo rendevano molto più giovane dei suoi ventuno anni. Si allungò la schiena. Quel lungo viaggio in autobus era stato non solo noioso ma aveva messo a dura prova i suoi muscoli e nonostante si fosse alzato sovente dal proprio posto per camminare lungo i sedili ciò non era bastato.

    «Non mi hai ancora detto per quale lavoro sei stato assunto qui a Washington. È qualcosa di importante?» chiese la donna.

    Una domanda, semplice e diretta alla quale Christopher, sfoggiando un accenno di imbarazzo rispose con un tentennante no. «Se devo essere onesto non lo so. Devo presentarmi domani e ne saprò di più» rispose incamminandosi verso la camera da letto.

    «Ma come sei misterioso! Non andrai a lavorare alla Casa Bianca?» ammiccò Eleonor, prendendo una vecchia copia del Washington Post che doveva aveva dimenticato il precedente inquilino.

    Nell’udire quelle parole Christopher si irrigidì. Forse dovrei dirglielo pensò avvicinandosi alla finestra. «Anche se fosse spero che non sia un problema per lei…»

    «Oh, no!» rispose prontamente la donna osservando il titolo in prima pagina del giornale di alcune settimane prima. L’annuncio della nuova riforma sanitaria troneggiava, con l’immagine del Presidente Leyton che era stato immortalato nella tradizionale fotografia della firma dell’atto. «Potresti dare una mano al nostro Presidente. Fino ad ora non mi ha fatto pentire di aver votato per lui. Ora devo andare, per qualsiasi cosa mi trovi nel mio appartamento al piano terra» concluse Eleonor uscendo dalla stanza.

    Christopher fece un profondo respiro liberatorio. Si assicurò di essere rimasto solo prima di rivolgere di nuovo lo sguardo alla finestra dalla quale poteva scorgere quella tranquilla via di Georgetown. Gli era bastata la passeggiata lungo il viale per avere la conferma di quel che aveva letto su quel quartiere, il più antico della città, che dal punto di vista architettonico non aveva poi avuto molte evoluzioni: stradine strette, lunghe sequele di villette e casette identiche, a eccezione del colore, ma era tutto curato e pulito, come ci si poteva aspettare dalla capitale. La sua abitazione si affacciava sulla XXXIV strada, proprio davanti a un parco: una casetta tinta di bianco, con i tetti spioventi e le persiane grigie. Una piccola perla che lo aveva lasciato sbigottito al suo arrivo ma superato il piccolo shock per la semplice bellezza di quella casetta, oltrepassato il cancello e attraversato il cortiletto si fermò davanti all’ingresso osservando la pesante porta di legno bianca. Ebbe la tentazione di usare il battiporta d’ottone ma venne battuto sul tempo trovandosi Eleonor sulla soglia.

    «Questo posto è davvero perfetto per me» si disse ricordandosi soprattutto delle non poche pasticcerie che aveva visto in quella passeggiata e la sua attenzione era stata subito calamitata da quell’infinita distesa di cupcake con mille differenti decorazioni. Per un goloso come lui quello era davvero una tentazione a cui difficilmente si sarebbe potuto sottrarre a lungo. «Temo che dovrò recuperare i miei indumenti per fare jogging. Però, visto che qui la metropolitana non arriva, potrei arrivare al lavoro con una salutare corsetta – si disse massaggiandosi le tempie – no… non sarebbe pratico, chissà che direbbero vedendomi entrare in maglietta e pantaloncini. Credo sia meglio usare l’autobus, il mio caronte che mi condurrà da questo luogo magico a quello materiale e privo di fantasia della politica.»

    «Guarda che non è divertente per me sprecare tempo a decifrare i tuoi messaggi sui miei appunti» sbottò seccamente Paul posando la nota sulla scrivania ingombra di decine di altri fogli, suscitando una smorfia di disinteresse in Bethany prima di tornare a rileggere il documento che aveva tra le mani.

    «Non sai più leggere? Credevo che almeno in quello il nostro sistema scolastico ottenesse dei validi risultati – sorrise sprofondando nella grande poltrona di pelle – cosa c’è che non ti è chiaro?»

    L’uomo, che aveva l’abitudine di girare per gli uffici dell’ala ovest con le maniche sollevate anche in pieno inverno, si massaggiò la barba nera come il carbone alzando gli occhi al soffitto: «Ci sono pittori che trasformano il sole in una macchia gialla, ma ce ne sono altri che, con l’aiuto della loro arte e intelligenza trasformano una macchia gialla nel sole… ma che cazzo significa?» replicò senza mascherare il suo tipico accento newyorkese.

