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La formula segreta di Newton
La formula segreta di Newton
La formula segreta di Newton
E-book434 pagine5 ore

La formula segreta di Newton

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Info su questo ebook

«Non c’è un attimo di respiro.»
Daily Mail

Un grande thriller

«I fan di Dan Brown ameranno questo libro così ricco di azione, rivelazioni e colpi di scena. Una scrittura brillante.»

Luke Hayward è uno studioso alla deriva. È finito nella lista nera del mondo accademico e si trova in un mare di guai. E quando un cliente lo contatta chiedendo il suo aiuto per recuperare alcuni documenti del celebre Isaac Newton andati perduti, Luke non è certo nella posizione di poter rifiutare. Proprio mentre sta setacciando una soffitta polverosa alla ricerca di indizi, scopre una serie di appunti apparentemente senza senso. A un esame più attento, però, quegli scarabocchi rivelano un messaggio in codice. Da un momento all’altro, Luke si ritrova invischiato in un gioco rischioso, nel mirino di un fanatico fondamentalista che da tempo tenta di sciogliere il mistero legato alle carte dello scienziato. Un mistero che si snoda tra Oxford, Londra e la città vecchia di Gerusalemme e che potrebbe scatenare la più micidiale tra tutte le guerre sante mai combattute. 

Può un segreto perduto cambiare la storia?

Un segreto sepolto da troppo tempo
Una cospirazione globale

La formula perfetta per il bestseller

Hanno scritto dei suoi romanzi:

«Un’avventura splendidamente raccontata.»
Star

«Non c’è un attimo di respiro.»
Daily Mail

«Un’avventura davvero coinvolgente.»
Observer

«Ritmo, avventura, azione… Un thriller brillante che mantiene tutte le promesse. Mettetevi comodi, allacciate le cinture e godetevi il viaggio.»
Raymond Khoury
Will Adams
Ha fatto quasi tutti i mestieri nel corso degli anni, fino a occuparsi di comunicazione per una società di consulenze con sede a Londra, prima di lasciare tutto per inseguire il sogno di vivere con la scrittura. Il suo primo romanzo, The Alexander Cipher, ha avuto un notevole successo ed è stato tradotto in sedici lingue.
LinguaItaliano
Data di uscita15 nov 2016
ISBN9788822702845
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    Anteprima del libro

    La formula segreta di Newton - Will Adams

    1419

    Titolo originale: Newton’s fire

    Copyright © 2012 Will Adams

    Will Adams asserts the moral right to be identified as the author of this work

    All rights reserved

    Traduzione dall’inglese di Barbara Cattaneo

    Prima edizione ebook: gennaio 2017

    © 2017 Newton Compton editori s.r.l.

    Roma, Casella postale 6214

    ISBN 978-88-227-0284-5

    www.newtoncompton.com

    Realizzazione a cura di Oldoni Grafica Editoriale, Milano – www.oldoni.com

    www.newtoncompton.com

    Will Adams

    La formula segreta

    di Newton

    01_OMINO-1.tif

    Newton Compton editori

    A Luisa e Walter

    PROLOGO

    Saint Martin’s Street, Londra 1713

    Si stava cantando nella chiesa protestante francese mentre Erasmus e i suoi compagni giravano in Saint Martin’s Street, ma era evidentemente l’ultimo atto della funzione, poiché le porte si aprirono al loro passaggio, e la congrega cominciò a riversarsi all’esterno: persone da sole, in coppie e in gruppetti familiari, si stringevano contro la notte invernale.

    «Non starai cercando di salvare le nostre anime adesso, eh Ras?», borbottò Johann.

    «Qualcuno dovrebbe», ribatté.

    «Dovranno dopo questa notte».

    Erasmus sputò sul lato della carrozza, fece un po’ di solletico ai cavalli con la sua frusta, setacciando l’oscurità alla ricerca della casa.

    Una volta trovata, diede uno strattone alle redini e la carrozza si fermò.

    La congrega si era già largamente dissipata, scacciata da una fredda pioggerellina. Le porte della chiesa si chiusero, lasciando la strada acciottolata vuota, buia e silenziosa, fatta eccezione per le tavole scricchiolanti della carrozza e l’eco smorzata della baldoria proveniente da Leicester Fields. Passò le redini a Johann e smontò. Lo stivale sinistro affondò in una pozzanghera di cui non si era accorto, il gelo penetrò la suola all’istante, con una sensazione curiosamente simile alla paura. Si accigliò, mentre a grandi passi raggiungeva i gradini d’ingresso, per l’irritazione e per il bisogno di farsi coraggio. Johann aveva ragione. Nonostante tutto il prestigio e il bel titolo dell’uomo che gli aveva dato quegli ordini, a Erasmus questo incarico non piaceva neanche un po’. Troppi misteri. Troppo sussurrare in angoli bui. Ma non era da lui dubitare dei cavalieri del regno, né tanto meno rifiutare le loro ghinee.

    Bussò tre volte. Non accadde nulla. Diede altri due colpi, portò la mano alla bocca, gridò qualcosa. Ancora niente. Guardò i suoi compagni, stringendosi nelle spalle. Sir Christopher era stato chiaro, ci sarebbe stato qualcuno. Chiamò ancora, e finalmente udì qualcosa dall’interno. I catenacci scorsero e le cerniere scricchiolarono. La porta si aprì rivelando un uomo corpulento, d’età avanzata, altezza nella media e con capelli grigi e arruffati lunghi fino alle spalle. Era vestito di nero e stringeva un candelabro a cinque bracci, e piccole scintille si riflettevano nei suoi occhi scuri. «Gli uomini di Sir Christopher, suppongo», disse.

    «Ci ha detto che avreste avuto qualcosa da consegnarci».

    «Vi ha detto cosa?».

    Erasmus scosse la testa. «No, signore. Solo che ci sarebbero voluti dieci di noi».

    «Almeno dieci. Se siete forti».

    «Siamo forti abbastanza».

    Il vecchio lo fissò per alcuni istanti. Erasmus si sentì come un bambino appena frustato. Nonostante il gelo della notte, una goccia di sudore gli scivolò dalla nuca giù per la schiena. «Dov’è ora Sir Christopher?», domandò.

    «Sta aspettando, signore. Con suo figlio».

    «E come posso essere certo che voi siate chi dite di essere? Vi ha dato qualcosa da mostrarmi?»

    «No, signore. Non qualcosa. Una parola».

    «Quale parola?».

    Erasmus si raschiò la gola. C’erano state molte cose da ricordare quella sera, e la memoria non era mai stata esattamente il suo punto forte. «La parola era Polanus», disse.

    «Polanus?»

    «Sì, signore. Polanus. O Bolanus, forse Balanus».

    Il vecchio diede il primo accenno di un sorriso, sebbene non più di un accenno. «Quasi, suppongo».

    Lanciò un’occhiata alla carrozza. «I vostri uomini non serviranno a molto se restano laggiù, non vi pare?».

    Erasmus li chiamò con un cenno. «Avanti ragazzi. Lavoro da fare. Paga da guadagnare».

    «Fate pulire loro gli stivali», disse il vecchio.

    Fece strada lungo un corridoio su cui si affacciavano porte aperte, il lume delle sue candele offriva brevi scorci di scrivanie e tavoli colmi di carte, specchi che allungavano e rimpicciolivano le figure, scuri pannelli di quercia alle pareti con tende rosse come in un macello. Erasmus alzò un sopracciglio verso Henry. Avrebbero sicuramente tirato fuori qualche scherzo più tardi da quella situazione, corroborati da una o due birre, ma in quel momento non si sentiva certo in vena di risate.

    Passarono all’esterno sul retro della casa. Il vecchio sbloccò la porta di una cantina e l’aprì, rilasciando un getto d’aria maleodorante. Non sembrò nemmeno accorgersene, continuò semplicemente a scendere, accompagnato dalla luce delle candele. Gli altri esitarono, guardandosi a vicenda. Era assurdo aver paura di un vecchio e della sua cantina, eppure erano spaventati. Qualcosa non andava. Qualcosa non era di questa terra. Quell’odore, sulfureo e malvagio, come un cancello per l’inferno stesso.

    Erasmus scosse la testa verso se stesso e i compagni. Si fece forza e aprì la strada. La cantina lo sorprese: dalla puzza, si sarebbe aspettato qualcosa di marcio e umido, ma in realtà tutto era pulito e asciutto. Il fetore doveva arrivare dai barattoli, dalle bottiglie e dai flaconi ammassati sui tavoli e dagli scaffali, colmi di polveri e liquidi di ogni colore; o forse veniva dalle ceneri ormai fredde nella grande fornace sulla parete opposta. Ma fu verso la parete sinistra che si diresse l’uomo allineate contro di essa si trovavano tre casse di quercia. Posò la mano sulla più grande, un po’ più lunga di un metro e mezzo, alta e larga forse un metro. Aveva quattro maniglie d’ottone per il trasporto lungo i due lati, un’altra coppia a ogni estremità. Ma non si vedevano cerniere, serrature o coperchi, nessun modo per aprirla.