    La donna tolse un cioccolatino gianduiotto da un vaso di vetro. Lo scartò e se lo gustò come sempre. «È una citazione di Picasso. Spero che le tue cognizioni di arte siano sufficientemente esaustive da farti ricordare chi fosse.»

    Paul posò le mani sul fianco gonfiandosi il petto. «Certo che lo so. Ho ancora gli incubi per quella mostra che mi hai trascinato a vedere. Onestamente non so distinguere tra una sua opera e un incidente d’auto!»

    «Dieci dollari di biglietto sprecati – sospirò Bethany – comunque vorrei che il nominativo che ti ho indicato venisse spostato a un nuovo incarico. Quello che ho suggerito mi sembra più adatto.»

    Gli occhi sporgenti di Paul si posarono sulla nota. La riprese e rilesse quanto scritto a penna dalla donna. «Punto primo tu di solito non suggerisci, ordini… e in secondo luogo…»

    «In secondo luogo?» ripeté Bethany prendendosi un secondo cioccolatino.

    «In quest’ufficio abbiamo già diverse persone e tu ne vuoi aggiungere un’altra? Ci servono braccia e testa per l’ufficio stampa.»

    «Per scrivere messaggi e promo per la stampa ti basta una persona qualsiasi che sappia farlo senza fare errori di ortografia e sintassi, non intendo sprecare quella persona per un compito simile – troncò seccamente Bethany gettando la carta del cioccolatino nel cestino colmo – quindi provvedi.»

    Paul conosceva abbastanza bene il Capo dello Staff della Casa Bianca per sapere che era del tutto inutile insistere e del resto non aveva molta importanza fissarsi su un semplice incarico a termine. «Tutto quel cioccolato, ecco cosa ti rende così detestabile!» ironizzò uscendo dalla stanza ma dopo pochi passi si sentì chiamare con quell’inconfondibile tono argentino. Si voltò osservandola rialzarsi ed oltrepassare la grande scrivania di mogano; avvicinandosi gli indicò la targhetta sulla porta aperta: «Quando tu sarai al mio posto, seduto a quella scrivania non avrai bisogno di esserlo… lo sei già» annuì uscendo dalla stanza.

    «Davvero spiritosa. Che fai per pranzo?» le chiese seguendola.

    «Pranzo con Infinity, se vuoi spostiamo a domani. Ah, dimenticavo, quando prende servizio il nuovo arrivato vorrei parlargli» rispose la donna proseguendo spedita lungo il corridoio, scansando alcuni impiegati.

    Paul si fermò davanti alla porta del proprio ufficio scuotendo ripetutamente il capo. «Sì, ma ricorda che io non dispongo di uno stuolo di chef, al massimo posso offrirti un hamburger» concluse rientrandovi. Era innamorato di quell’ambiente, soprattutto per le due ampie finestre che davano sul giardino e lo rendevano assai luminoso. Inoltre, era spazioso, aveva eliminato i mobili inutili del suo predecessore, come quel pesante tavolo per riunioni sostituendolo con un fornitissimo mobile bar. Lui i meeting li teneva davanti alla sua scrivania che, al contrario di Bethany, era in perfetto ordine, tutto era calcolato per essere messo al posto giusto. Unica concessione al suo stile austero il piccolo giardino zen da tavolo che occupava un lato del mobile, accanto al laptop: una vaschetta di legno scuro colmo di sabbia bianca finissima e su di essa spiccava la miniatura di una pagoda con accanto un rastrello. Più di una volta, per rilassarsi, stendeva con cura la sabbia creando con le punte di quel piccolo attrezzo delle onde sinuose, sotto lo sguardo perplesso di chi si affacciava alla porta con qualche richiesta tra lo squillo ininterrotto dei telefoni. Sì, Paul Kepler aveva la fama di grande lavoratore e di vero burbero. Richiuse la cartelletta dopo avervi posato la nota di Bethany e si decise a passare ad altro. Aveva ben altre incombenze e la giornata, purtroppo per lui, era fatta di sole ventiquattr’ore.