    «È questo, allora?», domandò Erasmus. «Queste tre casse?»

    «Queste tre casse», confermò il vecchio. Sorrise agli uomini di Erasmus, che si tenevano ai piedi della scala. «Coraggio adesso, signori», li canzonò. «Non ci facciamo certo spaventare da qualche cassa, giusto?».

    Simeon si fece avanti, alzando il mento con decisione. «Dieci di noi?», chiese. «Per queste?»

    «Prova a sollevarla», suggerì il vecchio.

    Simeon annuì. Era basso, ma aveva spalle larghe e braccia mostruosamente potenti. Afferrò saldamente le maniglie e sollevò, alzando la cassa di appena un pollice dal pavimento prima di lasciarla cadere, strofinandosi mestamente i palmi sui calzoni. Si girò verso Erasmus. «Per la miseria», disse. «Ecco che ne hai fatto della tua vecchia».

    Le risate distesero i nervi. Si raggrupparono intorno alle casse, afferrando una maniglia ciascuno. Quando furono pronti, Erasmus diede l’ordine e sollevarono tutti all’unisono, arrivando fino all’inizio della scala, prima di lasciare cadere la cassa con un tonfo sordo che si ripercosse per tutto il pavimento, alzando la polvere dalle pareti. Stavano lì, massaggiandosi la schiena e flettendo le dita doloranti, guardando con sgomento i ripidi gradini che li attendevano.

    «Per Dio», disse David, fissando con odio la cassa. «Cosa c’è in quest’affare?».

    Il vecchio sorrise, come se non stesse aspettando altro che quella domanda. «La fine», disse. «O l’inizio di essa, almeno».

    Si guardarono l’un l’altro sbigottiti, ma fu Erasmus a dare voce al pensiero comune. «La fine di cosa?», domandò.

    Il sorriso del vecchio si allargò. «Tutto», disse. «La fine di tutto».

    UNO

    I

    La soffitta di una casa in campagna, Suffolk, Inghilterra, domenica 5 giugno

    Luke Hayward stava sollevando una pila di documenti da una scatola di cartone quando scorse un cartoncino color seppia sospeso a circa due terzi dal fondo. Gli sembrò più interessante di qualunque cosa avesse visto fino a quel momento. Sembrava rigido, vecchio e con un bordo frastagliato, come fosse stato tagliato da una ghigliottina senza più filo. Il suo battito accelerò un poco, ma solo un poco. L’esperienza gli aveva insegnato a non far troppe congetture, non così presto.

    Appoggiò la pila di documenti sul telo che riparava il pavimento dalla polvere, sollevò la metà più in alto e la mise da parte, poi ancora un po’, scoprendo la parte anteriore di una cartella sbiadita sulla quale qualcuno aveva scarabocchiato S.I.N. sbavando con l’inchiostro nero. Il suo cuore scalciò ancora, più forte questa volta, con più garanzie. Aveva la bocca secca, realizzò; ingoiò un po’ di saliva e si fermò per asciugarsi le mani, prendendo deliberatamente tempo. Se lo attendeva una delusione, come sicuramente doveva essere, poteva almeno rimandarla per qualche istante.

    Si accovacciò, tentò di aprire la cartellina tirandone i lembi, ma sembravano incollati. Forzò un po’ lo strappo e la cartellina si aprì svelando, finalmente, il suo contenuto: Luke si congelò per un momento, fissandolo incredulo.

    Aveva cercato per ben sei mesi. Sei mesi. E neppure una volta durante tutto quel tempo aveva davvero pensato di trovare qualcosa. Non davvero. Non nel suo cuore. Non se era onesto con se stesso.

    Ma avrebbe riconosciuto quella scrittura ovunque.

    Richiuse e appoggiò la cartelletta, si alzò in tutta la sua statura, prese un paio di guanti bianchi di cotone da archivista dalla tasca e li fece calzare alle dita come avrebbe fatto un chirurgo prima di operare. Lisciò il telo sopra le assi del pavimento della soffitta, spazzolò via un po’ della polvere e dell’intonaco caduti, quindi aprì del tutto la cartellina. C’erano quattro fogli di carta, poté ora constatare, non solo uno. Li aprì leggermente a ventaglio. Ognuno rivelava di essere stato, un tempo, piegato in quattro e aperto lungo un bordo a formare un taccuino in miniatura, come aveva fatto talvolta lui stesso da bambino, giocando a essere una spia. Quasi certamente erano carte sull’alchimia, poiché era stato uno dei capricci di quel grande uomo dedicare tali taccuini ai suoi studi alchemici. Ma i fogli erano stati aperti molti anni prima, e i decenni trascorsi sotto il peso di quella alta pila di carte li avevano appiattiti.

    Era troppo buio per leggere. Con cura prese il foglio in cima, lo avvicinò alla finestra più vicina. La luce era certo migliore, ma non ancora ideale, con quei vetri piccoli, sporchi e coperti da ciuffi di edera. Inoltre la scrittura era confusa e sbiadita dai secoli, forse anche dalle condizioni meno che ideali in cui erano state conservate le carte, esposte al caldo e al freddo e all’umidità. Aggiungendo a questo il caratteristico spessore e la densità della sua scrittura, e l’arcano soggetto trattato nel testo, ci vollero due minuti buoni perché Luke capisse il senso delle prime tre righe.

    Saturno metterà nelle tue mani un minerale intensamente scintillante che nelle sue miniere viene prodotto come materia prima per tutti i metalli. Se questo minerale, dopo la sua preparazione che egli mostrerà a te, sarà in una miscela fortemente sublimata, con tre parti…

    Il passaggio si interrompeva bruscamente a metà frase. Sotto di essa, ma al contrario, per via del capriccio di Isaac Newton con quei taccuini, c’era una citazione da Triomphe Hermetique di Saint Didier, uno dei testi alchemici che il grande uomo aveva ammirato maggiormente. Era stato pubblicato nel 1689, se la memoria di Luke non lo tradiva, anche se Newton non aveva potuto mettere mano a una copia fino al 1690. Luke tenne di nuovo il foglio contro la finestra. Osservando meglio la carta stessa, notò una filigrana: un corno in cima, le lettere maiuscole IR sotto. Conosceva bene questa carta. Newton ne aveva comprata una gran riserva fra il 1680 e il 1690; l’aveva usata, di tanto in tanto, fino al 1695. Insieme alla citazione presa da Saint Didier, si poteva datare quello scritto alla prima metà degli anni Novanta del Seicento; più probabilmente fra l’autunno 1692 e la fine del 1693, il periodo più intenso degli esperimenti e degli studi alchemici nella vita di Newton.

    Luke si accorse che la sua mano tremava un po’. Come accademico specializzato nella Rivoluzione scientifica, aveva visto migliaia di pagine e annotazioni scritte da Newton negli anni; e molte centinaia solo nell’ultimo anno, quando l’allontanamento dall’università gli aveva lasciato il tempo per intraprendere le ricerche per la sua a lungo desiderata biografia. Ma niente l’aveva colpito così, perché tutte le carte si trovavano in biblioteche, musei e collezioni private. Erano tutte già note, studiate e dibattute.

    Ma questa era nuova e poteva essere qualunque cosa.

    Girò pagina. Ancora un mosaico di scritture, passaggi in inglese, francese e latino. Era stato il metodo di Newton, quando studiava un nuovo campo: leggere le riconosciute autorità, meglio se nella loro lingua d’origine, copiando ogni passaggio che catturasse particolarmente la sua attenzione. Luke riconobbe una citazione da Philatheles e due righe dalla Tavola di smeraldo, ma il resto degli estratti gli erano sconosciuti.

    Ripose la pagina nella sua cartellina, prese il secondo foglio, esitando. Aveva promesso a Penelope Martyn che l’avrebbe avvisata immediatamente se avesse trovato qualcosa. Doveva anche fotografare quelle pagine e inviarle per email all’avvocato del suo cliente. Ma non poté resistere a un’altra rapida occhiata. Anche questo foglio era pieno di passi alchemici; ma c’era qualcos’altro sul retro, qualcosa di diverso: quattro parole scritte in calce con tanta veemenza che Newton aveva evidentemente danneggiato il suo pennino nel tracciarle, visto lo spessore dell’inchiostro e le macchie.

    Fatio Oh mio Fatio

    Appoggiò con cura la pagina, cosciente del calore nella sua gola e sulle guance, arrossendo leggermente per l’imbarazzo, come se si fosse imbattuto per sbaglio nella vergogna segreta di qualcuno. E, solo per un istante, non fu certo sul da farsi.

    No. Non era vero. Sapeva esattamente cosa avrebbe fatto.

    Solo che si sentiva male al pensiero di farlo.