    Di ore Christopher ne aveva molte meno e, dopo aver riposto i propri indumenti nell’armadio della camera, non aveva resistito all’idea di curiosare in quella che per i prossimi mesi sarebbe stata la sua casa. Era certo diversa da quella che aveva lasciato nel lontano Montana e non solo per il clima e il paesaggio. Si appoggiò perplesso a quel letto in ferro battuto, udendone il lieve cigolio, trovandovi il materasso confortevole. Sopra il letto era appeso un grande quadro che rappresentava un paesaggio montano e subito la sua memoria corse alla città dove era nato, Helena, circondata da molte bellezze naturali che aveva visitato: la Continental Divide, il Monte Helena City Park, Lake Helena, le Big Belt Mountains. Ora quei suggestivi paesaggi erano sostituiti da una solenne e maestosa città che lo invitava a scoprire ogni suo angolo ed era deciso a non ritornarsene a casa senza averla visitata e scattato decine di selfie con sullo sfondo le persone che avrebbe incontrato e conosciuto. Molte, per uno che abitava in una piccola cittadina di poco più di ventimila abitanti.

    Una volta in strada gli bastò guardarsi attorno per avere la conferma di essere finito in un luogo distante anni luci dal suo mondo. Sperava solo di non passare per un provincialotto precipitato in una realtà che non conosceva ma, per ora, voleva solo provare uno di quei meravigliosi cupcake. Non impiegò molto a trovare una pasticceria ben fornita proprio davanti all’ingresso di Volta Park, un locale carino anche se piccolo. Ne prese una manciata con vaniglia e cacao e, soddisfatto, s’incamminò lungo il vialetto che si inoltrava in quello spazio verde, stentando a credere di trovarsi in un parco di quartiere. C’era di tutto: campi di basket, dove nugoli di ragazzi giocavano tra loro, panchine e tavoli occupati da studenti, ad altri tavoli erano sedute persone di mezza età che giocavano a scacchi o a carte. Vi era persino una piscina e dei campi da tennis ma, visto la giornata fredda, erano deserti. Finalmente trovò una panchina vuota, proprio sotto una quercia i cui rami si allungavano oltre il vialetto, riparandolo da quel tenue sole di febbraio.

    Christopher si sedette e tolse dal sacchetto il primo cupcake, pregustandone il dolce sapore. Spalancò la bocca ma prima che potesse morderlo una voce lo paralizzò. «Non lo sai che troppo zucchero fa male al cervello?»

    Christopher fissò di sbieco quel tipo che lo stava osservando. Era incerto se fosse stato quel commento o il tono supponente a ricordargli un suo vecchio insegnante del college, per il quale non aveva mai avuto molta simpatia. Ma lo sguardo di quell’uomo di colore si mostrava molto diverso dal suo accento e, da come fissava il suo cupcake, doveva avere fame. Ebbe la certezza di trovarsi di fronte a un senzatetto, nonostante fosse pulito e i suoi abiti in ordine a eccezione di qualche rattoppo che si intravedeva sulle maniche del cappotto beige che indossava.

    Christopher gli porse il sacchetto e gli fece spazio ed egli si sedette accanto a lui.

    «Grazie, ben gentile. Hai dato retta al mio consiglio» disse l’uomo gustandosi il primo dolcetto.

    «Lo zucchero può far male anche a te – sorrise il ragazzo allungandogli la mano – io mi chiamo Christopher.»

    «Arcibald. Non ti ho mai visto qui, sei un turista?» si affrettò a stringergliela.

    «Sono in città da oggi, mi sono trasferito qui dal Montana per lavoro» rispose terminando il suo cupcake.

    «Montana, lo Stato del Tesoro, come molti amano ricordarlo. Sei molto lontano da casa, spero che ne valga la pena.»

    «Lo spero anche io» rise Christopher.

    Capitolo Secondo

    La seconda occasione di Lincoln

    Christopher aveva perso la cognizione del tempo. Poteva essere seduto su quella sedia da cinque minuti, oppure da cinquanta, ecco uno dei suoi peggiori difetti che si presentava ogni volta che si sentiva a disagio, la perdita della cognizione del tempo! Ed essere in attesa senza sapere il perché non era certo un buon inizio. Continuava a guardarsi attorno osservando la frenesia che lo circondava: funzionari che lavoravano ai loro laptop, che rispondevano a telefoni che squillavano incessantemente e correvano da tutte le parti e lui, in mezzo a tutta quell’agitazione sembrava un’isola felice, almeno in apparenza.

    «Mi sembra di essere tornato ai tempi della scuola, quando aspettavo il preside fuori dal suo ufficio, quel vecchio satrapo» sorrise nervoso Christopher fissando le proprie mani che continuava a fregarsi. Anche quello era un tic che doveva gestire nei momenti di eccessiva ansia.

    «E quante volte lo aspettavi?» si sentì chiedere.

    Oh, merda… ora che faccio? pensò il giovane deglutendo forzatamente prima di decidersi ad alzare lo sguardo verso l’alto. «Salve…» salutò con un cenno della mano Paul che lo osservava.