    II

    Costiera Amalfitana, Italia

    Vernon Croke poteva percepire lo sforzo di Irina per mantenere il silenzio, mentre tagliavano le scogliere affilate a una velocità sufficiente a far stridere le gomme sulla strada cotta dal sole, ma lei sapeva bene che era meglio non mettere in discussione le sue tattiche o sembrare critici, specialmente davanti ad altre persone, anche se era solo Manfredo, l’autista. Ma dovevano passare dalla villa per prendere le loro cose prima di dirigersi verso l’aeroporto di Napoli, e quando furono dentro al sicuro decise di toglierle il guinzaglio.

    «Non sapevo parlassi tedesco», disse.

    «Non lo parlo», rispose. «Davvero, no. Mia nonna viveva nella Foresta Nera. Ogni tanto stavo da lei. Sono sicura di averti parlato di lei».

    Croke sorrise rassicurante. «Comunque hai colto il succo?».

    Lei annuì due volte. «Non capisco», disse, con un’indignazione curiosamente lamentosa. «Come puoi fare affari con un uomo del genere?»

    «Vuoi dire, come possiamo fare affari con un uomo del genere?». Andò verso il mobile bar per preparare due Bloody Mary. «Semplice, mia cara. Si dà il caso che quell’uomo sia eccessivamente ricco».

    «E tu no?».

    Croke si strinse nelle spalle. Era vero che viveva da ricco, con le ville, le macchine e il jet privato; ma quelli erano gli accessori necessari per il suo genere di affari, e poi la maggior parte di quelle cose era in affitto. Ma non poteva ammetterlo senza rovinare l’illusione; e nemmeno poteva rinfacciare a Irina la sua reazione durante il recente meeting, poiché la pignoleria era una delle qualità che più apprezzava in lei. E il loro ultimo ospite era uno degli uomini più repellenti che avesse mai conosciuto, gonfio e pallido, cosparso di costosi profumi che non riuscivano a mascherare il suo penetrante odore, come troppa candeggina in un cesso. Aveva continuato a guardare avidamente Irina durante tutto l’incontro, leccandosi le labbra come fosse stata l’ultima pasta su un vassoio. E poi, dopo aver tolto il cappuccio alla stilografica pronto a firmare il contratto, s’era fermato, aveva alzato lo sguardo su Croke ed era passato al tedesco. «La sua assistente continua a fissarmi con un sorrisetto», disse.

    «Sono sicuro che non è sua intenzione».

    «Lo ha fatto per tutto il tempo».

    Era la prima volta che Croke incontrava il suo ospite, ma conosceva il tipo. Negare l’accusa avrebbe portato alle proteste per essere stato chiamato bugiardo, e a quel punto sarebbe stata una questione d’onore; e non si sa mai dove si arriva con certi uomini per questioni d’onore. «Irina è giovane e inesperta», replicò di conseguenza, nel suo tedesco più suadente. «Sono sicuro che non l’ha fatto di proposito e non voleva offenderla. Sono sicuro che è costernata».

    «Non mi piacciono le donne che sorridono in quel modo».

    «A quale uomo piacciono?»

    «Ha bisogno che qualcuno la metta in riga. Ecco di cosa ha bisogno».

    Croke annuì. «Ci penserò io appena arrivati a casa».

    «Posso pensarci io», disse l’ospite. «Lo consideri un regalo. Per festeggiare il nostro accordo».

    Croke guardò entrambi. La fronte lucida di Irina era stato il primo indizio che dopotutto poteva conoscere il tedesco. Si rivolse ancora al suo ospite.

    «Mi giudichi pure scaramantico», disse, «ma non festeggio mai un affare prima che l’inchiostro si sia asciugato».

    «Mi giudichi lei scaramantico», replicò, «ma non faccio mai un affare senza avere già lo champagne nel ghiaccio». E in quel momento cercò con lo sguardo i suoi due bodyguard: niente di melodrammatico, ma abbastanza per metterli in allerta.

    Irina stava con Croke dalla crisi di Doha. Si era dimostrata attenta, sveglia, discreta, affidabile, veloce a imparare e uno spasso a letto. Tutto quello che avrebbe potuto desiderare. D’altra parte, c’era la sua sicurezza in ballo adesso; per non parlare di una collaborazione potenzialmente molto remunerativa.

    «Quindi?», disse l’ospite con la penna puntata sulla linea tratteggiata. «Abbiamo un accordo?».

    Qualcosa di sconosciuto si era mosso dentro Croke in quell’istante. Realizzò, non senza una punta di perverso piacere, che quella era paura. Era un inatteso effetto collaterale del successo, la possibilità di eliminare il rischio dalla propria vita. Ma il rischio era eccitante, era una gioia. Perciò fissò il suo ospite dritto negli occhi. «Vada a farsi fottere», disse.

    Un pizzico di sale nei Bloody Mary, qualche goccia di tabasco, cubetti di ghiaccio e una fetta di limone. Era un conservatore quando si trattava di cocktail. Afferrò i due pesanti bicchieri, ne passò uno a Irina. Lei bevve un gran sorso. I suoi occhi brillavano e teneva la mascella serrata. «Hai preso in considerazione la sua proposta», disse con amarezza. «Ti ho visto considerare la cosa».

    «Stavo considerando la situazione», rispose con calma. «Non è assolutamente la stessa cosa. E poi, se ti può fare sentire meglio, non riguardava te».

    Lei sbuffò. «Sembrava decisamente che riguardasse me».

    «Sono sicuro che potesse sembrare così. Ma non lo era. Se fosse stata davvero una cosa su di te, non avrebbe mai firmato quel contratto. Forse non saremmo nemmeno usciti vivi da lì. Riguardava me. Nello specifico, voleva capire se poteva fidarsi di me, o comunque se ero il tipo di uomo che si fa corrompere o spaventare al punto da rinunciare a qualcosa a cui evidentemente tiene».

    «Credevo che gli avresti detto di sì», disse lei, il fremito nella voce tradiva la scossa che aveva fatto tremare il mondo sotto i suoi piedi. «Pensavo che mi avresti lasciata nelle mani di quel… quel mostro».

    «Ma il punto è questo», disse Croke. «Non sarebbe stato un regalo. Non sotto quel tipo di minaccia. Sarebbe stato un tributo».

    Lei bevve un altro sorso, aggrottò la fronte e scosse la testa. «Io non capisco…».

    «Un tributo è qualcosa che viene preteso dalla parte più forte e pagato dalla parte più debole», spiegò Croke. «Non pago tributi. Non pago mai tributi, io. Manda il segnale sbagliato. Fa credere agli altri di poterti far fare qualunque cosa. I regali, invece, sono scambi liberi e volontari fra pari. Sono una parte importante di quello che faccio, sono il modo in cui si stringono rapporti con le persone potenti: è come costruisco la mia influenza. Questo è un consiglio per te: in situazioni come quella di questa mattina, quando sei in una posizione di svantaggio, fai qualunque cosa per riguadagnare la parità, e solo dopo mostra generosità. Altrimenti verrà interpretata come debolezza. Lo capisci?».

    Irina si lasciò cadere pesantemente su una delle poltrone di pelle bianca. «La testa», mormorò. «Non mi sento bene».

    «Può essere una reazione alla tensione?»

    «Sì».

    «Oppure quello che ti ho messo nel Bloody Mary».

    Si accigliò un attimo, poi guardò sgomenta il bicchiere. Ma era già troppo tardi. Provò a rimettersi in piedi ma crollò di nuovo sulla poltrona.

    «Avresti davvero dovuto dirmi che parlavi tedesco», le disse. «Devo potermi fidare delle persone che ho intorno».

    Irina cercò di dire qualcosa, forse voleva giustificarsi, ma non le uscì una parola. Il bicchiere scivolò dalla sua debole stretta e si frantumò sul pavimento di marmo, il succo di pomodoro si sparse come sangue sulle striature lucenti. Lo sguardo era vitreo e la testa ciondolava in avanti, un po’ di bava rosa macchiava la sua camicetta bianca.

    Le porte si spalancarono, Manfredo e Vig entrarono di corsa, le pistole già in mano, allarmati dal rumore del vetro rotto. «Va tutto bene», li rassicurò Croke. Fece un cenno in direzione di Irina, accasciata priva di coscienza sulla poltrona. Si rivolse a Manfredo. «Riportala dal nostro amico di questa mattina, per favore», disse. «Digli che è un mio regalo, per celebrare il nostro accordo».

    Manfredo rimise la pistola nella fondina. «Sì, signore. E dopo?»

    «Ci incontriamo all’aeroporto. Non vogliamo perdere il nostro turno».

    «No, signore. Qualcos’altro?».

    Croke lasciò il suo Bloody Mary, appoggiando il bicchiere sul bancone. «Sì», disse. «Bisogna che tu chiami Francesca a Ginevra per me. Dovremo farle sapere che mi servirà una nuova assistente».

    DUE

    I

    «Li hai trovati», mormorò quasi intimorita Penelope Martyn, quando Luke la raggiunse nella sua cucina. «Non ci credo».

    Luke si concesse un sorriso. «Neanch’io», ammise.

    «E? Sono… sono quello che speravi?».