    «Non hai risposto ragazzo, quante volte aspettavi il tuo preside?» chiese entrando nel suo ufficio.

    Christopher si rialzò di scatto seguendolo. «Solo qualche volta… glielo assicuro» disse mettendosi sull’attenti suscitando lo sguardo divertito dell’uomo.

    «Guarda che non sono un generale, rilassati.»

    «No, signore. Lei è il Direttore delle Comunicazioni della Casa Bianca» annuì Christopher.

    Paul, prendendo un fascicolo dalla scrivania, lo aprì rileggendo il nome. «Esatto e tu sei Christopher Lowen» osservò guardandolo, cercando di capire cosa avesse di speciale quel ragazzo da aver smosso l’interesse di Bethany.

    «Signore… – si schiarì la voce Christopher – oggi avrei dovuto prendere servizio all’ufficio stampa come collaboratore ma mi hanno detto di presentarmi qui.»

    Paul si appoggiò alla scrivania allargando le braccia. «Sei stato riassegnato. Lavorerai in un nuovo ufficio. Ed ora devo accompagnarti dal tuo superiore» concluse incamminandosi verso l’uscita, invitandolo con un eloquente gesto a seguirlo.

    Christopher iniziava a sentirsi un pacco postale che veniva spedito da un posto all’altro tuttavia non poté fare altro che rincorrerlo. Aveva accettato quella proposta nonostante le resistenze di suo padre che aveva bollato la sua scelta come un gioco. Andare fino a Washington per fare da schiavetto a quegli idioti del governo…  Christopher si ricordava perfettamente quelle parole nonostante le avesse sepolte sotto quella coltre di entusiasmo dal quale si lasciava trascinare per ogni novità; per uno nato e vissuto nel Montana non erano molte le occasioni per varcare i suoi confini, lui era il primo della famiglia a vedere la capitale, ed il primo a essere andato all’Università, ed ora a quella breve lista poteva aggiungere di essere stato il primo dei Lowen ad entrare alla Casa Bianca e non come semplice turista. Si sentì di nuovo al settimo cielo ma quando, oltrepassando alcune scrivanie, notò il cartellino affisso alla porta che Paul aveva appena oltrepassato, si fermò rileggendo più di una volta quel nome.

    «Bethany MacKay… non sarà certo…». Tutta la sua baldanza scomparve come neve al primo sole. Si affacciò allo stipite della porta osservando all’interno.

    «Allora, com’è andato il pranzo ieri?» domandò Paul prendendo un cioccolatino dal capace vaso in bella vista.

    La donna intenta a firmare alcuni documenti che il suo assistente le porgeva a raffica non sollevò neppure lo sguardo dalle carte. «Una meraviglia. Il Presidente non ha fatto altro che inveire contro il rappresentante della minoranza al Congresso e tra una pausa e l’altra si divertiva a raccontare i suoi aneddoti sulla storia americana. Un vero spasso!»

    «Non doveva essere un pranzo di riconciliazione?»

    «Lo credevo anche io, comunque che vuoi? Sono già in ritardo di un’ora sul programma della giornata» rispose la donna porgendo l’ultimo documento all’assistente.

    «Lowen, è qui, mi avevi detto che volevi parlargli»

    L’espressione torva di Bethany si addolcì quel tanto da invitare Paul a presentare il ragazzo che era rimasto sulla soglia.

    «Avanti, entra!» lo esortò «Beh, il mio dovere l’ho fatto. Ora vado ad occuparmi di cose serie» concluse l’uomo uscendo dalla stanza.

    Bethany posò le braccia sul piano della scrivania osservando il nuovo arrivato che aveva appena oltrepassato la soglia rimanendo rinchiuso in un imbarazzato silenzio.

    «Lo so, Paul sa essere insopportabile ed anche scorbutico ma sa il fatto suo. Ti chiedo scusa per quella battuta» sorrise la donna esortandolo ad avvicinarsi.

    «Lei è…» tentennò Christopher indicando la porta.

    «Esatto hai letto bene. Bethany MacKay, Capo dello Staff della Casa Bianca e il tuo nome è Christopher Lowen» proseguì rialzandosi.

    «Sì, signora. Ora posso sapere perché mi trovo qui? Non credevo che prendere servizio come assistente all’ufficio stampa richiedesse un colloquio addirittura con lei.»

    Bethany scosse il capo rialzandosi. «Infatti, normalmente non rientra nelle mie mansioni ma mi hanno passato per puro caso il tuo curriculum e ho deciso di assegnarti un altro compito.»

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