    Non sapeva cosa rispondere a quella domanda. La casa di lei era enorme ma fatiscente, e aveva avuto la netta sensazione, durante la chiacchierata di poco prima, che un po’ di fortuna sarebbe stata più che benvenuta. «Sono carte alchemiche», rispose con prudenza. «Quattro fogli, scritti fronte e retro. Citazioni da altri autori, per quanto posso dire finora».

    «Oh». Tentò, senza riuscirci, di dissimulare la sua delusione. «Quindi non un suo lavoro originale?»

    «Temo di no». Le aveva già spiegato una volta la scala di valore fra le carte di Newton: le preziosissime lettere che aveva scritto ai suoi più o meno famosi amici; le ambite annotazioni a Principi di Matematica e a Opticks; i decisamente meno significativi scritti teologici e alchemici, specie quelli che non rappresentavano il pensiero proprio di Newton, ma erano semplici trascrizioni di altri autori. «Poteva andare peggio», disse. «Potevano essere le carte della Royal Mint, la zecca reale».

    «Newton era nella Royal Mint?»

    «Entrò a farne parte uno o due anni dopo aver scritto queste pagine. Lo gestì per decenni. Coordinò il riconio completo del regno».

    Penelope scosse la testa. «Perché un uomo come Newton accettò un incarico del genere?».

    Luke si strinse nelle spalle. Era una domanda che aveva angustiato gli accademici per molti anni e nessuno era mai giunto a una spiegazione soddisfacente. «Principi della Matematica lo rese famosissimo», disse. «Si crede che abbia voluto spostarsi a Londra per godersi la gloria. La Royal Mint era la sua occasione. E i soldi erano davvero molti, specialmente dopo la nomina a Maestro».

    «Oh, be’». Toccò le carte con la punta delle dita. «Non c’è proprio niente di interessante qui dentro?»

    «Non le ho ancora analizzate come si deve», rispose Luke. «Volevo prima mostrarle a te. E poi…».

    Indicò la scrittura contorta, i passaggi sottosopra, le parole esoteriche, le parti in latino e francese, a sottolineare la difficoltà che la loro lettura rappresentava. «Ma almeno una cosa c’è».

    «Sì?».

    Le indicò le quattro parole. Poi, non sapendo se fosse in grado di vederle, le lesse a voce alta. «Qui dice Fatio Oh mio Fatio».

    «Non capisco», aggrottò la fronte. «Chi è Fatio? Cos’è Fatio?»

    «È un chi». Si fermò per aprire la custodia del portatile, tirò fuori la macchina fotografica digitale. «Un lui, per la precisione. Nicolas Fatio de Duillier. Un giovane matematico svizzero che divenne amico intimo di Newton nei primi anni Novanta del Seicento. Forse un amico molto intimo».

    «Molto intimo?», chiese inclinando la testa da un lato. «Vuoi dire che…?».

    Luke sorrise. «È possibile. Alcuni ne sono certi».

    «Sir Isaac Newton? E un giovanotto svizzero?»

    «Non c’è nessuna prova che suggerisca ci sia stato nulla di fisico fra loro», disse Luke, raddrizzando la prima pagina sulla tovaglia per fotografarla meglio.

    «Anche se una volta passarono insieme una settimana a Londra, e nessun altro sapeva che Fatio fosse nel paese». Controllò l’immagine sul display, voltò la pagina per fotografarne anche il retro. «E Newton più tardi lo implorò di vivere con lui a Cambridge».

    «Però». Si lasciò andare a un accenno di risata. «Forse questo è il motivo per cui lo zio Bernie voleva queste carte».

    Luke sistemò la seconda pagina. «Che intendi?».

    Le si colorarono leggermente le guance. «Ai miei tempi si chiamavano scapoli impenitenti», disse con un piccolo sorriso, come se non fosse molto a suo agio nel rivelare segreti di famiglia, ma mostrando di trovare la cosa divertente. «Dicevano: Non è tipo da matrimonio. Non avevo idea di cosa intendessero. Pensavo semplicemente che lo zio Bernie non avesse ancora incontrato la donna giusta. Sperai anche di poterlo aiutare a trovarsi qualcuna. Era davvero gentile con me. Il solo Martyn che mi accettasse davvero in famiglia. Ma poi un pomeriggio lo andai a trovare senza preavviso». Fece un altro risolino e arrossì ancora di più. «Insomma, sono sicura che puoi immaginarti il resto».

    «Deve essere stato uno shock», commentò Luke, fotografando la terza pagina.

    «Per entrambi», ammise. «Per tutti e tre, dovrei dire. Una volta noi ragazze eravamo così ingenue. Non ci crederesti».

    Fotografò anche il retro dell’ultima pagina, e tenne in mano la macchina. «Potrei mandare un’email con le foto? Prima il mio cliente le vedrà, prima farà un’offerta. Se le vuole, ovvio».

    «E non sono obbligata ad accettare, hai detto?»

    «Certo che no. Vuole solo l’opportunità di fare la prima offerta». L’avvocato del suo cliente era stato incredibilmente comprensivo sulla questione, ribadendo il concetto a ogni opportunità. Dovete sentirvi perfettamente liberi di accettare, rifiutare o negoziare una migliore offerta. In quella casa era troppo sperare nel wi-fi, ma Penelope lo aveva rassicurato poco prima che avrebbe potuto usare la rete che aveva installato nella speranza di convincere i suoi nipoti a venirla a trovare. Collegò il portatile al router, caricò le foto, le allegò alla email e le mandò per la loro strada. I file erano ad alta risoluzione e pesavano un bel po’, in più la connessione era lenta. «Ci potrebbe volere un pezzo», disse. «Ci berremo una bella tazza di tè, allora», rispose Penelope.

    Si mise a osservare le foto di famiglia appese al muro, mentre il vecchio bollitore faticava a scaldarsi. La maggior parte di quelle facce erano burbere, con grossi nasi e sottili labbra superiori, e posavano evidentemente malvolentieri per quei ritratti. Ma si imbatté nella foto di una giovane donna con corti capelli castani e un incantevole sorriso appoggiata alla portiera di una vecchia Rover grigio-blu.

    «La mia pronipote Rachel», disse Penelope apparendo al suo fianco con un vassoio di frollini. «È una del tuo ramo».

    «Il mio ramo?»

    «Un’accademica. Sta facendo il dottorato al Caius College, a Cambridge. Vuole diventare professore come te».

    «Ah», disse Luke, sentendosi un po’ in colpa. Aveva usato la vecchia carta intestata dell’università per la corrispondenza con Penelope; e aveva tralasciato casualmente di farle sapere che aveva preso una strada diversa dopo la sua condanna per aggressione e violazione della legge antiterrorismo. «Qual è il suo campo?», domandò.

    «Archeologia e storia dell’antico Vicino Oriente, credo. Qualcosa del genere, comunque. Tra te e lei, faccio davvero fatica a seguirvi».

    «Sembra carina».

    «Al contrario del resto della stirpe, intendi?»

    «No, non intendevo questo», protestò Luke, con un po’ troppa foga. «Volevo solo dire che sembra carina». Il portatile emise un bip, risparmiandogli di arrossire ancora. Andò a dargli un’occhiata. Si stava esaurendo la batteria. «Ti dispiace se carico la batteria?», chiese.

    «Fai pure». Gli indicò una presa libera, si schiarì la voce, essendo lei ora in imbarazzo. «Odio chiederlo», disse, «ma ti sei fatto un’idea di quanto esattamente sia interessato il tuo cliente a queste particolari carte?».

    Luke esitò. Le aveva già fatto una stima di massima ed era riluttante a tornare sull’argomento. Con una cifra troppo bassa avrebbe potuto pensare che volesse fregarla; con una troppo alta l’avrebbe preparata a una delusione. Controllò ancora lo schermo e vide che le foto erano state spedite, le rivolse un sorriso vagamente ottimista. «Credo proprio che lo scopriremo presto», disse.

    II

    Vernon Croke stringeva un bicchiere di cristallo pieno di bourbon e intanto guardava fuori dalle vetrate del terminal dei jet privati all’aeroporto di Napoli, osservando il personale di sicurezza brulicare come formiche intorno al suo aereo.

    Era così dappertutto.

    Ovviamente le cabine dei moderni jet erano pressurizzate. A quelle altezze la rarefazione dell’aria avrebbe ucciso passeggeri ed equipaggio, altrimenti. Il carico invece veniva spesso lasciato senza pressurizzazione. In questo tipo di apparecchi i due compartimenti dovevano essere separati e sigillati, nel caso uno sfortunato incidente provocasse una catastrofica depressurizzazione.

    Recentemente, però, alcune compagnie internazionali si erano sentite intralciate da questa soluzione. Rimpiangevano la mancanza di un sistema di controllo dell’aria che avrebbe permesso il passaggio fra la zona pressurizzata e quella depressurizzata. Un sistema del genere avrebbe addirittura permesso di aprire un portello esterno a metà volo: ad esempio per gettare prove potenzialmente imbarazzanti, o paracadutare agenti o rifornimenti in territorio ostile. Gli aerei cargo erano troppo lenti, e volavano bassi, troppo

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